Giuseppe Leuzzi
“I basilischi”,
film d’esordio di Lina Wertmüller, dopo l’assistenza alla regia di Fellini per
“La dolce vita” e per “81/2”, racconta di tre giovani della piccola borghesia
di provincia tra Basilicata e öPuglia che non si adattano all’Italia del boom,
del “lavorerio”, e alla vita in città. È un film del 1963, di “vitelloni” non
per ridere ma già attardati, perché già i giovani del Sud erano tutti a Roma e
nelle altre città, per lavoro o per studio – non si contano i professionisti di
origine meridionale tra Milano e Roma.
Porci
gli altri
“Marie Grubbe”, il romanzo nazionale danese di Jens Peter Jacobsen,
mette in scena agli inizi, ambientati in una delle guerre tra il regno di Danimarca-Norvegia
e il regno di Svezia, l’odio contro gli svedesi. In questi termini: “Rubano e
rapinano, sanno essere peggio dei corvi e dei furfanti; e poi sono assassini!
Non per nulla si dice: lesto di coltello come uno svedese”, “E sono di facili costumi!
Non c’è una volta che il boia caccia una donna a frustate dalla città e uno
chiede di che si tratta e si sente rispondere che è una troia svedese”. “Tra i
popoli lo svedese è come il cercopiteco tra le bestie senza ragione, ha una
tale libidine che la naturale ragione, donata da Dio agli uomini, nulla può
contro i suoi cattivi istinti e i suoi peccaminosi desideri”. “Lo svedese ha
un odore così acre, come le capre o l’acqua di pesce. È il puzzo dei suoi umori collerici e
bestiali, è”. “Una notte di luna nuova un intero reggimento, mentre erano in
marcia e si fece mezzanotte, si disperse correndo come lupi mannari e altre
creature del diavolo, ululando per boschi e paludi, aggredendo persone e bestie”.
“Sono stregati, sono, possono resistere alle palle di fucile, non li ferisce il
piombo né la polvere, e la metà di loro porta il malocchio…”
La seconda
parte del secondo Millennio conosce molti di questi odi, di cui si è nutrito
il costituendo nazionalismo: tra francesi e inglesi dapprima, nel proemio, poi
tra olandesi e portoghesi, tra inglesi e olandesi, tra Francia e Germania a
lungo, tra Italia e Austria nel Risorgimento, con disprezzo reciproco. La
tirata, che Jacobsen fa recitare a gente del popolo, è una di queste. Ma fa
senso sentire degli ammiratissimi svedesi queste parole. È diverso, appena
fatta l’unità e ancora oggi, tra Nord e Sud dell’Italia?
Un
mondo di due metà
“Nord
contro Sud” è un saggio che l’“Economist” di fine anno fa firmare
eccezionalmente (il settimanale mantiene la formula tradizionale, ottocentesca,
degli articoli non firmati) al “Columnist Chaguan”, il corrispondente da cinque
anni dalla Cina, David Rennie. Su un tema che lo incuriosce, avendo trovato la
divisione Nord-Sud ovunque abbia lavorato in venticinque anni di professione. Tra
essi “Chaguan” mette l’Italia. C’è il Belgio per primo. Poi viene la Spagna.
Poi c’è l’Italia. Con gli Stati Uniti naturalmente. E con la Cina – “Pechino e
Dongxing” è il sottotitolo, la capitale al Nord e il villaggio turistico
all’estremo Sud, al confine col Vietnam: “I cinesi amano gli stereotipi”.
C’entra anche il Vietnam. E l’Australia, con l’asse invertito, il Sud vi figura
posato e “superiore”.
Ovunque
la divisione è tra Nord e Sud. Il Nord ovunque operoso, anche onesto, il Sud
fanientista, e corrotto (evasione fiscale, abusi sulle provvidenze pubbliche
e gli appalti, mafie). Un pregiudizio europeo agli inizi, esportato col
colonialismo, specie nelle Americhe. Rafforzato a fine Ottocento con la teoria
weberiana che il capitalismo (industriosità, attivismo, risparmio, accumulazione)
fosse protestante - e, sottinteso, non cattolico. Una partizione che grosso
modo in Europa corrisponde a Nord e Sud, e altrove come tale è stata riprodotta.
Una
teoria, questa di Weber (ma Weber per la verità non lo dice, il capitalismo è
ben cattolico, alle origini e per molto tempo), che, scrive Rennie, “con molti
anni di esperienza di lavoro in America”, non ha fondamento. Ma, tutto sommato,
“gli stereotipi Nord-Sud sono prevalentemente una peculiarità europea”. Perfino negli Stati Uniti, un paese che per
molti aspetti sembra ancora quello della guerra civile, il Sud si presenta
molto vario, e anche composito come popolazione – etnicamente e socialmente.
A
Dongxing un commerciante di legnami che lavora col Nord del Vietnam, col
governo che gli consente di “passare sopra le leggi” sul taglio dei grandi
alberi del tek, non fa che vantare il Sud del Vietnam, la cucina di Saigon, le
donne eccetera. Da cinese dell’estremo Sud.
È
di Simenon, 1950, il modello mafia
Il fratello maggiore maggiorente in
Florida: bella vita, bella moglie, belle figlie, rispettabile e rispettato, dai
suoi danti causa, e anche dallo sceriffo, gestisce tutto il Golfo del Messico.
Il fratello minore è un killer. Il fratello intermedio ha l’hobby delle
automobili. La gestione è di supermercati, bar-caffetterie, ristoranti, posti
dove i contanti circolano ampiamente. Tutt’e tre i fratelli hanno casellario
giudiziario immacolato, senza carichi pendenti, e senza impronte digitali. Da essi si pretende di tanto
in tanto un servizio, oltre alla percentuale sugli incassi: un pedinamento, una
spiata, un “avvertimento”, un assassinio. Non si chiama mafia. Né Cosa Nostra,
trovandoci in America, il romanziere (si tratta di un romanzo) la denomina “organizzazione”.
Sono gli anni 1950, ma già non si facevano nomi al telefono. E c’è anche il “pentito”,
per amore – è il fratello killer, che ha molto da farsi perdonare dalla
giustizia. Con seguito di faide, familiari
e non, che mafia altrimenti sarebbe. In un ambiente corrotto: il pizzo lo
pretendono anche i politici, e gli sceriffi.
Tutto
ciò si legge ne “I fratelli Rico”, storia “dura” del Simenon americano, quando
passò qualche anno in America, dal 1945 al 1955 – il romanzo è del 1951. Al soggiorno
obbligato in Provenza alla Liberazione, aprile 1945, imputato di collaborazionismo,
per avere publicato i suoi romanzi in giornali filo-tedeschi e averne ceduto i
diritti di trasposizione cinematografica alla società tedesca Continental,
Simenon era riuscito ad ottenere da burocrati amici un visto d’espatrio in Canada
per la promozione del libro e del cinema francesi, e a ottobre era passato con
la moglie a New York. Dove era stato accolto da un professore di letteratura
francese, Justin O’Brien, che era stato a Parigi responsabile dei servizi
segreti americani – già sul finire della guerra il nemico era diventata l’Urss,
e i simpatizzanti di destra venivano recuperati.
L’antipatizzante
Simenon, irresistibilmente anti-yankee negli scritti di viaggio dieci ani
prima, si fece così per dieci anni americano, e non si può dire che non si
applicasse. Tutto il repertorio delle storie di mafia di vent’anni dopo è qui, di
Puzo, Talese, Mailer, Coppola, Leone. Nonché dei tardi imitatori italiani. Con
qualcosa anche di più: la madre, con la vecchia nonna - figure che la successiva
mafiologia eroicizzante a torto trascura.
Escher
e no
La Calabria è – con la Toscana – la regione che più
ha ispirato Maurits Cornelis Escher, il maestro della Optical Art, l’incisore
che ha creato nuovi modelli grafici - l’Einstein della grafica - che attraggono
e ispirano fisici, matematici, logici, uno dei tre pilastri del monumentale “Gödel,
Escher, Bach, un’eterna collana brillante” del fisico-matematico e logico Douglas
Hofstädter. Ma non ne ha cura: né Morano né gli altri luoghi dove Escher soggiornò
e lavorò, Pentedattilo, Scilla, Tropea, Rossano, la superba Rocca Imperiale, che
pure ha un castello federiciano da valorizzare, se ne sono ricordati per i cinquant’anni
della morte fra due mesi – se ne è ricordata solo Genova, dove Escher fu per caso,
per poche ore, scendendo la prima volta dall’Olanda.
È vero che i calabresi sono poco cordiali – si dicono
ospitali, ma non subito, sono diffidenti. Almeno a giudizio di Escher. Che in gita
con tre amici nell’entroterra di Melito Porto Salvo, a piedi e affardellati, non
disponendo di un mulo, “sudando maledettamente e molto affaticati, dopo una
stancante escursione sotto il sole cocente”, trova alla locanda un’accoglienza
ostile: “Conoscevamo da tanto tempo il modo di fare poco socievole dei calabresi,
ma una reazione ostile come l’abbiamo conosciuta quel giorno non l’avevamo fino
allora mai vissuta. Alle nostre domande amichevoli non ricevemmo altro che
risposte scontrose e incomprensibili”, etc.
Il problema è che non è diverso pur non essendo
Escher.
leuzzi@antiit.eu
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