mercoledì 10 novembre 2021

Al centro, in periferia

Una vita periferica, “alla periferia di tutto”, in un paese straniero, in una lingua acquisita? Niente di tutto questo – e poi, straniero a che cosa, a chi? La narratrice del suo vissuto quotidiano, trama e tema del racconto, è una scrittrice e una insegnante come l’autrice, gode a Trastevere, beata lei, della vecchia romanità, sorniona e lieta, amichevole, e può vivere il quartiere come un’avventura, piazza san Cosimato, il viale, il barista, l’oste, su su fino a villa Sciarra, con l’uccelliera, le grottesche, gli alberi specialissimi. Fa incontri graditi mentre passeggia. Di qualcuno anche si innamora, per un tempo. Quindi, periferica a quale centro?
Vive sola, è vero, degli amichi e le amiche, che pure ha, come tutti, anche socievoli e servizievoli, racconta con distacco. La sua è una solitudine di scelta, “stare all’ombra” piace alla narratrice, per ascoltarsi, vedersi, rivedersi. Soprattutto negli anni della crescita: non nella situazione attuale, ma nel rapporto con il padre e con la madre, e con se stesa adolescente. Con un senso però generale di liberazione, anche se molti ricordi sono costrittivi. Da qui anche la scelta dell’italiano, un’altra lingua da quella anagrafica o di cittadinanza, come veicolo “liberatorio”, una lingua propria solo a se stessa.
Dopo gli scritti d’occasione, pubblicati per lo più su “L’Internazionale”, Jhumpa Lahiri, la scrittrice americana di successo che ha scelto l’Italia e l’italiano per  una “rigenerazione”, debutta in italiano col romanzo (siamo nel 2017). Con un personaggio “alla finestra”, si potrebbe dire con un autore che Lahiri ama, Corrado Alvaro. Con un che di personale – i luoghi, le ore, gli interlocutori occasionali che fanno la giornata della protagonista-narratrice. Ma sempre laterale, anche con gli uomini con cui ha avuto una storia. Del potere liberatorio dell’isolamento? Anche di essere stranieri in patria – questo si nota di più nella traduzione dall’italiano in inglese, che la scrittrice vorrà professionale,  non fatta da sé: c’è una libertà nell’emigrazione.
Si procede per lampi, schizzi, abbozzi, disegni, anche sovraccaricati ma brevi, che alla fine compongono un tela di solitudine, di estraneità. Di una presenza che è anche assenza. Dell’incertezza – nel rapporto ingombrante con la madre come con gli amici e gli amanti, nessuno dei quali lascia traccia. Di estraneità non al mondo quotidiano, nel quale appunto la narratrice è integrata con sua felicità, ma a quello che si è, che si sarebbe voluto essere e non si è, al cosa fare (futuro) – domanda che però non si pone.
“Da nessuna parte” sarà la riposta. Alla domanda: “Esiste un posto dove non siamo di passaggio?”. Non infrequente probabilmente in America, un continente più che un paese - Lucia Berlin, una scrittrice anni 1960 che ora si ripubblica, ha una situazione analoga in più racconti, e in uno, “So Long”, fa così parlare una americana che ha messo su famiglia a Città del Messico: “Naturalmente ho una me qui, e una nuova famiglia, nuovi gatti, nuovi scherzi. Ma provo sempre a ricordare chi ero in inglese”. Che può essere una scelta, un programma di vita, per una scrittrice nata in India, educata in Inghilterra, autrice in America, che infine ha scelto l’italiano. Ma il cui girovagare non è disadattamento ma dominio, di forme varie di vita: una vita che non si vuole uniforme, questo il segreto – non un messaggio, la narrazione è lieve, volante (episodica), svagata: “Sono io e non lo sono, vado via e resto sempre qui. Questa frase scompiglia brevemente la mia malinconia come un sussulto che fa oscillare i rami, che fa tremare le foglie di un albero”.
Il bilinguismo, che Jhumpa Lahiri ha cercato e costruito, per scelta quindi, è una sorta di creazione di una diversa identità, italiana, romana, trasteverina. Un’esplorazione, che premia la curiosità, l’innovazione, ma vuole coraggio, e pazienza. Notevole, in filigrana, il gusto di scrivere l’italiano, lingua acquisita per programma. Si assaporano le parole - “portagioie, se ci penso la parola più bella che ci sia”. Le pratiche vanno col linguaggio: il tu confidenziale degli sconosciuti di pratica quotidiana: il fruttivendolo, il droghiere, il barista; il  tepore del quartiere (non ci fa freddo, e nemmeno caldo), come una  casa, un rifugio. Notevole, in questa lingua “imparata”, il non detto, implicito, alluso, che di una lingua si direbbero il segreto.
Il nodo “classico” che emerge è della madre, lontana, ostile, rivista da un paese a lei estraneo, in una lingua non compartecipata. L’inevitabile (?) rapporto ostile della figlia con  la madre, anche in età matura: una insofferente alla solitudine, una (anche per questo?) che si vuole sola e solitaria. Alla psicoanalista che per un breve periodo ha frequentato raccontava di lei, della madre, “come e quanto mi sciabolava” - “la madre ingombrante che oggi non pesa quasi nulla, la madre invadente”.
Jhumpa Lahiri, Dove mi trovo, Guanda, pp. 163 € 15

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