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Moro non era rassegnato – e non è quello del “santino”
Quel
che impressiona di più, a rileggere le lettere di Moro dal carcere, a parte il
fatto che il suo ragionamento politico era giusto, è la scelta dei destinatari.
Scrive ai familiari, ai collaboratori e alle istituzioni, compresi Andreotti in
quanto presidente del consiglio, e Cossiga ministro dell’Interno – al presidente
Leone, ai presidenti delle Camere, a Craxi, al segretario dell’Onu Waldheim. Ma, nel mezzo, a una scelta eteroclita di interlocutori, qualcuno nemmeno vicino a lui:
gli onorevoli Misasi, Rosati, Dell’Andro, Pennacchini, i diplomatici Cottafavi
e Malfatti di Montetretto - Cottafavi forse sì, ma Malfatti veniva dai “Mau-Mau” di Fanfani.
C’erano messaggi trasversali nei destinatari? Pennacchini presiedeva il
comitato parlamentare servizi segreti. Misasi potrebbe stare per Sismi, perché
no – Moro scrive di aspettarsi molto dalla “intelligenza ed eloquenza” di
Misasi, che era un taciturno. C’è più di una volta l’allusione alla volontà delle
potenze, cioè degli Stati Uniti, dietro la decisione di non trattare.
Soprattutto
c’è il ragionamento, giuridico e morale, della salvezza di un ostaggio. Inoppugnabile, già nella prima lettera
a Cossiga ministro dell’Interno. Primo, sono processato in quanto presidente Dc
e non in quanto Moro, per le “responsabilità
della Dc”. Secondo, usa in Francia e in Germania non trattare con i terroristi, ma in Germania nel 1975, quando
il leader dei democristiani di Berlino Lorenz faceva campagna per l’elezione a
sindaco e fu rapito dai terroristi (da un Movimento 2 Giugno), il governo
federale di Bonn due giorni appena dopo il rapimento trattò la liberazione,
rilasciò cinque anarchici e pagò un riscatto, e Lorenz già cinque giorni dopo
il rapimento era libero. Non c’era stato a Berlino un eccidio, come a via Fani
(di cui Moro non sapeva), ma non trattare non era comunque una risposta, era solo una condanna
a morte. Qualcosa da eccepire? Un ostaggio va comunque salvato.
Ripubblicate
da Gotor per i trent’anni, nel 2008, con un ricco apparato, il doppio delle
lettere, molte informazioni se ne ricavano, ma non sul senso del rapimento, e
del messaggio (le tante lettere – di cui molte fra le prime sono di testamento….). Non parla mai degli uomini della scorta, eppure li aveva visti morti, nel sangue. I carcerieri ne hanno selezionato le lettere? O è - in Moro era forte - l’albagia del cattedratico, ancora in faccia alla morte? Non parla mai dell’ Italia, che pure usciva da un momento molto difficile, il primo shock petrolifero e finanziario, e si apprestava a entrare in una seconda crisi altrettanto pericolosa.
Il “santino” Moro è già più che abbastanza celebrato, la storia vorrebbe di
più. Per esempio di svincolare Moro dal
“santino”, di martire del futuro partito Democratico, ex Pci e ex Dc messi
insieme. Essendo notorio, testimoniato, documentato, che Moro accedette al
compromesso storico per necessità e non per scelta, temporeggiando, nella
forma deteriore dei governicchi Andreotti. In anni di gravissima crisi
finanziaria per l’Italia, dopo il primo shock petrolifero, nell’autunno del 1973 - la Banca d’Italia aveva le riserve
monetarie ridotte a 500 milioni di dollari, niente.
Ma
non c’è solo l’accoppiata incongrua Moro-Berlinguer. Nelle lettere c’è una
presa di distanza, anzi una condanna,
della Democrazia Cristiana, ripetuta, argomentata, che dice e non dice, e
lascia morire Moro, senza colpa. A partire dal fidatissimo “Zac”, Benigno Zaccagnini,
ora vituperato con parole nette, per l’inerzia, l’incapacità, perfino l’immoralità
– salvare una vita, quando se ne ha l’opportunità, è un obbligo.
Aldo
Moro, Lettere dalla prigionia,
Einaudi, pp. 400 € 13,50
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