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L’epidemia come strategia
Il
tema è il sottotitolo: “L’epidemia come politica”. Già prima delle chiusure, e
molto prima dei vaccini anti-covid. Il filosofo raccoglie qui le riflessioni
che è venuto via via pubblicando sui giornali e sul sito dell’editrice
Quodlibet. Il primo, sul “Manifesto” del 26 febbraio 2020, è intitolato “L’invenzione
di un’epidemia”. Il post “Chiarimenti”,
venti giorni dopo, ne fa un punto di svolta: “Ci sono state in passato epidemie
più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato
d’emergenza come quello attuale”. Peggio, avrebbe potuto aggiungere: e in
passato non c’erano i vaccini. O forse no: non c’era nemmeno la prevenzione, l’idea
di organizzare la società contro un evento.
È
la prevenzione un’arma: la biopolitica? Se così è, però, non si tratta di un
braccio di ferro coi poteri politici, della piazza contro il guicciardiniano
Palazzo, da destra o da sinistra, si tratta d’individuare come si arriva a uno
stato d’emergenza universale su una falsa notizia. E a questo Agamben,
bizzarramente, non è interessato – al contrario di Foucault, che cita per la
biopolitica, il quale molto lavorava su come l’opinione si costruisce. Su “Le
Monde”, agli inizi della sua contestazione, è stato preciso, sulla “falsa
logica” già imposta col terrorismo: “La falsa logica è sempre la stessa: come
di fronte al terrorismo si affermava che bisogna sopprimere la libertà per
difenderla, così ora si dice che bisogna sospendere la vita per proteggerla”.
Biopolitica
Foucault
è riferimento necessario, che ha individuato negli apparati terapeutici forme
di potere incontestabile, se non assoluto. La biopolitica di Foucault è una
scoperta radicale. Che nell’analisi a lungo in corso nel Novecento sulla natura
del potere introdusse, in chiave contestativa (poi “Sessantotto”), un approccio
originale, da lui stesso in più campi approfondito, del “discorso” su e
attorno al potere come suo atto fondativo e rigenerativo: il potenziale comunicativo
– un approccio orwelliano più che hobbesiano (certamente non heideggeriano, come
invece è di Agamben). Nell’epidemia di Aids di cui Foucault è rimasto vittima
non ci sono state misure restrittive (chiusure, proibizioni, isolamento), non
trattandosi di malattia infettiva e anzi da contatto intimo, per atto
volontario e non subìto. Ma qualora ci fosse stato un vaccino anti-Aids, come per
una qualsiasi pandemia, e uno Stato lo avesse adottato o in qualche misura
imposto, è dubbio che Foucault non avrebbe accettato di avvantaggiarsene, anche
soltanto per evitare di farsi veicolo di diffusione dell’infezione letale.
E
perché difendersi sarebbe una colpa? Un soldato in guerra evita con cura di esporsi
al fuoco nemico. È un suo diritto, e un dovere – verso la “patria”, verso il
comando militare di cui è parte, verso i commilitoni. Agamben non nega il virus
e il contagio – anche se ne avrebbe tutti i motivi: la sua riflessione parte da
uno studio del Cnr che il virus dice di tipo influenzale, non più pericoloso di
un’influenza, a fine febbraio del 2020 – povero Cnr, e povera Italia che
finanzia il Cnr. Agamben critica la difesa. Come un immondo (immorale?) relegamento
dell’umanità alla “nuda vita”, alla sopravvivenza – che, come si sa, è quella
che fa l’hobbesiano “homo homini lupus” (allo stato animale, si sarebbe detto una volta, ma gli animali hanno istinti, abitudini, e sentimenti).
La
cosa è contestabile. C’è più partecipazione, empatia come usa dire, sociale,
familiare, personale, e perfino universale, quindi più vita di relazione
sociopolitica, sia pure a distanza, in questi due anni di quanta ce ne fosse prima,
tra un fine Duemila e un primo Millennio desertificanti. Ma perché l’attaccamento
alla vita sarebbe una rinunzia, e una colpa – un’autocensura, una castrazione?
Poi
Agamben è andato più in là. Ad agosto di quest’anno, presentando la raccolta, scrive:
la “Grande Trasformazione” in atto ricalca “quanto avvenne in Germania nel
1933, quando il neo cancelliere Adolf Hitler, senza abolire formalmente la
costituzione di Weimar, dichiarò uno stato d’eccezione che durò per dodici
anni”. Allo stato d’eccezione, l’aristotelica “stasis”, Agamben dedica
da tempo buona parte della sua riflessione. Da ultimo individuandolo nello scontro
di tutti contro tutti che – all’apparenza – è la vita politica nelle democrazie,
una sorta di guerra civile come unico paradigma politico. In due seminari di
dieci anni fa, poi riuniti sotto il titolo “Stasis. La guerra civile come
paradigma politico. Homo sacer, II, 2”, concludeva: “Non è un caso se il
«terrore» ha coinciso col momento in cui la vita come tale – la nazione, cioè
la nascita – diveniva il principio della sovranità”. Aggiungendo, con
anticipazione quasi profetica: “La sola forma in cui la vita come tale può
essere politicizzata è l’esposizione incondizionale alla morte, cioè la vita
nuda”. Ma Hitler? Hitler è un’eccezione, non uno stato d’eccezione.
Polemista
Il
lockdown è una novità, criticabile, fermare tutto: stare chiusi in casa, non
lavorare, non camminare, non parlare con nessuno, se non al telefono, non andare
al mercato, che peraltro è chiuso, né al supermercato, se non con lunga e lunghissima fila, e nemmeno
in chiesa, anche se non è chiusa, non vedere i familiari, se non conviventi,
“vedere il medico” solo al telefono, non seguire i congiunti, anche
strettissimi, in ospedale, se non da lontano, nemmeno se morti, e morire senza
un funerale, una sepoltura.
Il
filosofo tourné polemista scrive piano, chiaro, elegante. Di lettura
agevole. Mai banale, certo. Il “capitalismo comunista” è per esempio una pagina
pregna – mezza pagina basta. O la terra Ctonia e la terra Gaia . Ma
apocalittico. Ci sono epoche nella storia, del mondo e dell’uomo.
L’idea
dell’apocalissi è ben storica – più forse che biblica e religiosa. Anche nella
forma guénoniana del complotto universale, la desacralizzazione della storia. La
laicizzazione ci ha lasciati un po’ più nudi, la crisi continua o emergenza ci
costringe alla “nuda vita”? Senza sentimenti, tradizioni, abitudini, politica, arti,
pensiero?
Ma
la “tecnologia digitale che, com’è ormai evidente, fa sistema con il
«distanziamento sociale» che definisce la nuova struttura delle relazioni fra
gli uomini” era in atto prima, e lo sarà purtroppo anche dopo,
indipendentemente dal virus. È la comunicazione di massa, inevitabile, vecchio
problema che deve ancora trovare un suo punto di equilibrio prospettivo – e deve
trovarlo, pena la sua dissoluzione, ben prima dell’“effetto serra”. È anche una
forma di dissoluzione di cui gli Stati, semmai, sono vittime, conglomerati ingovernabili
(incontrollabili) nel mondo comunicante o globale – altro che svolta autoritaria,
all’insegna della governabilità.
L'eccezione
La
conclusione, nell’avvertenza premessa alla ripubblicazione degli interventi in
volume ad agosto, fa sorridere: “Lo stato d’eccezione, che è stato prolungato
fino al 31 dicembre 2021, sarà ricordato come la più lunga sospensione della
legalità nella storia del Paese”. E: “Dopo l’esempio cinese”, del comunismo
onnipotente, “proprio l’Italia è stata per l’Occidente il laboratorio in cui la
nuova tecnica di governo è stata sperimentata nella sua forma più estrema”. Non
è da tutti (“naturale”) fare il polemista: è un genere letterario, da Malaparte
a Montanelli, e richiede mestiere.
Un
sermone, purtroppo, da vecchio familiare. “Il progetto planetario che i governi
cercano di imporre è, dunque, radicalmente impolitico. Esso si propone anzi di
eliminare dall’esistenza umana ogni elemento genuinamente politico, per
sostituirlo con una governamentalità fondata soltanto su un controllo
algoritmico”: un progetto fantasmatico. Non sembra irragionevole, Agamben si
difende, ma è una sciocchezza. Succede – Platone vecchio non andò a fare la
repubblica con un tiranno?
C’è
qualcosa di sbagliato nella reazione al virus cinese. Effetto della paura? Di
disorganizzazione? Di un complotto politico? Questo sicuramente no, impossibile
- Agamben si affretta a disimpegnarsi dalla teoria del complotto. È la politica
della crisi, perpetua – ora dell’epidemia. È in effetti una forma di governo,
di basso profilo, governare attraverso la crisi. “Andreottiana” si direbbe in
Italia, ma diffusa. Attuale, nell’epoca in cui gli uomini never had it so
good – come il premier MacMillan disse della Gran Bretagna irriconoscente,
che lo castigò al voto.
Foucault
si sarebbe disinteressato della comunicazione dell’evento? Sicuramente no. Ma
essa non è tra gli interessi di Agamben. E questo purtroppo è un male. Non è
nell’interesse di nessuno, l’opinione pubblica, la comunicazione. Come si
formano – si impongono – le idee, e i loro succedanei, la paura inclusa. Il filosofo
ne ha avuto l’opportunità in più occasioni - lui stesso stesso vi accenna nella
considerazione centrale, della “Medicina come religione” - ma non l’afferra. “A
che punto siamo?”, un testo del 20 marzo 2020, è stato richiesto e poi
rifiutato dal “Corriere della sera”. Perché? Gli interventi più distesi Agamben
può farli solo con i media stranieri: subito “Le Monde”, poi la radio pubblica
svedese, la “Neue Zürcher Zeitung” un paio di volte, la rivista greca
“Babylonia”. Ma, poi, è censurato dallo “Spiegel”, che lo aveva intervistato –
si chiede un’intervista proprio per avere un altro parere. È il filo rosso di
questa pandemia, la povertà dell’opinione pubblica.
Per
irridere alla vaccinazione di massa, Agamben così conclude: “È perfettamente
possibile - anche se non è in alcun modo certo - che fra qualche anno il
comportamento degli uomini risulterà simile a quello dei lemmings”, i roditori
della tundra che usano suicidarsi in massa a periodi buttandosi nel mare, “e
che la specie umana si stia in questo modo avviando alla sua estinzione”. Con i
vaccini – “il terrore sanitario”? O non finisce prima, con l’apocalisse della Commissione
DuPre (Dubbio e Prevenzione), che già si conta come un partitino del 5 per
cento, senza ridere. Nella stessa impolitica, o politica del Celoduro e del
Vaffa, che attanaglia l’Italia da quarant’anni. A opera dei corrotti
spazzacorruzione, da Bossi a Di Pietro. E dei comici, Moretti prima di Grillo con
i “Girotondi” – anche lui con una triade, Occhetto-Di Pietro-Moretti.
Giorgio Agamben, A che punto siamo?, Quodlibet, 120 € 12
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