sabato 30 gennaio 2021
Secondi pensieri - 440
La scoperta della Dc
Finalmente “la Repubblica” scopre, il 30 gennaio 2021, che
il Pd è un partito democristiano. Con una sinistra, sì, ma democristiana, Franceschini, Del Rio. Quell’altra, la (ex) Sinistra di Bobbio, non
conta e non sa, anzi non esiste. Una scoperta bisogna dire
mozzafiato, nella penna di Concita De Gregorio, anche se nota ai più:
https://rep.repubblica.it/pwa/generale/2021/01/29/news/crisi_governo_pd_pci_dc-284880953/
“È gentilissimo, va detto.
Leale, tanto una brava persona. E però ogni volta che inciampa esita traccheggia,
tira fuori dalla tasca un foglietto da leggere, non trova l’ uscita e qualcuno
deve prenderlo
per il gomito – per di qui, segretario - Nicola Zingaretti lascia dietro di sé
l’eco malinconica
di un vuoto. Come un ologramma, sorride e svanisce. Una vita da mediano, a
recuperar palloni,
il segretario del Pd è quanto di meglio la tradizione comunista abbia oggi da offrire.
La sinistra,
diciamo…”
Che, poi, non ha colpa,
Zingaretti, onesto lavoratore. C’è una storia dietro da riscrivere. De Gregorio ha rotto gli
argini, in mezzo alle melense celebrazioni di quello che la Sinistra (non) è stata dal 1921? Sarebbe
ottimo giornalismo, di richiamo – in attesa che qualche contemporaneista accademico esca dal timore
e tremore.
Etichette:
Informazione,
Sinistra sinistra
Il cinema, prima passione di Sciascia
“Questo non è un racconto” è per
Sergio Leone, il regista - “l’incipit è di Diderot”. È “un soggetto per un
film”, che diverte Sciascia e lo impegna anche: dà il tono, se non i particolari
della storia, di “C’era una volta l’America”, nientemeno. Anche se
Squillacioti, che ha curato la raccolta, e Vito Catalano, il nipote di Sciascia
che ha recuperato i materiali tra gli inediti, sviliscono la sua partecipazione al capolavoro di Leone – Catalano già nel lungo scritto “Quello scrittore che
disse «no» a Sergio Leone”, sul “Messaggero” del 20 gennaio 2019. Sviliscono il
rapporto tra Sciascia e Leone. E perfino il gusto dello scrittore per il
cinema: tanto amato, spiegano, fino ai vent’anni, ma rifiutato ai quaranta. Il
che non è falso, Sciascia lo scrive netto nel 1965, a proposito di “Antonioni,
Bergman, Pasolini”, p. 84: “Non c’è film, per quanto buono, che valga un libro
anche mediocre”, Va al cinema di rado, scrive anche, e quasi mai resiste fino
alla fine.
Un biografo obietterebbe: non è
credibile. Squillacioti stesso richiama una testimonianza di Sciascia in un
articolo su “La Stampa” del 1989, “Requiem per il cinema” – repertoriato nel
secondo volume Adelphi delle “Opere”, col titolo “C’era una volta il cinema”: “Fin
oltre i vent’anni sognai di fare il regista, il soggettista, lo sceneggiatore”.
Sciascia dice anche che non vede i film tratti dai suoi libri. Non è una civetteria
– o un modo per non imbarazzare produzioni e registi con i quali ha trattato i
diritti e che quindi meritano rispetto? Mentre continua a scrivere critiche e
ricordi di film vecchi e nuovi. Questa ne è la raccolta, di note per lo più non
antologizzate altrove, con alcuni inediti, tra essi i soggetti da film.
Con questa incongruenza, una
serie di note di Sciascia sul cinema, dunque, a partire dai versi – i soli
versi conosciuti di Sciascia? – in morte di Jules Berry e di Gary Cooper. Note
sapide, come tutto di Sciascia, stimolanti, godibili. Di buona lettura anche i tre racconti
da film, che aprono la raccolta: oltre al “trattamento” per Leone, spigliato,
andante con moto, professionale, due soggetti, uno per Lina Wertmueller, 1968,
su una donna di famiglia di mafia che rompe l’omertà, che la regista poi non riuscì
a realizzare, e uno per Carlo Lizzani, per un film di mafia. Catalano segnala
anche un quarto trattamento cinematografico, per “Viva l’Italia” di Roberto
Rossellini, 1959, trovato tra le carte di Sciascia: la sceneggiatura di tre
episodi che non avrebbero trovato poi posto nel film (ma Catalano non ne è
sicuro), poiché il nome non figura nei crediti - “Sessantadue fogli
dattiloscritti”, che lo scrittore conservò ordinati, “tre grandi scene, della Sicilia
al momento dello sbarco di Garibaldi”. Partecipò anche, con almeno un testo recepito
dal regista Vancini, nel 1962 al film “Bronte. Cronaca di un massacro che i
libri di storia non hanno raccontato”.
Cinema o non cinema, è però vero
che un altro Sciascia il volumetto fa emergere: non il raziocinante moralista,
ma uno umorale. Voltairiano ma non del tutto, non cinico. Per essere spontaneo,
e anzi poco riflessivo. Squillacioti ricorda l’infatuazione per Marylin Monroe
in testi qui non ricompresi. Ma basta l’eulogia “I miti del cinema”, per il
film “The Misfits”, a proposito del concetto di “inadeguatezza” oggi imperante
in psicologia: “Il ritratto della donna inadatta
vien fuori non per merito di Houston: ma di Miller che ha scritto il ritratto
di Marylin, e di Marylin che recita se stessa…. Un’americana che cerca
«qualcosa», che chiede se «c’è qualcosa che resta». Crepuscolare mito
dell’America: che non sa, quando la bellezza sfiorisce, velare gli specchi e
guardare dentro di sé”. L’America che Sciascia non conosceva e non ha voluto
conoscere, se non sui libri, e al cinema.
Sciascia esce dal guscio Sciascia,
uno scrittore multiforme?
Leonardo Sciascia, “Questo non è un racconto”, Adelphi,
pp. 170 € 13
Se la speculazione arruola Robin Hood
Robinhood, la piattaforma del trading (compravendita di titoli) online
senza commissioni, s’è messo a tacere quando il pubblico ha contrattaccato contro
gli hedge fund che speculavano al
ribasso – “shortavano” – su GameStop, l’azienda dei videogiochi che avevano nel
mirino. Un gruppo di trader si è
organizzato su Reddit, la rete dei messaggi online, per comprare GameStop ai prezzi ribassati dali fondi sfidando la speculazione. Hanno avuto successo, moltissimi trader anche occasionali hanno comprato
GameStop, il titolo da 40 dollari è salito a 400, e a questo punto Robinhood ha
bloccato le contrattazioni. Non tutte le contrattazioni, la piattaforma è sempre
attiva, ha bloccato gli acquisti di GameStop.
La ragione dello stop non è stata data. Ma la
storia non è come viene presentata, della vittoria di Davide contro Golia,
delle formichine contro il drago della speculazione, al contrario: l’unica spiegazione
che gli analisti finanziari si danno è che “l’industria degli hedge-fund”,
della speculazione, si è preso anche il nome e il ruolo del difensore dei
poveri e degli oppressi, surrettiziamente. Se Robinhood non era già una piattaforma
della speculazione, per attirare nel “parco buoi” i piccoli e piccolissimi
investitori, con l’esca delle zero commissioni. La dinamica dello stop è chiara: per i fondi shortatori la perdita è colossale (si parla di 40 miliardi) ma solo in potenza, se la superquotazione si sgonfia in tempo, prima dei termini entro cui devono procurarsi le azioni che avevano venduto.
“Shortare” è una speculazione sempre più
diffusa. Fu tentata con l’euro, nel caso della Grecia, e poi con determinazione,
a lungo, nei mesi estivi del 2011, contro i pigs, i paesi europei deboli, Italia
compresa, quella che ha pagato più caro la speculazione, dai 50 ai 100 miliardi
– facendo aggio sulla “indecisione ossequiosa” della Germania, come la serie “Diavoli”
un anno fa su Sky mostrava. Protetta, come già dalla Germania di Angela Merkel
dieci anni fa, dall’informazione economica, ad essa per tanti fili legata.
Il disarmo nucleare non può attendere
L’intesa sulla moratoria nucleare con Mosca,
rinnovata da Trump a fine mandato, e unico punto di contatto finora tra Biden e
Putin, passa tra le cose ordinarie, ma potrebbe e dovrebbe riaprire i negoziati
per il disarmo nella stessa materia. Dovrebbe, ma finirà per farlo, anche se
non è in agenda: trent’anni di nessun progresso nel disarmo nucleare hanno
visto infittiti e non diminuiti i rischi.
La Cina, che è fuori dagli accordi in essere, non può restarlo. La
globalizzazione ha fatto finta che la Cina non sia una grande potenza militare,
il tema è rimasto confinato ai vecchi, vecchissimi, protagonisti della guerra
fredda, Usa e Russia, e non è chi non veda l’assurdo della cosa. Altri paesi,
fuori di ogni assetto internazionale, per quanto multilaterale, incombono. La Corea
del Nord sulla Corea del Sud, il Giappone e la stessa Cina. L’Iran
La solita Europa poco e tardi
Sembrava rilanciarsi con la formula “Ursula”
di Prodi, la scelta della nuova Commissione tra Popolari e Socialisti insieme,
con l’apporto dei 5 Stelle, ma è sempre l’Europa del poco e tardi. In confronto
all’America del vituperato Trump, quasi zero. Perde la partita perfino con la
Gran Bretagna di Johnson.
Le vaccinazioni anti-covid ha fatto partire in
ritardo, ritardandone l’esame e l’approvazione. E le forniture consente che
siano ritardate, per contratti fatti male, che si vergogna ora di rendere
pubblici – col sospetto non sospetto che le consegne siano ridotte non per
problemi di produzione ma per il dirottamento della produzione verso
destinazioni più prodighe, compresi gli Stati Uniti e la Gran Bretagna.
Le vaccinazioni in America sono partite a metà
dicembre, sono di massa, un milione al giorno, gratuite per tutti, compresi gli
immigrati senza permesso, e hanno coperto l’equivalente di metà della
popolazione italiana, il 7 per cento della popolazione americana, tre volte
tanto i vaccinati in tutta la Ue.
Nessuno scandalo del resto è possibile se
Pfizer e Astrazeneca dirottano i vaccini. Il gruppo americano e il gruppo
britannico hanno ricevuto dai rispettivi governi finanziamenti per la ricerca e
lo sviluppo del vaccino sette volte maggiori di quelli disposti dalla Ue. Dove peraltro le
vaccinazioni di massa non si sa ancora come organizzarle. Dai siti di
stoccaggio a basse temperature all’organizzazione. In appositi capannoni, i
“quadrifogli”, che non esistono? In farmacia? Dal medico di base? Le
prenotazioni si aprono lunedì ma nessuno ne sa nulla. E comunque si aprono le
prenotazioni – se si aprono – ma quando si comincia? Non si sa.
Consigli di lettura di Virginia Woolf, non ortodossi
“Dove dobbiamo ridere leggendo il
greco?”. Sono tanti i problemi: “Non ci sono scuole, né predecessori né eredi”.
Anzi, “è perfettamente inutile leggere traduzioni dal greco”. La traduzione non
può che proporci “echi e associazioni”. E non è possibile rendere “gli accenti
più lievi, il battere e il levare delle parole”. E “dove dobbiamo ridere leggendo
il greco?” Ma poi ci prova, tanti problemi aguzzano l’ingegno.
“Quella greca è la letteratura
dell’impersonale”. Ma “è anche la letteratura dei capolavori. Non ci sono
scuole, né predecessori né eredi” – il che non è vero, ma dà l’idea: non si può
farne una “storia della letteratura”. Con un’eccezione: “Almeno una generazione
in quel tempo fortunato ha prodotto la massima esplosione di scrittori”.
In inglese il titolo del saggio suona
“sul non sapere il greco”, è cioè un invito a un’indagine. Ma si presenta come una lettura dei tragici
greci, ambiziosa e confusa – la mancata traduzione delle citazioni greche non
aiuta. Sul presupposto che “non sappiamo nulla” dei greci, come parlavano, come
recitavano. Sappiamo solo di loro strane morti: Euripide sbranato dai cani,
Eschilo colpito da un sasso. Woolf intanto li situa geograficamente: stanno al
Sud, avevano luce e calore, vivevano un po’ come si vive ora in Italia, con le
piazze e i passeggi, per cui “i piccoli fatti di ogni giorno vengono discussi
in strada piuttosto che in salotto, e diventano teatrali”, roba da “persone
loquaci”, con “quel tono irrisorio, quella giovialità, quella scioltezza di
spirito e di lingua perculiari alle razze del Sud”. Col che non ha risolto nulla,
ma spiega la funzione del coro. E poi: un scrittura senza riscritture.
“L’autore doveva pensare più all’insieme che ai dettagli”. Il suo pubblico
era “un popolo come quello ateniese, che
giudicava a orecchio seduto in un teatro all’aperto, o ascoltando una diatriba
nella piazza del mercato, molto meno incline di noi a spezzare le frasi e ad
apprezzarle slegate dal contesto”.
Quattro saggi umorali, ma
per questo anche originali, qualche dubbio o problema lo lasciano. Quanto sono
fruibili le letterature “altre”, quella inglese per esempio per gli americani, per i letterati americamo, perfino per Henry
James. O quella russa per gli inglesi – e ogni altro, è da supporre: bisogna
sapere molte cose prima di entrare in Cechov, Dostoevskij, Tolstòj – bisogna
scoprire l’“anima” per i primi due, per Tolstòj la cosa è più complessa.
Peggio è con gli elisabettiani,
la cui lettura viene ribaltata nel secondo saggio in più punti: che cosa sono,
tirando le somme, e chi era chi, e chi doveva a chi. “Ci sono, bisogna ammetterlo, alcune aree davvero straordinarie nella
letteratura inglese, una delle quali è quella giungla, foresta o landa
disabitata che è il dramma elisabettiano”. Peggio, “per il lettore comune una
sorta di ordalia, un’esperienza traumatizzante che lo riempie di domande e lo
tormenta di dubbi, deliziandolo e al tempo stesso affliggendolo”. Drammi all’apparenza
“meravigliosi”, pieni di cavalieri, duchi e damigelle, che però “passano l’esistenza
tra intrighi e delitti, si vestono da uomini se sono donne, da donne se sono
uomini, vedono fantasmi. Perdono il senno e muoiono in grandissima profusione
alla minima provocazione, proferendo – mentre cadono (ma non è come sarà
all’opera? n.d.r.) – imprecazioni dal superbo vigore o elegia di disperata
ferocia”. Ma, poi, sono “per lunghissimi tratti così intollerabilmente tediosi”. E
uno: “Gli elisabettiani ci annoiano perché i loro miti sono tutti duchi, le loro
Liverpool tutte isole mitiche o palazzi genovesi” E due: “Gli elisabettiani ci
annoiano perché soffocano la nostra immaginazione, piuttosto che darle da
lavorare”. Anche se, con tutti i loro limiti, sono lontani “dal tedio inflitto
da un’opera teatrale del XVIIImo secolo”. Col recupero di John Ford, “Peccato
che sia aan puttana”, con annotazioni, alle pp. 42-43, che sono note di regia,
di programma di sala.
“Come leggere un libro?”, “saggio letto in una
scuola, il quarto saggio, non aiuta molto. Ma sì in un punto importante:
lasciare che il rapporto col libro – stiamo parlando del romanzo, anche della
poesia – si stabilisca direttamente, non per consiglio o imposizione del discente. Un’idea non male,
specie per le letture estive consigliate.
Virginia Woolf, Non sapere il greco, Garzanti, pp. 91 €
4,90
giovedì 28 gennaio 2021
Ombre - 547
Trump esordì in
politica estera con un approccio al dittatore nuclearista nordcoreano, Biden esordisce inviando
le cannoniere nel Mare della Cina meridionale, a difesa di Taiwan. Il nemico n.
è ora la Cina? Non
c’è innocenza.
Disney proibisce
i suoi cartoni animati al suo pubblico, i bambini, per colpe varie di razzismo
che
nessuno
avrebbe subodorato. È il ridicolo il nuovo modo di essere occidentale,
mondiale? Oppure no. Il mondo si adegua da quasi un
secolo sempre al modo di essere americano, da Hollywood all’informatica, ai social, ai tatuaggi e ai
jeans sbucciati – anche alla pizza, che l’America dice americana. Ma in questo
proibizionismo sembra di no: l’Asia non segue, nemmeno l’Africa – giusto l’Europa,
un po’, per pavidità. È cominciato il declino americano?
Ha
fatto l’affare della vita rifilando Antonveneta al Monte dei Paschi, operazione
talmente conveniente
da portare al fallimento, di fatto, la più antica banca italiana. Ora ci prova
a Unicredit:
per rifilare il Monte dei Paschi alla (ex) più grande banca italiana? Questo
Orcel è proprio
quello che di direbbe un Costruttore, uno che fa la storia.
Si
fa la crisi politica per alchimie incomprensibili. A leggere i giornali e guardare
le tv. Mentre il motivo
c’è, e si sa: la “spartizione” del Recovery Fund. Ma non si dice. È la fine
dell’informazione.
Non
si ricorda crisi politica più sconcia, di mercanteggiamenti. Anche se per un business multimiliardario.
Niente programmi, niente politica – schieramenti, indirizzi. Attorno ai 5
Stelle, maggioranza
relativa di questo Parlamento, votati perché dovevano cambiare tutto. In
peggio?
Non
si sa che pensare del presidente Mattarella. Ha parlato di costruttori, e
subito glieli hanno tradotti
in “responsabili”, parlamentari sul mercato. Ha convocato Conte al Quirinale e Conte
gli ha detto:
ora non posso, devo girare un video propagandistico.
Conte
capo di ben due governi, di orientamento opposto, pur non essendo nessuno, né
un politico né una
personalità. Un fatto senza precedenti, se non nella Quarta Repubblica
francese, che ridusse la
Francia
da grande potenza a niente, nella prima e nella seconda guerra mondiale.
Si
è ridotta enormemente l’attività delle farmacie in questo lungo inverno di pandemia.
Il virus ha ridotto
la morbilità. O male peggiore scaccia male minore?
La globalizzazione ha messo in crisi la democrazia - e la pandemia ha messo in crisi tutte e due”. È preciso su “La verità” l’ex ministro del Tesoro Tremonti, cultore della materia. Il coronavirus “ha hackerato il software della globalizzazione, il suo meccano mentale tutto positivo e progressivo. Superata l'emergenza sanitaria, restano gli effetti di crisi mentale, sociale ed economica” – è “la globalizzazione che da sogno si trasforma in incubo”.
Si inneggia ai
fondi anti-crisi, che moltiplicano il debito, che non si potrà pagare, e presto
neppure garantire. Quando la verità è agli occhi di tutti – nelle parole di Tremonti,
monello del re nudo: Bush jr. e Obama hanno rimediato alla crisi del 2008
creando “una quantità enorme di
moneta dal nulla. È quello che in Europa chiamiamo easing. E che sarà
all'origine della prossima crisi”.
L’ambasciatore
a Mosca Terracciano si è vaccinato col russo Sputnik. Costretto per questo a
giustificarsi: per “ragioni personali”. Mentre si sa: l’ambasciatore è uno dei
pochi (il solo?)
che ancora lavorano agli Esteri. Ministero diretto non a caso dal vagabondo Di
Maio: fuori
dalla
Libia, dall’immigrazione, da Pechino e Washington, perfino da Bruxelles,
Berlino e Parigi, in freddo
con Putin. Terracciano si occupa degli italiani in Russia, con una newsletter
che spiega cosa
fare,
in base alle decisioni del governo russo. Certo, non ci vuole molto, ma bisogna
voler lavorare.
Per
la terza volta nella Seconda (o Terza, o Quarta) Repubblica il governo cade con
– per – la Relazione
sullo stato della Giustizia: il secondo governo Prodi nel 2008, il governo
Monti nel 2013,
e
ora. La giustizia sarà un falso scopo, ma è un campo minato.
Nel
mentre che l’Italia resta appesa alla maggioranza relativa dei 5 Stelle, e al
loro Conte, con guru Grillo, la sindaca 5 Stelle di Roma nomina assessore alla cultura un’amica, dei
tempi del liceo, Lorenza Fruci. Senza
altra competenza. Sembra di sognare.
Alla
vecchia amica Fruci la sindaca Raggi aveva già dato una consulenza alle Pari
Opportunità. Con appannaggio più modesto, 27.570 euro, lordi, con questa
funzione: “Indirizzo e controllo politico in ordine alle progettualità afferenti
lo sviluppo delle politiche di genere per la promozione dei relativi diritti,
per l’accoglienza e il sostegno delle donne”.
Lorenza
Truci, neo assessora alla Cultura a Roma, vanta nel curriculum una “docenza su
Arabesque e Burlesque come credito formativo per i giornalisti dell’ordine di Alessandria”.
Ecco perché i giornali non si sa che farsene.
Il
governo ottiene la fiducia alla Camera, e dopo quattro giorni si dimette. Una
ginnastica per umiliare ulteriormente il Parlamento.
Riccardo
Nencini, senatore e segretario del Psi, salva al recupero dei tempi supplementari
il governo Conte. Claudio Martelli lo accosta a Arlecchino servitore di due padroni:
“Nela prima scena concede il simbolo del Psi a Renzi e fa gruppo con lui. Nela
seconda fa gruppo con Renata Polverini Fiamma Tricolore e vota la fiducia a
Conte – mentre dichiara che resterà con
Renzi….”. Replica Nencini: “Sbagliato. La Polverini è stata eletta a
destra, io a sinistra”. La sinistra della destra, la destra della sinistra? Si
capisce che il partito Socialista sia scomparso.
La
sindaca di Roma Raggi in corsa per la rielezione inaugura chilometri di
ciclabili deserte, moltiplica gli appaltini, dimette i non fedelissimi in
giunta, e dà un premio di produzione ai 22 mila dipendenti del Comune, per un anno in cui non solo “non lavorano” come vuole
la passi, ma “nemmeno sono venuti” in ufficio. Nessun vecchio politico avrebbe
avuto tanta immaginazione, è vero. E, certo, non è un caso di mafia al potere –
mafioso Grillo?
Etichette:
Affari,
Il mondo com'è,
Informazione,
Ombre,
Sinistra sinistra
L’invenzione della salvezza
Un aneddoto promettente: un
ragazzo belga rastrellato dalle SS nella caccia agli ebrei, sfugge alla
fucilazione immediata e poi ai lavori forzati e alla deportazione inventandosi
persiano. Qualcuno gli ha dato in cambio di un panino un libro persiano, e
questo basta. Il tenente SS addetto alla mensa progetta di andarsene alla fine
della guerra a Teheran, a ritrovare il fratello, e vuole imparare il farsì, le
SS canaglia scambiano il ragazzo con un paio di carne in scatola, e il gioco è
fatto: la lingua il ragazzo se la inventa, da ultimo coniando un vocabolario
fatto coi nomi dei deportati.
Un tipico aneddoto da commedia
all’italiana. Ma Perelman, ucraino naturalizzato canadese, forse per non
ripetere Benigni (“«La vita è bella» naturalmente l’ho visto, ma non mi è
piaciuto e non ha niente a che fare con la mia pellicola”), forse deviato da
una sceneggiatura frettolosa, di luoghi comuni, lo sciupa. In un racconto interminabilmente
lungo, benché i tedeschi siano di una sola pasta, stupidi tanto quanto crudeli.
Con un finale inavvertitamente rovesciato: il tedesco buono (di famiglia
poverissima, vivevano vendendo “acqua calda”, si è arruolato perché le camicie
brune sfilavano erette, pasciute e cantavano, e perché il fratello aveva creato
problemi al regime, finché non era fuggito a Teheran) è gabbato dall’ebreo
furbo.
Vadim Perelman, Lezioni di persiano
mercoledì 27 gennaio 2021
Problemi di base esistenziali - 619
spock
Lavorare per vivere, ma vivere per lavorare – per scrivere
per esempio?
“L’intera vita non è che vagabondare in cerca di casa.\
Quado non ci siamo più, l’abbiamo trovata”, T. Dekker,-W.Rowley-J.Ford?
“L’uomo è un albero che non ha cima ai pensieri, né radici
nelle consolazioni; ogni sua forza vitale gli è data senza altro fine che il
dolore”, J. Chapman?
“Essere qui è magnifico”, Rilke?
“Parmi\
un genere di pena\ il troppo godimento” – Caldara, “Gianguir imperatore del
Mogol”?
“Il piacere e il bene sono la stessa cosa”, V. Woolf?
spock@antiit.eu
Cronache dell’altro mondo (91)
La Disney vieta
ai ragazzi, ed esclude dai suoi canali digitali e tv per bambini, cioè dal suo
pubblico, i cartoni animati “Dumbo”, “Peter Pan” e “Gli Aristogatti”, perché “veicolano
messaggi dannosi e razzisti”. Gli adulti possono vederli, ma preceduti dall’avvertenza:
“Il programma include rappresentazioni negative e\o denigra popolazioni e
culture”.
Le colpe.
Dumbo canta in un cartone degli schiavi nelle piantagioni: “E quando poi veniamo
pagati, buttiamo via i nostri sogni” – che sembrerebbe una sana critica: non abbandonare i sogni quando si passa da schiavi a salariati. Peter Pan chiama “pellirosse”
i membri della “sua” tribù Giglio Tigrato. Gli Aristogatti hanno Shun Gon, un siamese
con i denti sporgenti e gli occhi a mandorla.
Bisognerà raddrizzare gli occhi
agli asiatici. Oppure ritrarli come i texani, con la mascella quadrata. Oppure non ritrarli affatto – cancellare l’Asia?
“Negli
Stati Uniti, nonostante quello che si legge, il governo ha dato subito
indicazioni chiare” sulle vaccinazioni contro il covid - Ornella Barra, proprietaria e gestora di Walgeens Boots Alliance, la catena di oltre 21 mila farmacie in tutto
il mondo, che fattura 140 miliardi di dollari: “Il 18 dicembre i nostri farmacisti
hanno iniziato a vaccinare ospiti e lavoratori di oltre 35 mila case di cura in
49 stati”. Stati degli Stati Uniti. Il 18 dicembre. Cioè, con l’inetto Tramp.
Non ne sapevamo niente - i giornali sono
inutili? E delle farmacie per le vaccinazioni non si parla nemmeno. Anche
perché il vaccino non c’è.
Il primo atto della presidenza Trump è stato il
dialogo con la Corea del Nord. Il primo della presidenza Biden è l’invio di
portaerei nel mare della Cina meridionale. Il secondo una inchiesta sulla origine e diffusione del covid.
Sola e abbandonata, nella Sicilia bella e primitiva
Un forte dramma, tra nipotina
lasciata dai genitori emigrati per lavoro in Francia e nonna brusca, isolata, incattivita,
che vive di espedienti, come rivestire i morti. In un luogo abbandonato,
seppure bello – è l’isola di Favignana. Di borghi come borgate di periferia,
derelitti, benché con feste, processioni, gelati e cannoli, e mare colorato –
“Con i piedi nella sabbia” è il sottotitolo, dal romanzo omonimo di Catena
Fiorello.
Non finisce bene. Cioè finisce
bene, ma lontano dalla Sicilia – la storia si vuole siciliana, parlata in dialetto
contratto, asillabico. Dove invece le piccole gioie sono sovrastate dalla indifferenza
e dal dolore, dalla violenza. Dall’incomunicabilità – chi l’avrebbe detto, non
era un tratto della condizione urbana, decentrata, microfamiliare? In anni si
suppone postbellici, quindi remoti, ma non detti – salvo nella scena finale: il
dramma si svolge come nella tragedia greca, senza finestre e senza porte.
Il rovesciamento del paradigma umanitario
della vita di paese, della piccola comunità di conoscenze e tradizioni comuni,
non è una novità. È anzi ricorrente nella narrativa siciliana, che esclude la
solidarietà - non la complicità, quella anzi è d’uso e celebrata, ma la
comprensione, e il sostegno non interessato. Licata, al suo primo film, si
adegua al “ciclo dei vinti”. Sull’onda probabilmente dell’estetica neo realista
ritornante con la cinematografia asiatica che vince i premi, giapponese e
coreana, delle vite ai margini: niente empatia nei mondi “primitivo” o povero, che
invece ne sono dominati (anche distruttivamente, è vero).
Un racconto duro, che avvince malgrado
la povertà delle immagini – o in virtù di esse.
Il film aveva debuttato bene, premiato
al Festival di Taormina. Sfortunato poi al debutto in sala, programmato dalla
distribuzione per il 5 marzo – che sarà vigilia di lockdown.
Paolo Licata, Picciridda, Sky Cinema
martedì 26 gennaio 2021
Letture - 446
letterautore
Bach – Anche
lezioso, lo leggeva Vernon Lee, la narratrice che fu anche studiosa della
musica del Settecento (“La vita musicale nell’Italia del Settecento”). In “The spirit of Rome” ha “un organo a canne ben suonato,
che fa un’imitazione musette di Bach. Una cerimonia piuttosto come i 6\8 del musette, forse
un pizzico troppo dell’elemento danzante, ma grave e quasi perfetta”.
Bach ha un musette,
almeno uno, nei “Pezzi facili”, che certamente la scrittrice conosceva. Vuol
dire che Bach può essere lieve anche nei pezzi gravi.
Bronte – Il massacro dei contadini a opera d Nino Bixio, che Florestano Vancini
rivelò al grande pubblico col film del 1962, vede Sciascia in opposizione a
Verga – cui peraltro si deve la sola testimonianza di quell’evento per molti
anni. Nella novella “Libertà”, poco dopo i fatti, 1882, Verga rappresentava la
vicenda – l’occupazione delle terre e le violenze sui padroni seguite dalla
repressione garibaldina – come una tragedia, un evento del destino. Sciascia ha
nobilitato nel film (secondo quanto del suo contributo ha testimoniato Vancini)
la parte moderata, borghese, della rivolta, che Verga aveva rimosso.
Cinema – “Movimento senza la vita” lo vuole Sciascia (“Angelo Musco e il comico”,
in “«Questo non è un racconto»”, 114), nostalgico del cinema muto. E per ciò
portato al comico, alla “comicità di Charlie Chaplin, Harold Lloyd, Buster
Keaton, Ridolini, nell’ureo silenzio del cinema, che era limite atto a
potenziare il loro «meccanismo». Come pure “dei fratelli Marx, Eddie Cantor,
Jerry Lewis, Totò, Macario e altri comici, il cui «»meccanismo si avvantaggiava o scapitava della parola,
consisteva in atteggiamenti, movimenti, gesti”.
Coro – Nella
tragedia greca è la piazza italiana, spiega Virginia Woolf, “Non sapere il
greco”, 9. Per capire Sofocle, argomenta, bisogna cambiare paesaggio: “Affilare
il contorno delle colline. Vagheggiare una bellezza di pietra e terra,
piuttosto che di boschi e vegetazione”. Ma col sole caldo, per molti mesi, è
tutta un’altra vita: “Si sposta fuori dalle abitazioni, con il risultato, noto
a chiunque visiti l’Italia, che i piccoli fatti vengono discussi in strada,
piuttosto che in casa, e diventano teatrali; le persone sono loquaci”, irridenti,
gioviali, sciolte “di lingua e di spirito”. E “questa è la qualità che per pima
ci colpisce nella letteratura greca: il piglio fulmineo, beffardo, di strada”.
Nela tragedia è il ruolo del coro.
Dante – Niccolò
Tommaseo (“mi dolgono i tommasei”, lamentava lì’amico Manzoni, di cui era assiduo
quasi ogni pomeriggio) ha ben tre volumi di “ragionamenti e note” attorno alla
“Commedia”, di pp. 622, 735 e 732 rispettivamente, per un totale di oltre
duemila pagine.
Humour – È intraducibile? È uno dei lampi di Virginia Woolf alle prese con l’inafferrabile
greco, la lingua e la letteratura (“No sapere il greco”), nel punto in cui si
domanda: “Dove dobbiamo ridere leggendo il greco?” Non ha la risposta, ma sa
che “lo humour è il primo dono a svanire in una lingua straniera”.
Mussolini – “Napoleone”, “poeta scienziato”, “va dando una nuova coltura al popolo
italiano”, “ha debellato l’accademia nell’ultima delle sue incarnazioni: l’accademia
del decadentismo”. Non si pone limiti Giacomo Debenedetti nell’elogio di Mussolini
scrittore sul settimanale “Meridiano di Roma” il 9 maggio 1937 – un breve
saggio riproposto integralmente dalla rivista “Paragone” nel 2007 e ora
introvabile.
Pasolini – “Una specie di sismografo” lo diceva Sciascia nel 1965, commentando il
film “Il Vangelo secondo Matteo”: “Pasolini fa il «Vangelo: ed ecco che comincia
il dialogo tra comunisti e cattolici. Il che, confesso, mi dà grande
inquietudine”.
Riso – Si sottovaluta
nei tanti riferimenti quello a Hobbes, che pure è il più radicale: “tratto
caratteristico della pusillanimità” lo dice, di chi è vanitoso e insieme
aggressivo, presume di se stesso in confronto con gli altri specie se inermi o menomati.
Per Pascal invece, che
lo usa contro i gesuiti - il lassismo morale - smaschera il fatuo e l’inutile.
Shakespeare – “Insuperabile nella crudeltà” lo dice Tabucchi (“Viaggi e altri
viaggi”). In effetti.
Ma Marlowe lo
supera, e gli altri concorrenti – gli “elisabettiani” non precorrevano la guerra civile
e il macellaio Cromwell?
Oppure: tutto non è
già in Seneca?
Sherlock Holmes – È don Chisciotte, col fedele Watson-Sancho Panza. La versione stravolta
di Robert Downey, stralunato, folle, imaginifico, guitto, saltimbanco, rinvia
al modello originale della coppia: don Chisciotte e Sancho Panza. Più o meno
inconscio in Conan Doyle – ma era un gran lettore d a ragazzo.
Viaggio – È una riscoperta. “Ogni luogo nel quale arriviamo in un viaggio è un
sorta di radiografia di noi stesai”, Tabucchi, Viaggi altri viaggi”, 183: “Un luogo non è mai solo
«quel» luogo: quel luogo siamo un po’ anche noi”.
Tabucchi ci arriva sul verso di Rilke:
“Mi riconosci tu, aria, tu che consci i luoghi che una volta erano miei?”. Il
luogo, continua, “in qualche modo, senza saperlo, ce lo portavamo dentro e un
giorno, per caso, ci siamo arrivati” – il suo luogo del cuore erano le Azzorre.
“Il
massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio
si unisce lo spostamento nel tempo”, nota Mario Praz mettendo a confronto un
viaggio in America e uno in Sicilia.
Zola - La moglie di
Zola, Alexandrine, ragazza-madre a vent’anni, ha dovuto abbandonare la sua
neonata agli enfants trouvés e non ha
più potuto avere figli. Si attaccherà a quelli che del marito, Denise e
Jacques. Che Zola aveva avuto, in costanza di matrimonio, con la lavandaia. Lei
contentandosi di vivere la sua vita grazie ai soggiorni autunnali, i tre mesi
settembre-novembre, dagli amici in Italia. Devotissima e amatissima dai figli
di lui, sempre molto materna.
etterautore@antiit.eu
Giallo in grigio
Alla ricerca dell’effetto “Twin
Peaks” - sono anni che Rai 1 insegue le atmosfere sospese di Lynch, ma, sembra,
senza crederci – con effetti misti. Questo “Commissario Ricciardi” ne è la summa.
Il film si apre con la scena
madre immaginata da De Giovanni, il creatore del commissario: il delitto all’Opera,
tra “Cavalleria rusticana” e “Pagliacci”, quando all’urlo in scena “Hanno
ammazzato compare Turiddu” si accoppia l’urlo fuori scena della sarta che
scopre il morto. Naviga poi sul nulla: il grigio è dominane, e i silenzi. Ricciardi è solitario, cinereo, mutangolo. E vaga per angoli e sotto cieli plumbei, bagnati anziché no, e deserti. Interloquendo poco, con caratterizzazioni scontate: napoletane, fasciste, e
fascionapoletane. Con conclusione tronca, dopo
tanto girovagare, in due scene brevi: l’“illuminazione”, e la confessione – di personaggio
di cui non sapevamo nulla (questo trasgredisce la regola fondamentale del giallo).
Molto impegno, e grande sforzo
produttivo, per un film d’epoca, anni 1930 a Napoli, tra costumi, automobili, ambienti,
arredamenti. Si supporrebbe quindi con molta cura. Poteva riuscire meglio. C’è
pure qualche incongruenza. Nel grigiore lampi di un Golfo coloratissimo da cartolina
illustrata, col Vesuvio spostato al corno inferiore, su un mare ceruleo. O da
ultimo il commissario, uno che vive guardando dalla finestra, in colloquio
intimo con la femme fatale, naturalmente “amante del Duce”, alla
quale dà del tu, in automobilina stretta, lui che solitamente non guida, soli
davanti al mare – è la scena di un’altra puntata?
Con un’ottima resa di Serena Iansiti,
la dark lady che invece non lo è – o lo è? Con spreco di Peppe Servillo e
Antonio Milo.
La serie promette “un viaggio
nella Campania anni Trenta”. Per ora no: la produzione d’epoca limita anzi gli
esterni. Qui sappiamo che è Napoli, ma potrebbe essere qualsiasi altro posto.
Il San Carlo teatro del delitto si vede poco. Il palazzo Pallavicini dobbiamo
saperlo che è il palazzo Pallavicini.
Alessandro D’Alatri, Il commissario Ricciardi, Rai 1
lunedì 25 gennaio 2021
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (447)
Giuseppe Leuzzi
Tabucchi
evoca in “Viaggi e altri viaggi”, 191, il nostos
furfantesco di D’Annunzio: “«Perché
non son io co’ miei pastori?», al quale rispose impareggiabilmente Leo Longanesi:
«Perché alloggi al Grand Hotel di Montecarlo»”.
Cercando di spiegarsi l’atipicità della
letteratura greca, V. Woolf (“Non sapere il greco”) si rifà all’Italia, al Sud.
Per capire, spiega, bisogna cambiare paesaggio: “Affilare
il contorno delle colline. Vagheggiare una bellezza di pietra e terra,
piuttosto che di boschi e vegetazione”. E capire che col sole caldo, per molti
mesi, è un’altra vita: “Si sposta fuori dalle abitazioni, con il risultato,
noto a chiunque visiti l’Italia, che i piccoli fatti vengono discussi in
strada, piuttosto che in casa, e diventano teatrali; le persone sono loquaci:
sfoggiano quel tono irrisorio, quella giovialità, quella scioltezza di spirito
e di lingua peculiari alle razze del Sud”.
Giallo etnico
Rileggendolo
in edicola, Sciascia si scopre autore di gialli etnici. Tornando alle prime
letture dei gialli (noir in realtà,
storie di violenza, non il whodunit,
il chi è il colpevole britannico), attorno al 1970, quelli di Sciascia con
quelli classici, di Chandler e di Hammett, il contrasto risaltava già allora forte: quelli
di Sciascia sono – erano – “siciliani”, per una caratterizzazione accentuata,
quasi eccessiva (caricaturale), quelli americani no, anche quando il
delinquente era nero, o irlandese, o ebreo. La Sicilia della “sicilitudine”
affliggendo di un’identità rabbiosamente identitaria, e naturalmente dissipata,
perdente – “lu munnu va n’arreri” di Domenico Tempio.
La
cosa si è ripresentata con la Sicilia di Camilleri, che è invece come tutto il
mondo – come la Palermo di Piazzese. Mentre si sviluppa il tentativo di
mobilitare come fattore etnico la calabresità – in corso nel Millennio, dopo un
primo rapporto dei servizi di intelligence
una dozzina d’anni fa, costantemente poi ripreso, da ultimo dalla Dia nel
Rapporto 2020, che vuole la ‘ndrangheta supermafia mondiale, dalla Russia alla
Terra del Fuoco.
Non
c’è mai stato un giallo etnico a Napoli, che pure pullula di narrazioni etniche.
De Giovanni, per esempio, se ne guarda - pur cattivo con la sua città, per l’inciviltà,
la sporcizia, il disordine, l’improntitudine, la supponenza. La serie “Gomorra”
e Saviano sembrerebbero dire il contrario, ma non biasimano, fanno “spettacolo”,
esibizione di violenza, già nel linguaggio.
Dei
film di mafia da ultimo era stanco lo stesso Sciascia. Fino a negare, se non
era civetteria, di avere visto i film tratti dalle sue opere. A un
intervistatore che glielo chiedeva nel 1987, Sebastiano Gesù, degli Incontri
con il cinema di Acicatena, premetteva: “Sa che io non vedo i film sulla mafia,
non li ho mai visti”. E all’insistente “avrà visto almeno i film tratti dalle
sue opere”, ribadiva secco: “Nemmeno quelli. S’immagini che «Il giorno della civetta» l’ho visto due anni dopo la sua uscita sul circuito commerciale. L’ho
visto a Palermo, al cineforum Casaprofessa, dai salesiani. Sono stato invitato,
sono venuti addirittura a prendermi da casa e così ho avuto modo di vedere il
film”. Concludendo sarcastico: “Eppure era un buon film” (la risposta a S. Gesù è ora in “Questo non è
un racconto”, p. 155)
I pugnalatori
L’Italia
è stata subito divisa tra Nord e Sud anche in America, quando l’emigrazione vi
si allargò. Dalla delinquenza, piccola e grande. Tra fine Ottocento e la prima
metà del Novecento, con radici aeree ancora negli anni di Kennedy, è - fu - napoletana,
siciliana, calabrese. A danno, in principio e per almeno tre decadi, soprattuto
degli emigrati, operai, artigiani, piccoli commercianti, taglieggiati nelle
paghe e nelle rimesse, con crudeltà.
Lo
è – lo è stata - nell’ordine. Oggi della delinquenza napoletana non si parla
più, perché la “napoletanità” non va, non seduce – c’è rimasto solo Saviano. Di
quella siciliana, invadentissima da Petrosino a Sciascia e al “Padrino”, si
parla un po’ meno: la “sicilitudine” ha stancato e comunque è fuori quadro,
effetto Montabano - e i vigneti passati in mano ai veneti, che sanno come fare
(anche se con fortune alterne, vedi il Palermo calcio) e i vini siciliani hanno
portato alla pari con i piemontesi, i veneti, i toscani? Mentre si ingigantisce
la ‘ndrangheta - o le ‘ndranghete, il malaffare è piuttosto anarcoide. A
dismisura: non c’è altro orizzonte, in Calabria e fuori.
Eccellevano
nell’uso dello “stiletto” i delinquenti meridionali a New York, del pugnale.
Uno di essi, Francesco “Frank” Filastò, fondò pure una Scuola di Scherma, dove
si insegnava ai “picciotti” l’uso dello “stiletto”. Come “I pugnalatori”, il romanzo
storico che Sciascia scrisse su certi documenti (piemontesi?) che Lorenzo Mondo
gli aveva trasmessi, una non altrimenti nota “setta” che agiva a Palermo dopo
l’unità. Quelli d’America erano invece addetti al “pizzo” che ogni italiano
doveva pagare, manovale, artigiano, commerciante, dapprima, e poi al pizzo
insieme con la prostituzione, l’azzardo, e l’alcol.
Della
fama di pugnalatori, nell’Italia divisa in America tra Nord e Sud, era stanco pure Sciascia, nel “trattamento” cinematografico del 1972 per Sergio Leone, “C’era
una volta l’America” (ora in “Questo non è un racconto”, p. 5): “Essere
siciliano consiste nell’avere un coltello, nel maneggiarlo, nel farsene ultima ratio contro gli altri. L’America
ha relegato i siciliani alla fama di accoltellatori”. Era stanco degli stereotipi
in genere sulla Sicilia, specie al cinema. Criticando nel 1964 il film di Germi
“Sedotta e abbandonata”, se ne dice infastidito:
dà “della Sicilia, almeno della Sicilia
che io conosco, un ragguaglio piuttosto arretrato e, in qualche tratto, perfino
immaginato”.
Le vigne terrazzate,
dalla Costa Viola al Giura
Viaggiando
nell’inverno del 1981 da Lione verso Losanna Sciascia (v. “Questo non è un
racconto”, p.94) riflette: “Sempre la visione delle vigne ben coltivate che si
arrampicano alla montagna”, in cerca d’insolazione, “mi porta a considerare
quanto di precarietà, di spreco, di insensatezza presieda invece alle cose
italiane”. Confrontava gli anfratti del Giura, è probabile, inconsciamente con i
terrazzamenti di zibibbo che nei suoi primi viaggi in treno sul continente avrà
visto rifulgere dorati tra Scilla e Bagnara, poi abbandonati, perché non si potevano
lavorare con le macchine, e dilavati – come si vedono oggi, una miniera ferrovecchio. In Svizzera, nota Sciascia, “sono delle strisce di terra ad
inclinazioni quasi impossibili, ma contenute da pazienti e solidi
terrazzamenti; lavorato e nettissimo il suolo, curatissime le piante” – erano così
sulla Costa Viola. E rileva: “Certo, non vi si va con il trattore, tutto è a
fatica d’uomo”, anche in Svizzera è come “Lenin diceva: «La terra è bassa», per
dire quanto greve la fatica del contadino”. Con un facile sospetto: “Con ogni
probabilità, a lavorarla sono quegli stessi che alla terra bassa della Sicilia
o della Calabria sono fuggiti”.
Conclusione:
“Così, nell’Italia meridionale non ci sono che trattori, quando ci sono; e in Svizzera
i contadini”.
Calabria
Il
mite Augias le retate del giudice Gratteri lo mandano fuori onda. In tv da Rai
3 si lascia andare: “La Calabria è una
terra perduta”, “ho il sentimento che la Calabria sia irrecuperabile”. Richiesto
di scuse a mente fredda, dà questa spiegazione: l’opinione se l’è formata all’ultimo voto regionale, che non ha premiato il candidato del Pd.
Cioè, conferma che la bocciatura del candidato Pd era giusta?
Il
problema della Calabria è che anche i suoi critici non sono granché?
Easyjet
per propagandare il suo volo su Lamezia paga questa pubblicità: “La Calabria,
terra di mafia e terremoti”. Piove sul bagnato, si dice. Ma che pubblicità è -
a parte la cattiveria: a tagliarseli?
Per
il copywriter dell’agenzia cui
Easyjet ha confidato la campagna pubblicitaria la Calabria migliore è mafia e
terremoti?
Fu
chiamato “Calabria” un piroscafo della compagnia scozzese Anchor Line, varato
il 9 aprile 1901 per la rotta transatlantica - viaggio inaugurale
Livorno-Napoli-New York il 23 maggio. L’emigrazione dalla Calabria, restia nel secondo
Ottocento, quando era invece di massa nella valle padana, in Liguria e nel Triveneto,
diventava consistente (ammonterà a circa 50 mila espatri nel 1905, per due
terzi verso il Nord America) e la Anchor puntava a conquistarsela.
Le
immagini del “Calabria” illustrano il sito storico della Anchor Line, e sono
esposte a Liverpool, al Meyerside Maritime Museum.
Il
Messico ha fatto un’industria del chili, il peperoncino – varietà, sapori, usi.
Tabucchi ne fa un elenco dettagliato in “Viaggi e altri viaggi”: il chile poblano, il secoa, il dulce, il guëro , il serrano, il jalapeño, il chile de árbol – “potrei continuare”,
dice lo scrittore, ma si ferma a quello che chiama il pontifex maximus, il chile habanero.
La Calabria non distingue, basta che sia piccante.
Incapacità
non è, c’è ingegno. Forse il bisogno non è come dicono le statistiche.
Quarantenne
agli arresti domiciliari a Crotone scappa di casa e si consegna ai vicini Carabinieri:
“Preferisco tornare in prigione che subire mia moglie”. Lo condannano per questo
in Calabria a due mesi, per evasione. Ma la Cassazione a Roma lo assolve.
Poi
si dice che in Calabria non c’è giustizia.
Andrea da Barberino, primo Quattrocento,
grande divulgatore di testi francesi, di testi cavallereschi, del ciclo carolingio
e delle tresche “materia di Bretagna”, “I reali di Francia”, “Il Guerrin
Meschino”, ha anche un poema “Aspramonte” o “La canzone d’Aspromonte”. Ma nessuno se ne
occupa, non in Calabria, non della “Canzone d’Aspromonte”.
Il nostos vi si pratica a rovescio. Répaci,
che ci tornò fisicamente, tenendo aperta una casa rupestre e
romantica, su un costone sassoso bonificato con dispendio di soldi e di energie,
non vi trovò estri creativi. Alvaro, che se ne tenne sempre lontano, già dalle medie, ne
originò molti umori – e quelli, alla rilettura, più duraturi.
Bisogna
“tornare” alle origini, ma a distanza, il radicamento va bene con juicio?
Il
brigante Musolino a processo a Lucca ammaliò tutti, anche Pascoli e D’Annunzio,
e Cesare Lumbroso, che pure lo considerava “un criminale nato”. “Musolino Mania!”
poteva intitolare un giornale loale americano, “Uthica Herald Dispatch”, il 7
agosto 1902 – cit. in Nicaso-Barillà-Amaddeo, “Quando la ‘ndrangheta scoprì
l’America”.
leuzzi@antiit.eu
Cercando di spiegarsi l’atipicità della
letteratura greca, V. Woolf (“Non sapere il greco”) si rifà all’Italia, al Sud.
Per capire, spiega, bisogna cambiare paesaggio: “Affilare
il contorno delle colline. Vagheggiare una bellezza di pietra e terra,
piuttosto che di boschi e vegetazione”. E capire che col sole caldo, per molti
mesi, è un’altra vita: “Si sposta fuori dalle abitazioni, con il risultato,
noto a chiunque visiti l’Italia, che i piccoli fatti vengono discussi in
strada, piuttosto che in casa, e diventano teatrali; le persone sono loquaci:
sfoggiano quel tono irrisorio, quella giovialità, quella scioltezza di spirito
e di lingua peculiari alle razze del Sud”.
Giallo etnico
Ecobusiness elettrico
L’impatto sull’ambiente della produzione e lo
smaltimento delle batterie dell’auto elettrica non si calcola.
Polestar, il marchio sportivo di Volvo,
calcola che, ancora prima di andare su strada, la Polestar 2 ha emesso il doppio
di CO2 della Volvo CX40 a benzina, 26 tonnellate contro 14 - per la produzione
delle batterie.
La parità nelle emissioni di CO2 fra i motori
elettrici e a combustione interna si raggiunge dopo 78 mila km. di percorrenza
- sulla base del mix medio europeo di fonti di elettricità (a 112 mila km. con
il mix globale attuale).
Se la potenza elettrica necessaria alla ricarica
della batteria fosse alimentata interamente da fonti rinnovabili, l’auto elettrica
dovrebbe comunque aver percorso 50 mila km per raggiungere la “parità
climatica”, la parità di emissioni di CO2 con un’auto a scoppio – dovendo
smaltire l’eccesso di emissioni di CO2 per la fabbricazione delle batterie.
La diffusione dell’auto elettrica comporterà
un aumento della produzione di elettricità. Che è alimentata in Cina e in
India, e anche in Giappone, prevalentemente dal carbone. Ovunque, anche in Europa, lontana dalla produzione da fonti di energia rinnovabili e non fossili.
Quante centrali bisognerà costruire per
alimentare la nuova domanda di elettricità? Con quali combustibili?
Si installeranno in Italia le 60 mila colonnine
per la ricarica elettrica, che il DL Semplificazioni dice necessarie? Sono a carico dei
Comuni.
Il costo del kw nelle colonnine di ricarica
veloce è di due-tre volte maggiore del kw domestico – alle colonnine veloci
Enel è di mezzo euro, contro i 20 centesimi della ricarica domestica.
L’auto elettrica resterà a lungo gestibile economicamente
solo con gli incentivi pubblici – in Lombardia, calcola “Il Sole 24 Ore”, gli incentivi
possono coprire fino a 18 mila euro, per automezzo.
Nureyev, che fece della danza un’arte maschile
Tra la prima, decisiva, tournée a Parigi del balletto Kirov
dell’allora Leningrado, nel 1962, nel quadro della détente politica tra Est e Ovest, e l’infanzia e il praticantato di Nureyev borsista nella città monumentale e ricca di musei degli zar,
una ricostruzione affascinante. Con la vita nell’Urss, privilegiata per gli
artisti seppure in condivisione dei pochi alloggi, ma sempre sotto un controllo politico
ferreo, e il carattere ribelle del ballerino. Fino alla decisione finale, di
restare in Occidente, drammatica.
Fiennes, che ha voluto – prodotto
e diretto – il docufilm, si è anche riservata una parte, del maestro buono
Alexander Puškin, che asseconda e doma Nureyev adolescente intrattabile, gli dà
da mangiare, un alloggio, e anche la moglie - una divagazione improbabile, forse
richiesta dalle regole di produzione, ci vuole un po’ di nudo. Ma curiosamente trascura la novità di
Nureyev, che pure il titolo del film evoca, “il corvo bianco”, quello che in
russo s’intende per persona fuori dagli schemi: che fece del balletto un’arte
anche maschile, prima il ballerino era giusto un porteur. Concentrato sulla defezione, dalla Russia sovietica in
Occidente, che lo spettatore sa o intuisce, la vita di Nureyev rivista in playback acquista suspense.
Il film è anche un utile ripasso
di quello che il sovietismo era, non molti ani fa – e in Cina è tutt’ora :
ora si può defezionare, il regime cinese dà il passaporto a tutti, ma non
criticare il regime.
Ralph Fiennes, Nureyev – The white crow, Sky Cinema
domenica 24 gennaio 2021
Ecobusiness
Perché non si raccoglie il legno, di cassette, bancali e altri oggetti ingombranti, e facilmente riciclabili?
Perché il packaging (imballaggi, confezionamento),
che si pubblicizza a grandi spese ecofriendly,
rende impossibile la raccolta differenziata? Perché mescolare la plastica col cartone,
in ammassi inestricabili, e peggio con gli scontrini?
Perché gli scontrini indifferenziati e non
riciclabili?
Perché tanta plastica inutile nei supermecati – un formaggino deve avere tre involucri, di cui almeno due di plastica, e uno
di carta con l’irriciclabile scontrino? E nei surrogati della mensa per i
bambini degli asili e delle elementari.
Creato il fenomeno auto elettrica, ora Toyota
e Bosch, che più hanno spinto, fanno surplace.
Restano irrisolti il problema delle rete stradale delle colonnine di rifornimento,
e quello dei tempi di rifornimento. Nonché il problema del potenziamento della
rete elettrica in ragione dei consumi maggiorati. Mentre da subito il tutto
elettrico provoca una emissione eccessiva di anidride carbonica.
“Più auto elettriche produciamo più aumentano
le emissioni di anidride carbonica”, spiega serafico il signor Toyoda, presidente
di Toyota. Per la produzione di energia elettrica in eccesso, che nei paesi
asiatici manufattori delle batteria, Cina, India e Giappone, si fa per metà
ancora a carbone. E per il processo energivoro di produzione delle batterie.
Di cui non si prospetta naturalmente – non ora, dopo – il problema dello smaltimento.
Cronache dell’altro mondo (90)
Gli elettori
di Trump sono detti nei talk-show “bifolchi” – qualifica riecheggiata alla tv
italiana da Alan Friedman, l’americano ex “Economist”, da tempo italianizzato.
“È la definizione più benevola”, nota Federico Rampini: “Mentre è proibito nella
cultura contemporanea manifestare disprezzo per chi ha un colore della pelle
diverso, per chi è gay o musulmano, è normale disprezzare i bifolchi. È persino
considerato una forma di antifascismo”.
A Friedman si deve anche la battuta, a Rai 1:
“Trump si è ritirato in Florida con la sua escort”. Cioè con sua moglie. L’odio
è democratico in America.
“Trump ha scritto una lettera molto generosa”,
confida il neo presidente Biden ai giornalisti:”È privata, non ne parlerò
finché non gli avrò parlato. Ma è stato generoso”. Una commedia degli equivoci, la trasmissione dei poteri, degli errori, uno scherzo? Compreso l’impeachment,
quello passato per il Russiagate, inventato, e quello pendente per l’assalto
al Congresso?
Come Santo Stefano d’Aspromonte conquistò New York
Alcuni episodi di mafia calabrese
a New York, e nei paesi del reggino di provenienza, ricostruiti con puntigliosi,
sorprendenti, scavi archivistici, nazionali e americani (questi, in particolare,
della stampa locale): la lettura è faticosa, tanto la ricerca è dettagliata – e
gli autori, giustamente, non buttano via nulla. Tratto d’unione, in un pulviscolo di informazioni documentarie di persone e fatti minori, la famiglia
dei Filastò, di Santo Stefano d’Aspromonte, cugini dei Musolino del brigante. In
particolare di Francesco “Frank” Filastò, che ha occupato per oltre mezzo
secolo le cronache giudiziarie a New York e a Reggio Calabria, assassino probabile di Joe Petrosino a Palermo, e poi la politica al suo paese d’origine – il
genero Mangeruca sarà sindaco per due mandati dopo la guerra e realizzerà il resort
residenziale e sciistico di Gambarie, comprensivo di un Grand Hotel, con vista
fantasmagorica sullo Stretto e, nei giorni buoni, fino all’Etna, quando il
vulcano aveva ancora nevi perenni.
Una storia, sembrerebbe, d’altri
tempi. La neve ora Gambarie deve farla artificialmente. L’Etna non è più bianco
la gran parte dell’anno. E comunque non si vede: il business dei vivai e della forestazione a oltranza ha tolto la
vista, e anche la luce. O è questa una trasformazione, un secondo o terzo
tempo, della stessa partita, del malaffare? Senza più pugnale oggi, come usava
– faceva usare – Frank Filastò, ma ugualmente senza scampo. Antonio Musolino,
il fratello minore del bandito, sarà ucciso a Tre Aie, località rinomata di Gambarie,
in piena stagione estiva, il 2 luglio del 1961 – da ignoti, naturalmente.
Scavo
Fine Ottocento e primo Novecento,
fino alla seconda guerra, dei malavitosi, i “picciotti”, la “picciotteria”, di
un piccolo triangolo in Calabria, da Reggio nord fino a Solano (il paese del
matriarcato) e Santo Stefano d’Aspromonte, il paese del brigante Musolino, e delle
famiglie con lui imparentate, soprattutto i cugini Filastò. Su cui una
formidabile opera di ricerca viene svolta, negli archivi comunali,
parrocchiali, giudiziari, anche americani, cartacei e online (molta
documentazione è reperibile negli Stati uniti online, ma bisogna saperla
cercare). Con una prefazione di Nicola Gratteri, il giudice scrittore, coautore
di molti libri di mafia con Nicaso. Con un voluminoso corpo di note, e un indice
dei nomi. Col recupero di ogni genealogia e gesta di miriadi di (piccoli)
delinquenti.
C’è anche l’America sullo sfondo.
New York soprattutto, teatro delle gesta, cassa e rifugio dei malavitosi.
Specie nelle due prime decadi del Novecento, quando la malavita si abbarbicò a
Tammany Hall, la “macchina” corrotta e anche assassina del partito Democratico
che dominava la metropoli, pagandosi con gli appalti, la prostituzione,
l’azzardo e l’alcol. C’è la Pennsylvania prossima allo stato di New York. C’è
molto Paterson, per la prostituzione, luogo ora memorabile di poesia (William
Carlos Williams, Jim Jarmush).
Dai tempi di Pontieri non si
ricorda tanta acribia archivistica applicata a persone e cose in Calabria. Peccato
che si applichi alla storia criminale, e di piccola, benché diffusa, criminalità:
taglieggiamenti, specie dei lavoratori calabresi emigrati, come ora avviene nel Mediterraneo tra africani, e “traffico delle bianche”. Il sottotitolo
della ricerca è “1880-1956. Da Santo Stefano d’Aspromonte a New York. Una
storia di affari, crimine e politica”.
Stato-mafia
Una prima parte è attorno al
brigante Musolino. Che a processo a Lucca ammalia tutti, anche Pascoli e
D’Annunzio. La fama fu anzi mondiale, come documentano gli autori: “Musolino,
the famous Italian Brigand” titolava il “New York Times” il 6 ottobre 1901 l’articolo
bene informato di apposito inviato speciale, e subito dopo, il 20 ottobre, “the
most famous”. Di cui gli autori fanno un caso di Stato-mafia come ora è d’uso, prima
di Giuliano-Pisciotta, Riina-Provenzano, Messina Denaro. Al capitolo
“L’ordinanza «liberi tutti»”, e al successivo “La campagna elettorale del
«brigante» Musolino”. L’inviato del “Mattino” al processo di Lucca scrive nel
1902 che “il governo si servì di Musolino, dell’ascendente formidabile che egli
esercitava, della rete di interessi che le sue intimidazioni e la sua leggenda
di inflessibile e fulmineo punitore aveva distesa, se ne servì a scopo elettorale”.
Dapprima il governo del generale Pelloux, 1898, poi il ministro dell’Interno
Giolitti nel governo Zanardelli.
La questione – Giolitti e i
prefetti – era stata già indagata sulle fonti da Spadolini in “Giolitti e i
cattolici”, 1960. Ma in contesto politico e non mafioso. Il precedente,
purtroppo, non spiega il presente. Attardarvisi non risolve, e áncora l’antimafia
a modelli antiquati – non mancano nemmeno Osso, Mastrosso e Carcagnosso. Come se
i mafiosi fossero scemi. O nessuno li conoscesse.
Antimafia?
Restano sempre da indagare le
cause di questa criminalità, e la relativa impunibilità. Gli assetti socio-psicologici,
quelli reali e attivi anche se complessi - un po’ come Adorno fece i
totalitarismi e il razzismo, “La personalità autoritaria” - senza modelli o
paraocchi, fuori dagli schemi. Fuori quindi dalle bolse dialettiche ricchi\poveri,
borghesi\lumpen. Di tanta diffusa delinquenza il volume documenta che molti sapevano
scrivere, seppure sgrammaticato, il che un secolo fa non era frequente, qualcuno
perfino in inglese.
Per il lettore è anche
interessante che gli stessi nomi - le stesse famiglie allora criminali? - negli
stessi luoghi, negli Stati di New York e New Jersey, perfino agli stessi
indirizzi, con proiezioni a Chicago e in Pennsylvania (qui ora quasi scomparse),
abbiano prosperato legalmente, per capacità e applicazione, Bueti, Filastò,
Chirico, Costa. Mentre per associazione a delinquere sono a processo nel 1929 a Locri
gli stessi nomi di San Luca oggi, Pelle, Nirta, Strangio e Trimboli: hanno quindi
continuato – hanno potuto continuare – a delinquere per un secolo.
Un volume denso, di storia, non
la solita sveltina sui mafiosi, che fanno tanto mercato dopo “Gomorra”. Documentato,
anzi con uso fin troppo esteso delle pezze d’appoggio archivistiche. Con la seriosità
degli storici. Con qualche trascuratezza, se si tratta di fatti o aspetti che
non rientrano nella trattazione di programma, che però la narratologia avrebbe
consigliato di non trascurare. Un “modernissimo piroscafo” denominato “Calabria”
ricorre a un certo punto per viaggi in Nord America. Di chi, quando, da dove? San
Luca non è “sede del santuario della veneratissima Madonna di Polsi”, ne dista
un paio di ore, di buon passo. Si rileva di passaggio, incidentalmente, l’atto
di nascita della parola ‘ndrangheta, nella denuncia del maresciallo dei
Carabinieri Delfino all’autorità giudiziaria il 4 dicembre 1923: “Da più tempo
esisteva una vasta associazione a delinquere denominata «Ndranghiti»” - che
qualcuno, precisano gli autori, “chiamava «drancati» o anche «dranghita»”. Molti
elementi trascurati sono passibili di sviluppi. Si sarebbe certamente voluto
sapere di più di “donna” Angelina Nostro, “l’angelo di Broome Street”, moglie
di malavitosi, filantropa, “la munifica scillese tammanyta imparentata con
Frank Filastò”, che ebbe nel 1924 funerali si direbbe “di Stato” a New York,
tanto furono imponenti e ben frequentati.
Terra
perduta
Leggendola quando alla Rai si
dice la Calabria “terra perduta” e “irrecuperabile”, la ricerca colpisce per un
assetto che si vuole solo negativo. Come un cannocchiale senza panoramica,
puntato sui punti oscuri. Non c’è altro calabrese che picciotto. La drogheria-banca
è covo di malfattori, mentre è istituzione popolare – tra l’altro rinverdita
per gli immigrati in Italia dai tanti alimentari e call center asiatici, per telefonare,
trasferire i risparmi, fare le pratiche (ancora viva nella stessa Italia, per
es. a Roma, dal droghiere o con la cassa peota). Chirico, “Due boss calabresi a
Manhattan”, è uno incensurato, uno dei tanti piccoli o microborghesi che
pullulano nei piccoli commerci degli emigrati, dalla manovalanza al commercio
minimo e piccolo.
L’emigrazione è sempre miseria e
lamento, mentre era anche avventura, coraggio, decisione di cambiare e di innovare.
Ed era regolata. Una cosa normale ma da sottolineare, a fronte oggi
dell’inanità europea perfino miracolosa. Che tanti emigranti, decine di
migliaia ogni anno, viaggiassero con visto e biglietto, sia pure pagato da
parenti o amici qualche volta non raccomandabili. Con emigranti che avevano la
cittadinanza dopo appena sei anni di residenza negli Stati Uniti - dove i nati erano
per legge cittadini.
Con lo sguardo purtroppo in
negativo che tanta pubblicistica, l’unica che se ne fa, proietta sulle origini, il nome, i luoghi, la società – “basta la
parola” di una vecchia pubblicità, e subito si scatena una sorta di
dilettazione nel cinismo. Mentre documenta perché la criminalità diventa
cronica e diffusa: quando le Autorità, come le fonti prospettate dagli
autori dimostrano, si limitano a registrare passive i fatti e le voci
(testimonianze, più o meno anonime), e il crimine non viene in realtà
contrastato, il sopruso, il pizzo, l’aggressione. Sospettato, temuto, ma non
confrontato, non subito, con la stessa o maggiore forza. Ogni denuncia viene recepita
e commentata senza mai intervenire, come fatto privato.
È il tipo di racconto che Gay Talese
ha immortalato nella memoria del padre, “Ai figli dei figli”, e nella
cronistoria dell’ascesa e declino dei mafiosi siciliani Bonanno, “Onora il
padre”: non c’è il male a prescindere, di cui non ci occuperemmo, bastano i
Carabinieri, c’è un insieme di eventi, personaggi, concause. Ma questo effetto è
mancato. Perché ci occuperemmo di pochi, ignoti, pluriassassini della periferia
di Reggio Calabria se non in un contesto? L’effetto è invece sconcertante, di
tanto impegno professionale, perfino scientifico, oltre che naturalmente
d’intelligenza e capacità, profusi su personaggi deteriori e probabilmente
marginali, che assurgono a unici esponenti di comunità.
Antonio Nicaso-Maria
Barillà-Vittorio Amaddeo, Quando la
‘ndrangheta scoprì l’America, Mondadori, pp. 399, ril. € 25
Iscriviti a:
Post (Atom)