Giuseppe Leuzzi
Non si può fare conversazione in Calabria, anche in
Sicilia, in molti ambienti, se non brillante. Sui toni dello scherzo o della
satira – “a zannella” in dialetto calabrese. Negli stessi luoghi e nelle stesse
conversazioni che non si sottrarranno alla pratica della luttuosità: ai
malanni, di parenti, amici, conoscenti e propri, e alle morti. Il segno è più
lo scherzo o più il lutto? O entrambi, la “zannella” per esorcizzare (alleviare) la
malattia e la morte.
“Lo
scherzo”, dice Jean Paul, “non conosce altro scopo che il suo proprio
esistere”. Ma forse no, è un falso
scopo.
Uno studio di
Olga Cerrato qualche anno fa, “La Berlino degli italiani”, della “colonia” italiana
a Berlino tra le due guerre, nota curisamente che tutti, o quasi, erano
meridionali: calabresi Corrado Alvaro e Boccioni, siciliani Borgese,
Pirandello, Rosso di San Secondo, il pittore futurista Ruggero Vasari, il
pubblicista, corrispondente della “Gazzetta del popolo”, e de “L’Italia
Letteraria”, Pietro Solari – che spesso li riuniva, al Romanisches Cafè.
Sembra strano,
essendo il Sud come l’Avvocato Agnelli lo diceva ironicamente (a proposito di De
Mita) “umanista”, ma a molto Sud, anzi ovunque, manca la storia – eccetto
isolate fioriture. Non quella nozionistica, di quella ce n’è anzi in eccesso, di
ogni campanile, anzi di ogni cortile – naturalmente nobile, tutti nobili al Sud
(il genere agiografico, tipo santini). Manca la Storia, l’intelligenza del
passato. Un millennio buono di storia. Quella greco-bizantina in Sicilia, cancellata
dai Normanni, quella greco-bizantina, e albanese-epirota, in Calabria, quella
greco-bizantina, normanna e aragonese in Puglia, quella longobarda in Calabria
e Puglia, e nella Campania finitima, da Salerno a Benevento. Quella araba un
po’ dovunque, anche in Sicilia malgrado le tante pubblicazioni. Quella politica
e religiosa – anche se la religione, è vero, si esclude ovunque, non solo al Sud,
anche dalla storia Moderna.
La mafia come mito
Il mito è
autoreferente: rimbalza sulle sue origini, sugli autori, e li assedia, li
convince, li esaspera. E si autoalimenta. Così si è creato purtroppo un mito
della mafia. Che non c’era trent’anni fa, c’era la mafia ma non il mito: ancora
negli anni 1980 Riina e soci facevano solo paura, e generavano disprezzo –
assassini, e più dei propri, sodali, perfino familiari. Un mito curiosamente
politico alle origini, di Leoluca Orlando e Luciano Violante, che lo avvolsero
dell’imbattibilità . Poi editoriale, sulla linea Enzo Biagi-Roberto Saviano, e quindi
dilagante, il mito oggi più scontato – una sorta di cavalleresco Ciclo della
Mafia, come già di re Artù, dei Carolingi, di Guerrin Meschino. In parallelo con
le numerose accademiche “Storie della mafia”, altro genere fiorente. Storie naturalmente
dei giornali che parlano di mafia, e di qualche processo - non molti, i processi sono faticosi, un paio. Di
cui la punta di diamante è stato venticinque anni fa, all’inizio del ciclo, “La
regia occulta”, la summa della storia dell’Italia repubblicana “Da Enrico Mattei
a Piazza Fontana” che mette al centro la mafia, a opera di Giorgio Galli, il
professore di Storia delle Dottrine Politiche a Milano – che la “strategia della
tensione”, con le bombe e poi il terrorismo, sia opera della mafia il
professore l’ha saputo dal senatore Pisanò.
La mafia è
sempre quella: in varie accezioni a seconda del mercato della criminalità, ma
sempre sopruso, invadenza, con minacce, danneggiamenti, e anche omicidi, sterilità
sociale e politica, e organizzzazione degli affari illeciti, droga, appalti
pubblici, pizzo. Di brutti, sporchi e cattivi. Di cui sono piene le carceri. Ma
evidentemente non abbastanza – troppi processi finiscono nel nulla. Ma come idealizzata,
o nobilitata: dei “guanti bianchi”, delle “cupole” o grandi organizzazioni planetarie
(con discussioni e votazioni…), della finanza sofisticata, della vita lussuosa
o spericolata. Che è l’esatto contrario delle realtà mafiose, ma non nell’immaginario.
La mafia non è una famiglia
Un padre
amorevole che si rivela essere un trafficante di droga. Freddo e impunito. Se
non per le inevitabili denunce e vendette fra trafficanti. Nell’ultimo dei tre
film di Jonas Carpignano ambientati a Gioia Tauro, “A Chiara”, la mafia entra
di striscio nella vita normale dei ragazzi, anche figli di mafiosi, fra chiacchiere,
pettegolezzi, gelosie, motorini, canzoni, cotte, dispetti, complicità. Perché
il film, “povero”, di pochi mezzi, con attori non professionali, di marginalità,
ma non traumatiche (esterni, atmosfere, personaggi, vicenda), attrae? Perché
non c’è l’ipostatizzazione della mafia, in un mondo, un’area, un paese, nella stessa
ristretta famiglia. In cui la vita normale, avventurosa nella normalità, di una
ragazza volitiva scorre immune al malaffare. Come solitamente avviene in altri
contesti. Senza l’imponente sociologia della mafia che vi si sovrappone, dell’unità
mafiosa nella famiglia (col figlio maschio…), l’omertà, i codici d’onore, i
giuramenti. Di pubblicisti cinici, giudici in carriera, terzo settore della “legalità”
- non senza qualche sociologo di professione.
La foto che
sempre si rivede di Giuseppe Di Matteo a cavallo, alla barriera al concorso
ippico, in cap e giacca neri, cravatta bianca, cavallerizza bianca, stivali
neri, commuove certo per il destino che si sa del ragazzo, sciolto nell’acido, dopo
lunghe torture, da Giovanni Brusca, il capo-boia di Riina che è ora pensionato dello
Stato. Ma sempre anche sorprende, che si possa condurre una vita normale, quella
di tutti i ragazzi, accanto al crimine, e senza macchia. Spensierata perfino. Perché
circoscrive la mafia – la violenza, i traffici. Fa vedere – anche ai
Carabinieri se mettessero gli occhiali – che la mafia non è uno Stato
anti-Stato, non è pervasiva, non è premiante o vincente. Non è: è una banda
criminale, come ce ne sono sempre state. Con suoi linguaggi e caratteristiche,
che però è sbagliato ipostatizzare, non ne cambiano la natura – si veda l’omertà
che fine ha fatto, che adesso dobbiamo difenderci dai pentiti, troppi,
ingestibili, onerosi. E soprattutto non regola niente, certo non le società che
affligge – spesso anche la famiglia in senso proprio.
Allo sviluppo basta poco
L’Autostrada del Mediterraneo
(Salerno-Reggio Calabria ) è l’unica grande infrastruttura moderna della
Calabria post-bellica, dei quasi ottant’anni della Repubblica. Con il porto di Gioia Tauro. Con l’università infine
della Calabria. E un aeroporto internazionale nel mezzo della regione. Tutt’e quattro
le strutture sono state volute da Giacomo Mancini, di Cosenza, leader socialista
post-Nenni, e più volte ministro.
La provincia di Cosenza, collegio elettorale
di Mancini, è anche una Calabria particolare, in molte cose sembra Toscana, ordinata,
pulita. Con una agricoltura sempre innovativa e in grado di stare sul mercato,
anche internazionale. Con la messa in attività di vastissime aree semiabbandonate,
deserte o paludose: il massiccio del Pollino, rinverdito e animato, d’estate e
d’inverno, e l’Alto Ionio cosentino, o Sibaritide, una vastissima area
bonificata, e avviata a produzioni pregiate, di risi e agrumi. Con aree turistiche
montane e marine regolamentate, nell’edilizia e l’urbanistica, e
commercialmente organizzate. La criminalità vi è fra le più basse in Italia. Allo
sviluppo basta poco.
Vittorio Sgarbi è stato deputato per pochi
mesi nella circoscrizione jonica della provincia di Reggio Calabria, la Locride.
Eletto nel 1994, portato da Franco Corbelli, il milanese che combatte la
malagius7tizia, e poi nel 1996 – ma già distaccato dalla Calabria: nel 1996 optò
per il Veneto, e ha cancellato le due elezioni dal suo pur dettagliato sito.
Pochi mesi dunque da deputato calabrese e forse di malavoglia. Con presenze che
s’immaginano al suo modo fulminee e svagate, da gita nel tempo libero. Ma tanto
gli è bastato per ridisegnare alcuni paesi, partendo dalla pavimentazione
stradale e dal colore delle case, Gerace, Serra San Bruno, Mileto, Ardore. Che
hanno trovato una nuova identità e la mantengono. E questi sono i
pochi segni congruenti di ammodernamento nella ex Calabria Greca o Ulteriore –
invece delle solite immagini di plinti di calcestruzzo in vista e pareti di mattoni
forati. A volte basta un volto in televisione, sia pure simpatico.
Milano
Napoli, dice De Simone presentando la
sua “Opera buffa del Giovedì Santo”, “fin dalla seconda metà del Cinquecento
era contrassegnata da un altissimo tasso di consumo musicale, determinato dalla
politica dei viceré spagnoli, che con manifestazioni musicali e teatrali
stabilivano un rapporto rappresentativo tra il Potere e le varie classi
sociali”: città da allora musicale, con ben quattro conservatori di Musica”. E
a Milano, i governatori?
“Milano, dopo
Mani Pulite”, ricorda Enrico Pazzali a pranzo con Bricco sul “Sole 24 Ore”,
“era livida. Roma viveva il buon governo dei sindaci Francesco Rutelli e Walter
Veltroni”. Pazzali è milanese, anche se atipico (ha risanato l’Eur romano), e
può dire la verità. Mani “pulite”?
Gli atleti
ginocchioni di Black Lives Matter non hanno fatto in tempo a rialzarsi che
Milano si apriva a settembre la Fashion Week – “Black Liver Matter in Italian
Fashion”. Come se il made in Italy fosse già nero, afro-americano. E può non
essere cinismo, nemmeno opportunismo. Indubbiamente è senso degli affari –
perché non sfruttare l’onda?
Cremona “si
conferma”, scrive “L’Espresso”, cioè è da anni, la seconda area più inquinata in
Europa, “con la più alta concentrazione di PM2,5”, le polveri ultrasottili, con potenziale incidenza su morti premature e
malattie perfino superiore al PM10” (le polveri sottili). Ma “la Regione
Lombardia assolve il locale polo industriale e l’indagine epidemiologica non è
mai partita”. Ma, per dire la evrità, la cosa si sa perché “L’Espresso” ne
scrive, nessuno l’ha mai denunciata.
Se non c’è
mafia, se non c’è Sud, non c’è inquinamento.
Carlo Levi,
“Le parole sono pietre”, sui suoi viaggi in Sicilia, ha la storia di Pippinu ‘u
Lombardu, una “sorta di Pisciotta del suo tempo” – il processo a don Pippinu è
del 1860 (Levi non dice se prima o dopo Garibaldi). Un maestro milanese sceso
ad esercitare iin Sicilia, terra di analfabeti, per guadagnare qualcosa di più.
Salvo scoprire presto che facendo il capo brigante guadagnava meglio. Diventando
popolare, costrinse la polizia ad arrestarlo. Don Peppino se la prese, e al
processo rivelò i legami con la polizia e le autorità.
Ha, aveva nel
2019, prima dei lockdown, un reddito medio pro capite di 49 mila euro - al
secondo posto, Bolzano veniva con un reddito medio di 40 mila euro, il 24 per
cento in meno. Ed è la prima città in Europa per attrazione di imprese e
capitali – davanti a Monaco di Baviera. Ma Stoccolma, Londra, Parigi denunciano un
reddito molto superiore. Anche Madrid, anche Amsterdam vengono prima di Milano.
Molto reddito è nascosto?
San Siro
pieno, nei limiti delle norme anti-covid, per fischiare l’inno della Spagna e
Donnarumma. Si paga, si va allo stadio, almeno quattro ore fra traffico, parcheggio
e seduta, per fischiare. Si sottovaluta la violenza di Milano.
Il Re del
Panettone è un romano, di Fiano, Fabio Albanesi.
Premiato da una giuria composta dai dieci ultimi vincitori del premio, tutti
non milanesi, non lombardi, uno di Torre Annunziata, uno di Lecce, eccetera. Di
un prodotto milanese beneficiano in molti:
è il principio della ricchezza, la diffusione della tecnica.
Il portiere Handanovic prende
l’avversario per le gambe, per le spalle, solo al collo non gli mette le mani,
per l’arbitro Pairetto fa bene, il Sassuolo non ha “chiara occasione da gol”, e
l’Inter può così vincere. Non è un errore. L’arbitro è secondato dal Var,
Nasca. E assolto dai commenti milanesi
(“Corriere della sera”, “Gazzetta dello Sport”): un errore e basta. Tacciono perfino
i social. Tre punti che potrebbero fare la differenza quest’anno alla fine in
classifica. Milano non discute quando deve discutersi.
leuzzi@antiit.eu
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