L’immagine sconfigge il male
L’Eroe
è l’Artista Americano Novecento – post hippie
o beat: ubriacone, solo, sporco, squattrinato,
ma geniale. Il fallito asociale che si riscatta con la Buona Causa. Doppia in
questa vicenda: come ogni foto dovrebbe salvare la gente di Minamata,
paralizzata dal mercurio sversato in mare dalla fabbrica che dà da vivere alla
comunità, e introiettato attraverso il pesce pescato, così salverà “Life”, la
rivista che è il paradiso dei fotografi, la loro mangiatoia, il loro
“principato”, dalla chiusura.
C’erano
una volta i (grandi) fotgrafi e, loro, ci sono ancora, anzi sono gli artisti
del momento, gli unici figurativi – testimoni dell’arte transeunte, consumabile. W.
Eugene Smith, fotografo celebre, anche in Giappone per i reportages dal Giappone
nel 1945, dopo la Bomba, viene contattato da un’attivista di Minamata, col pretesto
di fare da testimonial alla Fujicolor, concorrente allora di Kodakolor – lui
che non ha mai fatto una fotografia a colori – in modo da farlo ritornare in
Giappone, e appassionarlo possibilmente alla causa di chi protesta a Minamata. È
il momento sbagliato: Smith è alcolizzato, ha venduto le sue apparecchiature,
lascia la casa, e anche “Life” non se la passa bene, ha problemi a finanziare
il viaggio. Invece, poi tutto va come deve.
Una
storia, si sa, a lieto fine, scontata. Ma raccontata bene, per quasi due ore di
ottimo cinema. Grazia anche a un Johnny Depp irriconoscibile – fose nella sua
pelle quanto ad alcol ma non violento.
Il
regista, che vanta esperienza polifunzionale, di pittore, scultore, regista,
produttore, fotografo, ristoratore e attore, si sbizzarrisce in tutte le sue
specialità, perfino sul cibo, al ristorante e domestico. Pur cimentandsi con un personaggio,
Eugene Smith, cui l’alcol impedisce il gusto e anche l’appetito. Ma la fanfaronata
è semrpe evitata, il dramma si esplicita contenendosi nelle forme mostruose di
giovani e meno giovani vittime del mercurio. Aiutato anche da una recitazione
giapponese, nei ruoli buoni e nei cattivi, forse sopra le righe (il giapponese
si parla brusco, tronco?) ma fisicamente, espressivamente, sempre nel ruolo, quasi
spontanea, di attori che sembrano stare nel personaggio, non rappresentarlo.
Andrew
Levitas, Il caso Minamata, Sky
Cinema
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