Come essere figli di due
artisti, nomadi, tra Roma, Poveromo, Genova, Parigi, poveri, senza senso
pratico, vivendo un’infanzia felice. E a sedici-diciassette anni entrare
naturalmente in politica, con i piccoli atti di opposizione a Mussolini e ai
tedeschi. L’inverno “terribilmente freddo” della Liberazione, e la fame – ma
con una “inspiegabile allegria”: “Il ricordo più intenso e preciso è però la
fame” (tutti la ricordano, tutti quelli che vivevano, adolescenti, a Roma tra il
1943 e il 1945, anche il 1946). Il passaggio naturale a funzionaria del
Partito, il Pci. Che ti inquadrava anche la vita pratica – male: alloggi
spartani, cibo pessimo. Le campagne elettorali di assoluta inesperienza, nel
1946, a diciotto anni, e nel 1948, in Calabria, in Lucania. Dieci anni di
Abruzzo, contro l’amministrazione Torlonia ad Avezzano dapprima, con la
vittoria dei “cafoni”, poi da assessore a Pescara. Le sorelle, i figli, il
matrimonio infelice. E qui purtroppo il racconto si ferma, Miriam recalcitrante a
proseguirlo, mentre la malattia prendeva il sopravvento – una nota della figlia
primogenita, Sara Scalia, spiega la raccolta e gli ultimi giorni.
Nel mezzo, in trama, il paternalismo maschilista del partito Comunista. La Russia attraente e insondabile. E notazioni storiche, ancorché accennate, che valgono libri di storia. La missione del Clnai a Roma, il Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, Pizzoni, Sogno, Parri e Giancarlo Pajetta, per raccogliere armi e soldi, ed avere un riconoscimento ufficiale, accolta distrattamente, burocraticamente , a Roma, dal presidente del consiglio Bonomi, dall’ambasciata Americana, dal commando Alleato. La comparsa dell’“Uomo Qualunque”, già a fine 1944, sbolliti presto gli entusiasmi. La Sicilia staccata da Roma: non se ne sapeva nulla, fino ancora nel 1945. Le rivolte dei “non si parte” in Sicilia: madri, mogli, famiglie intere che protestavano contro la leva militare che si voleva imporre, per continuare la guerra nel continente contro i tedeschi. Con ventisette morti e qualche centinaio di feriti a Palermo, l’assalto e la devastazione del Municipio a Catania, la proclamazione della Repubblica a Comiso e Piana degli Albanesi. E dappertutto, dall’Abruzzo alla Sicilia, l’occupazione delle terre incolte.
Molti nomi, cui Miriam dà identità in poche parole: Giovanni Bollea poco più che ragazzo, le sorelle Cesarini Sforza, Marisa Musu, Maria Antonietta Macciocchi, “giovane donna, bionda, molto elegante”, Carla Capponi – “la leggendaria gappista di Roma cui si dovevano gli attentati più audaci in periferia e in pieno centro” – “magra, bellissima, bionda, un vestitino leggero, e una pistola” alla cintura. Edoardo d’Onofrio, e il suo bestseller involontario, “Una famiglia di comunisti”. Il rimorso per non aver saputo, o non aver voluto sapere, l’umiliazione di Di Vittorio al comitato centrale del partito, nel terribile 1956.
Non rimarcate, ma vissute, le confusioni, del fascismo e sotto il fascismo. La scuola, negata a Roma in quanto figlia di ebrea nel 1939, ma libera a Genova durante la Guerra, e poi a Roma sotto l’occupazione tedesca. O la felicità dell’estate del 1943: “Per la prima volta avevo potuto comperarmi un vestito scelto da me. Era di cotone, a fiori. Avevo diciassette anni e mi sembrava di essere molto felice e di avere molti amici”. Compresi quelli che le facevano fare la postina dell’“Unità” clandestina.
Viene poi lo scandalo, gli scandali, per il partito-chiesa o chioccia, del 1956: gli scioperi in Germana orientale, Polonia, Ungheria, la denuncia di Stalin, l’occupazione dell’Ungheria. Viene anche il femminismo, con Simone de Beauvoir. Ma non è una scoperta, è un modo d’essere, naturale: “Mia madre mi aveva già insegnato che le donne possono fare tutto quello chef anno gli uomini. E anche qualcosa di più: i bambini”.
In appendice tre articoli-saggio per “Vie Nuove”, il settimanale del Pci, 1957-58, sugli italiani in miniera in Belgio, una vita di miserie e di morte, sul maschilismo imperante, sull’ultimo processo politico franchista, ancora a fine 1970. E una breve nota sui venticinque anni di convivenza con Giancarlo Pajetta.
Miriam era una ragazza cresciuta. Nel senso che era franca e diretta. Inspiegabilmente sposata prima, e poi compagna, di uomini che respiravano solo politica, e qindi riflessivi, guardinghi. Così si può dire la sua vuta in breve, come l’ha voluta sulla pagina. Ma forse per liquidare – accantonare – il “fattore donna”, che allora, e ancora per qualche tempo, pesava sulla donna in attività.
Miriam Mafai, Una vita quasi due, Bur, pp. 268 € 10
Nel mezzo, in trama, il paternalismo maschilista del partito Comunista. La Russia attraente e insondabile. E notazioni storiche, ancorché accennate, che valgono libri di storia. La missione del Clnai a Roma, il Comitato di Liberazione dell’Alta Italia, Pizzoni, Sogno, Parri e Giancarlo Pajetta, per raccogliere armi e soldi, ed avere un riconoscimento ufficiale, accolta distrattamente, burocraticamente , a Roma, dal presidente del consiglio Bonomi, dall’ambasciata Americana, dal commando Alleato. La comparsa dell’“Uomo Qualunque”, già a fine 1944, sbolliti presto gli entusiasmi. La Sicilia staccata da Roma: non se ne sapeva nulla, fino ancora nel 1945. Le rivolte dei “non si parte” in Sicilia: madri, mogli, famiglie intere che protestavano contro la leva militare che si voleva imporre, per continuare la guerra nel continente contro i tedeschi. Con ventisette morti e qualche centinaio di feriti a Palermo, l’assalto e la devastazione del Municipio a Catania, la proclamazione della Repubblica a Comiso e Piana degli Albanesi. E dappertutto, dall’Abruzzo alla Sicilia, l’occupazione delle terre incolte.
Molti nomi, cui Miriam dà identità in poche parole: Giovanni Bollea poco più che ragazzo, le sorelle Cesarini Sforza, Marisa Musu, Maria Antonietta Macciocchi, “giovane donna, bionda, molto elegante”, Carla Capponi – “la leggendaria gappista di Roma cui si dovevano gli attentati più audaci in periferia e in pieno centro” – “magra, bellissima, bionda, un vestitino leggero, e una pistola” alla cintura. Edoardo d’Onofrio, e il suo bestseller involontario, “Una famiglia di comunisti”. Il rimorso per non aver saputo, o non aver voluto sapere, l’umiliazione di Di Vittorio al comitato centrale del partito, nel terribile 1956.
Non rimarcate, ma vissute, le confusioni, del fascismo e sotto il fascismo. La scuola, negata a Roma in quanto figlia di ebrea nel 1939, ma libera a Genova durante la Guerra, e poi a Roma sotto l’occupazione tedesca. O la felicità dell’estate del 1943: “Per la prima volta avevo potuto comperarmi un vestito scelto da me. Era di cotone, a fiori. Avevo diciassette anni e mi sembrava di essere molto felice e di avere molti amici”. Compresi quelli che le facevano fare la postina dell’“Unità” clandestina.
Viene poi lo scandalo, gli scandali, per il partito-chiesa o chioccia, del 1956: gli scioperi in Germana orientale, Polonia, Ungheria, la denuncia di Stalin, l’occupazione dell’Ungheria. Viene anche il femminismo, con Simone de Beauvoir. Ma non è una scoperta, è un modo d’essere, naturale: “Mia madre mi aveva già insegnato che le donne possono fare tutto quello chef anno gli uomini. E anche qualcosa di più: i bambini”.
In appendice tre articoli-saggio per “Vie Nuove”, il settimanale del Pci, 1957-58, sugli italiani in miniera in Belgio, una vita di miserie e di morte, sul maschilismo imperante, sull’ultimo processo politico franchista, ancora a fine 1970. E una breve nota sui venticinque anni di convivenza con Giancarlo Pajetta.
Miriam era una ragazza cresciuta. Nel senso che era franca e diretta. Inspiegabilmente sposata prima, e poi compagna, di uomini che respiravano solo politica, e qindi riflessivi, guardinghi. Così si può dire la sua vuta in breve, come l’ha voluta sulla pagina. Ma forse per liquidare – accantonare – il “fattore donna”, che allora, e ancora per qualche tempo, pesava sulla donna in attività.
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