sabato 6 febbraio 2021
Problemi di base russi - 621
Bisogna
aver paura di Putin?
La bellezza è di tutti
Una delle lezioni di Eco alla
Milanesiana, il festival di Elisabetta Sgarbi, che lo scrittore animò fra il
2001 e il 2015 – pubblicate postune nel volume “Sulle spalle dei giganti”, con
i materiali visivi che proponeva nelle sue esposizioni.
Emerito all’università, Eco vi
riversa il suo insegnamento amabile, discorsivo e insieme preciso. La bellezza
è variabile, come il gusto. E apparentemente confusa: un “visitatore dal futuro”
troverebbe Hyeroymus Bosch contemporaneo di Antonello da Messina, e coloro che
visitano una mostra d’arte contemporanea, dell’arte che vuole rompere tutti i
canoni, “vestiti secondo i canoni della moda”, in jeans o firmati – “essi
seguono gli ideali di bellezza proposti dal mondo del consumo commerciale, quella
contro cui si è battuta per cinquanta e più anni l’arte delle avanguardie” (che
l’immagine così sintetizza: “La violoncellista e performer Charlotte Morman
coperta di telo di plastica - trasparente, n.d.r. - suona tenendo il puntale
nella bocca di uno sconosciuto”, sdraiato per terra).
Su questo tema, però, l’ironia Eco
esercita contenuta, non dissolvente: la bellezza ha varie forme, che alcuni
trovano brutte, ma una cosa assicura, la gratificazione universale. Se ciò che
ci sembra buono non ci appartiene, non può appartenerci, ci sentiamo impoveriti,
mentre “per quel che concerne la bellezza, pare che la gioia per le cose belle
sia decisamente separata dal loro possesso”.
Umberto Eco, La bellezza, “la Repubblica”, pp. 44, gratuito col quotidiano
venerdì 5 febbraio 2021
Ombre - 528
La
Germania vuole contro la Russia nuove sanzioni economiche, dopo la
tragicommedia di Navalny – l’avvelenamento e la condanna. Ma in proprio va
avanti col progetto di fare della Germania l’hub, a pagamento, del gas russo
per tutta l’Europa. Che da solo vale metà di tutto l’ex-import europeo con la
Russia. Sembra incredibile, ma è armiamoci e partite.
Se non è, peggio, ammuìna, per pagare meno il gas.
Il
cancelliere socialdemocratico tedesco Schrõder ha firmato nel 2005 accordi con
Mosca per l’importazione via Germania di 55 miliardi di metri cubi di gas
l’anno. E nel 2012, da privato consulente della russa Gazprom, ha raddoppiato:
110 miliardi di mc, una quantità iperbolica, pari a un quarto\un terzo dei
consumi di gas di tutta la Ue. In pratica, ha fatto della Germania l’agente di
commercio di Gazprom. Con la quale si è riccamente pensionato, con un contratto
milionario di contratto di consulenza. Tutto normale.
Chi
era Conte? Nessuno. Chi è oggi? Nessuno: s’è fatta fare una crisi politica da
pivellino. Dopo essere stato il capo del governo così a lungo, e nella crisi,
grave e gravissima. Con Conte e senza Conte, si direbbe, si vive ugualmente
(male). Ma senza Conte i 5 Stelle non ci sanno stare: hanno bisogno di un papà,
anche se spurio? Come già con Grillo.
Uno
storico, immaginando che l’Italia abbia un futuro e quindi una storia, avrà problemi a capire,
oppure si divertirà. Leggendo i giornali di questi giorni, con sei, otto,
dieci, dodici pagine per dire che l’Onorevole Ignoto, o l’Onorevolessa, è
passato\a di sera a un partito, e la mattina a un altro. Penserà che Parlamento
fosse un videogioco.
I
generali birmani hanno imprigionato Aun San Suu Kyi per importazione illegale
di walkie-talkie. Di walkie-talkie, non di iPhone 12 da mille o duemila euro. Non
è andata la polizia ad arrestarla per il grave delitto, magari mandata da un giudice, hanno provveduto
con i carri amati. E Russia e Cina all’Onu si sono affrettate a coprirli: l’importazione
illegale di walkie-talkie è delitto grave.
I
dipendenti di Roma Capitale, ai quali la sindaca Raggi in vista delle elezioni ha
assegnato un premio di produzione, per il 202o, anni nel quale avevano cessato
anche di andare in ufficio, nonché di non lavorare, hanno registrato nello stesso anno, benché ad attività
ridottissima, un numero record di procedimenti disciplinari per corruzione – per
corruzione cioè accertata. Grazie alla gestione dei sussidi covid – mammella
nel 2020 più pingue della vigilanza urbana e dell’urbanistica. Non si può dire
che i 5 Stele di Virginia Raggi non siano aggiornati.
Si
può dare torto a Renzi che non ha voluto al governo Bonafede e l’abolizione
della prescrizione? No, da nessun punto di vista: abolire la prescrizione va
contro ogni principio etico e giuridico. Bonafede certo è un magistrato. Anzi,
ministro della Giustizia. Del governo di un avvocato: ci volevano i giuristi al
governo per obliterare il diritto.
Un
governo di giuristi, dunque, il Conte defunto. Che in tre anni non ha fatto nulla
per la giustizia: accrescere gli organici, semplificare le procedure, accelerare
i processi, entro tempi equi, rivedere le carcerazioni. Questi giuristi della
patria del diritto non sanno di che e come è fatto il mondo, e non gliene frega.
Quando,
un giorno, andranno sotto processo, Bonafede per la scarcerazione dei mafiosi e
Conte per qualsiasi cosa – non è necessario in Italia avere commesso un delitto
- si invocherà per essi l’abolizione della prescrizione. Che chiunque in
qualsiasi momento possa mandarli a processo. Non a giudizio, a processo, che in
Italia dura mediamente dieci anni.
Dunque
il portavoce del presidente del consiglio, Casalino, prende(va) più del
presidente del consiglio stesso Conte, 169 mila euro contro 117 mila. Lui,
sembra di ricordare, ingegnere, forse non laureato, aveva vinto il Grande
Fratello al debutto – mentre Conte non lo avevano nemmeno preso, da qui il
diverso cachet? L’etica di
questa Repubblica grillina è
stupefacente.
Renzi
che fa dell’Arabia Saudita la Firenze del nuovo Rinascimento senza perdere lo
spiritaccio fiorentino,
acculandola cioè a metà Trecento, fa più brutta o più bella figura? È uno che
ha sempre
viaggiato:
quando era sindaco di Firenze non era mai in città, ne spendeva il nome in giro
per il mondo.
Ora ha pure migliorato l’inglese, molto: stare fuori di Palazzo Chigi gli ha
giovato, deve
avere
messo a frutto la vacanza con viaggi di studio.
L’uomo
più corrotto della Cina viene giustiziato perché aveva la stanza ingombra di
mazzette. Un importante banchiere, oltre che un dirigente del Partito, che governava
un ente ciclopico, China Huarong Asset Management, “colosso statale di
gestione dei crediti bancari deteriorati”, teneva i soldi in mazzette. Magari
in yuan, forse non poteva cambiarli. Ma tutto si può raccontare, i giornali ci
credono.
Si
fanno le purghe in Cina, dei corrotti: tutti corrotti i non fedelissimi del
presidente Xi, non più antipartito. La Cina si è modernizzata.
Però
non li fucila, li impicca. Che non sia simbolico? Anche Hitler alla sconfitta,
dopo aver sperimentato le Einsatzgruppen,
che uccidevano in un colpo solo migliaia di persone, le camere a gas, e la mannaia, si mise a impiccare
uno per uno gli oppositori: la forca prelude alla fine?
L'Oriente raccontato, con brio
Un quadro infine veritiero della
Cina. Che non è il paese dei balocchi che crede Di Maio, il giovanotto artefice
della politica estera dell’Italia – ammesso che la Cina non confonda con quella
di Disneyland. La ricostruzione della gestione cinese dell’epidemia, prima e
dopo il suo acclaramento, è circonstanziata e terribile – temibile. Ma bisogna
arrivarci, nella terza e ultima parte. L’ultima parte è originale - in Italia
unica, soprattutto a sinistra – e importante: la Cina politica è quella che era, prima di Deng e
dell’arricchitevi: censurata e militarizzata, col culto del Capo di nuovo, come
al tempo di Mao, o di Stalin, e dei processi – ora per corruzione.
Dalla Cina, sappiamo in questa
parte, sono venute nella storia soprattutto le epidemie. L’epidemia Antonina, o
di Galeno, dal 165 d.C. per circa quindici anni, con una mortalità calcolata al
25 per cento della popolazione – euroasiatica? La peste del “Decamerone”, diffusa
in tutta Europa, che fece tra 200 e 400 milioni di morti. La peste bubbonica
del secondo Ottocento, 1855-1900. Più altre pesti minori, tipo quella di Milano
e quella di Londra. Dall’India viene il colera.
Fino
a metà libro è quello che sappiamo, l’Oriente
e l’Occidente che “conosciamo”, cioè gli stereotipi – “Massa e individuo” è il
sottotitolo. Con tutto il corredo: il “complesso di superiorità”, la superbia,
la storia di tre e quattromila anni, i funzionari hegeliani (mandarini), la
stampa, la bussola (la bussola non c’è, ma sì i cinesi che sanno navigare con
le stelle – come i fenici, come gli stessi greci delle isole, e anche della terraferma?),
la spiritualità (buddhismo, confucianesimo, yoga, anche induismo - un po’), da
una parte, dall’altra il colonialismo, naturalmente infame, e sbocciato per
caso, sul nulla, fino all’occidentalismo forzoso delle ultime classi dirigenti
asiatiche, a partire da Sun Yat Sen, il padre della Cina moderna, cittadino americano, fino a Ho Chi Min, Zhu Enlai, Deng Xiaoping a Parigi, e della figlia del
presidente Xi a Harvard. Con atto di pentimento incluso. Sulla scia di opere
fantastoriche, da Marco Polo a Montesquieu (ma non ci sono le “Lettere
persiane”), Hermann Hesse, in dettaglio, Edward Said, Camille Paglia, e alle storie di
due neo americani, Abbas Amanat, “Iran”, e Tamim Ansary, “The Invention of
Yesterday”, sul magnifico e munifico Oriente a fronte del bigio Occidente di
Temistocle e Trump – manca Kissinger, curioso, poiché è quello che ne sa di
più, avendo scoperto la Cina recentemente, nel 1971. Con padre Matteo Ricci e i
“riti cinesi”, e con Niccolò Mannucci.
A metà libro si passa alle cose
viste, e s’impara molto, divertendosi. Una scoperta: Rampini sa raccontare. Perfino
di Marie Kondo. Dei mercatini “umidi” cinesi, di animali vivi. Della mindfulness. Del buddhismo italiano.
Della sua scoperta dell’India – e di Modi, il “Trump indiano”. L’elenco sarebbe
lungo, ma alla lettura scorre con gusto. Anche lo yoga prende colore, e il nazionalismo ipernipponico, padre degli ipernazionalismi asiatici, cinese, coreano, indiano.
A metà libro Rampini si libera
del compitino del corrispondente, o del divulgatore (della passione della Grande Storia, certo, ma di cui purtroppo tutti sanno tutto), prendendo la staffetta, si direbbe, di
Terzani, l’altro corrispondente navigato e viaggiatore curioso in Oriente, politico
e non, fiorentino anche lui, con la stessa verve.
Quando passa a scrivere di quello che vede o ha visto, ricorda, sente,
immagina.
I “due” libri sono un contributo
insieme propedeutico e – provvisoriamente - conclusivo alla conoscenza
dell’Oriente. E dell’Occidente. L’Oriente non sappiamo pensarlo, ancora, anche
l’“orientalista” Rampini, che in rapporto all’Occidente. Ma è l’Occidente a
questo stadio a “rivelarsi”, a cominciare a capirsi, se non a mettersi in
questione: i tempi della decadenza (Santo Mazzarino) non sono propizi all’autocritica,
sono al più dolenti, smemorati - l’autocritica è dei generali al fronte, insomma combattivi.
Senza però fretta, o
cortocircuiti. Rampini, come tutti, non valuta, o sottovaluta, il gioco degli
specchi cui l’America ha assoggettato l’orbe, da ultimo col mondo virtuale, dei
social e gli short message. Mentre il business
corre indisturbato – questa non è la terza o quarta volta in una generazione
che sentiamo parlare di declino americano, con l’inconvertibilità del dollaro,
la sconfitta in Vietnam, la fine delle multinazionali, il crac bancario? È un
modello vecchio di quasi un secolo, e non appare cambiato: chiacchieriamo
chiacchieriamo, ma allo stato dei fatti? Ora la Cina è al punto a cui era
arrivato il Giappone negli anni 1980: vuole sfidare gli Usa? Non può, e non
vuole – per ora non può, e il guizzo di cannoniere nel mare della Cina
meridionale lo mostra, un gesto impotente: o la Cina cambia regime e torna alla
guerra fredda oppure abbozza. Non un’alternativa, in realtà: tornare alla
guerra fredda non può, troppi cinesi si stanno arricchendo e sarebbe una
Tienanmen continentale.
Fatti
i pesi, recuperati i fondamentali, molto però, è vero, resta da dire. I due
mondi sono diversi, ma non molto, non più oggi, quanto a stili di vita e di
pensiero, la globalizzazione è anche dei gusti e dei modi. La vera diversità
resta sempre quella, degli assetti politici, e del rilievo dell’opinione
pubblica. Sono però anche diversamente in movimento. In espansione, economica,
imperialista, l’Asia. In trincea, confusi, gli Stati Uniti e l’Europa. Le
identità, storiche o fantasiose che siano, contano poco.
La
globalizzazione, disegnata dagli Stati Uniti post-Reagan come l’arma assoluta
per dominare il mondo, passando sopra perfino a Tienanmen, opera come un boomerang: le “catene di valore”, con i
cinesi alla soma trent’anni fa, li vedono ora in cassetta, e col frustino. Si
può rimediare, ma poco, si è visto con Trump: sì, embarghi, contingenti,
eventualmente sanzioni, perché no, c’è Hong Kong ferita aperta, ma non più di
tanto. Se la “catena di valore” (produciamo tutto in Cina) è sempre troppo
conveniente, l’affarismo non si lascerà sopraffare dalla ragione politica. Anche
se l’Occidente si svena – si lascia improsare al centro commerciale, nella
finta affluenza, nel mentre che s’impoverisce. E la ragione politica in Cina
traballa, se non è già solo di cartapesta, una facciata: che ne sarà domani,
presto, della Cina con un miliardo di auto circolanti e due miliardi di conti
in banca, il partito Comunista si limiterà a fare da cassiere e da vigile urbano?
Rampini
già da vent’anni ammonisce che la Cina non è una potenza, è una superpotenza.
Kissinger è più cauto. Ma non c’è da fare conti o sommatorie: la storia è sempre
piena di variabili, e in progress . E
la Cina, a una seconda occhiata, si direbbe il colosso dai piedi d’argilla. Una
piramide rovesciata. Su un partito segreto, che si governa male, si vede, per
quanto poco, dalle liquidazioni o condanne a morte - un tempo a base di
ortodossia ora a base di corruzione. Tutte le frasi fatte vengono buone per
dire che il boom interminabile cinese ha basi instabili, tolto l’arricchimento
di produttori e importatori occidentali – l’Occidente nella globalizzazione ha
assunto il ruolo della classe “compradora” dei vecchi studi terzomondistici:
una borghesia che tanto più si arricchisce quanto più trascura o oblitera ruolo
e funzione. Le “catene di valore” si basano peraltro sul lavoro servile, senza
minimi e senza orari, che non può durare.
Anche la storia andrebbe rivista.
C’è una condiscendenza supina alla superbia cinese. Dice che la Cina scriveva
poesia quando noi ci rotolavano nel fango, mangiando anche noi animali vivi, ma
ammazzandoli con le mani. La Cina, così piena di storiografia, non ebbe
cognizione dell’impero romano. Né l’impero seppe della Cina imperiale e
gloriosa Sì, comprava sete, che apprezzava, e nulla più. Si dice anche che il
Cristo a Cafarnao seppe di Buddha e di Confucio – ma forse il sionismo pretende
troppo, “toledothare” Cristo e farsene monumento.
Con una bibliografia, e con un
utilissimo indice dei nomi.
Federico Rampini, Oriente Occidente, Einaudi, pp. 279 €
17
Dalla Cina, sappiamo in questa parte, sono venute nella storia soprattutto le epidemie. L’epidemia Antonina, o di Galeno, dal 165 d.C. per circa quindici anni, con una mortalità calcolata al 25 per cento della popolazione – euroasiatica? La peste del “Decamerone”, diffusa in tutta Europa, che fece tra 200 e 400 milioni di morti. La peste bubbonica del secondo Ottocento, 1855-1900. Più altre pesti minori, tipo quella di Milano e quella di Londra. Dall’India viene il colera.
Fino a metà libro è quello che sappiamo, l’Oriente e l’Occidente che “conosciamo”, cioè gli stereotipi – “Massa e individuo” è il sottotitolo. Con tutto il corredo: il “complesso di superiorità”, la superbia, la storia di tre e quattromila anni, i funzionari hegeliani (mandarini), la stampa, la bussola (la bussola non c’è, ma sì i cinesi che sanno navigare con le stelle – come i fenici, come gli stessi greci delle isole, e anche della terraferma?), la spiritualità (buddhismo, confucianesimo, yoga, anche induismo - un po’), da una parte, dall’altra il colonialismo, naturalmente infame, e sbocciato per caso, sul nulla, fino all’occidentalismo forzoso delle ultime classi dirigenti asiatiche, a partire da Sun Yat Sen, il padre della Cina moderna, cittadino americano, fino a Ho Chi Min, Zhu Enlai, Deng Xiaoping a Parigi, e della figlia del presidente Xi a Harvard. Con atto di pentimento incluso. Sulla scia di opere fantastoriche, da Marco Polo a Montesquieu (ma non ci sono le “Lettere persiane”), Hermann Hesse, in dettaglio, Edward Said, Camille Paglia, e alle storie di due neo americani, Abbas Amanat, “Iran”, e Tamim Ansary, “The Invention of Yesterday”, sul magnifico e munifico Oriente a fronte del bigio Occidente di Temistocle e Trump – manca Kissinger, curioso, poiché è quello che ne sa di più, avendo scoperto la Cina recentemente, nel 1971. Con padre Matteo Ricci e i “riti cinesi”, e con Niccolò Mannucci.
A metà libro si passa alle cose viste, e s’impara molto, divertendosi. Una scoperta: Rampini sa raccontare. Perfino di Marie Kondo. Dei mercatini “umidi” cinesi, di animali vivi. Della mindfulness. Del buddhismo italiano. Della sua scoperta dell’India – e di Modi, il “Trump indiano”. L’elenco sarebbe lungo, ma alla lettura scorre con gusto. Anche lo yoga prende colore, e il nazionalismo ipernipponico, padre degli ipernazionalismi asiatici, cinese, coreano, indiano.
A metà libro Rampini si libera del compitino del corrispondente, o del divulgatore (della passione della Grande Storia, certo, ma di cui purtroppo tutti sanno tutto), prendendo la staffetta, si direbbe, di Terzani, l’altro corrispondente navigato e viaggiatore curioso in Oriente, politico e non, fiorentino anche lui, con la stessa verve. Quando passa a scrivere di quello che vede o ha visto, ricorda, sente, immagina.
I “due” libri sono un contributo insieme propedeutico e – provvisoriamente - conclusivo alla conoscenza dell’Oriente. E dell’Occidente. L’Oriente non sappiamo pensarlo, ancora, anche l’“orientalista” Rampini, che in rapporto all’Occidente. Ma è l’Occidente a questo stadio a “rivelarsi”, a cominciare a capirsi, se non a mettersi in questione: i tempi della decadenza (Santo Mazzarino) non sono propizi all’autocritica, sono al più dolenti, smemorati - l’autocritica è dei generali al fronte, insomma combattivi.
Senza però fretta, o cortocircuiti. Rampini, come tutti, non valuta, o sottovaluta, il gioco degli specchi cui l’America ha assoggettato l’orbe, da ultimo col mondo virtuale, dei social e gli short message. Mentre il business corre indisturbato – questa non è la terza o quarta volta in una generazione che sentiamo parlare di declino americano, con l’inconvertibilità del dollaro, la sconfitta in Vietnam, la fine delle multinazionali, il crac bancario? È un modello vecchio di quasi un secolo, e non appare cambiato: chiacchieriamo chiacchieriamo, ma allo stato dei fatti? Ora la Cina è al punto a cui era arrivato il Giappone negli anni 1980: vuole sfidare gli Usa? Non può, e non vuole – per ora non può, e il guizzo di cannoniere nel mare della Cina meridionale lo mostra, un gesto impotente: o la Cina cambia regime e torna alla guerra fredda oppure abbozza. Non un’alternativa, in realtà: tornare alla guerra fredda non può, troppi cinesi si stanno arricchendo e sarebbe una Tienanmen continentale.
Fatti i pesi, recuperati i fondamentali, molto però, è vero, resta da dire. I due mondi sono diversi, ma non molto, non più oggi, quanto a stili di vita e di pensiero, la globalizzazione è anche dei gusti e dei modi. La vera diversità resta sempre quella, degli assetti politici, e del rilievo dell’opinione pubblica. Sono però anche diversamente in movimento. In espansione, economica, imperialista, l’Asia. In trincea, confusi, gli Stati Uniti e l’Europa. Le identità, storiche o fantasiose che siano, contano poco.
La globalizzazione, disegnata dagli Stati Uniti post-Reagan come l’arma assoluta per dominare il mondo, passando sopra perfino a Tienanmen, opera come un boomerang: le “catene di valore”, con i cinesi alla soma trent’anni fa, li vedono ora in cassetta, e col frustino. Si può rimediare, ma poco, si è visto con Trump: sì, embarghi, contingenti, eventualmente sanzioni, perché no, c’è Hong Kong ferita aperta, ma non più di tanto. Se la “catena di valore” (produciamo tutto in Cina) è sempre troppo conveniente, l’affarismo non si lascerà sopraffare dalla ragione politica. Anche se l’Occidente si svena – si lascia improsare al centro commerciale, nella finta affluenza, nel mentre che s’impoverisce. E la ragione politica in Cina traballa, se non è già solo di cartapesta, una facciata: che ne sarà domani, presto, della Cina con un miliardo di auto circolanti e due miliardi di conti in banca, il partito Comunista si limiterà a fare da cassiere e da vigile urbano?
Rampini già da vent’anni ammonisce che la Cina non è una potenza, è una superpotenza. Kissinger è più cauto. Ma non c’è da fare conti o sommatorie: la storia è sempre piena di variabili, e in progress . E la Cina, a una seconda occhiata, si direbbe il colosso dai piedi d’argilla. Una piramide rovesciata. Su un partito segreto, che si governa male, si vede, per quanto poco, dalle liquidazioni o condanne a morte - un tempo a base di ortodossia ora a base di corruzione. Tutte le frasi fatte vengono buone per dire che il boom interminabile cinese ha basi instabili, tolto l’arricchimento di produttori e importatori occidentali – l’Occidente nella globalizzazione ha assunto il ruolo della classe “compradora” dei vecchi studi terzomondistici: una borghesia che tanto più si arricchisce quanto più trascura o oblitera ruolo e funzione. Le “catene di valore” si basano peraltro sul lavoro servile, senza minimi e senza orari, che non può durare.
Anche la storia andrebbe rivista. C’è una condiscendenza supina alla superbia cinese. Dice che la Cina scriveva poesia quando noi ci rotolavano nel fango, mangiando anche noi animali vivi, ma ammazzandoli con le mani. La Cina, così piena di storiografia, non ebbe cognizione dell’impero romano. Né l’impero seppe della Cina imperiale e gloriosa Sì, comprava sete, che apprezzava, e nulla più. Si dice anche che il Cristo a Cafarnao seppe di Buddha e di Confucio – ma forse il sionismo pretende troppo, “toledothare” Cristo e farsene monumento.
Con una bibliografia, e con un utilissimo indice dei nomi.
Federico Rampini, Oriente Occidente, Einaudi, pp. 279 € 17
giovedì 4 febbraio 2021
Il mondo com'è (421)
astolfo
Sacro piede - Il rito papale
del bacio dei piedi a Pasqua rifà alla cronaca evangelica della vigilia della
Passione, quando Gesù, dopo l’Ultima Cena, lava i piedi degli Apostoli come a
indicare loro la via della predicazione, del proselitismo. I papi hanno,
soprattutto di recente, continuato il rito, lavando i pedii normalmente di
dodici sacerdoti – Giovani Paolo II di dodici poveri. Ma con alcune varianti.
Per la settimana santa del 2019 il papa Francesco ha lavato e baciato i piedi
di alcuni detenuti “di tutte le fedi”, cioè compresi alcuni mussulmani. E ha
baciato le scarpe dei capi politici del Sud Sudan, convitati a Roma per fare la
pace – a conclusione di un ritiro spirituale a questo fine di due giorni nella
sua casa a Santa Marta. A chiudere un conflitto fra i due vice-presidenti che
ha fatto 400 mila morti e quattro milioni di sfollati – s una popolazione
stimata in undici milioni. Il bacio
della scarpa intendendo un rovescio del rito del “bacio della sacra pantofola”
del pontefice stesso da parte dei dignitari della corte pontificia, abolito d a
Giovanni XXIII.
Papa
Paolo VI, dopo la chiusura dell’Anno Santo, il 14 dicembre 1975, invitò nella
Cappella Sistina il metropolita Melitone, della chiesa di Calcedonia a Kadiköy,
la periferia nord di Istanbul sulla costa asiatica, e gli baciò senza preavviso
i piedi – anche in questa occasione calzati. In riparazione, intendeva, del
Concilio di Firenze alcuni secoli prima, quando il papa Eugenio IV per
celebrare l’unità fittizia ritrovata con la chiesa ortodossa, volle che gli ortodossi
si umiliassero a terra, con la scusa di baciare il sacro piede.
Francesi-tedeschi – Non solo i Franchi al Nord, i
Germani penetrarono la Francia in gran numero anche nella parte centrale, al
confine con l’attuale Svizzera. Nell’anno 49 a.C. , del ritorno di Cesare dalla Gallia,
i Germani in gran numero, fra i 100 e i 150 mila, attraversarono il Reno a
Basilea, invadendo le terre degli Elvezi, una tribù bellicosa. Che però trovò
più facile spostarsi a sua volta verso ovest, all’interno della Gallia.
Stefan George, che ha rifatto la poesia
germanica, solo da grande a Belino scelse il tedesco, essendo cresciuto col
francese lungo il Reno, dopo aver fatto tesoro a Parigi di Mallarmé e Verlaine.
Una scelta
inversa aveva fatto Heine, l’altro innovatore della lingua poetica tedesca. Che
è singolare cartina di tornasole dell’identità tedesca. Un po’ come la Resistenza –
che la Germania non celebra, benché sia stata la più ampia e costante in Europa.
La Germania, finalmente libera dal dovere imperiale, aveva alla sconfitta
pronto da cent’anni con Heine il “partito dei fiori e degli usignoli”. Ma non ha
saputo che farsene. Che c’è di più ideale dell’unità organica di democrazia,
cosmopolitismo, pacifismo, diritti dell’uomo, di più realistico anche,
dovendosi dare un’altra storia? Ma niente, silenzio. Dovendone celebrare il
centenario nel 1956 la buona Repubblica Federale se la cavò con un comunicato
di poche righe. Come vergognandosene. Così si disse, intendendo che si vergognava
di Hitler e di sé. Ma forse si vergognava – si vergogna - di Heine, che ha
insegnato il tedesco ai tedeschi ma era ebreo, incancellabilmente benché
apostata.
O
non sarà, questa riserva della Germani, la sua incancellabile diversità, l’io e
il mio Dio? Non si valuta a sufficienza l’eversione di Lutero, radicale,
barbara. Sì, inni, salmi, canti e corali, ma è il nomadismo dell’anima che
Lutero impone, a piccoli borghesi da secoli e millenni sedentari e abitudinari,
uno sconvolgimento del loro minuscolo focolare intimo. Per non sanno bene che,
ma fuori di loro. “Tutti i popoli”, diceva Heine, “quelli europei e quelli del
mondo intero, dovranno superare questa lotta mortale, affinché dalla morte
risorga la vita, dalla nazionalità pagana la fraternità cristiana”. Lo diceva
ai tedeschi, cristiano neofita dopo tante prove – “keine Messe wird man singen,\ Keinen Kadosh wird man sagen,\ Nichts
gesagt und nichts gesungen\ Wird an meinen Sterbetagen”, niente messe
cantate, niente kadosh recitati, niente canti e niente detti ai miei centenari,
i giorni della morte.
Molta letteratura d’appendice
nell’Ottocento, diecine di migliaia di pagine, divide la Francia tra franchi
oppressori e galli onesti lavoratori, oppressi.
S.Weil, “L’enracinement”, ha alle
pp. pp.138-43 l’atroce conquista della Francia sotto la Loira da parte dei
francesi-franchi. E subito dopo la “libertà tedesca”: “La Franca Contea, libera e felice sotto la
lontanissima sovranità spagnola, si batté nel Seicento per non diventare
francese. La popolazione di Strasburgo si mise a piangere quando vide le truppe
di Luigi XIV entrare nella sua città in piena pace, con una trasgressione della
parola data degna di Hitler”.
I franchi erano originariamente tedeschi,
nella Francia attuale sotto la Loira - anche gli Albigesi e i trovatori non
erano francesi, in Borgogna, nelle Fiandre, in Sicilia Nella conquista feroce
del Sud hanno creato l’Inquisizione, per meglio perseguitare i felici popoli
sottomessi.
Jünger, che è nazionalista
sensibile, voleva dare “tutto Stendhal per un poesia di Hölderlin”. Poi si
pentì, e riscrisse il romanzo. Ma fu l’edizione originale a fare il successo di
“Cuore avventuroso”.
Nerval
al Reno: “Germania, nostra madre a tutti!”
In
precedenza, 1810, Mme de Staël. “De l’Allemagne”, vara il romanticismo in salsa
tedesca. E crea il canone della “filosofia tedesca” che ancora fa testo, della
filosofia tedesca pensiero unico, sintetizzando, proponendo, imponendo Kant,
Fichte, Schelling.
Tedeschi-ebrei - Erich von
Stroheim, il teutone per eccellenza del cinema, “duro profilo da mestino”, come
lo tratteggia Sciascia, “tenuto su dall’alto e rigido colletto della divisa, il
monocolo, un che di metallico nella testa rapata”, era ebreo. Era nato a Vienna il 22 settembre 1885, come
risulta dai registri della comunità israelita.
Carl Leonhard Reinhold (1757-1823),
viennese, allievo dei gesuiti, alla loro soppressione sacerdote barnabita,
emigrato in Germania per sfuggire al giuseppinismo, quindi a sua volta,
spretato, massone Illuminato di Baviera, il filosofo che fece amare Kant e
formò Schiller, gli Schlegel, Hölderlin e Novalis, faceva dei Misteri ebraici, e dell’ebraica
massoneria, il fondamento della filosofia tedesca e della nostra umanità,
l’Occidente.
“Nessuna nazione europea ha ottenuto tanto
dagli ebrei” quanto la Germania, “sì, ottenuto!”, esclama a un certo punto
Joseph Roth in “Autodafé dello spirito”, p. 52-53. Che può continuare, nel
1934: “Dal 1872 in poi i tedeschi non ebrei sono stati per lo più marescialli,
viaggiatori, poeti della zolla, dilettanti, generali che perdono le guerre, nel
caso migliore ingegneri abili”. Da allora, sono stai ebrei tedeschi a tenere
alto l’onore della Germania: “Da sessant’anni gli ebrei tedeschi rappresentano
il nome tedesco nel mondo”. Questo è tanto vero, continua, “che in ogni talento
non ebreo s’iniziò a fiutare un «ebreo». Si fiutarono «ebrei» nei fratelli
Mann, nel regista Piscator, e persino in Goebbels”.
Ancora nel 1942 gli ebrei non odiano i
tedeschi. Lo spiega Thomas Mann ai tedeschi alla Bbc nel settembre del 1942, in
un’allocuzione nella quale richiamava gli obbrobri dello sterminio; “A
tutt’oggi (gli ebrei) non sono ancora vostri nemici. Voi siete i loro, ma non
riuscirete a rendere l’odio reciproco. Gli ebrei sono quasi sempre ben disposti
verso i tedeschi”.
Lui
però, personalmente, teneva alla porta Schõnberg durante la guerra nella sua residenza
americana a Los Angeles, Pacific Palisades.
Testa di morto – Fu adottata da
Federico Guglielmo I di Prussia, il padre militarista di Federico il Grande,
per la cavalleria. Alla sua morte, nel 1740, la testa di morto tedesca, senza
la mandibola e con le ossa tra i denti (in realtà sotto il teschio), fu
rappresentata nelle gualdrappe funerarie, Federico Guglielmo ci teneva.
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