L’età dei giovani
Flaubert si considerava vecchio a trent’anni: “Invecchiando, il
cuore perde le foglie come un albero”. Anzi, già a ventotto: “Mi sembra di essere
un monumento”, lamentava con gli amici - è vero che aveva già scritto
“L’Educazione sentimentale” (una prima “Educazione”) e “La tentazione di
sant’Antonio” – e “Memorie di un pazzo” e “Novembre”. E, come dice il
biografo, “morì di vecchiaia a 58 anni”.
Nietzsche afferma che ognuno fa la filosofia caratteristica della
sua età, l’età anagrafica. Una filosofia, quindi, della maturità e una di
gioventù – e dell’infanzia? Ma l’età può non essere quella anagrafica, del
numero degli anni. Il prezioso Cerruti-Rostagno, il vocabolario di scuola, calcolava
sei età: infanzia fino ai sette anni, fanciullezza fino ai do-dici, adolescenza
fino ai diciotto, giovinezza fino ai trenta, virilità fino ai cinquanta, e
oltre, improvvisamente, vecchiaia. La tendenza va a semplificare, con un’età di
mezzo e una terza età, il resto come se fosse fuori del tempo.
Una volta si era tassonomici: i
venticinque anni erano richiesti per la maggiore età in Italia fino alla prima
guerra, eccetto che per fare la guerra: chi si sposava di ventiquattro doveva
esibire un paio di tutori. I turkmeni tuttora prolungherebbero
l’adolescenza ai venticinque, dopo una infanzia stiracchiata fino ai dodici, e
la gioventù ai trentasette. Possono così oziare la metà della vita, e l’altra
metà godersela: la maturità è breve, dodici anni, fino ai quarantanove.
Dopodiché diventano profetici per dodici anni, fino ai 61, ispirati fino ai 73
e saggi fino agli 85. Passati gli 85 possono morire. Anche i romani antichi
avevano sette età, e se la prendevano comoda come i turkmeni, spostando l’età
attiva verso i quaranta. È solo logico ribaltare il principio dell’eredità in
morte o vecchiaia: dovrebbero essere i giovani a costruire il futuro, hanno il
dovere d’imporsi.
Ma c’è tutto nei riti classici, la coprolalia delle ragazze inclusa
e lo streaking, nei riti tribali che manifestano i significati nel
corpo, in linguaggi epilettici, e li secretano nell’iniziazione: la gioventù è
argine alla mediocrità. Napoleone fu generale a venticinque anni, Alessandro
morì a trentatré, Robespierre a trentacinque, tardi. E chi non è generale a
quell’età non merita di diventarlo, si diceva a Parigi fino al Settecento.
Céline concorda: “La civiltà occidentale è anale, la qualità si associa al
botto di un peto venuto bene, e chi non rinnega il culo e se ne assume la
responsabilità è l’Uomo, l’Eroe, Giulio, Orlando: i nostri Eroi non escono
dalla infanzia”. I rivoluzionari del Novecento, secolo sciocco ma ricco,
ricchissimo come non mai, e democratico benché deragliato, Mussolini, Stalin,
Hitler, hanno confidato nei giovani – Hitler
stesso, cancelliere a 44 anni, è un giovane. E Heidegger, che studenti e professori voleva
senza gerarchia e lo studente disse motore della rivoluzione, lo studente
lavoratore. O il Presidente Mao: “I giovani sono la forza attiva e vitale della
società. I giovani imparano meglio e sono meno conservatori”. Il segreto è che
i giovani non lavorano. Non sanno che fare, ma il lavoro stanca.
Per questo
è fallito il ‘48, la rivoluzione che proclamò il diritto al lavoro.
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