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Amore filiale e malavita
La
storia – un dramma – di amore filiale. Di una figlia che scopre l’amato padre
dapprima latitante, poi trafficante di droga. Testarda, la figlia vuole la conferma
dell’accusa dal padre, solo da lui, e quando l’ha avuta, sperimentata di persona,
si lascia convincere dai servizi sociali, nell’ambito del programma della
Regione Calabria “Liberi di scegliere”, all’affido presso una famiglia
altoborghese nella città di Urbino.
Di
questo però sappiamo negli ultimi minuti, o secondi, del film, per un paio d’immagini.
La storia è di Chiara che svolge il suo dramma a casa, al paese, a scuola, con
i cugini e con le compagne, con cui condivide come unici vizi le chiacchiere e
il fumo elettronico. Una storia semplice, girata per maggiore asciuttezza in
una famiglia allargata in ambiente ristretto, inusuale, marginale (Gioia
Tauro), con attori che reciterebbero se stessi, tra scene e dialoghi comuni,
scontati, e tuttavia possente: due ore di cinema senza una pausa, senza
respiro.
Un
film alla fine pedagogico, istruttivo. Ma con un po’, solo un po’, di
politicamente corretto, del buonismo neo realista. La scena iniziale del film è
la festa per i diciott’anni di Giulia, sorella maggiore di Chiara, la quale la
vive specialmente intensa, come sua, per il rapporto che ha, stretto, con il
padre, uomo solitario, taciturno, ma affettuoso, perfino sentimentale. La scena
finale è la festa per i diciott’anni di Chiara a Urbino, con la madre e la sorella
coetanea di affido, e i nuovi amici. Dopo il fumo in gruppo, in piazza, con una “canna-cannone”.
Jonas
Carpignano, A Chiara
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