Il Risorgimento in allegria
Bianciardi,
appassionato garibaldino, spiega che fu tutto un avventura, di giovani e
scapestrati più che di corti e generali (trascura Cavour), il Risorgimento lo celebra
garibaldinamente. Senza rinunciare allo spiritaccio - non risparmia neppure il
Generalissimo. “Non ci sono nella nostra storia episodi più eroicamente
festosi, concitati, coloriti, persino un poco matti”, così l’editore può
sintetizzare in copertina il suo svelto racconto, in una cinquantina di brevi
note, di due pagine (una rubrica giornalistica?).
Con
una conclusione amara, 1969: “La verità è che .. non vi fu concordia ma avversione e odio”, che l’Italia fu fatta
quale ce la troviamo, “lacerata e divisa” - “breviario di italianità” si
sottotitola la raccolta. Senza naturalmente specificare, nemmeno lui, l’anticonformista
per professione, quale Italia ci vorrebbe – c’è, ci può essere, un’Italia
diversa da quella che è, ormai da qualche secolo? E come vorremmo che fosse? Ma
il racconto è festoso. La rivoluzione italiana non comincia con uno “sciopero
del fumo”, a Milano, contro l’Austria?
I
protagonisti sono senza l’aureola. Carlo Alberto, il Re Tentenna, era “una
manna per i caricaturisti”, con un “testone a forma di cipolla”, su “un
corpaccione lungo più di due metri, risultato di un’insolita forma di
rachitismo alla rovescia”. Mazzini che accorre anche lui ad accogliere
Garibaldi sbarcato dal Sud America, volontario portabandiera nella compagnia di
Giacomo Medici, non ci si trovò, “non aveva né la salute né la fibra del
guerriero” e “dopo qualche settimana riparò febbricitante in Svizzera”. C’è
Custoza, la prima, 1848, che fu una vittoria ma passa per una sconfitta: gli
italiani persero “perché alla fine della giornata si convinsero da soli che avevano perso”. C’è “il re di Napoli”,
che “non sapendo a che santo votarsi, si rivolse al papa. In un solo giorno gli
mandò cinque telegrammi, ottenendo in cambio la paterna benedizione”. Ci sono i
suoi generali, che, non sapendo come affrontare la battaglia decisiva al
Volturno, “stanchi di litigare sul piano di operazioni”, decidono “di farsene
confezionare uno per corrispondenza. Scrissero – e il loro Re firmò – una bella
lettera al generale francese Changarier e aspettarono la risposta”.
Soprattuto
c’è Garibaldi: il monumentino è a Garibaldi. Di quando, nel 1867, confinato a
Caprera, guardato a vista da cannoniere e cannocchiali, sparge la voce che è
ammalato, fa passeggiare in terrazza , “zoppicando, il fedelissimo Gusmaroli,
vestito alla sua stessa foggia”, si adagia al fondo di un barchino e remando
con un solo remo raggiunge la Maddalena, da lì la Sardegna, e i trasporti fatti
arrivare dal genero Stefano Canzio. O Garibaldi che comincia chiedendo a
Mazzini da Rio de Janeiro la “patente” di corsaro, come se Mazzini fosse un
(riverito) capo di Stato: “Era uno di quegli uomini di piccola staura, con le
formiche dentro i pantaloni, che senza far niente non ci sanno stare”. Che
nella estancia a Montevideo, con
Anita Duarte, madre di Menotti, “don José”, prende le abitudini di una vita:
poncho, sigaro, caffè “(vino e liquori non li toccò mai)”, la maestria a
cavallo, da giovane marinaio, “il gusto per i cibi semplici come le fave
fresche e il granoturco, che preferiva cotto nel latte, alla sudamericana”, e
la camicia rossa – scrittore poi “assai prolifico, ed anche assai mediocre” (in
navigazione verso Marsala compone alcuni versi, “molto brutti”, come inno della
spedizione, a cui i garibaldini, quando “un ufficiale tentò di farglieli cantare
sul coro della Norma”, oppongono “«La bella Gigogin», che tanto successo aveva
avuto l’ano prima a Milano”).
Garibaldi,
visto sul serio, è un abilissimo tattico, insuperabile. Venne a capo per questo
di mille debolezze. L’attacco “alla garibaldina”, alla baionetta, si faceva
perché non ebbe mai fucili efficienti, sopperì con l’attacco alla persona,
puntando sulla lentezza degli avversari con i fucili ad avancarica. Il racconto
è specialmente vivace dei Mille, dello sbarco al Sud. La conquista di Palermo è
una passeggiata, il popolo è con Garibaldi, i borbonici nulla possono contro il
popolo: “Mille uomini, male in arnese, con l’aiuto determinante della
popolazione, avevano disfatto un’armata. La notizia corse per l’Europa e Garibaldi
fu l’uomo del giorno”. In processione vanno a trovarlo le monache, il vescovo,
Alessandro Dumas vestito di bianco, con Emma Lyona vestita da ammiraglio, e “inglesi,
sardi, russi, spagnoli, prussiani, turchi, americani, francesi”, tutti i
naviganti che affollavano il porto. Ma subito poi, Teano eccetera, il racconto è
molto critico: “L’Italia comincia male”. Anche perché nasce per caso, per
impulso popolare.
Cavour,
liberale pragmatico, “quando gli piovve come dal cielo l’unità dell’intera
penisola, seppe abilmente (e spregiudicatamente) raccogliere nelle sue braccia
l’inatteso dono”. Ma non aveva lavorato all’unità: “Il suo sogno politico era
di ampliare la monarchia dei Savoia su tutta l’alta Italia, dalle Alpi
all’Adriatico e all’Isonzo”. Non vedeva oltre l’Appennino, “a Roma non era mai
stato, Palermo, per lui, confinava con
l’Africa”. E “per esempio era convinto (e lo disse a Daniele Manin) che l’unità
d’Italia fosse «una grossa corbelleria»”.
La storia alla fine non è allegra, non finisce in allegria. Bianciardi non si fa veli: la
“guerra dei briganti” fu “una guerra civile, fratricida, atroce”, i garibaldini
possono raffermarsi, come i borbonici, senza distinzione, La Marmora, Cialdini, Santa
Rosa, Rattazzi, gli uomini di fiducia dei Savoia, e i Savoia stessi, Vittorio
Emanuele II dopo Carlo Alberto, con la loro burocrazia ottusa, sono un fronte
anti-unitario difficilmente contestabile.
Il
fallimento dell’unità è sancito dallo stesso Cavour, quando, subito, all’apertura
del primo Parlamento, l’insoddisfazione popolare è forte - l’unità è stata ridotta
in pochi giorni a tasse, leva obbligatoria (per le famiglie contadine la morte
civile), e niente assistenza, per la privatizzazione dei beni ecclesiastici: “Se
all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato motivo che
Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo rovinati”. I
rapporti dei suoi uomini a Palermo e Napoli, dopo gli sprezzanti inviati della
Corona La Marmora e Cialdini, non erano rassicuranti – “non ci son sette
unitari in sette milioni di abitanti”, aveva scritto il governatore cavourriano
di Napoli, Farini. Cavour non pensò minimamente di andare a Napoli a vedere. Il
re sì, ma per andare a caccia, corteggiare le dame, e aspettare la caduta di
Gaeta, chiamando il popolo “canaglia”.
Subito
dopo Teano, scrive Bianciardi, “la guerra per il Meridione era finita, ma già
ne stava cominciando un’altra, più lunga, più dura, più sanguinosa. Anzi, più
sanguinosa di tutte le guerre risorgimentali messe insieme… Una guerra civile,
fratricida, atroce. I libri di storia ne parlano poco volentieri, e la chiamano
repressione del brigantaggio. E invece fu la «guerra dei briganti»”. Garibaldi
stesso sarà curato solo 83 giorni dopo il doppio ferimento ai Piani di Aspromonte
nella spedizione per liberare Roma, benché a rischio suppurazione e setticemia.
Il Sud fu subito blasfemia per il Piemonte.
Sui
“briganti” la traccia di Bianciardi, per quanto ipotetica, non è mai stata
considerata dagli storici: “La gente di senno cominciava a capire che sarebbe
stato molto meglio lasciare a Garibaldi il governo delle province meridionali:
che forse i garibaldini, e la guardia nazionale eletta sul posto, avrebbero saputo
intendere i bisogni di quelle popolazioni meridionali meglio dei funzionari
piemontesi”. Che è prassi costante elogiare, ma la burocrazia piemontese si
mostrò inadeguata, perniciosa, fin dall’inizio, nella semplice compilazione dei “mille”
di Marsala – Bianciardi ne fa un breve, esilarante, elenco alla p. 70 (tra el
tante scemenze, “leggiamo anche «austriaco» accanto al nome di volontari
trentini, «uruguaiano» accanto al nome di Menotti”, e “francese” accanto a quello
di Garibaldi).
Luciano Bianciardi, Il
Risorgimento allegro, Stampa
Alternativa, remainders, pp. 101 € 6
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