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martedì 14 settembre 2021

Il Risorgimento in allegria

Bianciardi, appassionato garibaldino, spiega che fu tutto un avventura, di giovani e scapestrati più che di corti e generali (trascura  Cavour), il Risorgimento lo celebra garibaldinamente. Senza rinunciare allo spiritaccio - non risparmia neppure il Generalissimo. “Non ci sono nella nostra storia episodi più eroicamente festosi, concitati, coloriti, persino un poco matti”, così l’editore può sintetizzare in copertina il suo svelto racconto, in una cinquantina di brevi note, di due pagine (una rubrica giornalistica?).
Con una conclusione amara, 1969: “La verità è che .. non vi fu concordia ma  avversione e odio”, che l’Italia fu fatta quale ce la troviamo, “lacerata e divisa” - “breviario di italianità” si sottotitola la raccolta. Senza naturalmente specificare, nemmeno lui, l’anticonformista per professione, quale Italia ci vorrebbe – c’è, ci può essere, un’Italia diversa da quella che è, ormai da qualche secolo? E come vorremmo che fosse? Ma il racconto è festoso. La rivoluzione italiana non comincia con uno “sciopero del fumo”, a Milano, contro l’Austria?
I protagonisti sono senza l’aureola. Carlo Alberto, il Re Tentenna, era “una manna per i caricaturisti”, con un “testone a forma di cipolla”, su “un corpaccione lungo più di due metri, risultato di un’insolita forma di rachitismo alla rovescia”. Mazzini che accorre anche lui ad accogliere Garibaldi sbarcato dal Sud America, volontario portabandiera nella compagnia di Giacomo Medici, non ci si trovò, “non aveva né la salute né la fibra del guerriero” e “dopo qualche settimana riparò febbricitante in Svizzera”. C’è Custoza, la prima, 1848, che fu una vittoria ma passa per una sconfitta: gli italiani persero “perché alla fine della giornata si convinsero da soli  che avevano perso”. C’è “il re di Napoli”, che “non sapendo a che santo votarsi, si rivolse al papa. In un solo giorno gli mandò cinque telegrammi, ottenendo in cambio la paterna benedizione”. Ci sono i suoi generali, che, non sapendo come affrontare la battaglia decisiva al Volturno, “stanchi di litigare sul piano di operazioni”, decidono “di farsene confezionare uno per corrispondenza. Scrissero – e il loro Re firmò – una bella lettera al generale francese Changarier e aspettarono la risposta”.
Soprattuto c’è Garibaldi: il monumentino è a Garibaldi. Di quando, nel 1867, confinato a Caprera, guardato a vista da cannoniere e cannocchiali, sparge la voce che è ammalato, fa passeggiare in terrazza , “zoppicando, il fedelissimo Gusmaroli, vestito alla sua stessa foggia”, si adagia al fondo di un barchino e remando con un solo remo raggiunge la Maddalena, da lì la Sardegna, e i trasporti fatti arrivare dal genero Stefano Canzio. O Garibaldi che comincia chiedendo a Mazzini da Rio de Janeiro la “patente” di corsaro, come se Mazzini fosse un (riverito) capo di Stato: “Era uno di quegli uomini di piccola staura, con le formiche dentro i pantaloni, che senza far niente non ci sanno stare”. Che nella estancia a Montevideo, con Anita Duarte, madre di Menotti, “don José”, prende le abitudini di una vita: poncho, sigaro, caffè “(vino e liquori non li toccò mai)”, la maestria a cavallo, da giovane marinaio, “il gusto per i cibi semplici come le fave fresche e il granoturco, che preferiva cotto nel latte, alla sudamericana”, e la camicia rossa – scrittore poi “assai prolifico, ed anche assai mediocre” (in navigazione verso Marsala compone alcuni versi, “molto brutti”, come inno della spedizione, a cui i garibaldini, quando “un ufficiale tentò di farglieli cantare sul coro della Norma”, oppongono “«La bella Gigogin», che tanto successo aveva avuto l’ano prima a Milano”).
Garibaldi, visto sul serio, è un abilissimo tattico, insuperabile. Venne a capo per questo di mille debolezze. L’attacco “alla garibaldina”, alla baionetta, si faceva perché non ebbe mai fucili efficienti, sopperì con l’attacco alla persona, puntando sulla lentezza degli avversari con i fucili ad avancarica. Il racconto è specialmente vivace dei Mille, dello sbarco al Sud. La conquista di Palermo è una passeggiata, il popolo è con Garibaldi, i borbonici nulla possono contro il popolo: “Mille uomini, male in arnese, con l’aiuto determinante della popolazione, avevano disfatto un’armata. La notizia corse per l’Europa e Garibaldi fu l’uomo del giorno”. In processione vanno a trovarlo le monache, il vescovo, Alessandro Dumas vestito di bianco, con Emma Lyona vestita da ammiraglio, e “inglesi, sardi, russi, spagnoli, prussiani, turchi, americani, francesi”, tutti i naviganti che affollavano il porto. Ma subito poi, Teano eccetera, il racconto è molto critico: “L’Italia comincia male”. Anche perché nasce per caso, per impulso popolare.
Cavour, liberale pragmatico, “quando gli piovve come dal cielo l’unità dell’intera penisola, seppe abilmente (e spregiudicatamente) raccogliere nelle sue braccia l’inatteso dono”. Ma non aveva lavorato all’unità: “Il suo sogno politico era di ampliare la monarchia dei Savoia su tutta l’alta Italia, dalle Alpi all’Adriatico e all’Isonzo”. Non vedeva oltre l’Appennino, “a Roma non era mai stato,  Palermo, per lui, confinava con l’Africa”. E “per esempio era convinto (e lo disse a Daniele Manin) che l’unità d’Italia fosse «una grossa corbelleria»”.
La storia alla fine non è allegra, non finisce in allegria. Bianciardi non si fa veli: la “guerra dei briganti” fu “una guerra civile, fratricida, atroce”, i garibaldini possono raffermarsi, come i borbonici, senza distinzione, La Marmora, Cialdini, Santa Rosa, Rattazzi, gli uomini di fiducia dei Savoia, e i Savoia stessi, Vittorio Emanuele II dopo Carlo Alberto, con la loro burocrazia ottusa, sono un fronte anti-unitario difficilmente contestabile.
Il fallimento dell’unità è sancito dallo stesso Cavour, quando, subito, all’apertura del primo Parlamento, l’insoddisfazione popolare è forte - l’unità è stata ridotta in pochi giorni a tasse, leva obbligatoria (per le famiglie contadine la morte civile), e niente assistenza, per la privatizzazione dei beni ecclesiastici: “Se all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato motivo che Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo rovinati”. I rapporti dei suoi uomini a Palermo e Napoli, dopo gli sprezzanti inviati della Corona La Marmora e Cialdini, non erano rassicuranti – “non ci son sette unitari in sette milioni di abitanti”, aveva scritto il governatore cavourriano di Napoli, Farini. Cavour non pensò minimamente di andare a Napoli a vedere. Il re sì, ma per andare a caccia, corteggiare le dame, e aspettare la caduta di Gaeta, chiamando il popolo “canaglia”.
Subito dopo Teano, scrive Bianciardi, “la guerra per il Meridione era finita, ma già ne stava cominciando un’altra, più lunga, più dura, più sanguinosa. Anzi, più sanguinosa di tutte le guerre risorgimentali messe insieme… Una guerra civile, fratricida, atroce. I libri di storia ne parlano poco volentieri, e la chiamano repressione del brigantaggio. E invece fu la «guerra dei briganti»”. Garibaldi stesso sarà curato solo 83 giorni dopo il doppio ferimento ai Piani di Aspromonte nella spedizione per liberare Roma, benché a rischio suppurazione e setticemia. Il Sud fu subito blasfemia per il Piemonte.
Sui “briganti” la traccia di Bianciardi, per quanto ipotetica, non è mai stata considerata dagli storici: “La gente di senno cominciava a capire che sarebbe stato molto meglio lasciare a Garibaldi il governo delle province meridionali: che forse i garibaldini, e la guardia nazionale eletta sul posto, avrebbero saputo intendere i bisogni di quelle popolazioni meridionali meglio dei funzionari piemontesi”. Che è prassi costante elogiare, ma la burocrazia piemontese si mostrò inadeguata, perniciosa, fin dall’inizio, nella semplice compilazione dei “mille” di Marsala – Bianciardi ne fa un breve, esilarante, elenco alla p. 70 (tra el tante scemenze, “leggiamo anche «austriaco» accanto al nome di volontari trentini, «uruguaiano» accanto al nome di Menotti”, e “francese” accanto a quello di Garibaldi).   
Luciano Bianciardi, Il Risorgimento allegro, Stampa Alternativa, remainders, pp. 101 € 6




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