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sabato 13 febbraio 2021

Il mondo com'è (422)

astolfo

Islamismo  È più radicale in Oriente - Medio, mondo islamico compreso, e subcontinentale - che in Occidente.  Nello stesso anno dell’attacco alle Torri Gemelle a New York e al Pentagono a Washington, un gruppo islamico aveva assaltato il Parlamento a Nuova Delhi, uccidendo ventidue persone. I dirottamenti multipli di aerei, la tecnica usata per l’attacco a New York e a Washington, era stata sperimentata in India dagli stessi gruppi islamisti. Non si contano gli attentati islamici in Medio oriente (Iraq e Siria in particolare), alle moschee, ai mercati, alle scuole, alle caserme, i luoghi più frequentati nelle ore più frequentate, con migliaia di morti. Nella stessa Arabia Saudita, alla Mecca
Particolarmente cruenta, in qualità di carnefici e di vittime, è stata ed è la presenza islamica in India. Il presidente indiano Modi ha varato una legge un anno fa a garanzia del diritto di asilo, con possibilità di naturalizzazione, per i profughi dai paesi confinanti che perseguitano le minoranze religiose. Escludendone i mussulmani. Modi è stato per questo accusato di discriminazione. Ma la legge nasce dal fatto che i paesi confinanti sono mussulmani, Pakistan, Afghanistan e Bangladesh, e perseguitano come un dato di fatto le minoranze, induiste, cristiane, buddhiste, ebraiche, giainiste e zoroastriane – nell’ordine di peso demografico
Il terrorismo islamico di questo primo quinto di secolo ha colpito l’India allo stesso modo che gli Stati Uniti e l’Europa, con l’attacco, dopo quello al Parlamento nel 2001, all’hotel Taj Mahal nel 2008, che fece 273 morti dopo una caccia mirata agli ospiti stranieri, e con altri numerosi attentati cruenti. Un terrorismo favorito dai servizi segreti pakistani, con basi di addestramento e programmazione.
L’India è un paese diviso, di necessità quasi confessionale, per la forte presenza mussulmana. La  partizione fu volta dagli islamici. Che, ciò malgrado, continuano a essere una minoranza molt contestataria in India.
Gandhi e poi Nehru prospettavano all’indipendenza una grande India negli stessi confini del Raj britannico, indipendentemente dalle confessioni religiose professate. I gruppi dirigenti mussulmani hanno voluto invece la secessione, prospettandosi il Pakistan come una teocrazia islamica – una sorta di revival novecentesco dei grandi califfati medievali.
 
Śambhala
– O Shambhala, è il luogo mitico del mitico Tibet, che, rimasto fuori della colonizzazione, inglese, francese, russa, un po’ perché remoto e elevato, di clima anche rigido, un po’ perché di poca o nessuna importanza commerciale, ha alimentato a lungo, fino a metà Novecento, ogni sorta di fantasie. La più famosa di queste è stata Shangri-La, creata dallo scrittore di best-seller James Hilton, nel 1933, in “Orizzonte perduto”, e resa planetaria dal film dallo stesso titolo che Frank Capra ne trasse nel 1937qualche anno dopo. Ma la mitizzazione più importante e duratura, durata un secolo,  all’origine di molte ricerche e spedizioni, fu Śambhala .
Federico Rampini, “Oriente Occidente”, ricorda una spedizione russa: “Dal 1870 al 1876 un esploratore dello zar, il romantico colonnello Nikolaj Michailovič Prževal’skij, detto «il Lord Byron russo», lancia diverse spedizioni nella speranza di scoprire l’antica Śambhala, che ha sentito descrivere da un lama come un’isola dorata in mezzo a un mare a elevatissima altitudine”.
La più avventata, e la più stolida, ricerca europea della purezza a croce uncinata è di Himmler – che in “Gentile Germania” viene così ricostruita:
“In Germania l’Ahnung era diffusa, la sensazione che qualcosa di terribile succedesse, ma non si sapeva che. Si può dire, più che una conoscenza, un’eredità atavica, poiché ahnen, sentire, è pure avi: da Taormina al Tibet i dati che rastrellava sulla razza teutonica Himmler li confidava all’Ahnenerbe Studiengesellschaft, la società delle SS per lo studio degli avi. La Colpa allora sarebbe del Tibet, che dell’AS fu campo unico di studio, e oltre alla runa fornì il film Tibet segreto, ventimila foto, quattromila uccelli, e il fantomatico battaglione Waffen SS Tibet a difesa di Berlino. Cioè, di nuovo, della chiesa di Roma, la quale, Himmler non lo sapeva ma lo riproduce tutto, dal concistoro al papa: rifà il Tibet, comprese le barzellette sui monaci…..
“L’Ahnenerbe Gesellschaft, la società degli avi, arruolò duecento scienziati per cercare, in missione spesata con amante, gli “ariani” nel mondo. Prima che nel Tibet l’archeologo Altheim li aveva trovati in Val Camonica, in compagnia della fotografa Erika Trautmann, una che dava belle soddisfazioni ai gerarchi nazisti. Concludendone che l’antica Roma era “ariana”, anche se ciò sconfessava Arminio. La coppia Altheim-Trautmann ripeté la vacanza in Siria, Iraq e Romania. Qui, trovandosi sul Mar Nero, propose di ripopolare di “ariani” la Crimea, ripulendola dagli ebrei. Hitler vi destinò i tirolesi di Bolzano che avevano optato per la Germania nel ‘39, “i goti sopravvissuti alle glaciazioni”. Altri scienziati invece, nell’ottica di elevarsi in altezza come in Tibet, scoprirono gli “ariani” in Bolivia.”
 
I nazisti organizzarono cinque spedizione nel Tibet, alpinistiche e etnologiche, alla ricerca degli avi puri. Himmler, in qualità di referente dell’Ahnenerbe, ne organizzò una nel 1938, e in parte la finanziò personalmente. Doveva trovare nel Tibet l’origine dell’arianità, della razza pura – dal Tibet  poi discesa a invadere e conquistare l’Asia, Cina, India, Giappone. La spedizione durò quindici mesi, dal maggio 1938 all’agosto 1939, guidata da Ernst Schãfer, 28 anni, ornitologo, capitano delle SS, che si era illustrato nel 1931-2 in una spedizione in Cina e nel Tibet, organizzata dal naturalista americano Brook Dolan, finanziata da un’Accademia di Storia Naturale di Filadelfia. Folta di  specialisti giovani, tra i venti e i trenta anni, la missione di Himmler produsse quattro anni dopo, nel mezzo della guerra ormai sulla difensiva, il “Tibet segreto”, opera dello stesso Schãfer, e il documentario dallo stesso titolo.
Erano gli anni in cui il Tibet era indipendente, dalla fine dell’impero cinese nel 1911. Un sostenitore del Tibet protoariano, Walter Wurst, sanscritista all’università di Monaco, si era illustrato per le analogie tra Buddha e Hitler.
Un altro libro-racconto di una spedizione nazista in connessione con il Tibet, da cui un altro film famoso fu tratto, entrami intitolati “Sette anni in Tibet”, fu dovuto a Heinrich Harrer, uno sciatore e alpinista carinziano nazista, iscritto alle SA a 21 anni nel 1933 (quando la formazione era proibita in Austria). Furono l’esito di un’altra spedizione organizzata da Himmler, nel 1939, nel Kashmir. Guidata da Peter Aufschnaiter, un agronomo e scalatore anch’esso austriaco, naturalizzato tedesco, membro della prima ora del partito Nazista, dal 1936 animatore di una Fondazione dell’Himalaya Tedesca”. Alla spedizione del 1939, mirata a conquistare il Namga Prabat, Himmler gli volle affiancato Harrer, personaggio popolare in Germania per le sue avventure alpinistiche sull’Eiger bernese.
Poco dopo lo sbarco a Karachi, allo scoppio della guerra i componenti della spedizione furono  arrestati dai britannici e detenuti in prigionia in India. Riuscirono a evadere, e alcuni del gruppo si congiunsero con i giapponesi in Birmania. Harrer si diresse con Aufschanaiter verso Lhasa, dove rimasero fino a dopo la guerra e oltre. Aufschnaiter come consulente tecnico del governo, per la riforestazione e il riassetto idrico. Harrer s impiegò come fotografo (il governo ne aveva bisogno per far vedere il Tibet al Dalai Lama allora ragazzo, che non poteva uscire dal palazzo) e traduttore.
Nel 1950, all’invasione cinese, i due si divisero. Aufschnaiter lavorò per molti ani nel Nepal come agronomo – salvo un breve soggiorno a Nuova Delhi, dove si era arruolato nell’esercito indiano Harrer rientrò in Austria, si risposò, e riprese viaggi ed esplorazioni - segnalandosi come accompagnatore dell’ex re belga Leopoldo III, il fratello maggiore della regina aria José, esiliato dal suo Paese dopo l’occupazione nazista. Nel 1953 pubblicò “Sette anni nel Tibet”, consacrandosi anche come scrittore. Molto amico del Dalai Lama, che nel 2002 gli fece visita per i suoi 90 anni, e difensore dell’indipendenza del Tibet. Nonché fustigatore del concetto di “primitivo”, tutte le culture avendo la stessa dignità. Non trovò Śambhala, ma forse sì, nell’allegra disinvoltura.
 
La storia non finisce qui. aimbhala significherebbe in sanscrito “Fonte della Felicità” – “un luogo protetto”, lo dice wikipedia, “dove predominano pace, quiete e felicità incontaminata: un paradiso sulla terra, una terra pura, un regno mistico e misterioso nascosto tra le montagne più elevate dell'Himalaia, nella zona occidentale del Tibet”. Tra i Lama tibetani sarebbe diffusa la convinzione della sua esistenza, in un punto dell’Asia Centrale a nord del fiume Sita delle scritture buddiste, che alcuni studiosi identificano con il fiume Tarim, nella regione autonoma cinese degli Uiguri, il Sinkiang, autonoma perché mussulmana. Gli Uiguri che il regime della Cina Popolare ora perseguita: si stima che il presidente Xi abbia ordinato la detenzione di un milione di Uiguri in campi di rieducazione nel Sinkiang.

astolfo@antiit.eu


Contro la morte l’amicizia, sguaiata

Come passare le ultime settimane di vita fra amici di cui uno sa e uno pensa che l’altro è condannato dal tumore ai polmoni? Con mille invenzioni quotidiane: il cane, le bevute, il ping-pong in casa, Biarritz e il casinò, le canzoni, le donne (terribili), e un viaggio perfino in India. Cioè con niente, ma con gag furfantesche e dialoghi fosforescenti: niente tristezze, nemmeno al funerale. Un inno all’amicizia, ma senza darlo a vedere.
Una delle tante uscite in Italia sacrificate a febbraio dallo scoppio dell’epidemia. Una commedia originale, che sa far sorridere di un tema tragico, con due leoni che si mangiano la scena, ogni scena: Fabrice Luchini eterno imbranato, qui tra le cattiverie accademiche, ricercatore all’Istituto Pasteur, e Patrick Bruel, un incapace sempre fallito e mai domo, un vulcano anzi di idee, progetti,  stratagemmi, forza.
Alexandre de la Patellière, Il meglio deve ancora venire, Sky Cinema

venerdì 12 febbraio 2021

Un ministero molto bianco, e senza primedonne

Un ministero molto “bianco”, sia tra i tecnici” sia tra i politici, di tutti i partiti, Pd, Lega, Forza  Italia, e di non dichiaratori, o primedonne, quelli che vogliono rubare la scena - Di Maio è innocuo. Questa assenza soprattutto è notevole: il presidente del consiglio italiano non ha poteri nel governo, solo di raccordo, non nomina e non può dimettere i ministri, mentre può essere da questi crocifisso, come si è appena visto. Draghi si è premunito: dovrebbe poter governare, anche superendo lo scoglio rinnovo del Quirinale fra un anno.
Nella ripartizione dei ministeri, la parte “bianca”, fuori e dentro il Pd, rimane salda: scuola, giustizia, e il complesso energia-ricerca- tecnologia- ecologia, il nuovo polmone del potere con il Recovery Fund europeo, rimangono saldamente al vecchio e nuovo Centro, per tecnico che sia ma sempre Popolare. Draghi è pur sempre il consigliere di Goria al Tesoro, la roccaforte DC nel governo Craxi. Il Tesoro, dove tutto confluisce. lo gestirà ora personalmente Draghi, attraverso Daniele Franco.

Ombre - 529

In sedici mesi di attività, settembre 2019- dicembre 2020, i “navigatori” del lavoro hanno svolto in media un colloquio al giorno, un po’ meno, e una verifica ogni due giorni, un po’ meno, calcola “Il Sole 24 Ore”. Va bene che per metà tempo c’è stata l’epidemia, ma soprattutto c’è la voglia grillina di non lavorare - del tutto dovuto, di mungere la vacca. Anche al Nord, non solo in Calabria.
Dovevano avviare al lavoro i percettori del reddito di cittadinanza.
 
I consulenti del lavoro invece hanno “messo in sicurezza” (“ristori” e altri busillis) sei milioni di occupati. Ma i consulenti non sono statali.
 
La presidente dei consulenti del lavoro, Marina Calderone, spiega così al “Corriere della sera” il governo della pandemia da parte del governo dell’avvocato Conte: “Combattiamo “con i 22 Dpcm emessi da inizio pandemia, con i 14 decreti di previsione degli ammortizzatori sociali, applicati con 25 modi diversi, per ottenere il medesimo sussidio”.
 
“Eni,  archiviato il fascicolo nato dalle parole di Amara sul giudice”,  “Corriere della sera”. Che vorrà dire?
https://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20210212/282132114141583
Lo stimato cronista giudiziario Ferrarella, all’orecchio della Procura di Milano, è stizzito: voleva Eni – di questo si tratta – condannato, sennò che cronaca è? Che giornalismo è?
 
È stupefacente l’acredine contro i Carabinieri dei cronisti romani di nera al processo per l’assassinio del brigadiere Cerciello, ucciso a freddo da due americani in cerca di droga. Merito degli avvocati della difesa. Degli avvocati di uno dei due killer, Gabriel Natale Hjorth, di famiglia ricca che non bada a spese pur di far dire che Cerciello praticamente si è autoaccoltellato.
La famiglia Hjorth paga anche i cronisti? E sennò bastano due avvocati per fare il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “Il Messaggero”, le cronache romane?
 
Ultima carta nella lunga rincorsa alla rielezione, la sindaca di Roma Raggi, dopi i premi ai 22 mila dipendenti comunali, e una miriade di appaltini, lancia un concorsone: 1.512 assunzioni a tempo indeterminato. E non sbaglia colpo: gli iscritti, sinora, sono 180 mila.
 
È singolare il degrado di tutte le strade di Roma, Centro compreso, invase da cartacce, escrementi e ortiche, in questi anni di sindacatura 5 Stelle, che pure dice l’Ambiente in cima ai suoi pensieri.
 
Nel 2016 la sindaca di Roma Raggi barattò la Olimpiade a Roma nel 2026 con una teleferica – anche con lo stadio della Roma, ma lì le è andata male, troppa corruzione, troppo disinvolta. La teleferica fu il suo cavallo di battaglia, l’unico: avrebbe collegato un capolinea della metro al suo quartiere, Casalotti. Ora rilancia: “Tanto”, twitta, “qualora la funivia non dovesse servire, si smonta e può rimontare da un’altra parte”. Un personaggio che non si saprebbe inventare.
Certo, non si può dire cattiveria il candore, non c’è arma.
 
Ivo Mej fa sul “Fatto Quotidiano” l’elenco di quello che Grillo doveva essere e non è stato, il movimento 5 Stelle – non trova nemmeno una briciola di tante buone intenzioni. Se non che uno si dice: possibile che Mej, un giornalista, ci credesse?
Oppure: e meno male, al primo punto di Grillo non c’era l’abolizione del giornalismo?
 
“Draghi è appeso a Rousseau”, titola “Il Fatto Quotidiano” della farsa referendaria 5 Stelle sul governo: “Base furiosa, risultato in bilico”. Di un’esercitazione furbesca per avere i titoli dei media?
 
Fanno pena i “costruttori” di Grillo accorsi in aiuto a Conte all’ultima ora. Specie la onorevole Rossi, già stretta collaboratrice di Berlusconi (“la badante del Cav.”). O l’altra grande beneficata di Berlusconi,  l’altrimenti anonima Renata Polverini. Il trasformismo non paga, neanche le mance.

L’allenatore Conte che deve tutto alla Juventus, tutti i titoli che può vantare, da calciatore e da allenatore, dileggia la Juventus con indici, corna e ingiurie, perché viene battuto in Coppa Italia. Una forma di suicidio, di uno che deve i suoi ingaggi stratosferici al fatto di aver vinto con la Juventus, e poi niente, solo sconfitte. Anche l’errore di identificare il calcio con l’allenatore, di farne un idolo.

È palese il disastro sudtirolese nella gestione del coronavirus, con Bolzano segregata dal resto del mondo. Per imprevidenza e incapacità. Con danno del turismo invernale, che fa la metà dell’economia metropolitana, degli innumerevoli campi di sci che la popolano. Ma non c’è autocritica a Bolzano e dintorni.
 
La provincia di Bolzano è diventata l’appestata d’Europa perché da giugno si è gestita da sola i contagi, sfidando Roma – e Roma non l’ha deferita al Tar, come ha fatto con altre regioni. E perché l’Austria ha voluto che Bruxelles la dichiarasse superrossa, per poter arrivare di fatto alla chiusura della frontiera.
 
Ogni volta che c’è da decidere qualcosa per i 5 Stelle, deve accorrere il comico Grillo da Genova. Come dei minori, per i quali deve decidere un adulto.
E cosa chiede Grillo? L’industria dell’ambiente - è un comico, non un ipocrita.

Quando Gandhi scrisse a Hitler – “crudele”, “mostruoso”

È scandalosa, anche imbarazzante, ma per l’ingenuità. Una corrispondenza peraltro ridotta a due lettere, di cui una, la prima, di non più di 130 parole, una decina di righe.
Se ne è fatto scandalo quando sono emerse dagli archivi dell’amministrazione britannica in India, dove erano rimaste sepolte, perché la censura le aveva sequestrate. Quindi lettere non spedite. Perché Gandhi le ha scritte? Il motivo è come dice Chang, che “Gandhi non poteva starsene fermo mentre vedeva l’imminente violenza che che un regime autoritario stava per scatenare”.
Le lettere sono state pubblicate qualche anno fa con  scandalo. Maliziosamente, da parte britannica, collegandole a un'annotazione di diario, il 12 dicembre 1931: “Alle 6 Mussolini”. Al ritorno da un viaggio a Londra, Gandhi si era fermato a Roma e aveva chiesto udienza a Mussolini – che però non ne tenne conto, pur annusando ogni brezza anti-britannica (si viaggiava allora in treno, da e per Napoli, base marittima per i collegamenti con l’Oriente): la segreteria di palazzo Venezia non ne tenne conto.
La prima lettera, del 23 luglio 1939, è per pregare Hitler, “la sola persona nel mondo che può prevenire una guerra che ridurrebbe l’umanità a uno stato selvaggio”. Scandalo, perché è indirizzata “Caro amico”. Ma il caro amico così prosegue: “Amici hanno insistito perché le scrivessi per il bene dell’umanità. Ho resistito alla loro richiesta, per il sentimento che una lettera da parte mia sarebbe un’impertinenza”. Ma ora, aggiunge, “qualcosa mi dice che non devo calcolare e che devo fare il mio appello, per quel che può valere”.
Il 24 dicembre replicò, con una vera lettera,  di due pagine abbondanti, 1.028 parole. Da intendersi, conclude, indirizzata anche a Mussolini: “In tendevo indirizzare un appello congiunto a lei e al signor Mussolini, che ho avuto il privilegio d’incontrare a Roma durante il mio viaggio in Inghilterra per la Conferenza della Tavola Rotonda. Spero che prenderà questa (lettera) indirizzata anche a lui con i cambiamenti necessari”.
Non un capolavoro di retorica, insomma. Gandhi scrive anche dubbioso, e dispettoso. A  metà lettera rompendo gli indugi, dopo una  disamina dello strapotere inglese sulle colonie, lo appaia alla “umiliazione della Cecoslovacchia, lo stupro della Polonia e il boccone della Danimarca”. Continua come se avese ricevuto un’offerta di aiuto da Hitler contro gli Inglesi – che non c’era stata: lei ha sfidato il potere mondiale della Gran Bretagna, ma “resta da vedere quale è meglio organizzato, il tedesco o il britannico”. Precisando, benché sotto “il tallone inglese”: “Non ci augureremmo mai di finire l’impero britannico con l’aiuto tedesco”.
Non c’è alternativa alla non-violenza: “La scienza della distruzione che lei ha portato a tanta perfezione, mi meraviglio che che non veda che non è il monopolio di nessuno. Se non i Britannici, qualche altra potenza migliorerà sicuramente i vostri metodi e vi batterà con le vostre stesse armi”. A  Hitler imputando “fatti crudeli, per quanto abilmete pianificati”. L’esordio è non meno rude: “Molti dei vostri atti sono mostruosi, immeritevoli di umana dignità”.
Rachel Chang, Gandhi’s surprising letters to Hitler asking for peace, free online

giovedì 11 febbraio 2021

Problemi di base cognitivi - 622

spock

“Noi siamo originali perché non sappiamo nulla”, F. Hõlderlin?
 
“La virtù può essere insegnata”, V. Woolf?
 
“La virtù è conoscenza”, id. ?
 
“Non c’è insegnamento ma reminiscenza” - tutto è innato, Platone?

La lingua è universale – N. Chomsky?

“Il linguaggio è un processo di libera creazione”, B. Russell?

Si sa quello che si vuole sapere?

spock@antiit.eu

Ecobusiness

La moltiplicazione abnorme delle vendite per corrispondenza ha prodotto una moltiplicazione enorme di cartoni e plastiche di imballaggio.
Si può avere una macchina elettrica se non si ha un garage? No
Il polietilene Primo Levi elogia con riserva già nel 1975, nel racconto “Cerio”, di quando nel lager rubava le bacchette di cerio per farne acciarini, da scambiare contro una briciola di pane: “È flessibile, leggero e splendidamente impermeabile, ma è anche un po’ troppo incorruttibile”. Non un limite da poco, Levi continua cosi: “E non per niente il Padre Eterno medesimo, che pure è maestro in polimerizzazioni, si è astenuto dal brevettarlo: a Lui le cose incorruttibili non piacciono”.
Non si stampano più giornali, dato che nessuno più li compra, e quindi l’ambiente ne beneficia – ricordate, carta riciclata, non si uccide un albero per farne cellulosa? Si stampano in compenso miliardi di fogli A 4 inutili, che nessuno legge e a nessun fine, da sottoporre ogni giorno a decine, a centinaia, per ogni minimo atto da sottoscrivere in banca o all’assicurazione, e perfino in ospedale.

Le ragazze di Hitler a scuola in Inghilterra

1154, sei minuti a mezzanotte, è la chiave per avere accesso al comando britannico, e avvisarlo che l’invasione della Polonia sarà per l’indomani. Nel mentre succedono tante cose da thriller: agenti inglesi vengono uccisi, spie inglesi fanno il doppio gioco, vecchie signore inglesi credono che Germania e Inghilterra uno sono. In una scuola molto inglese per signorine molto per bene, molto tedesche. Che inneggiano a Hitler e salutano col Sieg heil.
Una storia che si dice basata su un fatto vero: una scuola del genere, per signorine tedesche importanti, nel nome dell’ultima regina tedesca d’Inghilterra, Vittoria Augusta, sarebbe esistita a Bexhill-on-Sea, e avrebbe posto un problema di evacuazione allo scoppio della guerra. Una cosa molto “inglese”. Che Goddard, regista di innumerevoli serie tv, compresa “Downton Abbey”, e di un paio di thriller, uno con Dylan Thomas, gira col solito sorriso beffardo. Appena appena, lieve, quasi uno sguardo di sorpresa più che critico, su tutto ciò che si vuole “inglese”, superiorità, furbizia, e si risolve in  dabbenaggine. Forse.
Forse è un thriller semiserio. Ma il ritmo c’è, sorretto da un’ottima recitazione, come è dei film inglesi. Sotto la bandiera “iperinglese” Judi Dench, vecchio volto degli 007 - come dire che la vecchia capa dell’MI6, l’intelligence britannica, era una tontolona? Con molte immagini, molto belle.
Andy Goddard, Sei minuti a mezzanotte, Sky Cinema

mercoledì 10 febbraio 2021

Bpm ritorna a Milano

Conversione a U dunque per Bpm sulla via Emilia: l’ex Banco Popolare s’indirizza verso Milano, piazza Gae Aulenti, Unicredit. Ora sempre più chiaramente, e forse già con una maggioranza in consiglio, è più Unicredit all’orizzonte di Bpm per la prevista fusione che non Bper: se la fusione non dev’essere alla pari, tanto vale mettersi con Unicredit. Con Milano, con un gruppo grande, internazionale L’interesse degli azionisti è chiaro, quello del management viene in subordine.
La piccola corrente – che questo sito aveva segnalato per primo un mese fa (http://www.antiit.com/2021/01/cimbri-fa-paura-bpm.html) – favorevole a un’aggregazione milanese piuttosto che emiliana sarebbe diventata di peso, se non maggioritaria. Gli approcci con Modena, comunque, sono fermi.
Con o senza Mps, Bpm intenderebbe fare delle avances in questo senso a Unicredit. Anche in anticipo sulla sostituzione dell’ad Mustier col successore designato Orcel. Non in alternativa a Mps, ma in un’ottica di reciproco irrobustimento. In grado poi anche, eventualmente, se lo Stato si assumerà l’onere della ricapitalizzazione di cui il gruppo senese ha immediato bisogno, di assorbirlo.

Cronache dell’altro mondo – democratiche (92)

Il primo atto di politica estera di Biden, il presidente pacioccone succeduto al minaccioso Trump, è stato aprire una base area di bombardieri a lungo raggio B-1 in Norvegia, a Orland. A protezione dell’Artico – dallo scioglimento: sarà lo spiegamento dei bombardieri strategici parte della nuova politica climatica di Biden? Il secondo è stato il blocco delle forniture aeree alla Arabia Saudita. Per permettere agli Houthi yemeniti, che Teheran arma, di bombardare in sicurezza i siti sauditi, come hanno subito fatto? Per negoziare meglio con gli ayatollah? Gli Usa devono ancora scoprire il Levante.

La pubblicità Jeep al Superbowl, la supercoppa del football americano, l’evento televisivo più seguito dell’anno, con Bruce Springsteen, è molto criticata. Non dalla concorrenza, dai media. “Non è stato abbastanza di sinistra”, ha scritto il “Washington Post”. Non ironicamente: il giornale di Jeff Bezos, l’uomo più ricco degli Stati Uniti, avrebbe voluto un messaggio bellicoso contro Trump e i suoi.  
Il redattore scientifico del “New York Times”, 67 anni, molto stimato, è licenziato perché 150 redattori ne hanno chiesto il licenziamento. La colpa è di aver menzionato – non profferito – un epiteto razzista a un gruppo di ragazzi in visita. Subito denunciato dalle famiglie, il giornale lo aveva assolto, dopo accurata indagine. Ma 150 giornalisti, non tutti di colore, ne hanno preteso il licenziamento, e lo hanno ottenuto.
Il tema più discusso in questo primo scorcio di febbraio sui social è la questione dei bucatini. Della pasta bucatini, scomparsa dai supermercati. Gli esportatori italiani hanno puntato su altre specialità, poiché i bucatini avevano poco smercio. Ma, soprattutto, ha causato la carenza il blocco dei bucatini De Cecco da parte della Fda (Federal Drug Administration): hanno 2,1 milligrammi di ferro in meno del prescritto - la pasta negli Usa deve essere “arricchita”, con minerali e vitamine.

Immortali in vita, e nel ricordo

Un film sulla morte di una coppia di “immortali”. Rina, sposando Giuseppe, gli ha scritto una lettera in cui spiegava che amandosi sarebbero stati immortali. Ma il tempo ora è passato.
Quello che era un racconto di grate memorie, di Giuseppe Sgarbi, il padre di Elisabetta e Vittorio, in ricordo della moglie Rina, dopo sessanta e più anni di matrimonio, in un borgo minimo, semisolato, tra le nebbie, la neve e le acque fetide del Polesine, Avati sempre garbato ha trasformato in un film sulla “necessità” della morte. Di quella altrui - si può trovare consolazione nel ricordo, come ammoniva Pavese (“L’uomo mortale, Leucò, ha questo d’immortale, il ricordo che porta e il ricordo che lascia”) prima di uccidersi. E della propria, inevitabile.
Un film lieve, malgrado il tema. Avati è aiutato dai protagonisti. Specie dal viso radiante di Isabella Ragonese, Rina da giovane, da Renato Pozzetto mobilissimo, in tutti i registri dei  novantatré anni di Giuseppe, accasciato, energico, lento, lentissimo, fulmineo, e dal co-autore di Giuseppe, Fabrizio Gifuni, fatto arrivare da Roma, il romanziere di cui non si pubblicano i romanzi e a cui si commissionano memorie altrui.
Il co-autore che vive di espedienti, e non sa perché si è lasciato con la moglie e perché sta con una compagna, è trovata geniale: basta da sola a fare del racconto intimistico un film storico, di epoche e generazioni vicine e lontanissime. Sceneggiato dall’ottantaduenne Pupi Avati col figlio Tommaso, il film viene anche incontro, col “negro” Gifuni (che sembra un gemello di Tommaso…), alla curiosità del pubblico più largo del cinema, sui figli glamour di Giuseppe e Rina, Vittorio e Elisabetta. Soprattutto lei, Chiara Caselli, è l’architrave del  racconto, anche se in un ruolo non brillante.      
Pupi Avati,
Lei mi parla ancora, Sky Cinema

martedì 9 febbraio 2021

Secondi pensieri - 441

zeulig


Cupidigia
– “La cupidigia dei beni di sostentamento e di vita è motivo-base nelle viscere dei singoli: ognuno tende ad appropriarsi di ciò che gli serve: i poveri non meno dei ricchi”, Carlo Emilio Gadda, “La casa dei ricchi”, 13.
 
Dio
– “Gli stessi dei vengono dopo la creazione”, recitano i “Rig Veda”: “Quindi chi può sapere davvero come nacque la creazione?” Dio non creatore, dunque, ma ordinatore.
Ma, è la creazione? Sia pure del caos della fisica.
 
Natura
– “Il mondo è un insieme infinito di leggi galleggianti nel caos, un’immensa scatola chiamata natura” – lo dice Scalfari ma è vero: “L’esistente soggiace ad una  norma che è soltanto la sua”, “la regola dell’essere non è altro che l’assenza di regole o la loro inconciliabilità”. E: “L’esistente ha un suo linguaggio ma l’essere non si esprime se non con le forme esistenti che lo frantumano. L’esistente si distingue da tutto ciò che è se stesso e per questo non è da noi definibile se non come caos che contiene un numero infinito di leggi potenziali senza soggiacere ad alcuna”.

Si insegna in America – dove altro? – che la catastrofe ecologica è effetto delle religioni del Dio Unico, del dominio dell’uomo sulla natura. Del cristianesimo, naturalmente, in gran parte. La fede in Dio comportando, chissà perché, arroganza e distruzione. E non delle centrali a carbone dell’Asia non monoteista, dove è difficile vedersi anche di giorno. Questo fa parte del complesso di colpa occidentale, conseguente al suicidio dell’Europa nelle due grandi guerre, e alle terapeutiche distruttive di Marx e di Freud. Ma si alimenta dell’illibatezza della natura.  

   

Anche adesso, che un effetto naturale fa vittime a milioni, si vuole idealizzare la natura – l’albero, il giardino, la campagna, un ristoro della clausura forzata. Stranamente, la natura ritorna in una concezione non lontana da quella volgare, della nuova ecologia: di un mondo che sta lì fuori, incontaminato, se non per l’umana cattiveria, di per sé bello e buono. Tutto ciò che è “naturale” è migliore – più salubre meno infetto, meno sporco – dell’artificiale. Il parto “naturale” è “migliore” di quello assistito: fa madri più resistenti al dolore e più forti – nel senso fisico, della robustezza. I detergenti naturali (biodegradabili) che intasano gli scarichi sono migliori di quelli sintetici.
Una concezione volgare ma colta: è la natura naturans, la “deista” dell’illuminismo russoviano, divina di per sé. Rilanciata nell’Ottocento in chiave naturista, in ambiti teutonico e americano. Qui con una distinta qualità morale, da Woodsworth, Thoreau: valorizzando la natura diventeremo migliori, e faremo decisioni migliori per tutti.
Un argomento difficile da controbattere. Anche se è alla base del rifiuto dei vaccini – molto più diffuso di quanto si dica, e le vaccinazioni di massa in corso lo confermano: il vaccino non è naturale, anzi si connota per essere anti-naturale. Un sofisma, ma non controvertibile logicamente. Una stranezza, difficile da rimuovere. Seppure, passeggiando in città, solitari e non, succede d’imbattersi nel gabbiamo elegante, veloce, eretto, che sbudella il gatto per mero istinto, l’occhio truce, come il becco, la voce cattiva – il gatto e non il cane, il suo è un istinto di fame che prende le misure. O il corvo gli uccelli, più piccoli s’intende – ma per questo bisogna passeggiare in campagna. 
La natura, lei, non dice niente. Non interroga e non dà risposte. Non dà spiegazioni e non cerca giustificazioni. Qualche volta allaga e terremota, e neanche lei sa perché – in questi casi si dice solitamente che è colpa dell’uomo, che non ha saputo guardarsi dalle acque e dai terremoti, con la difesa del territorio con un’edilizia adeguata, ma il rimedio (mai comunque adeguato) non intacca la sostanza della cosa. Il disastro naturale c’è – prima o poi ci sarà anche un asteroide – come ci sono le stagioni, le fioriture, le maturazioni.

 
Nichilismo (tedesco) - Commentando un discorso del pastore Niemöller sul nichilismo tedesco, Malaparte , 292 segg, “Journal d’un étranger à Paris”, il suo diario parigino del 1947, 292 segg., torna sulla rimozione della colpa collettiva, che Norimberga prima, e poi, nello stesso arco di tempo, il filosofo Jaspers avevano elaborato. Per spiegare che non avrebbe fatto presa: “Il nichilismo tedesco è una delle forme del Cristo” – Nietzsche-Zarathustra è, si vuole anche, un altro Cristo. Che Malaparte, progenie di tedeschi, fa derivare da questa asserzione-constatazione: “La famosa crudeltà tedesca è, come quella degli Spagnoli, una crudeltà di natura metafisica: essa suppone un’abitudine, se si può chiamare con questo nome banale, a riportare tutto a problemi metafisici: nulla di personale, l’adesione è istintiva, irriflessa”. Non un caso di duplicità: “Il senso di responsabilità non s’accompagna mai, nei Tedeschi, al senso del peccato. Ne è indipendente”. I Tedeschi che ha visto in azione, in rappresaglie o altre azioni belliche violente, erano del tutto immuni da sessi di colpa – né del resto mostravano di obbedire a un ordine, a un regolamento, uccidevano a freddo: “Hanno mai avuto il senso della loro colpevolezza? Credono di avere ragione. Il Cristo è con loro, almeno così credono… Non è nel loro proprio interesse che i Tedeschi soffrono e fanno soffrire. È nell’interesse della verità, della giustizia, in una parola del Cristo. Sono (credono di esserlo, e basta crederlo per esserlo) la civiltà contro la barbarie, la kultur contro la sauvagerie dei popoli inferiori, o condannati. Tentare di spiegare loro, di persuaderli, che sono colpevoli, è pena perduta. Hanno perduto al guerra: è una prova?”
Malaparte insiste su questa autodivinizzazione: “Il Cristo stesso ha perso la sua guerra terrestre…Il popolo tedesco è il Cristo. È stato crocifisso? È salito al cielo”. E ancora: “Non ho mai visto il dubbio morale sfiorare le loro anime. Mai ho visto un Tedesco esitare, dirsi: «Sono un assassino?», o: «Sono in accordo con le leggi di Dio?», o ancora: «Forse h offeso Dio?» Al contrario, ho sempre notato in essi la nozione che compivano un rito, un sacrificio a Dio. La macelleria li lasciava calmi, sicuri, sereni, come se avessero ucciso in onore di dio”.
 
Razzismo - Il razzismo non è – non à stato e non è – solo europeo. L’antirazzismo invece è solo europeo. “Occidentale”, oggi tipicamente e furiosamente americano – è in America, al “New York Times” un giornalista scientifico molto stimato è licenziato su pressione di 150 redattori di colore perché (non) avrebbe usato un epiteto razzista – cioè come un atto di forza, dei redattori di colore contro un bianco. Lo stesso si può dire dell’Asia triumphans, mussulmana o cinese, al cinema e nelle arti figurative, anche senza corruzione.
Ma il razzismo antirazzista cancella la storia (oggi quella “occidentale”, ma ne ha cancellate altre, di storie, africane e asiatiche e “latine”), cancella il sesso (genere), cancella la riproduzione e la famiglia, cancella il sentimento e la passione. Solo i geni contano – oggi quelli femminili, meglio se di colore.  
Questa critica è reazionaria. Ma non abbastanza.
 Montezuma, Atahualpa non furono abbastanza reazionari contro il progresso europeo, che videro nelle armi da fuoco – gli bastava niente per annientare Cortés e Pizarro. Come invece lo fu il negus Menelik, che contro il 91 italiano che non si poteva usare (era segreto…) e il Vetterli svizzero a ripetizione che non si sapeva usare,  si era comprato i residuati di guerra di Bismarck, già all’opera a Sadowa trent’anni prima – non c’è niente di divino nella guerra.
 
Storia –  È il solco della speranza. Nella postura, certo, di Klee e W.Benjamin, dell’angelo che vola guardando all’indietro: “Un passato non tramontato e un futuro fatto di speranze da realizzare. Da qui muove chi vuole studiare la storia”, Adriano Prosperi, “Un tempo senza storia”.


zeulig@antiit.eu

Mps, morto per strada

”La corsa Montepaschi: in un giorno su del 19 per cento”. A 1,38 euro. Un terzo o un quarto della riammissione al listino tre anni fa, quando quotò – la si fece quotare - sopra euro 4,50. Dopo aver semplicemente azzerato il capitale, quasi, con un accorpamento di cento azioni contro una. Che quotava – si faceva quotare - a 20 euro.
Una miriade di sottoscrittori gabbata, attraverso tre aumenti di capitale multimiliardari sponsorizzati da primarie banche d’affari, e dal governo Renzi-Padoan con la stampella del Tesoro. Adesso ci riprovano?
Mps ha bisogno di un aumento di capitale, il quarto o quinto in dieci anni: 2,1 miliardi nel 2011, 5 nel 2014, 3 nel 2015, altri 5 nel 2016, poi alzato a 8,8 miliardi. Ora ha bisogno di altri tre miliardi – 2,85. Per fare che? All’orizzonte ci sono cause per dieci miliardi, e nessun piano verosimile di risanamento.
Una banca non può fallire, si dice. Ma se è fallita?

Borges canta la malavita

Per le sei corde Borges intende della chitarra, da appassionato della milonga, nemico del bandoneon. È la raccolta di milonghe, scritte negli anni, raccolte da lui stesso nel 1965. Con questa precisazione in “Evaristo Carriego”, nell’edizione del 1955: “La milonga e il tango delle origini potevano apparire semplici o quantomeno trasandati, ma erano pieni di coraggio e allegria; il tango successivo è una voce risentita  che deplora con eccessi sentimentali la propria infelicità e si rallegra spudoratamente  delle disgrazie altrui”. Ma lo stesso Borges ne aveva scritti in quantità, e una raccolta, musicata da Carlos Gardel, quello del sentimentalismo con bandoneon desecrati, era stata appena pubblicata in disco da quest’ultimo, con grande successo – il successo forse maggiore di Gardel....
Le milonghe - quelle qui raccolte - di Borges sono pensose, schopenhaueriane: “Lo dijo el sabio Merlìn:\ morir es haber nacido”. Benche in ottave cantanti: “Tra le cose ve n’è una\ della quale mai nessuno\ può pentirsi. Questa cosa\ è esser stato valoroso.\\ Il coraggio vince sempre\ la speranza non è vana”. Anche elaborate, sceneggiate: curate, Borges teneva ai loro loro soggetti – sono storie di guappi. E in questa penombra storie realistiche, veriste, il grande scrittore di storie fantastiche aveva anche questa vena. Testi nostalgici, al limite del folklore, nelle figure e nel linguaggio.
Borges poeta è più ricercato che ispirato. Costruisce, con fatica. Prosastico, poco lirico, un tanto elegiaco, molto programmatico (filosofico). La guapperia però ne trasfigura la vena: “Visse uccidendo e fuggendo.\ Visse come se sognasse”. E ancora: “Si racconta che un donna\ lo vendette alla milizia;\ traditrice, prima o poi,\ è la vita anche con noi”. In ottonari cantanti, come da cantastorie.
Borges aveva il culto del passato, nazionale, argentino, bonaerense, platense, pampero, nel quale, accanto agli assalti, agli eroismi, al gauchismo, c’era  anche la gente di mano, i guappi, figure del sottobosco urbano, un po’ magnaccia un po’ ladri, maestri di coltello. Maestri di sfide alla morte, quindi di morti eroiche, nel segno del destino, anche quando è il fratello che uccide il fratello, narrano tra i lamenti queste milonghe. Il patriottismo di Borges – che i critici e i lettori obliterano – era totale, fino al folklore. L’epoca costituente – eroica - dell’Argentina, secondo Ottocento e primissimo Novecento, lo attrasse e ispirò variamente.
La raccolta è di undici milongue, canti anche lunghi, sceneggiati. In originale con la traduzione. Con una nota ai testi del curatore traduttore Tommaso Scarano.
Jorge Luis Borges, Per le sei corde, Adelphi, pp. 90 € 5

lunedì 8 febbraio 2021

La fine del Pci

Nel ricordo - che non si ricorda - della fine del Pci all’ultimo congresso di partito, a Rimini trent’anni fa, può essere utile rileggere quanto se ne scriveva l’8 febbraio 1991:
“La tragicomica conclusione dell’ultimo congresso del Pci potrebbe essere una buona notizia: dopo il comunismo nulla. I vecchi che passano da una corrente all’altra, il non possumus di Garavini (e del «Manifesto», come a dire: «Chi non c’è mai stato scagli la prima pietra»), i miglioristi che silurano Occhetto, Occhetto che fa il Machiavelli della Bassa, è tutto da ridere, e forse solo da ridere.
“Persone che sono state comuniste una vita, e fino a ieri, mentre tutti scappavano disperati, e hanno discusso per un anno e mezzo di rifondarsi, ma non sanno andare oltre il «Craxi sì, Craxi no», è meglio perderli. È gente capace di procurare altri guai.
“Forse aveva ragione Craxi – o i suoi ragazzini. Ma che desolazione! Il XXmo congresso del Pcus era stato la scoperta di Stalin, drammatica, il XXmo congresso del Pci la scoperta del vuoto, che pure non esiste in natura.
“Il partito era finito da tempo, ben prima del crollo del Muro, arroccandosi sulla «diversità» di Berlinguer. Un leader carismatico senza una sola idea politica: la «questione morale» è roba di furbastri, spesso corrotti, il «compromesso storico» una dichiarazione prolissa di resa alla Dc - una sorta di «entrismo» dissolutorio.  Rimini ne ha preso atto”.

Con-contro la Cina come con-contro il Giappone

Biden dopo Trump replicherà con la Cina la temibile guerra degli anni 1980 contro il Giappone? Con la delocalizzazione delle fabbriche d’auto cinesi in America? E l’inizio della fine del primato cinese nell’informatica?
È possibile? Sì. Trent’anni fa fu imposta per i video l’ingombrante VHS, una sorta di brutalità texana al confronto con le compatte e eleganti cassette Sony. La tecnologia Huawei – che poi non è Huawei, la quale di originale cinese ha solo l’anticipo sugli altri operatori – può benissimo essere esclusa dal mercato. 
Con la Cina la partita è però giocabile. Il Giappone non si riprese dalla batosta commerciale, se non mutando l’assetto produttivo. Dopo un ventennio abbondante di stagnazione - fino all’Abenomics del 2013, la politica economica del premier Shinzo Abe. Senza il mercato americano, non c’è eccezionalismo o miracolo asiatico.
La Cina è più vasta e più ramificata. E non lavora in proprio. Cioè lavora in proprio lavorando per altri, una specie di sous-traitant dominante – come se nel film “Gomorra” i sarti napoletani à façon dominassero i committenti milanesi dell’alta moda. La globalizzazione (catene produttive, scambi) induce folli ricarichi a favore degli importatori-compratori, quelli americani per primi. Ma gli Stati Uniti hanno – hanno ancora, compresa la globalizzazione – un disegno politico, imperiale.
Lo stesso è vero, in piccolo, per gli altri mercati. La globalizzazione induce la mondializzazione, e ora ci sono i cinesi a Milano. Ma non cambiano molto. Sono commercianti, quindi lavorano sul ritorno a breve e brevissimo, altrimenti lasciano. Oppure, se grossi, sorretti (finanziati) dalla politica espansiva del regime di Pechino. Che ha un costo, e un limite.


Gli affari delle patrie

Il “Corriere della sera-L’ Economia” si chiede perché i francesi possono comprare tutto in Italia, e gli italiani poco e niente in Francia. “Negli ultimi anni,”, scrive Edoardo De Biasi, “si sono portati a casa ben oltre 50 miliardi di asset italiani contro i poco più di 7 miliardi messi a segno da Roma”. Con sberle ruvide, senza infingimenti, per gli investimenti di qualche peso, di Fincantieri sugli Chantiers de l’Atlantique, peraltro sulla via del fallimento. O quelle tentate, a lungo, con tenacia, contro Luxottica per Essilor.
Ogni investimento italiano in Francia deve superare barriere estenuanti, finanziarie, legali, politiche. Mentre tutto è stato semplice per gli interessi francesi, prendersi senza alcuna difesa banche, grande distribuzione, energia, latte, moda, una lunga e corposa lista di aziende e marchi di peso, Bnl, Edison, Parmalat, e tutti i marchi della gioielleria e della moda.
Il giornale non si chiede perché, e un perché in effetti non c’è, un perché pubblico. Non si sa ancora perché Fincantieri, cavaliere bianco della fallita Stx (società coreana….), sia stato bloccato. Ci sono in Francia le Grandi Famiglie e le Grandi Massonerie, e questo è un fatto – la riprova è il successo in Italia, sponsorizzato da Mediobanca, di un personaggio squalificato in Francia come Bolloré (fino all’immediata diffusione in sala stampa alla Camera di insinuazioni di ogni tipo, anche di letto e di corna, sul blocco disposto dal secondo governo Conte al finanziere bretone in Mediaset). Ed è francese un sostrato nazionalista. Non chiuso, nazionalista: si può vendere se il compratore è americano, o tedesco, non se è italiano. Della gloriole come grandeur. La Francia è ben la culla dell’“Europa delle patrie”, degli affari – delle patrie degli affari. È l’Europa, e non ce n’è altra.
De Biasi si chiede chiudendo perché l’Italia non punti invece verso la Germania. Ma tutte le proposte di salvataggio dei grandi gruppi tedeschi a opera di imprese italiane, dall’offerta Pirelli per Continental a quella Fiat per Opel, e all’ancoraggio offerto da Generali a Commerzbank, banca perennemente alla deriva, non sono state nemmeno prese in considerazione. Mentre non c’è alcun limite per i tedeschi in Italia, compresa Volkswagen – dalla cui mire la Fiat ha avuto problemi a difendere Alfa Romeo.

Auschwitz, o del grottesco

“Un uomo a terra è menomato, è risibile”. Ma Primo Levi sa farne un personaggio, riscattarlo nel racconto. L’uomo a terra come tutti quelli che qui racconta: il “capaneo” Rappoport, la “farfalla angelica”, Alberto, l’ing. Müller, l’ing. Mertens  Nella sua chiave modesta, fattuale, ma alta. Con un fondo, sempre di grottesco – che non si sottolinea di Primo Levi ma è costante: di meraviglia nell’abiezione. Rapport lo è, il polacco gigantesco ingegnere a Pisa, che sfida il mondo e svanisce. E la sua vittima e amico, il piccolo, debole, autolesionista Vidal. O lo stesso osservatore che può ora raccontarli, se è per questo.
Una silloge di racconti pubblicati variamente e già apparsi in diverse raccolte, riuniti per un qualche riferimento, anche indiretto, a “Auschwitz”. Alcuni anche celebri: il “Cerio” dell’amico Alberto, il più forte e intraprendente di tutti, vittima dell’ultimo giorno. Il ritrovamento aziendale in “Vanadio”, da manager di due industrie di vernici, una in Italia, una in Germania, con l’ing. Müller, il capo dello scrittore al laboratorio di ricerca chimica di Auschwitz-Buna Monowitz. Il giovane ingegnere con famigliola di “Auschwitz città tranquilla”, scelta per evitare il fronte e accelerare la carriera. Ma tutti si rileggono, curiosamente, come nuovi. E, a distanza, per una sottile, insopprimibile, vena grottesca, quasi satirica.
I curatori Fabio Levi e Domenico Scarpa rilevano l’onnipresenza di Dante - “la «Divina Commedia» è onnipresente e essenziale”. In tutto Primo Levi, da “Se questo è un uomo” a questa raccolta. In “Schiena bruna”, la poesia che apre il volume, e nei primi due racconti, “Capaneo” e “Angelica farfalla”. Nel sentito epico e tragico – ma anche, a suo modo, scettico, in quello religioso - della vita. La novità della silloge, involontaria, è di sottolineare la vena grottesca del narratore. Osservatore autoironico. Per segni evidenti: Rappoport-Capaneo, la pignoleria tedesca, la pignoleria tedesca spaccata in quattro con l’occupazione, quando il gesto più insignificante va condiviso dai quattro occupanti - che tra loro comunicano in tedesco… Oppure segni minimi, ma irrinunciabili. La chiave della sopravvivenza?
A volte il grottesco è dell’impianto, sotto il para- o fantascientifico: le metempsicosi dell’“Angelica farfalla”, la bella guagliona “addormentate nel frigo”, che si scongela ogni anno al compleanno per farci, intiepidita, un po’ di flanella, le “versamine” che trasformano i dolori in gioie. La morte e il dolore sono sempre in agguato. E anzi il dolore, alla fine di “Versamina”, è detto compagno di vita: “Il dolore non si può togliere, non si deve, è il nostro guardiano”. Ma subito poi il racconto si chiude col lato buono del “Macbeth”: “Fair is foul, and foul is fair”.
Primo Levi, Auschwitz, città tranquilla, la Repubblica-LA STAMPA, pp. 139 € 8,90
 

domenica 7 febbraio 2021

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (448)

Giuseppe Leuzzi

Presentando entusiasta Nietzsche sul “Pensiero Romagnolo”, la rivista del partito Repubblicano regionale, dell’ultimo trimestre 1908, Mussolini gli trovava questo limite: “Nietzsche non ha mai dato una forma schematica alle sue meditazioni. Era troppo francese, troppo meridionale, troppo «mediterraneo» per «costringere» le speculazioni novatrici del suo pensiero nei quadri di una pesante trattazione scolastica”.
 
A Bari dopo Palermo un bambino dopo una bambina muoiono per i “giochi” di Tik Tok. La maestra della bambina di Palermo dice: “Tutti hanno il gioco”. Cioè hanno il cellulare, tutti i bambini di dieci anni, in libertà totale, con Tik Tok. Si penserebbe il Sud molto familiare, di genitori legati ai figli, attenti, vigili. Ma non è così – forse è un malinteso, dare ai figli il cellulare quando cominciano a compitare, il sogno-segno del benessere, ma forse il Sud è totalmente disorientato.
 
“Offrendosi a Draghi, Conte ha seguito una  regola del Sud: bacia la mano che non puoi tagliare”, Francesco Merlo, da Catania. Mah!
È vero che l’autoflagellazione è un rito del Sud.
 
Si è scritto in questa crisi politica di “sudismo grillino”. Per dire di una politica delle mance. Senza progetto. Senza un quadro di riferimento, nazionale, europeo. Meritata? A  giudicare dal voto sì: è stata una scelta, non si può dire sia stata imposta.
 
L’inverno demografico scende al Sud
Meno nascite e meno immigrati al Sud nel Millennio. Il calo demografico che pesa sul futuro dell’economia italiana, che è stato a lungo fenomeno da area ricca, quindi settentrionale – con Genova e Trieste punte di diamante delle nascite zero – in questo primo quinto di milennio è diventato un fatto meridionale, del Sud e delle Isole.
Un’analisi di Piermaria Davoli su “Lotta Comunista”, che accorpa  per grandi aree i dati Istat, Nord-Ovest , Nord-Est, Centro, Sud, Isole, al 2001, al 2010 e al 2020, con la popolazione residente divisa fra italiani e stranieri, mostra il Sud e le Isole nei venti anni in calo costante. Meglio: in forte calo gli italiani, con una presenza di stranieri debole, non sufficiente a colmare la diminuzione.
Anche il Nord-Ovest mostra saldi negativi nei due decenni per i residenti italiani, meno 94 mila e meno 64 mila. Ma l’afflusso degli stranieri è stato tale che i saldi sono ampiamente positivi in entrambi i decenni,  per 727 e 448 mila unità.
Al Sud il calo di residenti italiani è stato largo, di 150 mila unità nel primo decennio e di 406 mila nel secondo. Compensato dall’immigrazione solo nel primo decennio, con un saldo positivo di 62 mila unità. Ma non nel secondo, quando il saldo resta negativo, per 93 mila unità. Lo stesso nelle isole: gli italiani residenti diminuiscono nei due decenni, di 34 e di 165 mila unità, con un saldo – tenendo contro degli immigrati – positivo nel primo decennio, per 38 mila unità, e negativo nel secondo per 40 mila.
La tabella conferma che il Sud e le Isole sono di nuovo terre di emigrazione. E che la fecondità della donna al Sud è ora anch’essa al livello della fecondità media italiana, 1,18 figli, la più bassa in Europa e al mondo (insieme con quella tedesca). Mentre si conferma che gli immigrati puntano alle aree di maggior ricchezza : l’incidenza dei residenti stranieri sul totale della popolazione al Centro e al Nord si situa poco sopra l’11 per cento – al livello medio europeo. Mentre al Sud è del 4,6 per cento, e nelle Isole del 3,9.  Una presenza marginale che poco può correggere la più che probabile presenza nelle stesse aree del maggior numero di quel quasi milione di stranieri “irregolari” o “regolari non residenti”, cioè stagionali.
 
Il controllo del territorio
Si fa molto il caso delle mafie “provvidenziali”, che controllano il territorio perché dispensano reddito e lavoro. Questo è sempe avvenuto, ma con affiliati e familiari, non oltre. Le mafie non sono sono giustiziere, non combattono i ricchi e potenti (le Anonime Sequestri furono bande di montagna, della Barbagia (con ramificazioni nel grossetano) e dell’Aspromonte, non grandi, anzi piccole e ristrette, e i sequestri sono finiti con loro). Si attaccano, e li distruggono, ai piccoli, deboli, isolati.
Le mafie prosperano non perché socialmente provvide, ma proprio perché la minaccia ai piccoli e isolati l’apparato repressivo non contrasta con immediatezza e efficacia – mentre lo fa, lo farebbe, per i potenti, nei rari casi la reazione è stata immediata e corposa. Chiunque viva in zona di mafia – le mafie non sono segrete, sono pubbliche: minacciano, agiscono, si agitano anche – lo sa: c’è bisogno di protezione. Il “controllo del territorio” è l’inadeguatezza della repressione. In Calabria, in Aspromonte, si faceva, e si fa, militarmente, con uno squadrone di Cacciatori, ex Carabinieri a cavallo, che si muovono come da regole d’ingaggio, in plotoni e con elicotteri.
I rapimenti di persona in Aspromonte, o confluiti in Aspromonte, opera di poche persone, tra Delianuova e San Luca, si operarono furbescamente a danno di ricchi non potenti - anche quelli padani furono scelti con questa accortezza. Non contrastati per questo dall’apparato repressivo, sotto la ragione speciosa di non mettere a rischio l’incolumità della persona rapita.
 
Mafie e guapperie
Usano a Napoli e in Sicilia le canzoni di gesta di guappi e mafiosi. Fa senso, a ripensarci, ritrovarle di mano di Borges, in ottonari cantanti, al modo dei cantastorie. Di uno scrittore cioè alieno dal realismo, anzi narratore fantatsico di fantasie.
Usavano un secolo fa a Napoli, le canzoni “di giacca” – il guappo doveva, a Napoli come a Buenos Aures, essere lesto di coltello e di abbigliamento elegante, anzi ricercato. Non all’altezza di Borges, si dovrebbe dire, e invece no: la canzone eponima di Libero Bovio, “Guapparia”, mette su tutto un teatro attorno al solito lamento mortuario del guappo, elegante e ricercato. Che si è potuto riprendere a distanza, da Merola negli anni 1970, e poi da Arbore, Massimo Ranieri, Lina Sastri.
Guappi e guapperia tanto sono parte della camorra e della mafia quanto assenti, anzi disprezzati, nella ‘ndrangheta. La quale si può dire nata sulla definizione che della mafia Sciascia redasse dopo “Il giorno della civetta” per l’edizione 1963 e successive dell’“Enciclopedia dei ragazzi” Mondadori: “La mafia è un’associazione per delinquere, con scopi di arricchimento per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria, ed imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo Stato”. Non un mistero, diceva lo stesso Sciascia.
 
Napoli
Il Comune fa rimuovere un grande murale dedicato a Luigi Carafa, un diciassettenne rapinatore rimasto ucciso durante una rapina finita male. Fa rimuovere anche un “altarino”, con foto, fiori e lumini. “Il Comune ha deciso di far rimuovere”, scrive “la Repubblica”, che pubblica la foto della grande parete dedicata al ragazzo, “questi omaggi abusivi a baby rapinatori e capoclan che costellano le facciate di molti edifici a Napoli”. Nel 2021.
 
È la “Foresta Vergine” per Massimo, uno dei personaggi di La Capria, “Ferito a morte” – il romanzo del dubbio giovanile, se lasciare Napoli, per Roma, per Milano, o restare.
 
Il tema di “Ferito a morte”, 1961, si trova anticipato da Luigi Compagnone sul primo numero di “Sud”, rivista a cui anche La Capria partecipava, 15 novembre 1945. Con un corsivo che intitolava: “Essi se ne vanno da Napoli”.
Un’altra città che pone questo dilemma, se lasciarla o no? Si parte sempre, ma in genere senza dilemmi. L’incertezza significa che partire non è obbligato, forse nemmeno conveniente, non dal punto di vista materiale.
 
“Sud”, un quindicinale che visse tre anni, è la prima e più aperta sul mondo rivista culturale del dopoguerra. Napoli era stata liberata prima delle altre metropoli, R oma, Milano, ma “Sud” propone già uno sguardo diversificato e approfondito sul mondo, dopo la lunga autarchia.
 
Di “Sud” si fecero solo sette numeri, in tre anni. Ma a opera di giovani e giovanissimi: Pasquale Prunas, 21 anni nel 1945, che fungeva da direttore, Compagnone, 30, Patroni Griffi, 24, La Capria, 23, Ortese, 31, Rosi, 23, Scotellaro, 22, Domenico Rea, 24, Tommaso Giglio, 22.
Della redazione fece parte anche Vasco Pratolini, il più vecchio, 32 anni nel 1945, che fu a Napoli fino al 1952  professore di storia dell’arte al liceo artistico Boccioni-Palizzi. 
 
“Quando vivevo a Napoli, alla porta del mio palazzo c’era una mendicante alla quale gettavo qualche moneta prima di salite in carrozza.  Sorpreso che non mi ringraziasse mai un giorno osservai la mendicante; allora vidi che ciò che avevo scambiato per una mendicante era invece una cassa di legno, dipinta di verde, che conteneva terra rossa e qualche banana mezza marcia”, Max Jacob, “Le carnet à dés”, 1917.
 
Non piace a De Giovanni, che non ama il pittoresco: la maleducazione, la sporcizia, il disordine, l’arroganza e il servilismo, il vittimismo,  l’anarchia (andare contromano, senza casco…). È la maggiore differenza in tv, negli sceneggiati, fra le due serie “meridionali” di richiamo, i “Montalbano” di Camilleri, che ama i suoi luoghi, malgrado le mafie, e i  “Settembre” di De Giovanni.
 
Non è la sola differenza. I caratteri locali Camilleri ritrae, calati nella provincia, belli e brutti (per lo più), furbi (per lo più) e semplici, ma ognuno nel suo ruolo o modo di essere. Mentre maleducazione, spocchia, cattiveria, menefreghismo De Giovanni impersona al femminile  – di donne tirate all’ultimo cliché: tatuaggi, colorature, cellulari in bocca, tutte boutique e parrucchiere.  Ci sarà un motivo?

leuzzi@antiit.eu

Onore al merito, della brutta guerra

Un’“americanata”, come si diceva dei vecchi film americani in gloria, del Settimo Cavalleggeri o degli eroi contro il resto del mondo. Un giovane medico volontario in Vietnam, contro i consigli dell’amorevole padre, si fa atterrare in area di combattimento, e salva decine di feriti, prima di morire colpito lui stesso. I commilitoni suoi beneficati sono all’opera da tempo per fargli avere la massima decorazione militare, la Medal of Honor - “per cui il presidente Eisenhower avrebbe rinunciato alla presidenza” – e naturalmente ci riescono. Il bene trionfa e lo spettatore non ha motivo di dubitarne, dalla prima scena. Ma con qualcosa di più.
La guerra vista attraverso le sorti dei reduci diventa implausibile e perfino assurda, anche se il racconto è dell’onore al merito militare. Per maggiore verosimiglianza, la produzione schiera in ruoli inamabili o caratterizzazioni volti noti e notissimi, Peter Fonda e Christopher Plumber (entrambi deceduti dopo aver girato), Wulliam Hurt, Diane Ladd, un incredibile John Savage, che hanno la capacità di coinvolgere.
Todd Robinson,
Era mio figlio, Sky Cinema