martedì 16 novembre 2021

Secondi pensieri - 462

zeulig


Critical  Race Theory
– La teoria critica della razza che divide l’America, impostasi nell’insegnamento e ora contestata (politici ed elettori, non solo bianchi, affermano che è un’indottrinazione anti-bianchi, i sostenitori affermano che questa è una caricatura delle Teoria Critica) si fa risalire a un saggio del professore Derrick Bell,1980, afroamericano, insegnante alla facoltà di Legge a Harvard, sulla decisione della Suprema Corte nel 1954 che metteva fine ala segregazione scolastica, “Brown vs. Board of Education”. Abolire la segregazione non aveva creato pari opportunità, spiegava Bell: mettere la discriminazione fuorilegge non è la stessa cosa che assicurare una vera uguaglianza. A prescindere dal fatto, argomentava polemico, che “i progressi razziali” si producono negli Stati Uniti quando i bianchi ne hanno bisogno – negli anni 1950 per confrontarsi con forti forze armate contro l’Urss.
L’analisi di Brown prese il nome di CRT, e lo statuto di insegnamento formale, nel 1989. Ma si è affermata lentamente, nelle ultime decadi del Novecento e nella prima del Duemila. La teoria si è fatto strada con alti e bassi. Clinton, per esempio, nel 1993 nominò alla divisione Diritti Civili del ministero della Giustizia la professoressa Lani Guinier, della facoltà di Legge dell’università di Pennsylvania, salvo rimangiarsi la nomina prima che andasse a effetto: Guinier fu criticata anche nel partito Democratico, per aver sostenuto l’esigenza di ridefinire i regolamenti elettorali in maniera da garantire l’accesso al voto anche alle minoranze.
L’esempio di disparità che si suole portare riguarda i redditi medi, le classi medie: la famiglia media americana bianca dispone di un reddito che è sette volte quello della famiglia media americana nera. Ciò soprattutto per l’effetto a rovescio della “rendita urbana”, il fattore a più vasto impatto dell’accumulazione: la politica governativa di segnalare i quartieri neri come aree a credito di rischio, con l’effetto, durato oltre quattro decadi, di rincarare o negare il mutuo ai residenti.  
Le teoria critica della razza
 è tornata sotto osservazione paradossalmente dopo l’assassinio da parte della polizia del giovane afroamericano George Floyd a maggio di un anno fa. Una campagna nei media si è elevata contro l’insegnamento della storia americana alla luce della Crt. Portando il presidente Trump due mesi dopo a un ordine esecutivo per porre fine alle pratiche di sensibilizzazione al razzismo dei dipendenti federali che facessero riferimento alla Crt, o al “privilegio bianco”,  comunque a “una propaganda divisiva, anti-americana”.
Il presidente Biden ha revocato l’ordine di Trump. Ma le ultime elezioni locali, in Virginia, New Jersey e altrove, si sono giocate con successo sul rifiuto della Crt. Almeno 28 Stati hanno introdotto o lavorano a introdurre norme che impediscano lezioni di discriminazione razziale o sessuale a scuola. In difesa della Crt nuove norme sono state introdotte o si studiano in tredici Stati.
 
Esilio
– È in connessione con il concetto di patria, che è labile. Ed è di per sé poco definibile se è una scelta. Sono esiliati gli scrittori anglo-indiana o indo-americani? O i tanti franco-rumeni – non escluso qualche italo-rumeno.  Parimenti è difficile definire la patria di uno scrittore afghano o iracheno che si vuole esiliato, o libico, o saudita – ora usa anche l’emiratino. Cioè di paesi che esistono per convenzione, anche recente, più spesso coloniale, con scarsi connotati patriottici. La delimitazione tra Siria e Iraq, tra Siria e Libano, tra Iraq e altri confinanti, Kuwait, Arabia Saudita è stata coloniale e geometrica, per sfere d’influenza, senza radici storiche o tradizionali. Essendo peraltro questa aree all’origine e tuttora tribali, dove cioè la tribù viene prima dello Stato. Lo stesso la divisone indo-pachistana, per quanto qui le radici culturali siano spesse: la divisione è stata artificiosa.
L’esilio volontario è parte del più vasto concetto dell’emigrazione. Che si dice (si vuole) dettata dal bisogno o costrizione (persecuzione), ma è una scelta di avventura, si sfida – anche sotto la costrizione: ci sono più vie di sottrazione, e una di queste è l’emigrazione – l’esilio. Che resta una decisione.
 
Meritocrazia
– È selettiva e antidemocratica – è autoreferente? Lo è per definizione, e finora con merito – le democrazie prosperano col merito (intelligenza, applicazione). Ora non più, per uno stato d’animo condiviso e per una serie crescente di critiche: è un processo elitario asfittico. Ha promosso una selettività eccessiva, anarcoide, e ha creato disparità insormontabili tra ceti – per censo, istruzione e, seppure in forme contorte, razza – o le ha fossilizzate.
Si moltiplicano nelle università americane le contestazioni al merito. Dapprima Daniel Markovits, giurista della Yale Law School, col voluminoso “The Meritocracy Trap”, sottotitolo “How America’s Foundational Myth feeds Inequality, dismantles the Middle Class, and devours the Elite”. Ora il filosofo di Harvard Michael Sandel, “comunitarista”. “The tyranny of Merit?”, sottotitolo “What’s become of the Common God”. L’ipotesi è che la meritocrazia sia una delle forme della crisi politica americana, all’origine di un processo elitario o di ascesa sociale chiuso invece che aperto, e plutocratico, il merito venendo a costituire titolo quasi feudale nelle attività pubbliche come in quelle private, di mercato.
Meritocrazia, che si fa risalire alla democrazia di Atene, a torto, è termine e concetto del 1958, di un romanzo satirico, “The Rise of Meritocracy” (“L’avvento della meritocrazia”), benché opera di un sociologo, il britannico Michael Young, laburista di primo piano, fondatore della Open University, e dell’Istituto di Studi Comunitari. Il premio all’intelligenza e all’impegno come base per il successo si stratifica in piani infine inaccessibili, soprattutto perché non tollerano critica – si autocelebrano. Lo stesso Young successivamente, nel 2001, spiegherà, non più in forma narrativa né satirica, che “è giusto affidare incarichi agli individui sula base dei loro meriti, ma è l’opposto quando coloro che si ritengono avere meriti si rinchiudono in una nuova classe sociale senza spazio per altri”, per nuovi entranti.
 
Post-umanismo
– In tema Alessia Rastelli su “La Lettura” interroga Timothy Morton, docente a Houston, autore di un “Dark ecology”, che sarà alla fiera dei libri di Milano, Bookcity, e così si spiega: “Dark, oscuro, è da intendersi in un modo che cambia via via che si acquisisce coscienza ecologica. La prima reazione è di tristezza, depressione per un mondo che sta morendo, poi si avverte stranezza, ambiguità, rispetto al nostro mondo reale posto sul pianeta e al rapporto con le altre specie e oggetti; infine dolcezza, alla maniera potremmo dire del cioccolato fondente; perché attraversando l’oscurità si può arrivare in un posto migliore”. Anche attraverso il cioccolato al latte, perché no. E il nocciolato? Dark cioè confuso? Non è l’uomo che sta fabbricando il post-umanismo?
Si spende molto il post-umanismo per cause non chiare. Per esempio, per far ricomprare a tutti un’automobile elettrica – invece di ridurre, o abolire, la circolazione. O come se si potessero regolare (modificare, irreggimentare) le realtà astrali, la “natura”. Forse sì - ma fino a un certo punto, come sempre.
Il post-umanismo come nuova frontiera di conquista? Che di più umano dell’intelligenza artificiale.
 
Religione
– È della carne e non dello spirito. Nasce dal corpo. Nel cristianesimo, con la Crocefissione e  poi  il culto delle reliquie, ossa, dita, la scheggia della Croce. In altre religioni comunque con la “storia”, di persone e eventi. La fede è corporea. Anche del qui e ora. È sensibile, sensitiva – per questo le dimostrazioni non la intaccano. La fede è corporea, sentimentale – dei sensi.


zeulig@antiit.eu

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