martedì 14 dicembre 2021

L’età dei giovani

Flaubert si considerava vecchio a trent’anni: “Invecchiando, il cuore perde le foglie come un albero”. Anzi, già a ventotto: “Mi sembra di essere un monumento”, lamentava con gli amici - è vero che aveva già scritto “L’Educazione sentimentale” (una prima “Educazione”) e “La tentazione di sant’Antonio” – e “Memorie di un pazzo” e “Novembre”. E, come dice il biografo, “morì di vecchiaia a 58 anni”.
Nietzsche afferma che ognuno fa la filosofia caratteristica della sua età, l’età anagrafica. Una filosofia, quindi, della maturità e una di gioventù – e dell’infanzia? Ma l’età può non essere quella anagrafica, del numero degli anni. Il prezioso Cerruti-Rostagno, il vocabolario di scuola, calcolava sei età: infanzia fino ai sette anni, fanciullezza fino ai do-dici, adolescenza fino ai diciotto, giovinezza fino ai trenta, virilità fino ai cinquanta, e oltre, improvvisamente, vecchiaia. La tendenza va a semplificare, con un’età di mezzo e una terza età, il resto come se fosse fuori del tempo.
Una volta si era tassonomici: i venticinque anni erano richiesti per la maggiore età in Italia fino alla prima guerra, eccetto che per fare la guerra: chi si sposava di ventiquattro doveva esibire un paio di tutori. I turkmeni tuttora prolungherebbero l’adolescenza ai venticinque, dopo una infanzia stiracchiata fino ai dodici, e la gioventù ai trentasette. Possono così oziare la metà della vita, e l’altra metà godersela: la maturità è breve, dodici anni, fino ai quarantanove. Dopodiché diventano profetici per dodici anni, fino ai 61, ispirati fino ai 73 e saggi fino agli 85. Passati gli 85 possono morire. Anche i romani antichi avevano sette età, e se la prendevano comoda come i turkmeni, spostando l’età attiva verso i quaranta. È solo logico ribaltare il principio dell’eredità in morte o vecchiaia: dovrebbero essere i giovani a costruire il futuro, hanno il dovere d’imporsi.
Ma c’è tutto nei riti classici, la coprolalia delle ragazze inclusa e lo streaking, nei riti tribali che manifestano i significati nel corpo, in linguaggi epilettici, e li secretano nell’iniziazione: la gioventù è argine alla mediocrità. Napoleone fu generale a venticinque anni, Alessandro morì a trentatré, Robespierre a trentacinque, tardi. E chi non è generale a quell’età non merita di diventarlo, si diceva a Parigi fino al Settecento. Céline concorda: “La civiltà occidentale è anale, la qualità si associa al botto di un peto venuto bene, e chi non rinnega il culo e se ne assume la responsabilità è l’Uomo, l’Eroe, Giulio, Orlando: i nostri Eroi non escono dalla infanzia”. I rivoluzionari del Novecento, secolo sciocco ma ricco, ricchissimo come non mai, e democratico benché deragliato, Mussolini, Stalin, Hitler, hanno confidato nei giovani – Hitler stesso, cancelliere a 44 anni, è un giovane. E Heidegger, che studenti e professori voleva senza gerarchia e lo studente disse motore della rivoluzione, lo studente lavoratore. O il Presidente Mao: “I giovani sono la forza attiva e vitale della società. I giovani imparano meglio e sono meno conservatori”. Il segreto è che i giovani non lavorano. Non sanno che fare, ma il lavoro stanca.
Per questo è fallito il ‘48, la rivoluzione che proclamò il diritto al lavoro.

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