sabato 6 febbraio 2021
Problemi di base russi - 621
Bisogna
aver paura di Putin?
La bellezza è di tutti
Una delle lezioni di Eco alla
Milanesiana, il festival di Elisabetta Sgarbi, che lo scrittore animò fra il
2001 e il 2015 – pubblicate postune nel volume “Sulle spalle dei giganti”, con
i materiali visivi che proponeva nelle sue esposizioni.
Emerito all’università, Eco vi
riversa il suo insegnamento amabile, discorsivo e insieme preciso. La bellezza
è variabile, come il gusto. E apparentemente confusa: un “visitatore dal futuro”
troverebbe Hyeroymus Bosch contemporaneo di Antonello da Messina, e coloro che
visitano una mostra d’arte contemporanea, dell’arte che vuole rompere tutti i
canoni, “vestiti secondo i canoni della moda”, in jeans o firmati – “essi
seguono gli ideali di bellezza proposti dal mondo del consumo commerciale, quella
contro cui si è battuta per cinquanta e più anni l’arte delle avanguardie” (che
l’immagine così sintetizza: “La violoncellista e performer Charlotte Morman
coperta di telo di plastica - trasparente, n.d.r. - suona tenendo il puntale
nella bocca di uno sconosciuto”, sdraiato per terra).
Su questo tema, però, l’ironia Eco
esercita contenuta, non dissolvente: la bellezza ha varie forme, che alcuni
trovano brutte, ma una cosa assicura, la gratificazione universale. Se ciò che
ci sembra buono non ci appartiene, non può appartenerci, ci sentiamo impoveriti,
mentre “per quel che concerne la bellezza, pare che la gioia per le cose belle
sia decisamente separata dal loro possesso”.
Umberto Eco, La bellezza, “la Repubblica”, pp. 44, gratuito col quotidiano
venerdì 5 febbraio 2021
Ombre - 528
La
Germania vuole contro la Russia nuove sanzioni economiche, dopo la
tragicommedia di Navalny – l’avvelenamento e la condanna. Ma in proprio va
avanti col progetto di fare della Germania l’hub, a pagamento, del gas russo
per tutta l’Europa. Che da solo vale metà di tutto l’ex-import europeo con la
Russia. Sembra incredibile, ma è armiamoci e partite.
Se non è, peggio, ammuìna, per pagare meno il gas.
Il
cancelliere socialdemocratico tedesco Schrõder ha firmato nel 2005 accordi con
Mosca per l’importazione via Germania di 55 miliardi di metri cubi di gas
l’anno. E nel 2012, da privato consulente della russa Gazprom, ha raddoppiato:
110 miliardi di mc, una quantità iperbolica, pari a un quarto\un terzo dei
consumi di gas di tutta la Ue. In pratica, ha fatto della Germania l’agente di
commercio di Gazprom. Con la quale si è riccamente pensionato, con un contratto
milionario di contratto di consulenza. Tutto normale.
Chi
era Conte? Nessuno. Chi è oggi? Nessuno: s’è fatta fare una crisi politica da
pivellino. Dopo essere stato il capo del governo così a lungo, e nella crisi,
grave e gravissima. Con Conte e senza Conte, si direbbe, si vive ugualmente
(male). Ma senza Conte i 5 Stelle non ci sanno stare: hanno bisogno di un papà,
anche se spurio? Come già con Grillo.
Uno
storico, immaginando che l’Italia abbia un futuro e quindi una storia, avrà problemi a capire,
oppure si divertirà. Leggendo i giornali di questi giorni, con sei, otto,
dieci, dodici pagine per dire che l’Onorevole Ignoto, o l’Onorevolessa, è
passato\a di sera a un partito, e la mattina a un altro. Penserà che Parlamento
fosse un videogioco.
I
generali birmani hanno imprigionato Aun San Suu Kyi per importazione illegale
di walkie-talkie. Di walkie-talkie, non di iPhone 12 da mille o duemila euro. Non
è andata la polizia ad arrestarla per il grave delitto, magari mandata da un giudice, hanno provveduto
con i carri amati. E Russia e Cina all’Onu si sono affrettate a coprirli: l’importazione
illegale di walkie-talkie è delitto grave.
I
dipendenti di Roma Capitale, ai quali la sindaca Raggi in vista delle elezioni ha
assegnato un premio di produzione, per il 202o, anni nel quale avevano cessato
anche di andare in ufficio, nonché di non lavorare, hanno registrato nello stesso anno, benché ad attività
ridottissima, un numero record di procedimenti disciplinari per corruzione – per
corruzione cioè accertata. Grazie alla gestione dei sussidi covid – mammella
nel 2020 più pingue della vigilanza urbana e dell’urbanistica. Non si può dire
che i 5 Stele di Virginia Raggi non siano aggiornati.
Si
può dare torto a Renzi che non ha voluto al governo Bonafede e l’abolizione
della prescrizione? No, da nessun punto di vista: abolire la prescrizione va
contro ogni principio etico e giuridico. Bonafede certo è un magistrato. Anzi,
ministro della Giustizia. Del governo di un avvocato: ci volevano i giuristi al
governo per obliterare il diritto.
Un
governo di giuristi, dunque, il Conte defunto. Che in tre anni non ha fatto nulla
per la giustizia: accrescere gli organici, semplificare le procedure, accelerare
i processi, entro tempi equi, rivedere le carcerazioni. Questi giuristi della
patria del diritto non sanno di che e come è fatto il mondo, e non gliene frega.
Quando,
un giorno, andranno sotto processo, Bonafede per la scarcerazione dei mafiosi e
Conte per qualsiasi cosa – non è necessario in Italia avere commesso un delitto
- si invocherà per essi l’abolizione della prescrizione. Che chiunque in
qualsiasi momento possa mandarli a processo. Non a giudizio, a processo, che in
Italia dura mediamente dieci anni.
Dunque
il portavoce del presidente del consiglio, Casalino, prende(va) più del
presidente del consiglio stesso Conte, 169 mila euro contro 117 mila. Lui,
sembra di ricordare, ingegnere, forse non laureato, aveva vinto il Grande
Fratello al debutto – mentre Conte non lo avevano nemmeno preso, da qui il
diverso cachet? L’etica di
questa Repubblica grillina è
stupefacente.
Renzi
che fa dell’Arabia Saudita la Firenze del nuovo Rinascimento senza perdere lo
spiritaccio fiorentino,
acculandola cioè a metà Trecento, fa più brutta o più bella figura? È uno che
ha sempre
viaggiato:
quando era sindaco di Firenze non era mai in città, ne spendeva il nome in giro
per il mondo.
Ora ha pure migliorato l’inglese, molto: stare fuori di Palazzo Chigi gli ha
giovato, deve
avere
messo a frutto la vacanza con viaggi di studio.
L’uomo
più corrotto della Cina viene giustiziato perché aveva la stanza ingombra di
mazzette. Un importante banchiere, oltre che un dirigente del Partito, che governava
un ente ciclopico, China Huarong Asset Management, “colosso statale di
gestione dei crediti bancari deteriorati”, teneva i soldi in mazzette. Magari
in yuan, forse non poteva cambiarli. Ma tutto si può raccontare, i giornali ci
credono.
Si
fanno le purghe in Cina, dei corrotti: tutti corrotti i non fedelissimi del
presidente Xi, non più antipartito. La Cina si è modernizzata.
Però
non li fucila, li impicca. Che non sia simbolico? Anche Hitler alla sconfitta,
dopo aver sperimentato le Einsatzgruppen,
che uccidevano in un colpo solo migliaia di persone, le camere a gas, e la mannaia, si mise a impiccare
uno per uno gli oppositori: la forca prelude alla fine?
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L'Oriente raccontato, con brio
Un quadro infine veritiero della
Cina. Che non è il paese dei balocchi che crede Di Maio, il giovanotto artefice
della politica estera dell’Italia – ammesso che la Cina non confonda con quella
di Disneyland. La ricostruzione della gestione cinese dell’epidemia, prima e
dopo il suo acclaramento, è circonstanziata e terribile – temibile. Ma bisogna
arrivarci, nella terza e ultima parte. L’ultima parte è originale - in Italia
unica, soprattutto a sinistra – e importante: la Cina politica è quella che era, prima di Deng e
dell’arricchitevi: censurata e militarizzata, col culto del Capo di nuovo, come
al tempo di Mao, o di Stalin, e dei processi – ora per corruzione.
Dalla Cina, sappiamo in questa
parte, sono venute nella storia soprattutto le epidemie. L’epidemia Antonina, o
di Galeno, dal 165 d.C. per circa quindici anni, con una mortalità calcolata al
25 per cento della popolazione – euroasiatica? La peste del “Decamerone”, diffusa
in tutta Europa, che fece tra 200 e 400 milioni di morti. La peste bubbonica
del secondo Ottocento, 1855-1900. Più altre pesti minori, tipo quella di Milano
e quella di Londra. Dall’India viene il colera.
Fino
a metà libro è quello che sappiamo, l’Oriente
e l’Occidente che “conosciamo”, cioè gli stereotipi – “Massa e individuo” è il
sottotitolo. Con tutto il corredo: il “complesso di superiorità”, la superbia,
la storia di tre e quattromila anni, i funzionari hegeliani (mandarini), la
stampa, la bussola (la bussola non c’è, ma sì i cinesi che sanno navigare con
le stelle – come i fenici, come gli stessi greci delle isole, e anche della terraferma?),
la spiritualità (buddhismo, confucianesimo, yoga, anche induismo - un po’), da
una parte, dall’altra il colonialismo, naturalmente infame, e sbocciato per
caso, sul nulla, fino all’occidentalismo forzoso delle ultime classi dirigenti
asiatiche, a partire da Sun Yat Sen, il padre della Cina moderna, cittadino americano, fino a Ho Chi Min, Zhu Enlai, Deng Xiaoping a Parigi, e della figlia del
presidente Xi a Harvard. Con atto di pentimento incluso. Sulla scia di opere
fantastoriche, da Marco Polo a Montesquieu (ma non ci sono le “Lettere
persiane”), Hermann Hesse, in dettaglio, Edward Said, Camille Paglia, e alle storie di
due neo americani, Abbas Amanat, “Iran”, e Tamim Ansary, “The Invention of
Yesterday”, sul magnifico e munifico Oriente a fronte del bigio Occidente di
Temistocle e Trump – manca Kissinger, curioso, poiché è quello che ne sa di
più, avendo scoperto la Cina recentemente, nel 1971. Con padre Matteo Ricci e i
“riti cinesi”, e con Niccolò Mannucci.
A metà libro si passa alle cose
viste, e s’impara molto, divertendosi. Una scoperta: Rampini sa raccontare. Perfino
di Marie Kondo. Dei mercatini “umidi” cinesi, di animali vivi. Della mindfulness. Del buddhismo italiano.
Della sua scoperta dell’India – e di Modi, il “Trump indiano”. L’elenco sarebbe
lungo, ma alla lettura scorre con gusto. Anche lo yoga prende colore, e il nazionalismo ipernipponico, padre degli ipernazionalismi asiatici, cinese, coreano, indiano.
A metà libro Rampini si libera
del compitino del corrispondente, o del divulgatore (della passione della Grande Storia, certo, ma di cui purtroppo tutti sanno tutto), prendendo la staffetta, si direbbe, di
Terzani, l’altro corrispondente navigato e viaggiatore curioso in Oriente, politico
e non, fiorentino anche lui, con la stessa verve.
Quando passa a scrivere di quello che vede o ha visto, ricorda, sente,
immagina.
I “due” libri sono un contributo
insieme propedeutico e – provvisoriamente - conclusivo alla conoscenza
dell’Oriente. E dell’Occidente. L’Oriente non sappiamo pensarlo, ancora, anche
l’“orientalista” Rampini, che in rapporto all’Occidente. Ma è l’Occidente a
questo stadio a “rivelarsi”, a cominciare a capirsi, se non a mettersi in
questione: i tempi della decadenza (Santo Mazzarino) non sono propizi all’autocritica,
sono al più dolenti, smemorati - l’autocritica è dei generali al fronte, insomma combattivi.
Senza però fretta, o
cortocircuiti. Rampini, come tutti, non valuta, o sottovaluta, il gioco degli
specchi cui l’America ha assoggettato l’orbe, da ultimo col mondo virtuale, dei
social e gli short message. Mentre il business
corre indisturbato – questa non è la terza o quarta volta in una generazione
che sentiamo parlare di declino americano, con l’inconvertibilità del dollaro,
la sconfitta in Vietnam, la fine delle multinazionali, il crac bancario? È un
modello vecchio di quasi un secolo, e non appare cambiato: chiacchieriamo
chiacchieriamo, ma allo stato dei fatti? Ora la Cina è al punto a cui era
arrivato il Giappone negli anni 1980: vuole sfidare gli Usa? Non può, e non
vuole – per ora non può, e il guizzo di cannoniere nel mare della Cina
meridionale lo mostra, un gesto impotente: o la Cina cambia regime e torna alla
guerra fredda oppure abbozza. Non un’alternativa, in realtà: tornare alla
guerra fredda non può, troppi cinesi si stanno arricchendo e sarebbe una
Tienanmen continentale.
Fatti
i pesi, recuperati i fondamentali, molto però, è vero, resta da dire. I due
mondi sono diversi, ma non molto, non più oggi, quanto a stili di vita e di
pensiero, la globalizzazione è anche dei gusti e dei modi. La vera diversità
resta sempre quella, degli assetti politici, e del rilievo dell’opinione
pubblica. Sono però anche diversamente in movimento. In espansione, economica,
imperialista, l’Asia. In trincea, confusi, gli Stati Uniti e l’Europa. Le
identità, storiche o fantasiose che siano, contano poco.
La
globalizzazione, disegnata dagli Stati Uniti post-Reagan come l’arma assoluta
per dominare il mondo, passando sopra perfino a Tienanmen, opera come un boomerang: le “catene di valore”, con i
cinesi alla soma trent’anni fa, li vedono ora in cassetta, e col frustino. Si
può rimediare, ma poco, si è visto con Trump: sì, embarghi, contingenti,
eventualmente sanzioni, perché no, c’è Hong Kong ferita aperta, ma non più di
tanto. Se la “catena di valore” (produciamo tutto in Cina) è sempre troppo
conveniente, l’affarismo non si lascerà sopraffare dalla ragione politica. Anche
se l’Occidente si svena – si lascia improsare al centro commerciale, nella
finta affluenza, nel mentre che s’impoverisce. E la ragione politica in Cina
traballa, se non è già solo di cartapesta, una facciata: che ne sarà domani,
presto, della Cina con un miliardo di auto circolanti e due miliardi di conti
in banca, il partito Comunista si limiterà a fare da cassiere e da vigile urbano?
Rampini
già da vent’anni ammonisce che la Cina non è una potenza, è una superpotenza.
Kissinger è più cauto. Ma non c’è da fare conti o sommatorie: la storia è sempre
piena di variabili, e in progress . E
la Cina, a una seconda occhiata, si direbbe il colosso dai piedi d’argilla. Una
piramide rovesciata. Su un partito segreto, che si governa male, si vede, per
quanto poco, dalle liquidazioni o condanne a morte - un tempo a base di
ortodossia ora a base di corruzione. Tutte le frasi fatte vengono buone per
dire che il boom interminabile cinese ha basi instabili, tolto l’arricchimento
di produttori e importatori occidentali – l’Occidente nella globalizzazione ha
assunto il ruolo della classe “compradora” dei vecchi studi terzomondistici:
una borghesia che tanto più si arricchisce quanto più trascura o oblitera ruolo
e funzione. Le “catene di valore” si basano peraltro sul lavoro servile, senza
minimi e senza orari, che non può durare.
Anche la storia andrebbe rivista.
C’è una condiscendenza supina alla superbia cinese. Dice che la Cina scriveva
poesia quando noi ci rotolavano nel fango, mangiando anche noi animali vivi, ma
ammazzandoli con le mani. La Cina, così piena di storiografia, non ebbe
cognizione dell’impero romano. Né l’impero seppe della Cina imperiale e
gloriosa Sì, comprava sete, che apprezzava, e nulla più. Si dice anche che il
Cristo a Cafarnao seppe di Buddha e di Confucio – ma forse il sionismo pretende
troppo, “toledothare” Cristo e farsene monumento.
Con una bibliografia, e con un
utilissimo indice dei nomi.
Federico Rampini, Oriente Occidente, Einaudi, pp. 279 €
17
Dalla Cina, sappiamo in questa parte, sono venute nella storia soprattutto le epidemie. L’epidemia Antonina, o di Galeno, dal 165 d.C. per circa quindici anni, con una mortalità calcolata al 25 per cento della popolazione – euroasiatica? La peste del “Decamerone”, diffusa in tutta Europa, che fece tra 200 e 400 milioni di morti. La peste bubbonica del secondo Ottocento, 1855-1900. Più altre pesti minori, tipo quella di Milano e quella di Londra. Dall’India viene il colera.
Fino a metà libro è quello che sappiamo, l’Oriente e l’Occidente che “conosciamo”, cioè gli stereotipi – “Massa e individuo” è il sottotitolo. Con tutto il corredo: il “complesso di superiorità”, la superbia, la storia di tre e quattromila anni, i funzionari hegeliani (mandarini), la stampa, la bussola (la bussola non c’è, ma sì i cinesi che sanno navigare con le stelle – come i fenici, come gli stessi greci delle isole, e anche della terraferma?), la spiritualità (buddhismo, confucianesimo, yoga, anche induismo - un po’), da una parte, dall’altra il colonialismo, naturalmente infame, e sbocciato per caso, sul nulla, fino all’occidentalismo forzoso delle ultime classi dirigenti asiatiche, a partire da Sun Yat Sen, il padre della Cina moderna, cittadino americano, fino a Ho Chi Min, Zhu Enlai, Deng Xiaoping a Parigi, e della figlia del presidente Xi a Harvard. Con atto di pentimento incluso. Sulla scia di opere fantastoriche, da Marco Polo a Montesquieu (ma non ci sono le “Lettere persiane”), Hermann Hesse, in dettaglio, Edward Said, Camille Paglia, e alle storie di due neo americani, Abbas Amanat, “Iran”, e Tamim Ansary, “The Invention of Yesterday”, sul magnifico e munifico Oriente a fronte del bigio Occidente di Temistocle e Trump – manca Kissinger, curioso, poiché è quello che ne sa di più, avendo scoperto la Cina recentemente, nel 1971. Con padre Matteo Ricci e i “riti cinesi”, e con Niccolò Mannucci.
A metà libro si passa alle cose viste, e s’impara molto, divertendosi. Una scoperta: Rampini sa raccontare. Perfino di Marie Kondo. Dei mercatini “umidi” cinesi, di animali vivi. Della mindfulness. Del buddhismo italiano. Della sua scoperta dell’India – e di Modi, il “Trump indiano”. L’elenco sarebbe lungo, ma alla lettura scorre con gusto. Anche lo yoga prende colore, e il nazionalismo ipernipponico, padre degli ipernazionalismi asiatici, cinese, coreano, indiano.
A metà libro Rampini si libera del compitino del corrispondente, o del divulgatore (della passione della Grande Storia, certo, ma di cui purtroppo tutti sanno tutto), prendendo la staffetta, si direbbe, di Terzani, l’altro corrispondente navigato e viaggiatore curioso in Oriente, politico e non, fiorentino anche lui, con la stessa verve. Quando passa a scrivere di quello che vede o ha visto, ricorda, sente, immagina.
I “due” libri sono un contributo insieme propedeutico e – provvisoriamente - conclusivo alla conoscenza dell’Oriente. E dell’Occidente. L’Oriente non sappiamo pensarlo, ancora, anche l’“orientalista” Rampini, che in rapporto all’Occidente. Ma è l’Occidente a questo stadio a “rivelarsi”, a cominciare a capirsi, se non a mettersi in questione: i tempi della decadenza (Santo Mazzarino) non sono propizi all’autocritica, sono al più dolenti, smemorati - l’autocritica è dei generali al fronte, insomma combattivi.
Senza però fretta, o cortocircuiti. Rampini, come tutti, non valuta, o sottovaluta, il gioco degli specchi cui l’America ha assoggettato l’orbe, da ultimo col mondo virtuale, dei social e gli short message. Mentre il business corre indisturbato – questa non è la terza o quarta volta in una generazione che sentiamo parlare di declino americano, con l’inconvertibilità del dollaro, la sconfitta in Vietnam, la fine delle multinazionali, il crac bancario? È un modello vecchio di quasi un secolo, e non appare cambiato: chiacchieriamo chiacchieriamo, ma allo stato dei fatti? Ora la Cina è al punto a cui era arrivato il Giappone negli anni 1980: vuole sfidare gli Usa? Non può, e non vuole – per ora non può, e il guizzo di cannoniere nel mare della Cina meridionale lo mostra, un gesto impotente: o la Cina cambia regime e torna alla guerra fredda oppure abbozza. Non un’alternativa, in realtà: tornare alla guerra fredda non può, troppi cinesi si stanno arricchendo e sarebbe una Tienanmen continentale.
Fatti i pesi, recuperati i fondamentali, molto però, è vero, resta da dire. I due mondi sono diversi, ma non molto, non più oggi, quanto a stili di vita e di pensiero, la globalizzazione è anche dei gusti e dei modi. La vera diversità resta sempre quella, degli assetti politici, e del rilievo dell’opinione pubblica. Sono però anche diversamente in movimento. In espansione, economica, imperialista, l’Asia. In trincea, confusi, gli Stati Uniti e l’Europa. Le identità, storiche o fantasiose che siano, contano poco.
La globalizzazione, disegnata dagli Stati Uniti post-Reagan come l’arma assoluta per dominare il mondo, passando sopra perfino a Tienanmen, opera come un boomerang: le “catene di valore”, con i cinesi alla soma trent’anni fa, li vedono ora in cassetta, e col frustino. Si può rimediare, ma poco, si è visto con Trump: sì, embarghi, contingenti, eventualmente sanzioni, perché no, c’è Hong Kong ferita aperta, ma non più di tanto. Se la “catena di valore” (produciamo tutto in Cina) è sempre troppo conveniente, l’affarismo non si lascerà sopraffare dalla ragione politica. Anche se l’Occidente si svena – si lascia improsare al centro commerciale, nella finta affluenza, nel mentre che s’impoverisce. E la ragione politica in Cina traballa, se non è già solo di cartapesta, una facciata: che ne sarà domani, presto, della Cina con un miliardo di auto circolanti e due miliardi di conti in banca, il partito Comunista si limiterà a fare da cassiere e da vigile urbano?
Rampini già da vent’anni ammonisce che la Cina non è una potenza, è una superpotenza. Kissinger è più cauto. Ma non c’è da fare conti o sommatorie: la storia è sempre piena di variabili, e in progress . E la Cina, a una seconda occhiata, si direbbe il colosso dai piedi d’argilla. Una piramide rovesciata. Su un partito segreto, che si governa male, si vede, per quanto poco, dalle liquidazioni o condanne a morte - un tempo a base di ortodossia ora a base di corruzione. Tutte le frasi fatte vengono buone per dire che il boom interminabile cinese ha basi instabili, tolto l’arricchimento di produttori e importatori occidentali – l’Occidente nella globalizzazione ha assunto il ruolo della classe “compradora” dei vecchi studi terzomondistici: una borghesia che tanto più si arricchisce quanto più trascura o oblitera ruolo e funzione. Le “catene di valore” si basano peraltro sul lavoro servile, senza minimi e senza orari, che non può durare.
Anche la storia andrebbe rivista. C’è una condiscendenza supina alla superbia cinese. Dice che la Cina scriveva poesia quando noi ci rotolavano nel fango, mangiando anche noi animali vivi, ma ammazzandoli con le mani. La Cina, così piena di storiografia, non ebbe cognizione dell’impero romano. Né l’impero seppe della Cina imperiale e gloriosa Sì, comprava sete, che apprezzava, e nulla più. Si dice anche che il Cristo a Cafarnao seppe di Buddha e di Confucio – ma forse il sionismo pretende troppo, “toledothare” Cristo e farsene monumento.
Con una bibliografia, e con un utilissimo indice dei nomi.
Federico Rampini, Oriente Occidente, Einaudi, pp. 279 € 17
giovedì 4 febbraio 2021
Il mondo com'è (421)
astolfo
Sacro piede - Il rito papale
del bacio dei piedi a Pasqua rifà alla cronaca evangelica della vigilia della
Passione, quando Gesù, dopo l’Ultima Cena, lava i piedi degli Apostoli come a
indicare loro la via della predicazione, del proselitismo. I papi hanno,
soprattutto di recente, continuato il rito, lavando i pedii normalmente di
dodici sacerdoti – Giovani Paolo II di dodici poveri. Ma con alcune varianti.
Per la settimana santa del 2019 il papa Francesco ha lavato e baciato i piedi
di alcuni detenuti “di tutte le fedi”, cioè compresi alcuni mussulmani. E ha
baciato le scarpe dei capi politici del Sud Sudan, convitati a Roma per fare la
pace – a conclusione di un ritiro spirituale a questo fine di due giorni nella
sua casa a Santa Marta. A chiudere un conflitto fra i due vice-presidenti che
ha fatto 400 mila morti e quattro milioni di sfollati – s una popolazione
stimata in undici milioni. Il bacio
della scarpa intendendo un rovescio del rito del “bacio della sacra pantofola”
del pontefice stesso da parte dei dignitari della corte pontificia, abolito d a
Giovanni XXIII.
Papa
Paolo VI, dopo la chiusura dell’Anno Santo, il 14 dicembre 1975, invitò nella
Cappella Sistina il metropolita Melitone, della chiesa di Calcedonia a Kadiköy,
la periferia nord di Istanbul sulla costa asiatica, e gli baciò senza preavviso
i piedi – anche in questa occasione calzati. In riparazione, intendeva, del
Concilio di Firenze alcuni secoli prima, quando il papa Eugenio IV per
celebrare l’unità fittizia ritrovata con la chiesa ortodossa, volle che gli ortodossi
si umiliassero a terra, con la scusa di baciare il sacro piede.
Francesi-tedeschi – Non solo i Franchi al Nord, i
Germani penetrarono la Francia in gran numero anche nella parte centrale, al
confine con l’attuale Svizzera. Nell’anno 49 a.C. , del ritorno di Cesare dalla Gallia,
i Germani in gran numero, fra i 100 e i 150 mila, attraversarono il Reno a
Basilea, invadendo le terre degli Elvezi, una tribù bellicosa. Che però trovò
più facile spostarsi a sua volta verso ovest, all’interno della Gallia.
Stefan George, che ha rifatto la poesia
germanica, solo da grande a Belino scelse il tedesco, essendo cresciuto col
francese lungo il Reno, dopo aver fatto tesoro a Parigi di Mallarmé e Verlaine.
Una scelta
inversa aveva fatto Heine, l’altro innovatore della lingua poetica tedesca. Che
è singolare cartina di tornasole dell’identità tedesca. Un po’ come la Resistenza –
che la Germania non celebra, benché sia stata la più ampia e costante in Europa.
La Germania, finalmente libera dal dovere imperiale, aveva alla sconfitta
pronto da cent’anni con Heine il “partito dei fiori e degli usignoli”. Ma non ha
saputo che farsene. Che c’è di più ideale dell’unità organica di democrazia,
cosmopolitismo, pacifismo, diritti dell’uomo, di più realistico anche,
dovendosi dare un’altra storia? Ma niente, silenzio. Dovendone celebrare il
centenario nel 1956 la buona Repubblica Federale se la cavò con un comunicato
di poche righe. Come vergognandosene. Così si disse, intendendo che si vergognava
di Hitler e di sé. Ma forse si vergognava – si vergogna - di Heine, che ha
insegnato il tedesco ai tedeschi ma era ebreo, incancellabilmente benché
apostata.
O
non sarà, questa riserva della Germani, la sua incancellabile diversità, l’io e
il mio Dio? Non si valuta a sufficienza l’eversione di Lutero, radicale,
barbara. Sì, inni, salmi, canti e corali, ma è il nomadismo dell’anima che
Lutero impone, a piccoli borghesi da secoli e millenni sedentari e abitudinari,
uno sconvolgimento del loro minuscolo focolare intimo. Per non sanno bene che,
ma fuori di loro. “Tutti i popoli”, diceva Heine, “quelli europei e quelli del
mondo intero, dovranno superare questa lotta mortale, affinché dalla morte
risorga la vita, dalla nazionalità pagana la fraternità cristiana”. Lo diceva
ai tedeschi, cristiano neofita dopo tante prove – “keine Messe wird man singen,\ Keinen Kadosh wird man sagen,\ Nichts
gesagt und nichts gesungen\ Wird an meinen Sterbetagen”, niente messe
cantate, niente kadosh recitati, niente canti e niente detti ai miei centenari,
i giorni della morte.
Molta letteratura d’appendice
nell’Ottocento, diecine di migliaia di pagine, divide la Francia tra franchi
oppressori e galli onesti lavoratori, oppressi.
S.Weil, “L’enracinement”, ha alle
pp. pp.138-43 l’atroce conquista della Francia sotto la Loira da parte dei
francesi-franchi. E subito dopo la “libertà tedesca”: “La Franca Contea, libera e felice sotto la
lontanissima sovranità spagnola, si batté nel Seicento per non diventare
francese. La popolazione di Strasburgo si mise a piangere quando vide le truppe
di Luigi XIV entrare nella sua città in piena pace, con una trasgressione della
parola data degna di Hitler”.
I franchi erano originariamente tedeschi,
nella Francia attuale sotto la Loira - anche gli Albigesi e i trovatori non
erano francesi, in Borgogna, nelle Fiandre, in Sicilia Nella conquista feroce
del Sud hanno creato l’Inquisizione, per meglio perseguitare i felici popoli
sottomessi.
Jünger, che è nazionalista
sensibile, voleva dare “tutto Stendhal per un poesia di Hölderlin”. Poi si
pentì, e riscrisse il romanzo. Ma fu l’edizione originale a fare il successo di
“Cuore avventuroso”.
Nerval
al Reno: “Germania, nostra madre a tutti!”
In
precedenza, 1810, Mme de Staël. “De l’Allemagne”, vara il romanticismo in salsa
tedesca. E crea il canone della “filosofia tedesca” che ancora fa testo, della
filosofia tedesca pensiero unico, sintetizzando, proponendo, imponendo Kant,
Fichte, Schelling.
Tedeschi-ebrei - Erich von
Stroheim, il teutone per eccellenza del cinema, “duro profilo da mestino”, come
lo tratteggia Sciascia, “tenuto su dall’alto e rigido colletto della divisa, il
monocolo, un che di metallico nella testa rapata”, era ebreo. Era nato a Vienna il 22 settembre 1885, come
risulta dai registri della comunità israelita.
Carl Leonhard Reinhold (1757-1823),
viennese, allievo dei gesuiti, alla loro soppressione sacerdote barnabita,
emigrato in Germania per sfuggire al giuseppinismo, quindi a sua volta,
spretato, massone Illuminato di Baviera, il filosofo che fece amare Kant e
formò Schiller, gli Schlegel, Hölderlin e Novalis, faceva dei Misteri ebraici, e dell’ebraica
massoneria, il fondamento della filosofia tedesca e della nostra umanità,
l’Occidente.
“Nessuna nazione europea ha ottenuto tanto
dagli ebrei” quanto la Germania, “sì, ottenuto!”, esclama a un certo punto
Joseph Roth in “Autodafé dello spirito”, p. 52-53. Che può continuare, nel
1934: “Dal 1872 in poi i tedeschi non ebrei sono stati per lo più marescialli,
viaggiatori, poeti della zolla, dilettanti, generali che perdono le guerre, nel
caso migliore ingegneri abili”. Da allora, sono stai ebrei tedeschi a tenere
alto l’onore della Germania: “Da sessant’anni gli ebrei tedeschi rappresentano
il nome tedesco nel mondo”. Questo è tanto vero, continua, “che in ogni talento
non ebreo s’iniziò a fiutare un «ebreo». Si fiutarono «ebrei» nei fratelli
Mann, nel regista Piscator, e persino in Goebbels”.
Ancora nel 1942 gli ebrei non odiano i
tedeschi. Lo spiega Thomas Mann ai tedeschi alla Bbc nel settembre del 1942, in
un’allocuzione nella quale richiamava gli obbrobri dello sterminio; “A
tutt’oggi (gli ebrei) non sono ancora vostri nemici. Voi siete i loro, ma non
riuscirete a rendere l’odio reciproco. Gli ebrei sono quasi sempre ben disposti
verso i tedeschi”.
Lui
però, personalmente, teneva alla porta Schõnberg durante la guerra nella sua residenza
americana a Los Angeles, Pacific Palisades.
Testa di morto – Fu adottata da
Federico Guglielmo I di Prussia, il padre militarista di Federico il Grande,
per la cavalleria. Alla sua morte, nel 1740, la testa di morto tedesca, senza
la mandibola e con le ossa tra i denti (in realtà sotto il teschio), fu
rappresentata nelle gualdrappe funerarie, Federico Guglielmo ci teneva.
astofo@antiit.eu
La “dolce vita” sessant’anni dopo - Fellini a Volterra
Dolce come la “dolce vita”. Un
film dichiaratamente felliniano. Un omaggio, quasi un remake - al femminile
invece che al maschile – sessant’anni dopo. Il quadro di una persona – e una cultura (storia)? - al tramonto: impaurita, oltraggiosa,
confusa.
La poetessa polacca insignita del
Nobel, che vive in Italia dal 1981, dallo stato d’emergenza di Jaruzelski, nella
campagna di Volterra, con un marito italiano servizievole, una figlia sola e i
figli di lei, con i quali conversa in polacco, tirannica e snob, visitata ora e
omaggiata da giornalisti, intellettuali, il sindaco, il maresciallo dei
Carabinieri, tra eccentricità, voglia di scandalo, paura, dell’età,
dell’improvvisa inadeguatezza, un po’ trasognata, un po’ bevuta e\o fumata, mentre
vive un risveglio del corpo col giovane macellaio egiziano a Cecina Porto, dichiara
il suo rifiuto del premio il giorno di un attentato islamico a Roma che ha distrutto
una piazza e fatto molte vittime, dichiarando l’attentato stesso “un’opera d’arte”.
La sua uscita genera la psicosi nel paese: è d’improvviso “marocchino” e come
tale pestato dai suoi compagni il figlio del maresciallo dei Carabinieri, perché
di madre siciliana. Al giovane egiziano viene bruciato il negozio. E il giovane
rifiuta brutale la solidarietà della donna - “noi siamo venuti qui a cercare la libertà”
- e la respinge - “tanto lo sapevi, che era una storia senza domani”.
Prima della conferenza la donna, al
solito svagata e snob, ha lasciato una lettera chiusa al marito. La lettera lo
congeda, perché non dà “segni di vita” e “vive in ciabatte”. Il marito e la
figlia decidono allora di lasciarla, andandosene a Roma, benché in lacrime, a
fare una vita propria. La scena iniziale del salotto intellettuale, in cui si
rimemora il Grande Poeta americano che fu rinchiuso a Pisa in una gabbia di ferro, per due accuse, di antisemitismo e di adesione al fascismo, ritorna alla fine fattuale con la poetessa in gabbia a Volterra, dentro una installazione d’artista metallica. Dopo uno scontro con l’onestà. Dopo due
scontri: con l’inviato di “Le Monde”, col quale pretende una sua assoluta immoralità
d’artista, e col maresciallo suo devoto, che lei schiaffeggia. Con la donna va in gabbia simbolicamente la poesia, l’Europa.
Un film felliniano, dichiarato, dalle
due prime scene: il salotto intellettuale, e il vagare mattutino, alla preluce, dell’eletta
compagnia - tra i campi piuttosto che nel parco di famiglia. Senza suicidio
finale, ma di fatto sì. Un film di immagini, curate, tutte suggestive, dalla
sceneggiatura labile, su un soggetto (filo narrativo) tenue. Assottigliato via
via di più, lo spettatore legge la storia attraverso le immagini, evaporate,
dissolventi, tronche, in brusca successione. Di storie che s’intrecciano,
mostrate e non spiegate, né concluse.
Il racconto è semplice, di un
tran tran intellettuale. Di una poetessa emigrata politica, appena insignita
del Nobel, al declinare degli anni, sregolata, nel bere, nel fumo, in risveglio
sessuale, un ultimo, selvaggio sussulto. A contrasto con una famiglia modesta,
da sempre tiranneggiata. Nella morbida campagna toscana, vigile, dall’eloquio
semplice, soffuso, delle comunità da sempre stabili. A Volterra - scelta simbolica,
sopra la terra che ribolle, sopra il vulcano? In un quadro per il resto quotidiano.
I bambini giocano. Gli intellettuali conversano astrusi. Il maresciallo dei
Carabinieri è un devoto del genio. Il sindaco si onora di premiare il premio
Nobel. L’immigrato lavoratore. La discoteca. Le chiacchiere di paese. Un come
siamo sempre stati sconvolto dal terrorismo. E la vicenda prende d’improvviso
spessore, volgendo al simbolico: una storia speciale (personale, caratterizzata)
di declino diventa espressione di un’Europa altrettanto presuntuosa e confusa -
presumendo di sé l’onestà e la superiorità, naturalmente delle buone, ottime,
intenzioni.
Un film che avrebbe meritato un’attenzione
migliore. Sfortunato come tutti alla uscita, per la chiusura dei cinema, ma letto svagatamente dalla critica. Non è facile rifare Fellini, Borcuch lo fa,
a suo agio – con un budget, s’intuisce, molto più modesto di quelli felliniani,
ma con un’idea chiara. Un film anche molto “italiano”, non solo per la location. Grandi questioni facendo emergere
sotto il fragile, apparentemente casuale, piano delle immagini: l’Europa, la
civiltà, la libertà, l’amoralità dell’artista. Nella confusione delle buone argomentazioni
– quando le intenzioni, politicamente corrette, sono al disfacimento. Di morale vagamente irridente, reazionaria - ma è la chiave di Fellini.
Jacek Borcuch, Dolce fine giornata, Sky Cinema
mercoledì 3 febbraio 2021
La fine dell’eccezionalismo americano
L’America contro tutti? Non funziona. Se la
presidenza Trump è qualcosa, è stata il tentativo americano di fare da soli.
Non è più possibile. Se non a fare il tragicomico don Chisciotte, che perde
tutte le guerre, le cattive e le buone, illudendosi di vincerle, giacché è sempre
nel giusto.
Kissinger, cui si deve la scoperta della Cina,
prospetta ancora di recente, “Sulla Cina”, un’America “europea”, la sua, attenta
agli equilibri: osservatrice, calcolatrice, diplomatica. Non lo è, e non per
colpa di Trump: pretende sempre di sé una natura e un ruolo di eccezionalità.
Ma può ancora averlo? E non per gli islamici,
impazziti nel terrorismo. Per un motivo semplice: ha fatto della Cina la sua
fabbrica e il suo fornitore, e ora la Cina non si accontenta di avere pagate le
fatture, vuole sedere in consiglio d’amministrazione. L’America ha bisogno di
sponde. O d’interrompere la “catena di produzione” (“di valore”) cinese, una
catastrofe.
Quando la speculazione fu battuta, non da GameStop
La scena è occupata da GameStop con l’immagine
di Robinhood, e con quella nuovissima dei Giustizieri del web, che sono la
solita favola americana del bene che trionfa, e vogliono solo dire “viva il
mercato”. Come se l’affare GameStop avesse rovinato gli hedge fund, la speculazione che puntava alla rovina del titolo – mentre
li ha solo graffiati, in superficie.
L’affare è stato come questo sito lo spiegava
già sabato. E GameStop è ndata subito al ribasso, pesante, come doveva andare. Con rovina dei piccoli
azionisti che hanno comprato ai massimi - il “parco buoi” di ogni mercato di
Borsa.
Si dimenticano invece due colpi ben assestati
alla speculazione angloamericana, in Europa, nell’attacco all’euro nel 2011, e
in quello a Volkswagen nel 2008. Sì, nel 2008, l’anno della crisi finanziaria,
gli hedge avevano puntato Volkswagen,
il gruppo europeo forse più solido: se l’attacco riusciva, avrebbero fatto il
guadagno del secolo. L’euro fu difeso da Draghi come al cinema, da “drago”, è
il caso di dirlo, cui basta un solo alito di fuoco per spegnere l’incendio. L’attacco
a Volkswagen fu contrastato da Porsche, che aveva spalle solide, e dal caso uscì
padrona del gruppo automobilistico pubblico, comprando al ribasso, più sapiente
e abile degli gnomi malvagi della City e di Wall Street – a brigante, brigante e
mezzo.
Contro la speculazione reggono solo le regole
– regole di Borsa precise, non vaghe e lassiste, come quelle p.es. di Consob. E
potenza di fuoco. Dei piccoli e minimi, specie di chi si minimizza farà sempre
un boccone, insaziabile peraltro.
Gadda sceneggiatore – come finiva il “Pasticciaccio”
Un altro trattamento cinematografico
del “Pasticciaccio di via Merulana” – dopo quello intitolato “Il palazzo degli
ori”, pubblicato postumo me 1983. Di quello che sarà il “Pasticciaccio”, perché
il trattamento è del 1947-48, dieci anni prima dell’uscita del romanzo. Basato
sull’anticipazione pubblicata nel 1946 da Bonsanti nella sua rivista
“Letteratura”. E ha i colpevoli, a differenza del romanzo, per questo aspetto
incompiuto.
È un periodo gramo per l’Ingegnere,
che vive “fra gli orrori, le insolvenze, i piccoli prestiti”, della generosità
dei suoi amici fiorentini – l’anno dopo riusciranno a farlo assumere alla Rai. Bonsanti
gli ha procurato un incontro alla Lux Film, e Gadda spera proprio di poter entrare
nel lucroso business del cinema. Richiesto di un trattamento della sua idea di
film, si mette all’opera, contrariamente al suo solito – caratterialmente
incapace di lavorare su commissione.
Il trattamento è scritto “per la Lux
Film”. Anzi per il “regista Antonioni Michelangelo” – che avrebbe esordito tre
anni dopo, con “Cronaca di un amore”. Abbreviato rispetto al “Palazzo degli
ori”, 20 cartelle invece di 60. Ma professionale, pur non sapendo il mestiere,
da spettatore di cinema: 40 quadri scrive “mozzafiato”, come si dice dei
gialli, di ritmo veloce.
La nuda storia del “Pasticciaccio”,
non “scritta”, fa un certo effetto, da romanzo d’appendice: bellocce mature,
gioielli e bigliettoni, giovani voraci e disinvolti. Con un commendator
Angeloni che è tutto Gadda, grande e grosso, goloso, solitario, timoroso dell’ombra.
Il bello è che la storiaccia fila.
Oggi inutilizzabile, saprebbe di film storico (di costume e di letteratura) ma nei tardi anni 1940 sarebbe stato un
quadro d’epoca forte. L’Ingegnere degli umili non sa non essere realista: la
cupidigia è “dei poveri non meno dei ricchi”, avverte nella nota introduttiva.
Non c’è innocenza nel bisogno.
Giorgio Pinotti mette in quadro l’inedito
Carlo Emilio Gadda, La casa dei ricchi, Adelphi, pp. 87 € 5
martedì 2 febbraio 2021
Letture - 447
letterautore
Berlino - Non affrettarsi, non fermarsi mai, il modo di essere - o di dire - di Berlino è il festina lente di Erasmo, strepitoso ossimoro, di correre lentamente.
Eugenetica
- “Una dama
di rango s’innamorò con tale smania di un certo signor Dod, predicatore
puritano, che pregò suo marito di lasciarli giacere insieme perché procreassero
un angelo o un santo; ma, accordato il consenso, il parto fu normale” - Drummond,
“Ben Ionsiana” (1618 ca) (in Borgese-Bioy Casares, “Racconto brevi e straordinari”).
Germania
– È nata
male? Per Heidegger sì: i
Gründerjahre, gli anni dei padri
fondatori, la fase della grande
industrializzazione tedesca e austriaca, 1840-1870. . Heidegger li critica, “Introduzione
alla filosofia. Pensare e poetare”, 91: “È l’epoca dei Gründerjahre, in cui tutto quanto, in fondo senza un terreno solido
e senza rendersi conto di nulla, correva dietro ala crescita, al progresso e
ala prosperità, per emulare su piccola
scala gli Inglesi e conquistare dall’oggi al domani una posizione mondiale per
la quale mancavano tutti i presupposti, e che soprattutto – qui come là, in
Inghilterra e ovunque, riposa su un mondo divenuto fragile, per il quale l’unica
filosofia è il «darwinismo», con la sua dottrina della «lotta per l’esistenza»
e della selezione naturale e artificiale
del più forte”.
“C’è oggi una Germania efficiente,
economicamente aggressiva e culturalmente scialba – asettica, come certe donne
perfette, bellissime e indesiderabili” –
Claudo Magris, “L’infinito viaggiare”, 159 – 13 febbraio 1993.
Anche Heidegger era per
l’incertezza. “Nessuno pensa a come stiano le cose riguardo ai tedeschi”,
lamenta in “Note I”, il primo dei “quaderni neri” del dopoguerra, all’inizio
dell’occupazione, “se essi siano ancora o siano una buona volta in sé, se sappiano
affatto chi mai essi stessi siano, se siano capaci di pensar per approdare a
questo sapere, se essi possano entrare nel tempo lungo del ricordo, nel quale
finalmente prospera la verità della loro essenza”. Con una conclusione che
aggiunge all’incertezza, a proposito di questa verità: “La quale verità è:
essere la comunità pastorale”, il greggiame, “dell’Occidente, della ‘terra
della sera’, perché la sera è il tempo e la terra il suo spazio”….
Si fa molta musica in Germania. “La musica è per sua natura
squisitamente invernale”, attesta Savinio. La Germania è invernale?
Incomunicabilità
– Ci sarebbe
tra le varie letterature – nazionali, linguistiche. È il quesito che V. Woolf
pone in “Il punto di vista russo”, e a cui si risponde affermativamente: un
americano, sia pure Henry James, non vive in pieno la letteratura inglese, il
miglior letterato inglese ha difficoltà a entrare nel mondo russo, di Cechov, di
Dostoevskij, di Tolstòj. La lettura come vaso di incomunicabilità?
Italia
–Quanta Italia, tra gli elisabettiani e a corte, nell’Inghilterra del Cinquecento. Il secolo
della fondazione dell’impero. Nel Seicento sempre più l’Inghilterra è “macbethiana”,
di odii e violenze, irrefrenabili.
Mentre l’Italia scompare – Milton è eccezione, non valente italianista peraltro.
Kant – Era fantasioso.
Nonché in Antropologia, che insegnò per
tutta la vita inventandosi di tutto, lo è anche in filologia. Prima di Gottinga e degli ario
germani-arianesimo, in nota a “La fine di tutte le cose”, deriva parole fondamentali
dello zoroastrismo, il bene, Ormuzd, e il male, Ahriman, dal tedesco. Da
Godeman, buon uomo “(termine che sembra essere racchiuso anche nel nome Darius Codomannus)”, e da “arge Mann”, uomo
malvagio. Codomannus è il soprannome di Dario III, il re di Persia sconfitto da
Alessandro Magno.
Lutero – Un bon vivant, che in rima
ammoniva: “Quel
che non ama il vin, le donne, il canto,\ mena da stolto il viver tutto quanto”.
Nietzsche - La “Nascita
della tragedia” è la sua tesi di laure. Nemmeno di dottorato, dice il
professore di Houellebecq protagonista di “Sottomissione”, troppo affastellata.
Mussolini legge Nietzsche - ne scrive
comunque, nel 1908 (“La filosofia della forza”, sui numeri 48-49-50 de “Il
Pensiero Romagnolo”, organo del partito Repubblicano locale) - e lo apprezza
straordinariamente: “Creatore di sistemi
filosofici o no, Nietzsche è pur sempre lo spirito più geniale dell’ultimo
quarto del secolo scorso e profondissima è stata la influenza delle sue
teoriche. Per qualche tempo gli artisti di tutti i paesi, da Ibsen a
D’Annunzio, hanno seguito le ombre nietzscheane. Gli individualisti un po’ sazi
della rigidità dell’evangelio stirneriano si sono volti ansiosi a
Zarathustra e nella filosofia dell’Illuminato trovano il germe e la ragione di
ogni rivolta e di ogni atteggiamento morale e politico.”.
Roma – Vivendoci, ci si può sempre consolare con Vernon Lee, “The spirit of
Rome”, 1897: “Muovendo dalla stazione a mezzanotte, l’immensità di ogni cosa,
le proporzioni gigantesche dei palazzi silenti e delle chiese sbarrate.
Passando davanti al Quirinale, i Dioscuri colossali con i loro cavalli, tra di
loro la fontana che zampilla d’acqua….
“Persino l’incredibile, immane volgarità delle cose
moderne, cartelloni pubblicitari lunghissimi agli angoli delle strade sotto i
lampioni a gas, e file immense di case costruite alla buona aiutano in qualche
modo a creare l’impressione che Roma sia un teatro delle epoche; un gigantesco
palcoscenico, splendidamente evocativo per l’occhio e per la fantasia, calcato,
come sempre farà, dal Temo impettito e declamatore”.
A dispetto
del tempo, la città eterna del modo di dire? “Roma è viva (e tanto più lo è
nella sua occasionale aria di morte)”.
Solitudine
- È ciò che il lettore cerca, anche lo spettatore –
e di più quando vene aggredito, per esempio dal teatro elisabettiano – “la
morte di una dozzina di uomini e donne ci tocca meno della sofferenza patita da
una delle mosche di Tolstòj”, V Woolf, “Appunti sul dramma elisabettiano”.
Inevitabilmente, a un certo punto, stanca degli eccessi, la mente “si volge verso
Donne, verso Montaigne, verso Sir Thoma Browne, verso i custodi che conservano la
chiave della solitudine”.
Stroncatura
– Legittima, anzi doverosa, per Virginia Woolf,
“Come leggere un libri?”, cattivissima: “Non vanno forse criminalizzati i libri
che ci fanno sprecare tempo e partecipazione emotiva? Non sono forse i peggiori
nemici della società – corruttori, profanatori, gli autori di libri finti e
falsi, libri che impestano l’aria di decadenza e malattia?”
Leggere è passare dall’amicizia con lo scrittore al
giudizio: “E se come amici nessun grado di empatia è esagerato, come giudici
nessun grado di severità sarà eccessivo”.
letterautore@antiit.eu
Caffè Europa
Si parte dal caffè: “Il caffè è il
luogo dell’Europa”, la conversazione, la socievolezza casuale. Si continua con
la camminata: “L’Europa è stata, e viene ancora, camminata”. È “un paesaggio modellato e umanizzato”, ogni
centimetro quadrato, e “itinerante”, anche nel pensiero, la riflessione, la
metrica - camminano anche materialmente i filosofi (dai Peripatetici a
Rousseau, Kant, Kierkegaard, Heidegger), i poeti (Hölderlin, Coleridge, Byron,
Chateaubriand), i pittori (Breugel, Van Gogh, Monet) i musicisti (Schubert,
Mahler), i generali (Alessandro, Senofonte). Si prosegue con la storia: la
semplice toponomastica è un libro ricchissimo di storia in Europa.
L’Europa è un tutto pieno, che
difficilmente si può colmare: “Che cosa può aggiungere chiunque di noi alle
immensità del passato europeo?” E sembra un elogio, sontuoso, presuntuoso – è
la conferenza che Steiner tenne a Amsterdam, al Nexus Institute, nel 2004. Ma è
un epicedio – sontuoso: è “un in memoria
luminoso e insieme soffocante”, spiega lo stesso Steiner a metà percorso.
“L’idea d’Europa è la «storia di
due città», Atene e Gerusalemme”. Di un sincretismo in dialettica inesauribile,
“con qualche falla” – denunciata all’esordio della conferenza: “Uccidendo i
suoi ebrei, l’Europa si è suicidata”. L’Europa è quindi un morto vivente? Non
ancora, non necessariamente. Da ultimo, la storia dell’Europa è stata quella
del giudaismo secolarizzato: “Citare Marx, Freud ed Einstein (ma aggiungerei Proust)
come padri della modernità, come artefici della nostra attuale condizone, è
ormai un cliché”. Ma insieme con la modernità va “una consapevolezza
escatologica che, credo, possiamo trovare solo nella coscienza europea, la
coscienza della fine. A partire da Newton, “molto prima” dunque di Valéry e di
Spengler. “Due guerre mondiali, che in effetti sono state due guerre civili
europee, hanno esasperato questo presagio fino all’incandescenza”.
È la coscienza della crisi che
attanaglia l’Europa. Il rimedio? La superbia intellettuale, “conoscenza come professione” di Max Weber, la
“mania” di Platone – la Repubblica di Platone? Domina “il modello
asiatico-americano” – quello che si dice globalizzazione? “Con il crollo del marxismo nella tirannia della barbarie e dell’assurdità economica abbiamo perso
perso un grande sogno: quello dell’uomo comune che segue la scia di Aristotele
e Goethe, come sognava Trockij. Ora che si è liberato da un’ideologia
fallimentare, quel sogno può – anzi deve – essere sognato di nuovo”.
Steiner parte sorridendo ma
conclude triste: l’Europa ha un futuro, sia pur e come idea? “La solidarietà e
la creatività possono sbocciare in condizioni di elativa miseria”. Una
speranza, non consolante.
George Steiner, Una certa idea d’Europa, Garzanti, pp.
93 € 4,90
lunedì 1 febbraio 2021
Il modello asiatico-americano
Che farà Biden della Cina? È l’interrogativo
del momento, nelle cancellerie e le Borse. Dopo che Trump ha “visto” le carte
di Pechino, e comunque per una situazione di fatto di divaricazione tra Stati
Uniti e Cina, per molteplici aspetti, dopo trent’anni di simbiosi, produttiva
e, a suo modo, culturale.
Che può farne, è interrogativo correlato. La
Cina essendo da una parte abbarbicata al modello americano, al business for business. Ma senza le primarie,
i Grandi Elettori, il mid-term, i
media. Senza i labari dell’American Dream – in Cina i media ci sono ma con la
museruola e in funzione di altoparlante, anche i social sono censurati. American Dream di cui peraltro la Cina,
benché comunista, e da sempre isolazionista, per il forte complesso di superiorità sul mondo intero, si pensa ultima incarnazione - la stessa figlia del Presidente
Xi è ben “amerikana”, ha studi e amicizie
nell’Ivy League, l’aristocrazia Usa.
Di fatto, molti dossier s’impongono, che Biden non potrà sottovalutare, questioni
fondamentali. Non ultima, la quasi indennità della Cina dal virus, che ha
contagiato soprattutto gli Stati Uniti e l’Europa. Le ragioni di scambio non
fanno che deteriorarsi, per quanto il costo del lavoro e ogni altra voce si
possano comprimere in America (e in Europa): il mercato del lavoro cinese è imbattibile,
senza minimi e senza orari, il denaro non costa, la protezione politica
assicura mercati di favore, di fatto protetti – naturalmente giganteschi,
nella gigantesca demografia cinese. Il deficit commerciale è perciò enorme e in
crescita – specie dopo questi due anni di crisi in Occidente, 2020-2021.
La natura del regime a Pechino non potrà non
venire in rilievo, anche se si finge il contrario. Per i diritti civili e
politici all’interno della Cina e a Hong Kong – Biden non può protestare con
Mosca e chiudere un occhio con Pechino. E soprattutto per i rapporti del regime
col mercato, per il condizionamento politico del business. Settori sensibili sono, come tutto in Cina, in qualche
modo sempre legati al regime politico – Huawei è un caso fra tanti.
Falsi d'autore, a quattro mani
Racconti brevissimi, e densi, si
direbbe, più che straordinari: di lettura stranamente non veloce, anzi anche
faticosa. Un massimario, anche sentenzioso, dietro la compilazione faceta. Molti
sono i sogni, e i sogni dei sogni, per intendersi.
Sono testi orientali per lo più, aneddoti,
moralità, sogni appunto. Inventati dai due amici burloni, oppure no. Più molti
Kafka, un paio di Max Jacob, e qua e là altri fantasisti, Cocteau, Silvina
Ocampo, moglie di Bioy Casares e musa di entrambi, Stevenson, Santiago Dabove.
Numerosi
i ricorsi a Richard Francis Burton, specialmente frequentato da Borges per le
note alla sua traduzione delle “Mille e una notte”. Anche di questi racconti straordinari le note sono spesso la parte più interessante. Comunque indispensabili per il gioco, poiché di un gioco la compilazione è frutto, per poter giocare con gli autori.
Borges e Bioy Casares
vi praticano “nella misura più rilevante e nelle forme più varie”, annota
Tommaso Scarano, custode e interprete di Borges in Italia, “il gioco scanzonato
delle opere e degli autori immaginari, delle false attribuzioni, delle interpolazioni
apocrife”. Se ne dilettarono congiuntamente per molti anni su varie pubblicazioni,
e questa è una delle tante antologie che se ne sono fatte. Per circa
quarant’anni Borges e Bioy Casares collaborarono in vario modo. Più spesso
con rubriche a quattro mani di note e
racconti brevi, moralità, apologhi, citazioni, la cui fonte può essere reale o
inventata.
Parte di queste storie sono confluite
anche in altre opere di Borges.
Jorge Luis Borges-Adolfo Bioy
Casares, Racconti brevi e straordinari,
Adelphi, pp. 204 € 13
domenica 31 gennaio 2021
Problemi di base - 620
spock
A che serve la vita?
O a chi - se non a godersela in proprio, finché dura, per
il fatto stesso di viverla?
Senza, non si è?
Si è nella gioia e nella sofferenza – da virus malefico come
da gestore telefonico esoso e capriccioso (magari entrambi cinesi)?
La vita è sogno, ma si sogna senza vita?
“E tuttavia, quello che resta sono i poeti che lo creano”,
F. Hõlderlin?
spock@antiit.eu
La guerra di Dio
“In una delle sue guerre Alì atterrò un uomo e
gli si mise in ginocchio sopra il petto per decapitarlo. L’uomo gli sputò in
faccia. Alì si rialzò e lo lasciò andare. Quando gli chiesero perché lo avesse
fatto rispose: “Mi ha sputato in faccia e ho temuto di ucciderlo in stato di
collera. Voglio uccidere i nemici in stato di purezza davanti a Dio” - Ah’mad
al Qalyubi, “Nawadir”.
“Ah’mad Ibn Ah’mad al-Qalyubi fu un letterato
egiziano vissuto nella prima metà del XVIImo secolo; in una raccolta antologica
di adab trattò vari aspetti della
tradizione culturale islamica, dalla letteratura alla geografia al diritto. Il
suo testo più celebre è la raccolta di aneddoti «Kitab al Nawadir» («Libro delle
rarità»)” – Tommaso Scarano, in nota a Borges-Bioy Casares, “Racconti brevi e
straordinari”.
Adab sono gli adagia
di Erasmo da Rotterdam, il patrimonio letterario per riferimenti e aneddoti, in
materia specialmente di morale.
Nonno Libero in America
La “guerra” tra nonno nipote, quando il primo occupa la camera del
secondo, come lezione garbata sui danni,
a nessun vantaggio, della guerra. Tra mille dispetti, e gag eroicomiche.
Orchestrate da un regista di film d’animazione.
Un film spensierato, nemmeno
politicamente corretto: i due soli non-bianchi, un nero e un latino, sono marginali e brutti. Con volti noti e notissimi, De Niro, Uma Thurman, Walken, Jane Seymour
tra i tanti. Tratto da un romanzo, ma con rimandi ritornanti al format “Un medico in famiglia”, al nonno Libero di
Lino Banfi. Girato sveltamente, si vede, come per la tv, e con un finale da sequel.
Tim Hill, Nonno questa volta è guerra, Sky Cinema
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