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Secondi pensieri - 459
zeulig
Arte - Ha diverso peso specifico, e
capacità di vincolo, la parola (poesia, filosofia, narrazione) rispetto al
segno (figurativo)? È più Limitata e limitante? La parola obbliga – chiusa,
completa, coerente. Lo scrittore forse non invidia il pittore, oggi il regista,
perché non ne ha le costrizioni materiali. Può volteggiare anche senza un
foglio di carta, mentre l’artista figurativo ha bisogno di moti elementi, e di
una luce frivola – incostante, inafferrabile, incontrollabile. Ma è, certo, se
non più libero nello strumento, sì nelle figurazioni e nei significati – la parola
è anch’essa come la luce, mutevole, in sé e nei costrutti.
Autofiction – Il genere
letterario nasce di fatto con Freud: il racconto di se stessi in analisi è ben
romanzato – tale lo vuole anzi il terapeuta: un racconto, il racconto in prima persona,
dal proprio punto di vista, per quanto inteso a rimuovere la rimozione, e tanto
più fantastico o fantasioso (sogni, visioni, effetti a sorpresa) tanto meglio.
Catastrofe ambientale – È sempre
dietro l’angolo, per il principio base della selezione naturale: la “lotta per
l’esistenza” è derivata dall’osservazione che gli organismi sempre si
moltiplicano a un ritmo “troppo” elevato, tale cioè da riprodursi in misura
superiore a quella che le risorse naturali possono sostenere – le risorse
naturali intendendosi “per natura” limitate.
Dio - È umano,
naturalmente, non c’è in natura. Sì, la selezione naturale, Lamarck, Darwin, ma
è anche essa a misura d’uomo, cioè di Dio – Darwin è la prova di Dio. Che ne
sappiamo noi dei miliardi (miliardi) di galassie, a distanze incommensurabili,
squarciate di continuo da esplosioni che poi si ricondensano? Nel vasto mondo,
insensato, Dio è impensabile – insensato. La fisica della complessità che oggi
si premia con Parisi ne ha la controprova.
Fotografia – È diventata
la “prova di esistenza in vita” che una volta le Poste pretendevano per pagarci
la rendita: fotografare, fotografarsi, meglio se con testimoni, i “selfie” con
chi capita, per ogni occasione. E anche storia, una sorta di monumento, per quanto
di luce, quindi variabile.
La pratica, ritenuta fino a pochi decenni fa esotica, quando era
esclusiva dei turisti giapponesi, intesa a eternizzare una realtà per loro
remota a cui però ambivano (occidentalizzarsi), è ora comune e universale. Fotografie
che quasi sempre non si rivedono: una pratica automatica. Come darsi corpo. Un tempo molte persone
di varia civiltà rifiutavano di farsi fotografare per non farsi rubare l’anima.
L’immagine è tuttora proibita nelle rappresentazioni sacre dell’islam. Ora si
direbbe il contrario: l’immagine – un’immagine qualsiasi – come prova di esistenza.
Non ce n’è altra evidentemente, la memoria (narrazione), la storia, anche
familiare, la pietra, tanto più che al cimitero si viene incinerati. Un mondo
di immagini è più o meno reale? Si direbbe derealizzato, considerato l’uso e il
senso che si legano alle immagini.
Memoria – È labile, per
definizione, per costituzione, e variabile. In un mood è una, in un altro mood
è un’atra – ma è variabile con tutti i possibili fattori, stato d’animo,
stagione, temperatura, compagnia, solitudine, euforia, tristezza. Il fondamento
più solido della più solida scienza umanistica, la storia. I ricordi non emergono,
galleggiano. Sono forme ibride e scomposte, frattaliche, a cui noi diamo grammatica
e sintassi, rigore grafico euclideo. Li organizziamo, diamo loro una forma e un
senso. Anche nella forma del visto e sentito – della testimonianza.
Mito – In uno degli ultimi appunti de “Il mestiere di vivere”, il
9 gennaio 1950, l’anno cominciato con i pensieri di morte (ben prima dunque
dell’innamoramento con Constance Dowling), Cesare Pavese si rimprovera “la
passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la verità
demonica di piante, acque, rocce e paesi è segno di timidezza, di fuga davanti
ai poveri e gli impegni del mondo umano”. Perché farsene una colpa? Del mito,
parlato (svuotato) o curioso (vissuto), del sogno a occhi aperti, della
(parvenza di) conoscenza ultima seppure non definitiva, e condivisa, popolare.
Il mito si direbbe realtà aumentata, e dunque il suicidio? Nel caso può essere
l’ossessione dell’impotenza sessuale, fisica o mentale, alla quale si riduce
per i tanti rifiuti – alla maniera di Nietzsche, e come per il filosofo non per
improntitudine o goffaggine ma per incapacità. Vedi il rifiuto sofferto da
parte di Constance, e subito dopo di Romilda Bollati, e prima, a cadenza
quinquennale, di Bianca Garufi, di Fernanda Pivano, di Tina Pizzardo.
Natura – È per definizione
(Malthus, Darwin) limitata. Come se fosse un dato di fatto inerte, non
estensibile. Oppure di capacità evolutiva limitata, inferiore a quella della
stessa selezione “naturale”, della capacità evolutiva cioè sua propria.
La natura Dürrenmatt, “L’incarico”, la immagina osservata, aggredita,
in una sintesi del quadro naturistico: “Mai l’uomo aveva osservato tanto la
natura che gli sta dinnanzi quasi nuda, priva di segreti, ed è sfruttata, le
sue risorse bistrattate”. Che per questo si difende. O si vendica? L’impressione
è c ertamente che si faccia “aggressiva, sotto forma di aria inquinata, terreno
contaminato, acqua freatica infetta,
foreste morenti, si tratta di uno sciopero, di un rifiuto consapevole di
rendere innocui i veleni, mentre i nuovi virus, i terremoti, le siccità, le
inondazioni, gli uragani, le esplosioni vulcaniche, eccetera sono atti di
difesa”. Di “difesa”? Il vulcano, e da
che? O il maremoto oggi tsunami? Il fulmine, la tromba d’aria, l’uragano? Che
“naturalmente” non c’erano quando l’uomo era inerme, e anzi piuttosto
naturalistico, adoratore della natura? La natura è sempre stata aggressiva – e
materna – anche quando l’uomo, pur avendo occhi e mani come oggi, la osservava
ma in adorazione, non pensava di aggredirla.
E consapevole? Una forma di razionalità c’è in natura in senso
quantitativo (calore, umidità, umori o veleni…), ma accidentale, nessuna teoria
del caos può configurarla, non teoricamente, se non appunto come accidentale:
la forma della nuvola come la tromba d’aria o il terremoto, o il tumore.
Idealizzare la natura è necessario, alla sopravvivenza – il pensiero
dell’essere che ne prescinde sarà per questo scivoloso, l’arrampicata sugli
specchi. Volendo, si può anche farne anche un dio, ma con juicio.
Probabilità – Il calcolo
delle probabilità è la constatazione (certificazione) dell’improbabilità.
Psicoanalisi – Si
autoalimenta. È una narrazione di sé, sotto forma di ricostituzione della
memoria, con la rimozione della rimozione, di ogni eventuale cancellazione. Una
storia – “vissuto”, sogni, preterizioni, perturbante o paura – che si costituisce
(si dice emerge, ma nasce, lo psicoterapeuta è una levatrice) con la memoria. Cioè
occasionalmente. A ogni stagione diversa, anche a ogni seduta, per
temperamento, meteoropatia, insonnie, buona o cattiva digestione, emicranie, perfino
raffreddori.
È la prima forma di autofiction.
La prima in assoluto no, perché ci sono sant’Agostino e Rousseau. Ma la prima
come genere. Genere letterario sotto la forma (entro la cornice) terapeutica. La
prima disinvolta, “liberata”, non più sottoposta a redattori editoriali, e anzi
a pagamento per essere più libera, per nulla costretta (rimaneggiata, rivista,
riscritta).
zeulig@antiit.eu
Globalizzazione – La lingua vi è irriducibile, secondo
Gottfried Benn. Come “coalizione globale” il poeta la anticipa in una conferenza
del 1954, “Invecchiare come problema per artisti” – già allora la comunicazione
si voleva globale, se non ancora istantanea. Eccetto che per la lingua, che è
irriducibile.
“La tecnica è l’argomento del giorno, e la gente
dice che bisogna integrarla, tutto deve stare in armonia: la lirica col
contatore Geiger, i vaccini con i Padri della Chiesa, guai a lasciar fuori
alcunché, altrimenti la coalizione globale è in pericolo. Anche la lingua le si
deve adeguare”. A questo il poeta non crede: “Quella che porta, cresce e opera
è una lingua che vive di se stessa, genera da se stessa; essa accoglie, ma
integra secondo la sua legge immanente”, i linguaggi scientifici, matematici,
motoristici, commerciali.
Infanzia – E d’uso evocarla, in letteratura,
al cinema, in analisi. Non una qualsiasi, osservabile. La propria. Editori e
terapeuti insistono. Si aguzzi la memoria. Deducendo, da ogni sia pur vago
indizio. Contestualizzando, in realtà storiche, familiari, amicali, memorialistiche
(di nonni, bisnonni, personaggi eponimi, tradizioni) il ritorno all’infanzia,
con qualche fondo di verità. Un’esplorazione da condurre secondo un disegno, con
la consapevolezza e la determinazione, non un ricordo, o un sogno. Un ritorno
sempre vigile. E sottoposto a un controllo rigoroso, il più possibile. Ma
partendo dalla, coda: per un fine (teraeutico, narrativo, suggestivo) non per
la verità – che probabilmente è piana e non fa storia.
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