Un
viaggio del 1840 circa, di un geografo, cartografo, teorico della fotografia, scrittore
di varia, presidente per un decennio dal 1852 al 1861 della parigina Société
des Gens de Lettres, un poligrafo insomma, affidato a un ricordo che la sua
bibliografia ha dimenticato (lo recupera qui con dottrina Giovanni Sole), che
non dice nulla di nuovo. Un abbozzo di libro di avventure – soprattutto di
briganti, dal vero e per ridere. Con tutti gli stereotipi, quanto al luogo, la
Calabria, che un lettore si attendeva. Lusinghieri: “Quante disgrazie hanno
patito le Calabrie da quando Annibale, devastandole per tre lustri, distrusse
per sempre lo splendore della più bella regione d’Italia!” - Wey ha dimenticato
i terremoti, ma ha fatto risorgere Annibale. E non: per la sporcizia, e per la
violenza, che si perpetua nella “vendetta” – “che non è solo corsa” – e nelle
faide.
Per il resto miserie e (poca) nobiltà. “Animali e padroni convivono nella stessa casa”, i maiali. Un tentativo di scippo, quasi cruento, si conclude nel migliore dei modi quando un capo dei capi, che si rivelerà essere il barone del luogo, “un gran bell’uomo, dallo sguardo imperioso, scuro come un africano”, con “una giacca stondata, sporca e unta come una padella da friggere, e un vecchio cappello calcato sulla fronte”, convoca un giudizio sotto un grande ulivo e prende a bastonare i malviventi – una scena ridicola, che forse Wey immagina teatrale (tentò anche il teatro).
Sul
ruolo, il personaggio, la casa, le donne di casa, del barone Cefalì, il
soccorritore, Wey è dettagliato e veritiero. Specie sul ruolo “feudale” – il
rispetto – che il barone mantiene dopo l’abolizione legale della feudalità, nel
1806. Ma molte cose racconta incongrue. Da Reggio risale in gita al Passo del
Mercante, che dalla città dista qualche giorno di cammino. Dal Passo domina la
Piana di Gioia Tauro, altra geografia non possibile. E incon tra il “massiccio
dell’Aspromonte” all’inverso – “ci nascondeva alla vista la terra d’Africa”,
mentre la montagna sta bene a Nord di Reggio, dela “vista” dell’Africa.
Incontra Locri – le “rovine” descrivendo, come fossero già scavate, mentre lo
saranno quasi un secolo dopo – a quattro passi da Reggio, da dove invece ci
vogliono un paio d’ore, con la velocità di ora. Descrive con singolare accuratezza
lo Stretto dk Messina: “Capo Peloro s’immergeva come una lama nel seno d’Italia,
sembrava di essere in fondo a un’ansa”, lo Stretto si vede e si attraversa
come un lago. Ma, guardando Stromboli da Scilla intravede “la luce dorata dell’Africa”,
che non si sa cosa sia, ma Stromboli è a Nord di Scilla, in linea d’aria con la
Sardegna.
Naturalmente
anche Wey è in Calabria all’inseguimento della Grecia. Che crede di avere
trovato in una ragazza con la quale balla in singolo la tarantella (ballo a
rotazione, n.d.r.). E la descrive in lungo, naturalmente come una statua
classica. Ma a Spezzano, che poi vorrà chiamarsi Spezzano Albanese.
Non una stonatura? La maggior parte degli Albanesi di Castriota, gli albanesi in Calabria, secondo
Wey, erano greci, dell’Epiro e della Macedonia. Questo è più che possibile, che
gli albanesi allora, metà Ottocento, si facessero passare per greci - allora,
prima cioè dei fondi europei per le minoranze etniche e linguistiche. Ma resta
comunque il sospetto di un plagio, di un’operina di viaggio copiata. È infatti
analoga al racconto di viaggio, questo documentato, che l’archeologo Arthur John
Strutt, inglese romanizzato, aveva compiuto a vent’anni a piedi in Calabria nel
1838, o forse nel 1841, e aveva documentato in un libro di successo, “A
pedestrian tour in Calabria&Sicily”. Teresa Reda, nella nota al testo,
rimarca “una serie singolare di coincidenze annotate negli scritti dei
due”: l’aggressione dei
banditi-briganti, ricomposta dal barone, e i compagni di viaggio - si chiamano
Evariste Fouret e Charles de Valfort, barone, in Strutt, Evariste F. e Walfort,
pittore, in Wey.
Francis
Way, Scilla e Cariddi, Rubbettino,
pp. 95 € 7.90
Per il resto miserie e (poca) nobiltà. “Animali e padroni convivono nella stessa casa”, i maiali. Un tentativo di scippo, quasi cruento, si conclude nel migliore dei modi quando un capo dei capi, che si rivelerà essere il barone del luogo, “un gran bell’uomo, dallo sguardo imperioso, scuro come un africano”, con “una giacca stondata, sporca e unta come una padella da friggere, e un vecchio cappello calcato sulla fronte”, convoca un giudizio sotto un grande ulivo e prende a bastonare i malviventi – una scena ridicola, che forse Wey immagina teatrale (tentò anche il teatro).
Sul ruolo, il personaggio, la casa, le donne di casa, del barone Cefalì, il soccorritore, Wey è dettagliato e veritiero. Specie sul ruolo “feudale” – il rispetto – che il barone mantiene dopo l’abolizione legale della feudalità, nel 1806. Ma molte cose racconta incongrue. Da Reggio risale in gita al Passo del Mercante, che dalla città dista qualche giorno di cammino. Dal Passo domina la Piana di Gioia Tauro, altra geografia non possibile. E incon tra il “massiccio dell’Aspromonte” all’inverso – “ci nascondeva alla vista la terra d’Africa”, mentre la montagna sta bene a Nord di Reggio, dela “vista” dell’Africa. Incontra Locri – le “rovine” descrivendo, come fossero già scavate, mentre lo saranno quasi un secolo dopo – a quattro passi da Reggio, da dove invece ci vogliono un paio d’ore, con la velocità di ora. Descrive con singolare accuratezza lo Stretto dk Messina: “Capo Peloro s’immergeva come una lama nel seno d’Italia, sembrava di essere in fondo a un’ansa”, lo Stretto si vede e si attraversa come un lago. Ma, guardando Stromboli da Scilla intravede “la luce dorata dell’Africa”, che non si sa cosa sia, ma Stromboli è a Nord di Scilla, in linea d’aria con la Sardegna.
Naturalmente anche Wey è in Calabria all’inseguimento della Grecia. Che crede di avere trovato in una ragazza con la quale balla in singolo la tarantella (ballo a rotazione, n.d.r.). E la descrive in lungo, naturalmente come una statua classica. Ma a Spezzano, che poi vorrà chiamarsi Spezzano Albanese.
Non una stonatura? La maggior parte degli Albanesi di Castriota, gli albanesi in Calabria, secondo Wey, erano greci, dell’Epiro e della Macedonia. Questo è più che possibile, che gli albanesi allora, metà Ottocento, si facessero passare per greci - allora, prima cioè dei fondi europei per le minoranze etniche e linguistiche. Ma resta comunque il sospetto di un plagio, di un’operina di viaggio copiata. È infatti analoga al racconto di viaggio, questo documentato, che l’archeologo Arthur John Strutt, inglese romanizzato, aveva compiuto a vent’anni a piedi in Calabria nel 1838, o forse nel 1841, e aveva documentato in un libro di successo, “A pedestrian tour in Calabria&Sicily”. Teresa Reda, nella nota al testo, rimarca “una serie singolare di coincidenze annotate negli scritti dei due”: l’aggressione dei banditi-briganti, ricomposta dal barone, e i compagni di viaggio - si chiamano Evariste Fouret e Charles de Valfort, barone, in Strutt, Evariste F. e Walfort, pittore, in Wey.
Francis Way, Scilla e Cariddi, Rubbettino, pp. 95 € 7.90
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