L’opera alla porta chiusa
La
cervellotica messinscena di Livermore, tra un bosco di druidi e un salotto chippendale,
nella Gallia occupata dai Romani?, fa uso anche del “canto alla porta chiusa”, paraklausíthyron, il lamento d’amore
dell’elegia greca e romana, per due dei momenti più alti: tra Adalgisa e Pollione a metà del primo tempo, e tra Norma e Pollione nel
secondo. Una scena senza scena, che lascia i cantanti liberi di cantare, duetti
e arie pieni di fascino – e di tecnica vocale. Nei momenti chiave dell’opera, le
due vicende di amore\morte. La produzione si salva così.
Un’occasione
sprecata. Anche perché la compagnia di canto è magnifica. Marina Rebeka (Norma) e
Stefan Pop (Pollione) cantano con una naturalezza sovrumana. E Annalisa Stroppa
(Adalgisa) che ha da cantare più di Norma, e il basso, Dario Russo (Oroveso),
nei suoi due interventi. Rebeka ha una potenza canora ecezionale, canta si può
dire a bocca chiusa, non ha bisogno di fare smorfie. La stessa naturalezza, con
in più la dolcezza del timbro, in Pop.
Il
lamento alla porta chiusa è una trovata buona – almeno non costosa – dentro una
trovata generale faticosa, oltre che stravagante. Livermore, all’improvviso
regista-scenografo di tutta l’opera italiana, da Catania a Firenze (una “Traviata”
fa seminuda – una bella schiena si pubblicizza, di Caterina Piva?) e alla Scala,
fa rivivere “Norma” alla prima al teatro milanese nel 1831, dove non fu
ricevuta bene: con gli spettatori primo Ottocento, e gli interpreti – assommati
in Giuditta Pasta, una sorta di uccello del malaugurio che presiede muta a ogni
scena (eccetto i paraklausíthyron,
per fortuna) – in un tripudio di tricolori, coccarde (che però vennero dopo,
nel 1848) e bandiere.
Una
ricostruzione che si pretende filologica. Gli interpreti non la cantarono bene,
fa sapere Livermore (ma noi che ne sappiamo?). E il pubblico, che si aspettava
un inno contro lo straniero, restò deluso dalla vicenda di amore\morte. Mentre
si sa che l’insuccesso alla prima in realtà fu un infortunio, l’Austria non c’entrava,
“Norma” ebbe ben una trentina di repliche, affollate, e fu subito adottata nei maggiori
teatri europei.
Per
tacere di altre incongruenze della messinscena. Pollione è ben un proconsole
romano, ma viene trattato come uno scemo, gli danno buffetti, anche un sberla. Adalgisa
è ben una vestale, ma viene fatta muovere come in una soap-opera, si sbaciucchia perfino. Per non dire
del coro, tanto capace melodicamente quanto dissennato scenicamente. Ma non è
questione di filologia: è una rappresentazione che fa di tutto, eccetto che
nelle due scene-madri dei paraklausíthyron,
scenicamente ridotte a intermezzo, per distrarre dalla musica e dagli
interpreti. Non è bastato il recupero prezioso delle ragioni dell’opera che la
Rai ha fornito con le presentazioni di Stefano Vizioli, agile e suggestivo. L’opera
ha questo di “strano” – come del resto tutta la musica: che si ripropone, e
quindi che l’ascolto è un fatto di memorie e di sfumature.
E
poi c’è Pollione. Pop, malgrado la bellezza della voce, è del tutto incongruo in
tv. Non ha il fisico del ruolo. Che non sarebbe male, se non che Pop (o il
regista) non se ne cura. Non a torto, se vogliamo, il libretto non gli è
clemente: è l’uomo sciocco che sta tra due sedie. Ma, purtroppo, Pop così si
comporta: sta nel dramma solo attento alle intonazioni e ai tempi, visivamente inespressivo.
E in tv è terribile – il dramma gira attorno alle sue indecisioni, agli innamoramenti,
agli abbandoni, alla superficialità, alle accensioni.
Fuortes,
il nuovo capo della Rai, che dall’Opera di Roma ha fornito almeno tre spettacoli alla reti Rai nazionali, con ottima risposta di audience, dovrebbe prenderne nota. Se l’opera, com’è probabile, è una
miniera di ascolti, conviene far apprestare regie che in tv non siano ridicole,
e facciano risaltare la musica. Coinvolgendo magari la Rai nella produzione –
non lo fa, con tanto utile, per il cinema?
David
Livermore, Norma, Teatro Massimo
Bellini, Catania – Rai 5-Raiplay
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