La guerra perduta di chi ci credeva
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dicembre 1942, “oggi compio 28 anni, e questo è il settimo compleanno che passo
sotto le armi: gioventù mussoliniana”. E non è finita, lo scrittore ne passerà un’altra
mezza dozzina, tra guerra e prigionia.
Giovane fascista e volontario di guerra,
Berto racconta nel 1954, ancora fresco del successo del debutto, “Il cielo è
rosso”, 1947, la guerra dal vivo, nel “ripiegamento” continuo, tra Libia e
Tunisia, che segnò l’inizio della fine della guerra, della sconfitta. Da
volontario in un battaglione di camicie nere, una ferita di guerra in Africa
Orientale (“un piede che funziona male per causa di guerra, ed è soggetto a
gonfiori e congelamenti”) e l’ulcera ostacolandogli il richiamo nell’esercito.
Domenico
Scarpa, che ha curato la riedizione, la correda in introduzione di un assestamento
dell’opera di Berto, della sua difficile collocazione dopo il successo dell’opera
prima, “Il cielo è rosso”, e del suo a-fascismo, a fronte di un antifascismo altrettanto
invadente. Con una lunga nota editoriale in postfazione, gran lavoro filologico
nell’officina della scrittura e poi della pubblicazione. Questa è curiosa: Einaudi, subentrato a
Longanesi, primo editore di Berto, col non felice “Il Brigante”, accetta subito
la “Guerra”, convinto anche dai pareri entusiasti di Natalia Ginzburg e Italo
Calvino, ma i tre se la lasciano sfuggire mandando le lettere d’impegno
all’indirizzo sbagliato – tre mesi dopo, quando lo rintracciano, Berto è passato a Garzanti (a Attilio
Bertolucci per conto di Garzanti? Scarpa non esamina questo probabile iter: la
“Guerra” esce da Garzanti nel 1955 insieme col Pasolini di “Ragazzi di vita”,
che a Garzanti è sicuramente stato consigliato, se non imposto, da
Bertolucci).
Questa
“Guerra” è un “diario”, dice Scarpa, riflessione insieme col racconto, in preparazione
dell’“esaurimento nervoso” e de “Il male oscuro”: un laboratorio della Grande
Opera. Un esperimento in “orale illustre”, dice ancora Scarpa - cosa che non è, per la verità, dettaglista, scritta, costruita. Nelle parole di
Trevi, prefatore di una precedente riedizione: “Uno slittamento dal racconto
(che è poi il modo tradizionale di affrontare il groviglio della nevrosi) a una
forma di recitazione”.
Purtroppo,
dopo l’avvio, con l’eroicomica dell’arruolamento volontario contro ogni
disposizione di legge, sanitaria, regolamentare, è il racconto della guerra
come si vuole che gli italiani la facciano, alla Monicelli-Sordi: improvvisata,
disorganizzata, incapace. Berto ci ha ripensato una dozzina d’anni dopo averla
fatta nel 1942-43, con un occhio all’“aria che tira” nel dopoguerra, della
giustificazione anche se non richiesta. E scrive sotto la forma del diario, di
uno come i tanti che “servirono il fascismo con la convinzione di servire la
patria”. Un diario recuperato a distanza, anche se alla fine spiega che all’ultimo
“ripiegamento” gli hanno perso la cassetta personale, con i libri “mai sfogliati”,
e i tanti “fogli pieni di appunti e riflessioni, sui quali sognavo di costruire
un giorno la mia personale fama di scrittore combattente, campione dell’epoca
mussoliniana”.
È un
racconto di testa. Non per opportunismo, forse, ma
in chiave disimpegnata, perfino ilare. Il tema politico – perché la guerra,
perché contro gli Alleati, per quale fascismo – liquidando in mezza pagina, una
conversazione con un capomanipolo romano, del gruppo fascista universitario,
con “idee molto più chiare”: la Germania è da temere, ma gli Alleati ci costringono a farla con la
Germania, dopo bisognerà comunque riprendere la rivoluzione fascista, anche
senza o contro Mussolini, “andare verso il popolo”. Il “diario”, lo stesso Berto
confessa all’inizio, di uno che, “benché ostinato volontario”, prova “una profonda
avversione per le divise” – che però ha vestito per due anni a Vicenza, quattro
in Africa Orientale e ora veste in Nord Africa. Tutto un po’ confuso. Compreso il suo
ruolo in Nord Africa: lui, una sorta di “antemarcia”, volontario a ogni costo,
è addetto alla sussistenza, come a dire un capo magazziniere e un capo cuoco. .
All’arrivo
a Tripoli gli ufficiali dell’esercito sono sfuggenti col tenente Berto,
considerando i miliziani irregolari e fanatici. Sempre a Tripoli, al comando
tappa, “non sanno dove si trovi il 6° battaglione camicie nere”, quello di
Berto, “anzi, mettono addirittura in dubbio che in Africa settentrionale esista
un battaglione di camicie nere”. È la vena ironica con cui il Berto volontario
contro venti e maree segnerà tutto il “diario”. “Vedo troppi antifascisti che
si tirano dietro i difetti del fascismo”: Berto lo dirà dieci anni più tardi
della redazione di questa “Guerra”, in un’intervista con Giancarlo Vigorelli,
ma è lo spirito con cui l’ha scritta.
Berto
debutta con la guerra, nei suoi primi quattro romanzi, “Il cielo è rosso”, “Le
opere di Dio”, “Il brigante” e questo “Guerra in camicia nera”. Qui si riscatta
dalla sindrome pacifista antifascista, con l’intermezzo di un romance a Tunisi, nell’ultima battaglia a El Hamma in Tunisia, dove il battaglione perde un centinaio di uomini, compresi
il Comandante e il comandante del primo plotone. Berto e il suo plotone, quel
poco che ne resta, sono fatti prigionieri dai “negri”. Da soldati senegalesi
a cui i francesi hanno insegnato che gli italiani sono meno cattivi dei tedeschi,
e quindi non li hanno passati subito per le armi.
Noioso,
un po’, però onesto. Scarpa accosta Berto a Nievo. Che lo stesso Berto richiama
in esergo. Per la scrittura agile. E più per quel misto di infatuazione e
distacco, di entusiasmo e di reticenza, non volendosi confondere e dissolvere
nell’ordinario, la trascuratezza, la superficialità, la gloriola sciocca. In postfazione,
ricostituendo l’iter dell’opera, il curatore recupera un intervento di Berto sul
settimanale romano “Giovedì”, fondato da Giancarlo Vigorelli, a un “dibattito
sulle nuove generazioni”, il 13 febbraio 1953, in cui lo scrittore delinea le
sue “ragioni del fascismo”: “Per la prima volta nella nostra storia avevamo
assunto un ruolo da protagonisti, e siamo clamorosamente falliti”. Ingannati? Sì
e no. Troppo facile dire “ci hanno ingannati”, oppure “ci hanno costretti”. Ed è
vero anche oggi che “ci ostiniamo a incolpare pochi, come se noi in quel tempo
non avessimo partecipato alle vicende di cui eravamo bene o male attori”.
Giuseppe
Berto, Guerra in camicia nera, Neri
Pozza, pp. 283 € 17
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