Giuseppe Leuzzi
“Due settimane
fa sono venuti in 400 al Cimitero Monumentale di Milano”, ricorda Giacomo
Poretti di Aldo, Giovani e Giacomo, con Elvira Serra sul “Corriere della sera”
a proposito dell’ape-teatro, teatro
ambulante e poco “teatrale”: “C’erano 5 fiati, io declamavo una cosa su
sant’Ambrogio e sant’Agostino, un tedesco e un terrone africano”. Beh, è vero:
il milanese si sposta anche al Cimitero, per “una cosa” tra due santi. Ed è
pure vero che il tedesco e il terrone convivevano (insomma, si vedevano) a
Milano.
“C’è una
probabilità di mortalità infantile del 47 per cento superiore al Sud rispetto
al Nord-Est dell’Italia”, Giorgio Parisi, Nobel per la Fisica. Una probabilità,
cioè la proiezione del dato odierno in futuro. Cosa di cui il Sud non si è
accorto? La sanità non è regionale?
Mafia.
Un’altra etimologia è da aggiungere alle tante avanzate? Dal nome dell’isola di
Mafia, in Tanzania, che deriva dall’arabo “morphyeeh”, gruppo.
Il risveglio del ghiro
All’improvviso
un paese familiare, una comunità ignara, si scopre luogo di vertici di mafia, con
banchetti di ghiri (banchetti di ghiri?), all’ombra della marijuana. Un mese o due fa tre individui
sono stati scoperti coltivare marijuana su un terreno comunale, vecchio uso
civico, 730 piante sono state censite. La giustizia segue il suo corso, e dopo
un mese, o due, in casa degli stessi, o di uno dei tre, 235 ghiri sono
rinvenuti congelati, in una cinquantina di sacchetti, più qualcuno vivo in
gabbia. Di che bollare la comunità sui siti mondiali, le corrispondenze locali,
i commenti affranti, con la teoria che i ghiri servono ai banchetti dei mafiosi,
alle “mangiate” come si sognano a Reggio Calabria: “Ghiri, ‘ndrangheta e tradizione”,
“la caccia ai ghiri e il potere della ‘ndrangheta”, “‘ndrangheta e caccia ai
ghiri, il significato di un rito ancestrale”, “sequestrati ghiri congelati,
piatto preferito dei boss della ‘ndrangheta”, ”è il cibo preferito dei boss di ‘ndrangheta”…
L’enumerazione è inutile, videomaker, cronisti, notisti, ritualisti ripetono a
pappagallo l’imbeccata. In due versioni: il banchetto era dei capimafia, oppure
delle cosche di mafia quando devono siglare un patto scellerato, o una pace
dopo le faide – “i ghiri sono considerati segni di potere”. Con scandalo naturalmente
degli animalisti. Ma facendo un torto agli uomini di potere ‘ndranghetisti,
considerati scemi.
Il ghiro è
simpatico, ed è specie protetta. In Calabria è anche cibo apprezzato, molto.
Lo era prima, quando la caccia era libera, e lo è rimasto anche ora che non è
più cacciabile. Si capisce che dei bracconieri ne tenessero grandi quantità in
freezer (ma 200? anche 100 è difficile da credere, non ce ne sono molti in giro, e la cattura è complicata). Ma anche questa non è una novità, la novità è solo che la pratica si
facesse nella loro comunità, che è nell’Aspromonte. E soprattutto quello che si
fa sapere ai siti mondiali, ai corrispondenti e alle gazzette locali: che il ghiro
è cibo di mafia. O non sarà il ghiro matière de Calabre, come gli inchini
delle Madonne ai mafiosi? Una saga locale alla maniera dei Reali di Francia.
Che magari sostituisce la quotidiana “dichiarazione di esistenza” dei
Cacciatori di Calabria, l’unità speciale eliportata a caccia delle sue ore di
volo mensili? O di un giudice di Reggio a beneficio dei giornalisti, sempre
utili – una dichiarazione è sempre meglio che lavorare? I mafiosi considerando
stupidi o folklorici. La verità della cosa è che l’animaletto si vende a 5 euro
l’unità. Una cifra da Christie’s.
Questo si sa. Nella celebrazione post-freezer
un sito lo ricorda, indirettamente: “L’uso di cibarsene, bollito nel sugo o
arrosto, risale ai legionari romani, che si portavano dietro contenitori in
cui allevavano i roditori per avere
a disposizione cibo per i momenti di bisogno”. I mafiosi elevando a antichi
romani?
Il ghiro è cibo pregiato
in Calabria, dove ogni esemplare si vende a un prezzo medio che la Lav, lega
anti-vivisezione, documenta in cinque euro per esemplare. La caccia ne è
diffusa, a fini commerciali, specialmente nel Cosentino e nelle Serre. Nel
Cosentino nelle regioni montuose, Sila (San Giovanni in Fiore, Rossano,
Castelsilano) e Pollino (Orsomarso). Nelle Serre in una vasta zona, tra le
province di Vibo, Catanzaro e Reggio. La caccia, dacché il ghiro è diventato specie protetta, è risultata ai controlli specialmente diffusa a Guardavalle, Santa
Cristina dello Ionio, Nardodipace, Serra San Bruno, Stilo e Bivongi. Nelle
stime della Lav, nel solo territorio di Guardavalle vengono catturati 20 mila ghiri
l'anno. Che sembra un numero norme, ma chissà.
L’America ne sa di più
Della
Calabria. Al secondo o terzo film, Jonas Carpignano, sceneggiatore-regista
giovane di New York, con produzione, direzione della fotografia, montaggio e
colonna sonora americani, sa raccontare in
“A Chiara” la Calabria come nessuno dei registi italiani, che pure vi si
cimentano ultimamente numerosi. Dall’eloquio, una dizione accuratissima dei
modi di dire, ai comportamenti, a partire dagli sguardi, con l’ironia, la
bontà, il rispetto, lo scherzo, il
malinconico. Non maca il delitto – il furto, la droga: il racconto è dell’amore
filiale, di una figlia che scopre nel padre amato un trafficante di droga. Ma
niente western, niente gangster movie, come il cinema italiano
vuole – anche quello che si ambienta per qualche scena in Calabria per i fondi
della Film Commission regionale. Storia e, soprattutto, caratteri Carpignano crea
che sembrano solo naturali. Corpi e visi non omogeneizzati, alla fine sempre belli
della loro verità, modi di essere, di parlare (quanti troncamenti, polisemici
ma non ambighi), di guardare, di ridere, sorridere, di abbracciarsi, litigare. Anche
nell’omogeneizzazione, dell’abbigliamento, le barbe, i tatuaggi, il fumo
elettronico, le canzoni, le cuffie, comuni a questi speciali ragazzi come a
tutti i loro coetanei. Nonché un forte, intenso, racconto, un lavoro filologico,
etnologico di prim’ordine, sottotraccia come dev’essere, e fedele.
Tutto questo naturalmente
è merito dell’autore, della sua capacità di raccontare: Carpignano anche delle
buone cose (buoni sentimenti,) sa fare un dramma, sa farle rivivere. La
Calabria non ha merito. Ma è in Calabria, tra Rosarno e Gioia Tauro, che questo
regista newyorchese, di famiglia altoborghese lombarda, che ha scelto e sa
raccontare. Dire “A Chiara” un capolavoro non
è eccessivo, Un capolavoro questo, come prima “A Ciambra”, il quartiere sul
Petrace ora degradato delle case popolari costruite negli anni 1950 per
sedentarizzare gli zingari a Gioia Tauro (come Arghillà, altrettanto degradato,
a Reggio, e a Catanzaro quasi in centro, dove invece mantiene un qualche
decoro): un Kusturica girato con pochi mezzi ma altrettanto memorabile. E prima
ancora “Mediterranea”, di un Carpignano nel 2014 trentenne, sui due esiti dell’immigrazione,
girato nella bidonville di Rosarno-San Ferdinando: un fratello accetta l’integrazione,
per quanto povera, un fratello la
rifiuta. Ma è comunque un racconto onesto, oltre che di sorprendente
attrazione, a fronte dello scontato fondale di brutti, sporchi e cattivi, da western
senza luce, che fanno l’immagine di tutto ciò che si lega alla Calabria.
Un film fatto
recitare alle famiglie Rotolo, Amato e Furno. Con una buona dose quindi di rom
integrati, anche qui. E a un africano immigrato, lo stesso attore di “Mediterranea”,
al lavoro, vigile e distaccato, come unico sensato.
Con un omaggio,
pur senza inalberare buonismi, anzi perplesso, al programma “Liberi di scegliere”,
dell’avvocatessa docente G.M. (Giuseppina Maria) Patrizia Surace, reggina, una
lunga carriera di studi, consulenze e applicazioni per indirizzare la pena
(carcere) e la sofferenza (familiari di delinquenti) a fini pedagogici, di formazione
e indirizzo. Un capolavoro civile.
Aspromonte
Garibaldi ferito ai Piani d’Aspromonte
fu un evento mondiale - Cialdini lo aveva anche arrestato. Commosse e mobilitò
l’opinione pubblica dappertutto in Europa, e perfino in America – dove Lincoln
aveva pensato a Garibaldi per la guerra di secessione. In Inghilterra furono raccolte
in pochi giorni per i feriti dell’Aspromonte ben quarantamila lire. A Hyde Park
una manifestazione di protesta raccolse quarantamila persone. Da Lipsia una
corona in forma di allora in oro fu offerta a Garibaldi. Da Magonza mandarono
una cassetta di vini pregiati (ma Garibaldi era astemio…) Lettere e attestazioni
di conforto giunsero dalla Svezia, dalla Russia, dalla Francia. Lincoln rinnovò
a Garibaldi l’offerta di un alto comando nell’esercito nordista.
Arrivando ai Piani d’Aspromonte dopo una
marcia di due giorni da Reggio, estenuati dalla calura di agosto su per le
balze allora desertiche della Montagna, i giovanissimi garibaldini volontari
trovarono finalmente rifugio nelle vaste pinete. E soprattutto di che mangiare:
le patate “arrostite”. Che si mangiano oggi come allora, cotte, con la buccia,
nella cenere. Ricorderà Garibaldi a
distanza di tempi i viveri “che la popolazione dei paesi circostanti ci offriva
spontaneamente”, Sant’Eufemia, Solano, Cosoleto, e le patate: “Un campo di
patate sfamò i primi giunti che avevano avuto pure la previdenza di portare
seco alcune fascine secche, atte ad arrostire le patate, ciò che fu eseguito in
un momento. Per parte mia mangiai quelle patate arrostite deliziosamente”-
Le trote
fario, argentee col punto d’oro sulla guancia, illuminano i torrenti. Antonio si
fa un vanto di pescarle con una semplice esca in punta a un bastone – per poi rimetterle
in acqua. Antonio è camminatore e torrentista. Specialista delle acque interne
– probabilmente il solo che ne sa qualcosa nel Parco, hanno bisogno di lui per
discuterne in convegni e assemblee. Ma ne parla a memoria, ora non gira più.
Troppe volte ha visto la calce viva nelle acque – con cui le Guardie Forestali
si fanno la cena.
Concetta, la
serva di casa Adorno nell’“Ultima provincia”, il racconto di debutto (1962) e
il capolavoro di “Luisa Adorno”, ha “viso terreo, largo ed adunco ad un tempo,
involgarito da capelli per natura troppo neri”. Probabile: è “quarantenne, non
era avvenente”, e faceva la serva, devota, lontana da casa (seguiva Prefetto e
Prefettessa nelle varie sedi). Ma ha anche “la rigidezza del corpo, piccolo,
tutto d’un pezzo, di montanara calabrese”. Quante montanare calabresi avrà
conosciute la simpatica scrittrice pisana Mila Curradi, maritata “Adorno”, che
il 2 agosto è morta centenaria, al suo esordio?
Rumia è un
laghetto, nel comune di San Roberto, ma vicino a Gambarie. Di etimologia incerta,
nulla comunque a che vedere col quasi omonimo Urmia, oggi in Iran, nella parte
settentrionale alla frontiera con la Turchia, vecchia patria degli Ittiti,
attorno al quale si sono consumate molte battaglie russe per l’espansione verso
Sud. Un po’ più grande di una pozza a fronte di un quasi mare. Se non che si
respira la stessa aria. Scherzi della memoria? No, l’altezza sul livello del
mare è la stessa, 1.270 m.
“Emilio Santillo
fumava sigari avana, enormi e profumati” è l’incipit di un fulminante racconto
di Franco Calabro trent’anni fa sulla “Gazzetta del Sud”, per i quarant’anni
del quotidiano – “Su quella montagna dove abitano i diavoli” è il titolo di una
serie di suoi racconti in tema. “Sulla sua scrivania teneva una pistola col calcio
di madreperla con la quale amava gingillarsi, mentre intratteneva – la cosa era
ormai un rito – l’inviato del giornale del Nord spedito di corsa «laggiù» per
sentire cosa veramente questo gentiluomo campano (per noi tutti era «lo
sceriffo») avesse scoperto dopo l’Appalachin della ‘ndrangheta, dopo la
sorpresa della radura di Montalto, uno spiazzo tra enormi faggi nel quale, la
prima domenica d’ottobre del 1969, i notabili della mafia della provincia di
Reggio Calabria stavano tenendo una riunione.
I nomi delle
persone incappucciate?
«Ve li daremo
ma non adesso. Aspettate e vedrete».
Così il
questore Santillo rassicurava gli inviati, offrendo sigari e whisky, centellinando
a sua volta le notizie, una al giorno. «Così – diceva – li teniamo qui».
Per anni la
favola degli incappucciati di Montalto, degli insospettabili, grosse personalità
del mondo politico, si diceva, fatte fuggire nel momento dell’irruzione della
polizia, è stata ripetuta, condita in tutte le salse. Siamo stati in pochi («gli
altri vanno via, voi restate – diceva Santillo – perciò state attenti!») a
saperlo dall’inizio: gli incappucciati di Montalto non sono mai esistiti”.
Erano “la
brillante e un po’ cinica trovata di Santillo”, concludeva Franco, “il quale,
così facendo, era riuscito a far tenere i riflettori accesi su di lui per mesi,
anni addirittura”.
“Fuggire nel
momento dell’irruzione della polizia” al Montalto è impossibile: è una radura aperta
e scoperta, e non vi si arriva di sorpresa. E seppure gli incappucciati fossero
stati sordi, non avevano dove scappare, non ci sono e non c’erano - al tempo
degli incappucciati avevamo un’esperienza quindicennale della Montagna -
rifugi. Ma tutto si può credere.
leuzzi@antiit.eu
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