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Critical Race Theory –
La teoria critica della razza che divide l’America, impostasi nell’insegnamento
e ora contestata (politici ed elettori, non solo bianchi, affermano che è
un’indottrinazione anti-bianchi, i sostenitori affermano che questa è una caricatura
delle Teoria Critica) si fa risalire a un saggio del professore Derrick
Bell,1980, afroamericano, insegnante alla facoltà di Legge a Harvard, sulla
decisione della Suprema Corte nel 1954 che metteva fine ala segregazione
scolastica, “Brown vs. Board of Education”. Abolire la segregazione non aveva
creato pari opportunità, spiegava Bell: mettere la discriminazione fuorilegge
non è la stessa cosa che assicurare una vera uguaglianza. A prescindere dal
fatto, argomentava polemico, che “i progressi razziali” si producono negli
Stati Uniti quando i bianchi ne hanno bisogno – negli anni 1950 per
confrontarsi con forti forze armate contro l’Urss.
L’analisi di Brown prese il nome di CRT,
e lo statuto di insegnamento formale, nel 1989. Ma si è affermata lentamente,
nelle ultime decadi del Novecento e nella prima del Duemila. La teoria si è
fatto strada con alti e bassi. Clinton, per esempio, nel 1993 nominò alla
divisione Diritti Civili del ministero della Giustizia la professoressa Lani
Guinier, della facoltà di Legge dell’università di Pennsylvania, salvo
rimangiarsi la nomina prima che andasse a effetto: Guinier fu criticata anche
nel partito Democratico, per aver sostenuto l’esigenza di ridefinire i
regolamenti elettorali in maniera da garantire l’accesso al voto anche alle
minoranze.
L’esempio di disparità che si suole
portare riguarda i redditi medi, le classi medie: la famiglia media americana
bianca dispone di un reddito che è sette volte quello della famiglia media
americana nera. Ciò soprattutto per l’effetto a rovescio della “rendita
urbana”, il fattore a più vasto impatto dell’accumulazione: la politica
governativa di segnalare i quartieri neri come aree a credito di rischio, con
l’effetto, durato oltre quattro decadi, di rincarare o negare il mutuo ai residenti.
Le teoria critica della razza è tornata sotto osservazione paradossalmente
dopo l’assassinio da parte della polizia del giovane afroamericano George Floyd
a maggio di un anno fa. Una campagna nei media si è elevata contro l’insegnamento
della storia americana alla luce della Crt. Portando il presidente Trump due mesi
dopo a un ordine esecutivo per porre fine alle pratiche di sensibilizzazione al
razzismo dei dipendenti federali che facessero riferimento alla Crt, o al
“privilegio bianco”, comunque a “una
propaganda divisiva, anti-americana”.
Il presidente Biden ha revocato l’ordine
di Trump. Ma le ultime elezioni locali, in Virginia, New Jersey e altrove, si
sono giocate con successo sul rifiuto della Crt. Almeno 28 Stati hanno introdotto o lavorano a
introdurre norme che impediscano lezioni di discriminazione razziale o sessuale
a scuola. In difesa della Crt nuove norme sono state introdotte o si studiano
in tredici Stati.
Esilio – È in connessione
con il concetto di patria, che è labile. Ed è di per sé poco definibile se è
una scelta. Sono esiliati gli scrittori anglo-indiana o indo-americani? O i
tanti franco-rumeni – non escluso qualche italo-rumeno. Parimenti è difficile definire la patria di uno
scrittore afghano o iracheno che si vuole esiliato, o libico, o saudita – ora
usa anche l’emiratino. Cioè di paesi che esistono per convenzione, anche recente,
più spesso coloniale, con scarsi connotati patriottici. La delimitazione tra
Siria e Iraq, tra Siria e Libano, tra Iraq e altri confinanti, Kuwait, Arabia
Saudita è stata coloniale e geometrica, per sfere d’influenza, senza radici
storiche o tradizionali. Essendo peraltro questa aree all’origine e tuttora
tribali, dove cioè la tribù viene prima dello Stato. Lo stesso la divisone
indo-pachistana, per quanto qui le radici culturali siano spesse: la divisione
è stata artificiosa.
L’esilio volontario è parte del più vasto concetto dell’emigrazione.
Che si dice (si vuole) dettata dal bisogno o costrizione (persecuzione), ma è
una scelta di avventura, si sfida – anche sotto la costrizione: ci sono più vie
di sottrazione, e una di queste è l’emigrazione – l’esilio. Che resta una
decisione.
Meritocrazia – È selettiva
e antidemocratica – è autoreferente? Lo è per definizione, e finora con merito –
le democrazie prosperano col merito (intelligenza, applicazione). Ora non più,
per uno stato d’animo condiviso e per una serie crescente di critiche: è un
processo elitario asfittico. Ha promosso una selettività eccessiva, anarcoide, e
ha creato disparità insormontabili tra ceti – per censo, istruzione e, seppure
in forme contorte, razza – o le ha fossilizzate.
Si moltiplicano nelle università americane le contestazioni al
merito. Dapprima Daniel Markovits, giurista della Yale Law School, col voluminoso
“The Meritocracy Trap”, sottotitolo “How America’s Foundational Myth feeds
Inequality, dismantles the Middle Class, and devours the Elite”. Ora il filosofo
di Harvard Michael Sandel, “comunitarista”. “The tyranny of Merit?”, sottotitolo
“What’s become of the Common God”. L’ipotesi è che la meritocrazia sia una delle
forme della crisi politica americana, all’origine di un processo elitario o di
ascesa sociale chiuso invece che aperto, e plutocratico, il merito venendo a costituire
titolo quasi feudale nelle attività pubbliche come in quelle private, di mercato.
Meritocrazia, che si fa risalire alla democrazia di Atene, a torto, è
termine e concetto del 1958, di un romanzo satirico, “The Rise of Meritocracy”
(“L’avvento della meritocrazia”), benché opera di un sociologo, il britannico
Michael Young, laburista di primo piano, fondatore della Open University, e
dell’Istituto di Studi Comunitari. Il premio all’intelligenza e all’impegno
come base per il successo si stratifica in piani infine inaccessibili, soprattutto
perché non tollerano critica – si autocelebrano. Lo stesso Young
successivamente, nel 2001, spiegherà, non più in forma narrativa né satirica, che
“è giusto affidare incarichi agli individui sula base dei loro meriti, ma è l’opposto
quando coloro che si ritengono avere meriti si rinchiudono in una nuova classe
sociale senza spazio per altri”, per nuovi entranti.
Post-umanismo – In tema Alessia
Rastelli su “La Lettura” interroga Timothy Morton, docente a Houston, autore di
un “Dark ecology”, che sarà alla fiera dei libri di Milano, Bookcity, e così si
spiega: “Dark, oscuro, è da
intendersi in un modo che cambia via via che si acquisisce coscienza ecologica.
La prima reazione è di tristezza, depressione per un mondo che sta morendo, poi
si avverte stranezza, ambiguità, rispetto al nostro mondo reale posto sul
pianeta e al rapporto con le altre specie e oggetti; infine dolcezza, alla
maniera potremmo dire del cioccolato fondente; perché attraversando l’oscurità
si può arrivare in un posto migliore”. Anche attraverso il cioccolato al latte,
perché no. E il nocciolato? Dark cioè
confuso? Non è l’uomo che sta fabbricando il post-umanismo?
Si spende molto il post-umanismo per cause non chiare. Per esempio, per
far ricomprare a tutti un’automobile elettrica – invece di ridurre, o abolire, la
circolazione. O come se si potessero regolare (modificare, irreggimentare) le
realtà astrali, la “natura”. Forse sì - ma fino a un certo punto, come sempre.
Il post-umanismo come nuova frontiera di conquista? Che di più umano
dell’intelligenza artificiale.
Religione – È della carne
e non dello spirito. Nasce dal corpo. Nel cristianesimo, con la Crocefissione
e poi
il culto delle reliquie, ossa, dita, la scheggia della Croce. In altre
religioni comunque con la “storia”, di persone e eventi. La fede è corporea.
Anche del qui e ora. È sensibile, sensitiva – per questo le dimostrazioni non
la intaccano. La fede è corporea, sentimentale – dei sensi.
zeulig@antiit.eu
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