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Il romanzo del Novecento, nichilista
Un
noir torbido, cattivissimo, senza limiti al peggio. Un mondo di deiezione,
nella Brighton brillante anni 1930. Tra i rifiuti umani, ancorché ragazzi
imberbi, che parlano coi coltelli, coi rasoi, per sfregiare quando non
uccidono. Un noir truce, una rappresentazione
del Male in tutte le sue forme, dall’alcolismo alle corse truccate, tra bande
mafiose, a tutte le età. Con tracce poi “scorrette” di cattivi “ebrei” ed
“ebree”, ma di forte impatto: uno “scorretto” Greene vi rappresenta nel 1938,
benché già in clima di guerra epocale, una storia di bande criminali, piccole e
truci, in una frigida Brighton di week-end lunghi e lollypops.
Uno
sforzo immenso, e forse unico, di calarsi nella malavita qual è, non romanzata.
Nella violenza senza limiti, contro nemici e sodali – la violenza non ha
limiti, non di onore né di lealtà, di
amicizia, di gruppo, di correità – una vicenda da “corleonesi”. A contrasto col
“modello borghese”, del tempo libero e della vacanza – “rocce di Brighton”, spiega
in nota la traduzione, sono “bastoncini di zucchero candito, duro come roccia, che
recano impresso il nome della cittadina”. Con un fondo filosofico forse del
tempo, se Sartre e Camus lo svilupperanno in narrazioni analoghe, qualche anno
più tardi.
Il
male più radicale è nella storia che fa da filo conduttore, benché esile: l’amore
di una ragazza sedicenne per un ragazzo diciassettenne, un capobanda senza codici
morali, benché cresciuto in parrocchia, glabro di pelo e di sentimenti, anche
nell’assassinio, ripetuto, di compagni e sodali, “la dura bocca di puritano”
incapace di baci. Applicato “alla più bella di tutte le sensazioni, quella di
infliggere il dolore”. Per “un confuso desiderio di annientamento, l’immensa
superiorità della non-esistenza”.
Il
racconto forse più “impegnato” del Greene neo catecumeno, convertito alla
chiesa, quasi un trattato di teologia morale. Ma il “significato” teologico del
racconto non guasta la lettura. Un esercizio di nichilismo, cifra del coevo
“esistenzialismo”, che i successivi tentativi di Camus e di Sartre non eguaglieranno
in intensità, anche se su propositi forse più raffinati. Sulle parole della
Messa: “Egli era nel mondo e il mondo fu fatto da Lui e il mondo non Lo
riconobbe”. Forse per quello che il confessore dice in conclusione: “Un
cattolico è più di qualsiasi altro capace di male. Forse per la ragione che crediamo
al diavolo siamo a contatto con lui”. Sul finale, la ragazza cammina “rapida
nel tenue sole di giugno verso l’orrore peggiore di tutti” – che è ambiguo, ma
sottintende la nascita di un figlio - niente di peggio?
Una
pietra miliare della narrativa Novecento, che il fumo di antisemitismo non
offusca. A lungo non si è (ri)tradotto, e non si è ripubblicato dopo il
successo all’uscita – se non nella Bompiani del F.lli Fabbri Editori, negli ani
1970-1980, con la vecchissima impacciata traduzione di Maria Luisa Giartosio De
Courten. L’introduzione di Coetzee alla riproposizione, in parallelo col remake
del primo film che ne fu tratto, nel 1947 (col giovanissimo Richard
Attenborough, poi baronetto), in parallelo con le canzoni di Morrissey, dei
Queen, e del gruppo canadese hair metal
Brighton Rock, devia l’attenzione: è un dramma della religione integrale, tutta
forma, che non aiuta a vivere. La nuova traduzione di Michele Piumini allevia le
punte velenose.
Graham
Greene, La roccia di Brighton,
Oscar, pp. 318 € 12
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