mercoledì 15 settembre 2021

A Sud dl Sud - il Sud visto da sotto (467)

Giuseppe Leuzzi

Nel suo libro di memorie, 585 pagine a 66 anni, Oscar Farinetti, il vulcanico piemontese creatore e patron di Eataly, dice che senza il Sud non sarebbe riuscito: “Se anziché pizza e pasta avessi venduto solo polenta, non avrei avuto tanto successo”. Poi, intervistato da Cazzullo sul “Corriere della sera”, precisa: “Il Mezzogiorno è meraviglioso, e ce la farà. Ma non ne posso più di sentirmi dire che la colpa dei loro guai è tutta dei piemontesi. Con le colpe degli altri non si va da nessuna parte. In Sicilia ci sono più di 1600 chilometri di costa, tra le più belle del mondo. Quella, Garibaldi non l’ha portata via. In Romagna la costa è lunga meno di cento chilometri e non è la più bella del mondo. Ebbene, in Sicilia ci sono cinque milioni di turisti, in Romagna venti. È colpa dei romagnoli?».
 
“L’idea di una spedizione al Sud non era nuova”, nota Bianciardi nel “Risorgimento allegro”, il suo “breviario di italianità”, a proposito di Garibaldi: “Ci si erano già provati i fratelli Bandiera, e poi Carlo Pisacane”. Già.
 
Si abusa in tutto il Sud, non solo in Calabria, dei commissariamenti – a favore di impiegati e pensionati che tirano solo alla macchina con autista e alla (grossa-grassa) indennità. Di cui devono farsi carico gli Enti commissariati. Delle indennità e le spese dei commissari, e dei dipendenti e i collaboratori dei commissari, che sempre si moltiplicano, per nulla fare. Ci vuole ora la Corte Costituzionale per stabilire che, giacché il commissariamento è opera dello Stato, è lo Stato  a doversene assumere gli oneri: sentenza 168\2021. Verrà applicata? Finalmente si rivedrà questo assurdo istituto?
 
La religione è di questo mondo
Lo scrittore svizzero Kuno Raeber, che viaggiò nel 1961 a Tropea, Crotone e Catanzaro, in cerca di miti e di ragazzi, non molto attento ai particolari, vi trova una costante: una religiosità “più complessa e nello steso tempo più terrena, più semplice, più carnale, più primitiva di quella cristiana”. Quella che i vescovi ora eliminano, con violenza. Sradicano. Le processioni, con la farsa assurda degli “inchini” ai mafiosi, le novene, gli ex voto, le offerte, di denaro, gioielli, ricordi. Tutto ciò che identifica il credente nella divinità, o comunque lo fortifica con la tradizione, è supposto pagano, fuori e contro il messaggio di Cristo, che si vuole ascetico – seppure del mondo (i vescovi sono ben del mondo).
Ma non c’è nella cristianità, nell’idea di cristianità, delle origini e di ampie esperienze, l’agape, la funzione corale, la partecipazione, perfino il banchetto in senso proprio, a tavola? I vescovi lo rinnegano? Vogliono la religione muta, di ognuno chiuso in se stesso? E mutila, senza arti, senza proiezioni, attaches, riferimenti? Non era la chiesa che coltivala la tradizione, la imponeva?
Che non vogliano la festa si può capire: la chiesa, questa chiesa, pensa di emendarsi battendosi il petto col collo torto – non una novità. Ma si nasconde, perfino dietro i Carabinieri. 
Il problema centrale di questa chiesa è che è difficile essere di questo mondo – per il prete onesto, ovviamente, la santità è facile.

Mario La Cava lo ricordava ne “I fatti di Casignana”, 22, dei pellegrinaggi-processione dopo la Grande Guerra, quando era adolescente, scrivendone nel 1970-73: “Si andava a Polsi per chiedere grazie alla Madonna o per offrire voti, e si ballava, si gridava, si tiravano  colpi coi fucili, per dimenticare le pene”. Una perpetuazione, forse, dei culti dendrici. Ma il senso della festa è paganesimo?

Pavese calabrese, più che un caso - 2

Subito dopo essere arrivato al luogo del confino, remoto, tra “terre aride” e una “spiaggia desolata”, Stefano trasale intravedendo una certa ragazza, che farà da traccia poi per il racconto, ma allo stesso tempo si ripropone di “affrancarsi dal desiderio”. È confinato politico, reduce dal carcere a Regina Coeli, nell’amarezza e non nella sovversione: “Nessuno si fa casa di una cella”, per nessun motivo. Ma, se Brancaleone è il carcere, “meglio restarci per sognare di uscirne, che non uscirne davvero”.
Stefano trascorre la sua vita nel remoto paese frastornato e come assente, pur raccontando la sua esperienza in prima persona. Abulico, come assente. E tuttavia partecipe degli eventi quotidiani, e della comunità. A un certo punto verso la fine, quando nella frazione superiore, ancora più remota, arriva confinato un vero politico, un irriducibile, forse anarchico, e cerca un contatto, che Stefano cerca di evitare, chiamerà  “vigliaccheria la sua gelosa solitudine”.
Il lettore sa oggi che quella solitudine era risentita per un fatto biografico, l’abbandono da parte della donna per la quale lo scrittore pensava di essersi sacrificato, con la prigione e il confino. Ma senza questo riferimento personale, causale, il racconto è in sé curiosamente “kafkaesco”, di una vita senza appigli, di un mondo che gira in tondo, di spiegazioni che non spiegano. I soli uncini sono locali, paesani.
Scritto tra fine 1938 e i primi tre mesi del 1939, col titolo provvisorio “Memorie da due stagioni”, Pavese pubblicò “Il carcere” solo dieci anni dopo, nel 1948. Insieme con  “La casa in collina”, un dittico che intitolò, evangelicamente, apostolicamente (il tradimento), “Prima che il gallo canti” - che tuttora viene ripubblicato come tale, da ultimo nell’ottima edizione Garzanti, con ampie annotazioni di Gabriele Pedullà. A ridosso di Carlo Levi, “Cristo s’è fermato a Eboli”, una delle prime pubblicazioni postbelliche, 1945, d’inaspettato successo, di pubblico e di critica.
“Il carcere” è - al contrario di Levi, che fa un reportage - un memoir si direbbe oggi, appena appena romanzato: una sorta di diario grigio, risentito, lagnoso anche, di un confinato, senza passioni. Un  confinato che non ha nemmeno la passione politica, anzi quella ha in dispetto. Il diario di una vita quasi animale. Eccetto che per l’umanità locale: il confinato mutangolo, quasi arcigno, ne è come impregnato, anche per condividerne la laconicità, che più spesso si esprime per ellissi – indicazioni, suggerimenti, mai apodittica. È la prima prova di “Paesi tuoi”. Un “romanzo” minore, non costruito come un romanzo, ma nella forma del memoir, sceneggiato. Solo leggermente sfalsato con una narrazione tesa, fotocopia d’autore. 
È però la fucina di ambienti, personaggi, e soprattutto linguaggi che “faranno” Pavese. In terza persona ma con molti elementi della soggettiva libera indiretta,  indicazioni non dette, scontate, troncamenti, sbalzi, di scena, di tema, di soggetti. Con dialoghi allusivi più che teatrali, nella forma della “nuova oggettività” (G. Stein, Hemingway), senza consecutio. Con uso diffuso in lingua di termini, costrutti, modi di dire e di fare, di pensare, “dialettali”: locali, tipici, caratteristici. È anche opera di un momento che Pavese ricorderà felice, nel diario, 3 febbraio 1944. Scritta al caffè - al “caffeuccio sul viale” sotto casa che dice “la tua camera, la finestra sulle cose”. In felice disposizione creativa: “«Le memorie di due stagioni» le hai scritte al caffè”, e il ricordo è, dopo quattro anni, di un momento magico - “Il fatto è che hai perduto il gusto di vedere, di sentire, di accogliere, e ora ti mangi il cuore”.

Pavese aveva tentato subito di raccontare il confino, nel 1936 appena libero, nella prosa breve  “Terra d’esilio”. “Il carcere” è un’elaborazione successiva.
Maturando, dopo la guerra dell’impero e l’Asse, la radicalizzazione del fascismo e quindi una scelta politica imponendosi, più o meno inconsciamente Pavese s’interroga nel 1939 sulla sua capacità d’impegno, se non di fede politica. Oggi, alla luce poi de “Il mestiere di vivere” e del “Diario segreto”, “Il carcere” si legge anche come un rifiuto della politica: la politica è come il carcere, una privazione. I personaggi che girano attorno a Stefano non sono eroici, hanno tutti più o meno una loro personalità, ma non soffrono la mancanza della politica. Si vive senza. Partendo dal maresciallo dei Carabinieri che dovrebbe controllare Stefano, ed è invece il suo consigliere benevolo.
Il rifiuto matura per il rifiuto dell’amata, attivista politica per la quale lui si è sacrificato e che ora lo trascura e anzi lo dimentica. Questo il lettore lo sa per certo se ha letto il diario, “Il mestiere di vivere”, e la corrispondenza, ma è detto, senza riferimenti personali, anche nel racconto: il sacrificio a che fine?
Si vive nella provvisorietà. La donna che accudisce Stefano, Elena, disponibile anche a letto e discreta, è  senza rilievo: “Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino e gli entrasse nel letto come una moglie, ma se ne andasse come un sogno che non chiede parole né compromessi”. Si fa – ci tenta -  un mito di Concia, la ragazza “caprigna”, selvaggia, che è già madre di un figlio del padrone, ignota ai paesani se non come una “cosa”, e di suo non parla, non guarda. Vive il confino tra “pareti invisibili, l’abitudine della cella, che gli precludeva ogni contatto umano”.
Un racconto sottovalutato – la costruzione non invita, sembra perfino scritto di getto, come viene,e non costruito. Per la teorizzazione della “perfetta solitudine”. Del desiderio di solitudine, o dell’incapacità, con tutti i buoni sentimenti, di comunicare, fare parte di un mondo, una comunità, un gruppo, un’amicizia. Il carcere, anche senza ponti levatoi, è l’insignificanza della politica, come qui spesso si ripete. Se non è viltà, quasi professata, comunque riconosciuta.
Sottovalutato anche per la scrittura, a lettura ultimata, che fa giustizia della prima impressione. Un racconto di situazioni e caratteri fluidi e non ben contornati, come molti in Pavese, e di eventi per lo più minimi. L’ambiguità si fa leggere d’un fiato. E la curiosità: è un racconto ben localizzato, conoscendo i luoghi e i linguaggi, è ben un romanzo (racconto) di Brancaleone che Pavese ha scritto: il paese remoto dove ha passato i lunghi mesi del confino politico non è una semplice scena teatrale.
(continua)

Calabria
Michele Conia, “Rinascita per la Calabria”, sindaco confermato di Cinquefrondi, tiene fede al suo logo cambiando il nome del parco Matteotti in parco Impastato. È la politica in Calabria, ghirigori. Incomprensibili. Ma ai calabresi evidentemente no.
 
Le scarpe artigianali che, insieme con la barca, hanno rovinato la carriera politica di D’Alema, erano un dono, spiega l’ex presidnete del consiglio a Labate su “7”. “Me le aveva regalate un artigiano calabrese”, Più che un artigiano, un vero e proprio industriale del lusso, Cosimo De Tommaso, sociologo, dirigente confindustriale, imprenditore calzaturiero – quello delle scarpe del papa, e delle notti i degli Oscar a Hollywood. Che  però l’azienda poi l’ha venduta, agli americani.
 
La moglie di De Tommaso, Maria Antonietta Ventura, imprenditrice, titolare della Ventura Costruzioni Ferroviarie, l’azienda fondata dal padre, è stata la prima scelta del Pd per le Regionali del 3-4 ottobre. Ma era sotto processo a Catanzaro per associazione a delinquere, nell’appalto della metro leggera di Cosenza, e ha dovuto lasciare la politica. L’impresa è ballerina in Calabria come i terremoti.  
 
La politica annaspa, in questa Regione come nelle tante consultazioni regionali e politiche in Italia da venti o trent’anni a questa parte. In Calabria l’indigenza politica ha dell’incredibile, chiunque si sa fare in qualche misura i propri interessi, ma è la realtà. Tutto si muove in questa votazione attorno a De Magistris, un tipo spregiudiato, per giunta napoletano, “magistrato figlio di magistrati”, nobiltà del seggio, cioè infallibile, che tanto disprezzò la Calabria quando vi fu mandato giovane di prima nomina.
 
Cutro, nel crotonese, fu al centro delle polemiche per il famoso viaggio di Pasolini lungo tutta la costa italiana in due o tre giorni nel 1957 per il mensile “Successo”. Di Cutro Pasolini avendo scritto: “È il luogo che più m’impressiona di tutto il viaggio. È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi western” - dopo aver scritto: “L’Ionio non è mare nostro: spaventa”, forse una licenza poetica, del mare che fece la Magna Grecia. San Leonardo di Cutro, ora celebrato dalle cronache  perché il suo parroco è diventato arcivescovo di Reggio, una frazione di Cutro, ha registrato quattro retate anti-‘ndrangheta negli ultimi due anni, dal 2019.
 
Anna Paparatti, musa della migliore arte romana quando ce n’era una, Pascali, Kounellis, De Dominicis eccetera, ricorda di sé con naturalezza. “Sono sempre stata molto ribelle. Già da ragazza, in Calabria, d’estate, andavo in spiaggia con bikini minuscoli. E se i carabinieri m fermavano e mi dicevano: «Cos’è questo costume scandaloso, se lo levi subito». Io me lo toglievo e restavo nuda”.
È un aneddito “artistico”. Ma rende l’idea.
 
Rino Gattuso e Rocco Commisso, l’ex calciatore e l’imprenditore americano patron della Fiorentina, si sono legati di indissolubile amicizia. E si sono lasciati dopo appena due settimane, senza nemmeno cominciare a lavorare, trascorse tra litigi. È difficile fare società in Calabria, l’anarchismo s’impone – non ci sono società che durino un anno, nemmeno tra fratelli.
 
Sabato 7 agosto, ieri l’oro alla entusiasmante 4x100 a Tokyo, la prima pagina del “Quotidiano del Sud – Calabria”) è: “Morti tra le fiamme per salvare l’uliveto”, “Schizzano i contagi, 235 nuovi casi e tasso di positività all’8 per cento”, un record; “In Sila la guerra dell’acqua: il sindaco di Cotronei forza i serbatoi e lascia senz’acqua San Giovani in Fiore e l’ Alto Crotonese” (almeno 100 mila persone), “«Inter nos», indagato anche il consigliere regionale Sainato”, “La  Questura blocca la «cantante della mala»”, “Tragedia in mare. Finisce sugli scogli e muore”. “Angela Napoli (in politica da quarant’anni, o cinquanta, ex socialista. N.d.r.):«Io sto con De Magistris»”. E la intende una buona notizia.
 
La “Gazzetta del Sud”, l’altro  quotidiano della Calabria, è specializzato invece in morti, strane, con titoli grandi: “Nel torinese. Autista schiacciato dal tir mentre scarica merce”, “Nel Milanese. Un giro in monopattino. Perde la vita a 13 anni”.

leuzzi@antiit.eu

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