Al centro, in periferia
Una
vita periferica, “alla periferia di tutto”, in un paese straniero, in una
lingua acquisita? Niente di tutto questo – e poi, straniero a che cosa, a chi?
La narratrice del suo vissuto quotidiano, trama e tema del racconto, è una scrittrice
e una insegnante come l’autrice, gode a Trastevere, beata lei, della vecchia
romanità, sorniona e lieta, amichevole, e può vivere il quartiere come un’avventura,
piazza san Cosimato, il viale, il barista, l’oste, su su fino a villa Sciarra,
con l’uccelliera, le grottesche, gli alberi specialissimi. Fa incontri graditi
mentre passeggia. Di qualcuno anche si innamora, per un tempo. Quindi,
periferica a quale centro?
Vive
sola, è vero, degli amichi e le amiche, che pure ha, come tutti, anche
socievoli e servizievoli, racconta con distacco. La sua è una solitudine di
scelta, “stare all’ombra” piace alla narratrice, per ascoltarsi, vedersi, rivedersi.
Soprattutto negli anni della crescita: non nella situazione attuale, ma nel rapporto
con il padre e con la madre, e con se stesa adolescente. Con un senso però generale di liberazione, anche se molti ricordi sono
costrittivi. Da qui anche la scelta dell’italiano, un’altra lingua da quella anagrafica
o di cittadinanza, come veicolo “liberatorio”, una lingua propria solo a se
stessa.
Dopo gli scritti d’occasione, pubblicati per lo
più su “L’Internazionale”, Jhumpa Lahiri, la scrittrice americana di successo
che ha scelto l’Italia e l’italiano per
una “rigenerazione”, debutta in italiano col romanzo (siamo nel 2017).
Con un personaggio “alla finestra”, si potrebbe dire con un autore che Lahiri
ama, Corrado Alvaro. Con un che di personale – i luoghi, le ore, gli interlocutori
occasionali che fanno la giornata della protagonista-narratrice. Ma sempre
laterale, anche con gli uomini con cui ha avuto una storia. Del potere
liberatorio dell’isolamento? Anche di essere stranieri in patria – questo si
nota di più nella traduzione dall’italiano in inglese, che la scrittrice vorrà
professionale, non fatta da sé: c’è una
libertà nell’emigrazione.
Si
procede per lampi, schizzi, abbozzi, disegni, anche sovraccaricati ma brevi,
che alla fine compongono un tela di solitudine, di estraneità. Di una presenza
che è anche assenza. Dell’incertezza – nel rapporto ingombrante con la madre
come con gli amici e gli amanti, nessuno dei quali lascia traccia. Di
estraneità non al mondo quotidiano, nel quale appunto la narratrice è integrata
con sua felicità, ma a quello che si è, che si sarebbe voluto essere e non si è,
al cosa fare (futuro) – domanda che però non si pone.
“Da
nessuna parte” sarà la riposta. Alla domanda: “Esiste un posto dove non siamo
di passaggio?”. Non infrequente probabilmente in America, un continente più che un paese - Lucia Berlin, una scrittrice
anni 1960 che ora si ripubblica, ha una situazione analoga in più racconti, e
in uno, “So Long”, fa così parlare una americana che ha messo su famiglia a Città del Messico: “Naturalmente
ho una me qui, e una nuova famiglia, nuovi gatti, nuovi scherzi. Ma provo sempre
a ricordare chi ero in inglese”. Che può essere una scelta, un programma di vita, per una scrittrice nata in
India, educata in Inghilterra, autrice in America, che infine ha scelto
l’italiano. Ma il cui girovagare non è disadattamento ma dominio, di forme varie
di vita: una vita che non si vuole uniforme, questo il segreto – non un
messaggio, la narrazione è lieve, volante (episodica), svagata: “Sono io e non
lo sono, vado via e resto sempre qui. Questa frase scompiglia brevemente la mia
malinconia come un sussulto che fa oscillare i rami, che fa tremare le foglie
di un albero”.
Il
bilinguismo, che Jhumpa Lahiri ha cercato e costruito, per scelta quindi, è una
sorta di creazione di una diversa identità, italiana, romana, trasteverina.
Un’esplorazione, che premia la curiosità, l’innovazione, ma vuole coraggio, e
pazienza. Notevole, in filigrana, il gusto di scrivere l’italiano, lingua
acquisita per programma. Si assaporano le parole - “portagioie, se ci penso la
parola più bella che ci sia”. Le pratiche vanno col linguaggio: il tu
confidenziale degli sconosciuti di pratica quotidiana: il fruttivendolo, il
droghiere, il barista; il tepore del
quartiere (non ci fa freddo, e nemmeno caldo), come una casa, un rifugio. Notevole, in questa lingua
“imparata”, il non detto, implicito, alluso, che di una lingua si direbbero il
segreto.
Il nodo “classico” che emerge è della madre, lontana,
ostile, rivista da un paese a lei estraneo, in una lingua non compartecipata.
L’inevitabile (?) rapporto ostile della figlia con la madre, anche in età matura: una insofferente
alla solitudine, una (anche per questo?) che si vuole sola e solitaria. Alla
psicoanalista che per un breve periodo ha frequentato raccontava di lei, della
madre, “come e quanto mi sciabolava” - “la madre ingombrante che oggi non pesa
quasi nulla, la madre invadente”.
Jhumpa
Lahiri, Dove mi trovo, Guanda, pp.
163 € 15
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