Il miglior privato è il pubblico
Bernabè,
che ha presieduto a due delle maggiori privatizzazioni, Eni e Stet Telecom, è
più di ogni altro un protagonista in proprio e testimone da vicino, dall’interno,
dei “quarant’anni di capitalismo italiano”, come recita il sottotitolo, gli
ultimi quarant’anni, quelli delle privatizzazioni. A beneficio del “capitalismo
senza capitali” come già l’aveva scoperto Napoleone Colajanni. Ma il post-Thatcher
e Ronald Reagan incalzavano, e l’avvento, auspici Mario Draghi al Tesoro e il
suo mentore Ciampi in Banca d’Italia e al governo, si materializzò.
I
capitali privati sono mancati, non hanno praticamente fatto investimenti, in
Telecom come in Autostrade, ora da rinazionalizzare, e nel vastissimo settore
agroalimentare della finanziaria Iri-Sme, disperso e perduto. Mentre i gruppi ancora
a forte presenza pubblica, col diritto per lo Stato di nomina del management, Eni,
Enel, Finmeccanica-Leonardo, perfino Fincantieri, nel settore proibitivo della
cantieristica, si sono messi a correre, investendo, innovando, cioè stando sul
mercato, in settori ipercompetitivi, in posizioni sempre di avanguardia, contemporaneamente
arricchendo lo Stato ogni anno di una decina di miliardi in dividendi. E questa
è tutta la storia, il miglior privato è il pubblico.
Bernabè non fa la storia e non ne estrae morali, racconta. Da uomo Fiat prima che Eni, collaboratore
dell’Avvocato Agnelli. A Roma all’Eni pupillo di Reviglio, altro piemontese. Poi
da ad dello stesso Eni, incaricato della privatizzazione. Difensore del gruppo pubblico
contro le non tanto celate incursioni degli avvoltoi, che il gruppo volevano
in pezzi. Racconta dell’operazione analoga da lui tentata in Telecom Italia, ma
interrotta dal raid di Colaninno, sostenuto dal governo D’Alema. Di Necci che
prova a salvare Enimont con Cuccia. Del suo ruolo di consulente per il riassetto
degli apparati di sicurezza. Insomma di una vita, nel mezzo del potere.
Sfogliando
il lungo memoir, riscritto da Guido Oddo, si ricava netta l’impressione
che la storia del capitale italiano è da rifare. Non è una storia di capitani,
corsari o utopisti, ma di piccoli e tortuosi armeggi, attorno al bene
pubblico da spolpare: di una borghesia nata e alimentata dalla manomorta,
dall’appropriazione del bene pubblico – privative, contributi, leggi speciali,
concessioni, dazi, esenzioni. Nell’ombra, ma solo perché non si dice - per convenzione?
Franco
Bernabè, A conti fatti, Feltrinelli, pp. 368 € 20
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