Voltaire postconciliare
(riproponiamo
la recensione su questo sito degli stessi scritti alla riedizione del 2014)
Leggendo questo Voltaire
oggi ci si sorprende a pensare che la chiesa concorderebbe con ogni sua
critica, ironica ma sempre rispettosa. Specie nei punti più controversi: le
persecuzioni e i martiri. Compresa la guerra alla faziosità: nessun dubbio che
“il nostro Creatore e Padre nostro” sta con i Confucio, Solone, Pitagora,
Zaleuco e Socrate più volentieri che con i Ravaillac, Damiens, Cartouche,
killer per mania religiosa. E la “Preghiera a Dio” finale. Voltaire non era “un
buon cristiano”, come si professava (curiosamente è questa
l’opinione, oltre che di Togliatti, più recentemente di Derrida, “Fede e
sapere”)?
Il “Trattato” è un
excursus sull’intolleranza religiosa. Innescato da uno dei tanti “affari” di
giustizia ingiusta che occuparono Voltaire per molti anni, “Lally”, “Sirven”,
“La Barre”: l’“affare Calas” a Tolosa (il titolo intero è “Trattato sulla
tolleranza, in occasione della morte di Jean Calas”). Città già negli
annali dell’intolleranza, col guinness dei primati nella caccia alle streghe.
La morte di un giovane ugonotto, Marc-Antoine Calas, forse suicida, forse
ucciso da un rivale, fu addebitata al padre Jean, che l’avrebbe strangolato per
impedirgli di abiurare – come un altro suo figlio aveva già fatto. Il padre fu
ucciso sulla ruota, un supplizio di due ore (la rottura delle ossa e lo
smembramento) e poi bruciato, la madre, le sorelle, l’altro fratello prima
carcerati e poi ostracizzati, i beni confiscati.
Era l’anno, 1761, in cui
Voltaire aderiva alla crociata contro “l’Infame” dei “fratelli” Diderot e
D’Alembert. Contro la superstizione religiosa e l’intolleranza, e in pratica
contro le chiese, i dogmi, gli ordini. Ma senza pregiudizio anticlericale, o
antiromano. Si conduole qui, in un “Proscritto”, dell’espulsione dei gesuiti
dalla Francia, intervenuta subito dopo la pubblicazione del libello. È
equanime, sempre nel “Trattato”, contro le intolleranze dei riformati in
Olanda, Francia, Inghilterra. E nel 1761 era soprattutto in guerra col
calvinismo a Ginevra.
Faticherà, per questo, a
entrare nell’“affare Calas”, come i “fratelli” gli proponevano. E anche perché
nell’“affare” non tutto era chiaro. Poi, nel 1762, ci prese gusto, anche in
funzione anticelebrativa al centenario della Sainte-Barthélémy, la strage degli
ugonotti, e per tre anni ne fece l’occupazione principale. Una sorta di
ossessione, dal 1762 al 1765, quando infine a Parigi la giustizia e il re
ridiedero i beni e l’onore alla moglie e ai figli di Jean Calas. Un successo
dovuto tutto a lui: quando si convinse della bontà della causa, Voltaire la
orchestrò al meglio in questo “Trattato”- l’affare Calas sarà la sua
requisitoria più celebre.
Ci furono
approssimazioni, come sempre, nelle prime indagini sulla morte. E le
testimonianze immediate dei presenti, i familiari, contribuirono: il corpo
avevano ritrovato, dissero in un primo momento, “steso per terra” e composto. I
segni della morte furono diagnosticati di strangolamento e non di impiccagione.
Voltaire ne fa un caso
di odio religioso, truccando a convenienza i dati. Il padre Jean ha 68 anni
invece di 62. È ricco, ma Voltaire non lo dice. È rispettato, mentre era
collerico. Dà bonariamente “una piccola pensione” al figlio cattolico, mentre
gliela dà per obbligo di legge e frappone resistenze. Ha voluto per trent’anni
una serva cattolica, mentre è la legge che la impone ai riformati. Ospita
la sera del delitto un giovane di Bordeaux a cena, che poi sarà strumentale
alla riabilitazione, “noto per il candore e la dolcezza dei costumi”.
Marc-Antoine, di cui poco o nulla si sa, è il suicida designato: letterato
fallito, impossibilitato all’avvocatura, “passava per essere uno spirito
inquieto, cupo, violento”, prese a leggere tutto ciò che si è scritto sul
suicidio, confida a un amico le sue intenzioni, e un giorno che ha perduto al
gioco si impicca.
E la tolleranza? Il
problema è semplice: “Se la religione debba essere caritatevole o barbara” –
oggi si direbbe, ma anche allora: se un giudice debba essere violento o giusto.
La morale pure: “La tolleranza (religiosa) non ha mai provocato una guerra
civile”. La rilettura della Bibbia resta inadeguata e può suonare blasfema. Ma,
poi, non c’è rilettura della Bibbia che non lasci perplessi, a meno di non
ritenere Dio blasfemo, pure lui.
“Ci fosse un
Cristo, vi assicuro che Voltaire sarebbe salvato”, dirà del “Trattato” Diderot,
che non era grande amico di Voltaire, a Sophie Volland. Anche Michelet lo vedrà
così, come “colui che ha preso su di sé tutti i dolori degli uomini”, Cristo
contemporaneo. Coma già Federico II, il gran re di Prussia, “fratello” senza
ma, che gli rimproverava di “graffiare con una mano” l’Infame, “di molcirlo
dall’altra”. Per opportunismo? No, Voltaire era così. Che il “Trattato”
conclude appellandosi a fede, speranza e carità, le tre virtù teologali, “da
buon cristiano”.
Voltaire avrebbe voluto
il libello anonimo, benché protetto dall’ironia: “Ne è autore, si dice, un buon
prete”, fa premettere: “ci sono in essa dei passi che fanno fremere e atri che
fanno scoppiare dal ridere; giacché, grazie a Dio, l’intolleranza è tanto
assurda quanto ridicola”. E più che le chiese bastona la cosiddetta opinione
pubblica: il “contagio della rabbia”, il “vile popolaccio”, e l’intreccio
perverso, anche allora, di giustizia e opinione. Infame è il secolo per
Voltaire soprattutto per la dogmatica giudiziaria. Diffusa non soltanto nelle
città sanfediste ma fino a Parigi e dentro la corte. Al punto da decapitare un
giovane, il cavaliere de la Barre, per alcune goliardate, ponendo poi il corpo
decapitato sul rogo con libri erotici da un alto, e dall’altro il “Dizionario
filosofico” di Voltaire. Tutto questo nel 1766, l’anno dopo della “verità
ristabilita” sull’affare Calas.
Famoso è stato in Italia
questo “Trattato” per essere stato tradotto e pubblicato da Togliatti nel 1949.
Con lo stesso feeling, seppure non dichiarato: la mostruosa
“psicologia della folla” – agitata in Italia, notacva di scorcio il leader del
Pci, dai “microfoni di Dio”, dai “padre Lombardi”. Con una indiretta conferma
delle due nature, opposte, del Pci, nonché di Togliatti e Berlinguer, del
partito di opposizione, all’intolleranza e alla censura, e del partito di
governo, che demonizza ogni avversario. Così oggi il “Trattato” implicitamente
si rilegge: sostituendo alla “vera fede”, cattolica o protestante, la
“questione morale”. Un feticcio altrettanto indeterminato, anzi contradditorio,
e ultimativo, agitato come una clava, fanatico – “valgono più i magistrati che
i Calas”, si diceva a Tolosa, o “meglio lasciar mettere ala ruota un vecchio
calvinista innocente che esporre otto consiglieri della Linguadoca a
riconoscere di essersi sbagliati”.
L’edizione Togliatti ha
il merito di proporre anche le note aggiunte da Voltaire, anche se non tutte.
Una, lunga, sull’anima avrebbe meritato l’inclusione. Curioso, fuori tema, ma
preciso e insistito, anche se in nota, al § 9 “Dei martiri”, c’è invece lo
sgretolamento dell’“Egitto”, che l’esoterismo aveva cominciato a crearsi - una
lettera non scritta ai “fratelli”.
Questa edizione, curata da Domenico Defelice, lo scrittore calabro-laziale (Anoia-Pomezia), si vuole “critica”. Traduce il
“Trattato sulla tolleranza” dalla edizione della Voltaire Foundation di Oxford, in qualche
punto è quindi diverso dalle traduzioni note – ma senza discordanze
significative. E si arricchisce degli scritti della vedova e dei due figli di
Calas, che criticamente ora si ritengono scritti da Voltaire, a mano a mano che
riceveva ulteriori informazioni sul caso.
Voltaire,
Il caso Calas. Con il Trattato sulla tolleranza e testi
inediti, Marietti, pp. 360 € 25
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