Dai boomer agli zoomer, le generazioni servono al commercio
Si
fa presto a dire generazione – baby
boomers, Generazione Y, Generazione X: la maggior parte dei giovani negli
anni 1960 non praticava il libero
amore, prendeva droghe, o protestava la guerra in Vietnam. “A un sondaggio del
1967, richiesti se bisognava aspettare il matrimonio per fare sesso, il 63 per cento
dei ventenni disse sì, praticamente nella stessa percentuale della popolazione
in generale. Nel 1969, quando fu chiesto ai ventenni (21-29) se avevano mai
consumato marijuana, l’88 per cento disse no. Quando allo stesso gruppo fu chiesto
se gli Stati Uniti dovevano ritirarsi immediatamente dal Vietnam, tre quarti dissero
di no, più o meno come la popolazione in generale. E la maggior parte dei
giovani negli anni 1960 non erano nemmeno specialmente progressisti”: ai sondaggi
politici tra il 1966 e il 1968 il 53 per cento dei giovani risultava pro Nixon
o George Wallace” – la percentuale era più alta per chi veniva dall’università,
fresco di studi tra il 1962 e il 1965: il 57 per cento.
“È
tempo di smetterla di parlare di generazioni”: Louis Menand, professore di
Inglese a Harvard,, storico delle idee
(“The Metaphysical Club”, Pulitzer 2001, la storia intellettuale e culturale
dell’America Fine Secolo), e del rinnovamento della lingua inglese col primo
Novecento (“Discovering Modernism. T.S.Eliot and His Context”), nonché,
recentemente, del mercato delle idee (“The marketplace of ideas”), sgonfia il
concetto di generazione come si sta imponendo, una sorta di bolla
intellettuale. A fini solo commerciali, di creazione, cinquant’anni fa,
sull’onda del Sessantotto, e poi di sfruttamento intensificato di linee di
prodotti, per teen-ager.
Recensendo
gli ultimi libri in tema, spiega sia la “generazione” sia il “fenomeno teen
ager”. “La scoperta che si possono fare soldi vendendo merci ai teen-agers”, merci
dedicate, distintivo generazionale, “data dai primi anni 1940, che fu anche
quando il termine «cultura giovanile» apparve per la prima volta a stampa”. Erano
anni di guerra, ma la cosa partiva da lontano: più gente era andata al liceo
negli anni 1930. Nel 1910 solo il 14 per cento degli adolescenti, 14-17 anni,
era ancora a scuola. Trent’anni più tardi, nel 1940, quella proporzione era
passata al 73 per cento. E poi è sempre aumentata: nel 1955 l’84 per cento
degli americani in età da scuola secondaria la frequentava (in Europa Occidentale
al percentuale era del 16 per cento). Poi, tra il 1956 e il 1969, le iscrizioni
all’università negli Stati Uniti sono più che raddoppiate, e il segmento
demografico «gioventù» è passato da quattro a otto anni. Nel 1969 era sensato
che ognuno parlasse di stili e valori e gusti dei giovani: quasi la metà della
popolazione era sotto i venticinque”.
Oggi
la proporzione è rovesciata: “Oggi un po’ meno di un terzo della popolazione è
sotto i venticinque, ma la giovinezza rimane una grande base di consumo per
piattaforme social, servizi streaming, giochi elettronici, musica, moda,
cellulari, apps, e molte altre merci, dai pattini motorizzati ai contenitori
ecologici per acqua”. Nasce da qui il concetto di “cultura giovanile” mobile,
con l’esigenza di “ridefinirlo periodicamente”: per mantenere questo mercato in
ebollizione, e per dare al business delle consulenze qualcosa da insegnare alle
aziende che consigliano”.
Questa
è la parte hard del saggio. Che è altrimenti
godibile per documentazione storica e argomentazione. Naturalmente, “non c’è
niente in natura che corrisponda a una decade, o a un secolo, o a un millennio”.
Le differenze sono storiche o sociali, caratterizzazioni, quelle che nell’Ottocento
erano chiamate “entelechie” generazionali. Ma qui la “differenza tra un baby boomer e un Gen-X è significativa
tanto quanto la differenza tra un Leone e un Vergine”.
Louis
Menand, It’s Time to Stop talking about
Generations, “The New Yorker”, free online
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