sabato 20 febbraio 2021
L’Europa è con gli Usa, ma non contro Russia e Cina
Niente glamour al primo G 7 di Biden, seppure a distanza, seppure per una prima presa di contatto (era tale anche per Draghi, ma nessuno ci ha fatto caso: l’Italia avrà problemi a uscire dalla politica estera di Grillo, che pure ha tanti “esecutori volenterosi” alla Farnesina). E semmai una constatazione di divergenze: di interessi divergenti, sotto le rassicurazioni.
L’Europa alla deriva, col mercantilismo tedesco
Se gli Stati Uniti possono fare a meno dell’Europa,
Nato o non Nato, come già Obama opinava (e Biden con lui) prima del turbolento
Trump, anche l’Europa può fare a meno degli Stati Uniti. L’Europa tedesca, degli
affari. La Cina è una mercato enorme, e fa ponti d’oro. Le scelte di civiltà
possono attendere.
Con Biden il G 7 prende tutto un altro aspetto.
Se ne è fatto l’erede di Obama, dopo la parentesi Trump, per riprendere un
cammino interrotto. Ma Trump non c’è stato per caso - anche perché la deriva
era cominciata col buon Obama, di cu Biden era vice. E non c’è per nulla.
Il liberismo di Obama ha impoverito – letteralmente
- i lavoratori americani, portando a Trump. Il liberista – c’è più liberista di
un affarista? - Trump ha imposto questioni da cui Biden, ammesso che lo voglia,
non può deflettere: il riequilibrio commerciale, e anche politico, con la Cina,
e il contrasto all’aggressività della presidenza Xi, manifestamente di stile
sovietico, accentratrice e dittatoriale, dopo alcuni decenni di relativo benign neglect, di una quasi libertà di opinione, se non politica. C’è la
questione di Hong Kong, e anche degli Uiguri. C’è Taiwan. E c’è mezza Asia, con
a capo il Giappone di nuovo militarista, che si arma.
L’Europa invece non c’è: se ci sarà un confronto
con la Cina, è dubbio che l’Europa possa o voglia farsi sentire. Il suo senso
della civiltà, nella congiuntura attuale e in quella prevedibile, si limita agli
affari, vendere uno spillo in più. E a questo fine l’integrazione più agevole è
a Oriente, con la Cina, che è già il suo primo mercato, più grande degli Stati
Uniti, e con la Russia.
Il mercantilismo è l’unica politica estera della
Germania, anche d a prima di Angela Merkel. Si sa da tempo, come questo sito da
qualche decennio segnala, e sempre più non c’è altra Europa che quella a guida e
nell’interesse della Germania.
Che bella storia, della bruttezza
Hegel esclude la
natura dalla bellezza già nell’introduzione alle “Lezioni di estetica”: la
bellezza è solo umana. E la bruttezza - o anche l’orrido è umano? Eco, lontano
da Hegel, ne fa un’anamnesi appassionante. Un viaggio di letture inesauribili.
Nelle fonti, che ripercorre con acribia sbalorditiva, pur nel suo periodare
facile, e nella scelta delle immagini con cui le accompagna – aiutato da Silvia
Borghesi. Il diavolo, per esempio, se è un angelo decaduto, non doveva essere
bello? Per molti secoli non lo è stato: “La tradizione cristiana aveva cercato
di non ricordare che, se Satana era stato un angelo, allora doveva essere
presumibilmente bellissimo. Verso il XVII secolo, tuttavia, Satana inizia a
subire una trasformazione”. Già con Torquato Tasso, che “a Plutone non riesce a
negare una «orrida maestà»”. E poi con Shakespeare, con Marino, e soprattutto
con Milton - da vecchio sostenitore della “rivoluzione puritana” non si priva
di identificare in Satana “un modello di ribellione al potere”.
E così si procede per
mille contesti, circostanze, politiche. Molta bruttezza, specie nelle figurazioni,
è femminile. Ma in rispondenza a una “tradizione antifemminile”. Anche la
bellezza, per la verità, si direbbe in immagine molto femminile. Ma non ci sono
questioni da dirimere. Neppure di definizioni: sulla bruttezza ci sono pochi e
non risolutivi tentativi, si procede per opposizione alla bellezza - di cui
molto è questione anche in questa “Storia della bruttezza”, a partire da Platone
e da Plotino.
Un’opera formidabile, di erudizione e di intelligenza: il lettore è condotto
attraverso mille sorprese e scoperte. Anche perché è una storia che non era mai
stata fatta. C’è perfino una “lussuria del brutto”, col Decadentismo. E una “bruttezza
industriale”, con molti celebratori, compreso il Carducci dell’“Inno a
Satana”: Dickens delle “miserie di Londra”, Jack London del “popolo dell’abisso”, E.A.Poe della “folla”, Sedlmayr del “bello tecnico”. Ultimamente il
kitsch e il camp – dopo “il trionfo del brutto” con le avanguardie del primo
Novecento e del secondo dopoguerra. Anticamente i trionfi della morte, le streghe,
i satanismi. Il sadismo naturalmente. E le “filosofie del brutto”: il “Laocoonte”
di Lessing, ma di più le tante trattazioni del Sette-Ottocento sul sublime, a
partire fa Boileau (“Trattato del sublime e del meraviglioso”, 1674), con “La
Tigre” di William Blake (che Borges, si può aggiungere, ha provato a imitare, ma anche Valery) e poi Burke e Shelley,
e con Kant, Schegel, Schiller, Schopenhauer, fino a Nietzsche.
Umberto Eco, a cura
di, Storia della Bruttezza,
Bompiani, pp. 455, ill. € 16
venerdì 19 febbraio 2021
Ombre - 550
Nessun
dubbio che Alex Schwazer fosse stato incastrato da un falso esame antidoping
nel 2016, si sapeva, per far vincere i cinesi:
http://www.antiit.com/2016/07/linformazione-dopata.html
http://www.antiit.com/2016/07/la-corsa-delle-beffe.html
Ma
niente è successo alla Wada, che ha disposto il falso esame, né alla Iaaf, la
federazione internazionale dell’atletica, ora World Athletics. Non vogliamo
dispiacere ai Damilano, che allenavano i cinesi? I cinesi pagano? Ricattano? L’atletica
si vuole sempre pura, basta condannare qualche russo, con Schwazer? Non c’è niente
di buono da ipotizzare in questa vicenda.
Una
vicenda ancora più strana perché c’entra la massoneria – o le massonerie. Il
Procuratore Capo di Bolzano non ha indagato, ha dovuto fare tutto il giudice. Volendo
entrare nella World Athletics ci s’imbatte in Sebastian Coe. Che si ricordava ottocentista
smilzo, minuto, che portava le scarpe ma volava agile come un africano, 50 kg. per
1,75, ma si ritrova su wikipedia deputato conservatore, baronetto, Pari a vita,
CH, KBE.
Quando
Draghi dice: “Sostenere questo governo
significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro”, Camelo Lopapa
vede su “la Repubblica” il ministro leghista Giorgetti sussultare, mentre
“Matteo Salvini – si scorge dalla tribuna – abbassa gli occhi”. Mentre dalla
tribuna stampa al Senato non si vede niente, sta alle spalle dei senatori. E poi: è questo il fronte di resistenza
anti-leghista: occhi bassi a Roma e viva il parroco (gli affari, la Borsa) al
Nord, nella Padania cara a Scalfari?
E
simbolicamente, non conta più Giorgetti nelle immagini alla destra di Draghi?
Mentre non si vede più il Di Maio onnipresente da due anni e mezzo a fianco di
Conte, anzi proprio vice-presidente del consiglio. Il governo Draghi non è il
governo della Lega e del Pd insieme? Ragionarci costa?
Il
vero “scandalo” del governo Draghi è la convivenza fra 5 Stelle e Forza Italia.
I “nuovi”, “alternativi”, “mai al governo con Berlusconi”, fanno finta di
niente: la retribuzione da parlamentare è un terno al lotto.
Si
difende Prestipino come il solo candidato buono a dirigere la Procura di Roma,
anche se i concorrenti hanno più titoli, anche di fatto di onestà e antimafia, e
lui è stato nominato col teorema Palamara, delle quote tra correnti parasindacali. Si difende
perché è, o si dice, del Pd. Lo difende “la Repubblica”. L’amico del giaguaro?
Davvero il Pd è legato al sottogoverno? Alla lottizzazione (di quello che
resta) della giustizia?
Orrido
spettacolo della squadra di calcio italiana con più campioni, i più pagati, la
Juventus, contro una squadra portoghese di mezza classifica. Che ha dominato
nel gioco e nei gol. Nell’intelligenza e la fisicità. Nella tecnica, benché di
atleti sgraziati. Il calcio è sempre un’attività sportiva, non di soldi – è sport
di squadra, non c’è che fare.
Uno
spettacolo orrido, Porto-Juventus, anche per l’insensatezza del calcio d’allenatore,
che la Juventus applica da un paio d’anni – lo richiede il medico, la
dirigenza, il business? Di “tenere palla”; nel senso di non andare contro l’area
e la porta avversarie, ma di portarla davanti alla porta propria, dove, dopo
aver evitato un paio di incursioni, il portiere juventino fa una
rimessa lunga, cioè dà la palla agli avversari, che l’attendono di
fronte e non di spalle. Per questo gli allenatori sono pagati. Anche due
insieme, alla Juventus, Sarri e Pirlo.
Pirlo
è la smania del calcio d’allenatore portata all’incompetenza: si prende un bel
nome, anche se non ha mai allenato, e il calcio d’allenatore è fatto. Si dice che
l’Italia diffida dell’autorità, dell’autoritarismo dopo Mussolini. I tentativi
di ammodernare la Costituzione parlamentare creando un potere esecutivo
sarebbero stati bocciati per questo (in realtà no, li hanno bocciati i
partiti-comitati d’affari, dei poteri fuori e contro la costituzione). Mentre
il principio di autorità si vorrebbe sul campo di calcio?
Il
dottor Agostino Miozzo, ostetrico dell’università di Harare, in Zimbabwe, coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico che per il
governo controlla l’andamento dell’epidemia e decreta aperture e chiusure,
vuole chiudere le scuole, dopo avere insistito per riaprirle. E al presidente
del consiglio Draghi consiglia, non richiesto, di sostituirsi ai poteri delle
Regioni, come se potesse farlo.
Miozzo, presidente del Cts, si era anche candidato a commissario della Sanità in Calabria. Che si penserebbe posto ingrato – tutti vogliono scappare dalla Calabria, giudici e Carabinieri di prima nomina, prefetti, questori - e invece è goloso. Chissà perché.
Resurrezione nell'abiezione
Anna, bambina e
ragazza felice, con un padre amorevole, libera in montagna con la sua
bicicletta e il cagnetto per compagno, accudita nel palazzo ai Quartieri
Spagnoli dai Gesù con i i riccioli e le Madonnine sorridenti, alla morte del
padre affronta la vita da sola, lontana dalla famiglia, dal quartiere e dagli
amichetti di sempre, dalla sua città, per il bene e per il male protettiva, nel
più squallido dei modi. Costeggiando la prostituzione, clubista alla pole
dance, sotto luci stroboscopiche per accentuare le curve, con i privé per
arrotondare. Con fidanzati sciocchi, pieni del proprio vuoto, come è ora d’uso.
Un romanzo di morti e
catastrofi, pieno di vita. “Si nasce quando si fallisce” è una sua morale,
provvisoria – anche, perché no. Un’elaborazione del lutto, in un’educazione
sentimentale e di vita al rovescio, come una diseducazione, una crescita a
ritroso. Un’infanzia e un’adolescenza nella memoria felici si scontrano con
l’obbligo quotidiano della sopravvivenza: triste, squallido, violento anche.
Una celebrazione inconsueta della figura paterna, anche – non più in uso da
quando c’è Freud, un secolo? E un incredibile, sempre contromano, romanzo
religioso. Non di fede, non argomentata, d’intellettualità e analisi critica:
d’immedesimazione, con il Cristo, le Madonne, la Bibbia. È anche, di passata, una
dismissione senza più, senza polemiche, del maschio giovane 2020. Cammini non
impervi, ma non usati.
Un romanzo di affetti – per ogni
verso dunque singolare. Dichiarati, ripetuti, coltivati. Tanto più eccezionali
in quanto parentali, l’amore del padre, della nonna materna, delle vedove del
vicolo. Come dei compagnucci di scuola, anche loro in disuso. Senza
sentimentalismi. Col contrappunto del corpo, del rifiuto quasi del corpo,
abbandonato all’abuso, senza sofferenza, anche col convivente vuoto. Una sorta
di “apprendistato” di ritorno, di riscoperta e ricostituzione di sé
nell’elaborazione del lutto per la scomparsa del sé paterno.
Il racconto si propone
all’insegna dell’Apocalisse”: “Quello che vedi, scrivilo in un libro”. E di
Bolaño: “E l’incubo mi diceva: crescerai”. Anna, come il Luca Cupiello di
Eduardo “ha un problema di accettazione della realtà”. È una che “si guarda da
fuori”, in atti e rapporti senza affetto, senza scopo, ma non senza
determinazione: “Ci vuole molta forza per partorirsi”, riflette, in quella che
sa “traversata contromano nel dolore”. Non un disgraziere, il solito elenco di deiezioni che finora ha informato il millennio, ma un racconto caparbio,
creativo. Più che di formazione, un romanzo di rinascita – l’elaborazione del
lutto è una rinascita.
Un romanzo-verità, anche.
Un romanzo di formazione-verità? Che si presenta al modo di Simenon, dei
romanzi “duri”: un apprendistato alla vita senza sviluppi, un orizzonte basso,
una tranche-de-vie. Brusco: con l’immediatezza visiva dei tagli
teatrali, filmici. E molte “caratterizzazioni”, monologhi animati: della vita
di quartiere a Napoli (i funerali, la Pellicciaia, le Madonne e i santi) e di
quella anonima a Montesacro a Roma – con un’incursione, alla “New Pope” di
Sorrentino, in un Vaticano da balera, con karaoke e fumo. Molto “scritto”, a
differenza delle prose coetanee, ma di scrittura nervosa, che bene inquadra e
ed espone, senza sovrapporsi o congiurare. Anna bambina e figlia felice, Anna
del “qui-ora-così”, e Anna del “pensiero possibile”, che si vede e si spiega –
si costruisce? La lettura trasportando immediata nei due mondi, degli affetti e
dell’alienazione. Irriducibili eppure conviventi. La rappresentazione della
condizione umana al sorgere del millennio?
Carmen Barbieri, Cercando il mio nome, Feltrinelli, pp.
218 € 16.50
giovedì 18 febbraio 2021
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (449)
Giuseppe Leuzzi
Si tiene a Lamezia uno dei maxi processi del Procuratore Gratteri: 325 imputati – altri 91 hanno scelto il rito abbreviato. In un’aula bu nker appositamente realizzata, in cinque mesi, per cinque milioni. Mentre a Palmi, dove si giudicano le mafie della Piana di Gioia Tauro, la giudice Concetta Epifanio, riferisce Giuseppe Smorto sul “Venerdì di Repubblica”, si lamenta: “Tempesto il ministero di chiamate, non mi rispondono nemmeno. Teniamo i faldoni in stanze dove piove, facciamo le udienze col cappotto”.
Un altro giudice di Palmi, Antonio Salvati, “da vent’anni in Calabria,”, nota sempre Smorto, “si lascia andare in un forum con le associazioni di volontariato: «L’aula del maxiprocesso di Lamezia è stata messa su in cinque mesi: per l’ospedale di Palmi il piano è partito tredici anni fa, e siamo ancora al punto di partenza»”. Al netto della tragicommedia dei commissari risanatori della Sanita infetta in Calabria.
Commentando la figura controversa di Leopoldo III re dei Belgi, prima a capo della Resistenza all’invasione tedesca, poi in qualche modo collaboratore, benché prigioniero, durante l’Occupazione, Curchill scrisse a fine guerra: “Leopoldo è come i Borboni, non ha imparato niente e ha dimenticato tutto”.
L’indotto della mafia
Nelle
celebrazioni di Sciascia per i cento anni dalla nascita riaffiorano le sue critiche
al maxiprocesso, al primo, quello di Falcone, specie all’uso dei “pentiti”. Ma quel
maxiprocesso ha stroncato la mafia. Prova ne sono le terribili stragi
successive, e la fine dei corleonesi sanguinari – Messina Denaro compreso che
fa da trent’anni, dei suoi sessanta, la vita del sorcio – i colpi di coda sono distruttivi
per essere disperati.
A
Roma si arresta una banda di narcotrafficanti, una trentina di persone, attiva
nelle periferie Est e Ovest della capitale e nell’agro romano a Nord.
Capeggiata da uno di Sinopoli, dice il giornale, “considerato affiliato a Roma del clan Alvaro”.
Che imperversa da almeno i primi anni 1960, quindi da sessant’anni.
Lo
stesso il loro socio nel narcotraffico a Roma Nord, Antonio Pelle, “capo dell’omonima
cosca di San Luca, sempre nel reggino” – come Sinopoli.
Lo
stesso, si può aggiungere, del clan Grande Aracri, dell’area jonica, cosentino-crotonese,
che il Procuratore di Catanzaro Gratteri persegue con retate gigantesche, di
centinaia di persone alla volta – per i quali un maxiprocesso è in corso a
Lamezia con poco meno di 400 imputati. Apparentemente senza effetto, se gli
arresti in massa si susseguono.
Il
problema non è il maxi ma la qualità
delle indagini. Specie se si basano sui pentiti, testimoni di comodo. Una terza
grande famiglia di mafia, i Pesce di Rosarno, sono usciti dalle cronache dopo
decenni per il ravvedimento di una delle donne di famiglia, una figlia. Basta
poco per una vera azione di contrasto alle mafie, e non di luminarie per i media,
e per le carriere.
Gli
Alvaro, dopo avere stroncato con i taglieggiamenti impuniti ogni imprenditoria
nel loro paese e nel vicinato, con la droga investono a Roma da almeno vent’anni,
dall’acquisto del Café de Paris a Via Veneto. Con lo storico ristorante George’s,
sempre a via Veneto, e l’adiacente grande caffè California in via Bissolati. E
una miriade di caffè e ristoranti: il Federico I alla Colonna Antonina e un
Ristofood in via Tiburtina, il Gran Caffè Cellini in zona Battistini, un Time
Out in Valtrompia, verso Guidonia, un bar Clementi in via Gallia-San Giovanni, e
il bar Cami a Talenti.
Grande
operazione di polizia dieci anni fa, arresti sequestri, contro gli Alvaro. Grandi
valutazioni dei sequestri: il Café de Paris, comprato per 250 mila euro, si
dice valere 55 milioni (di fatturato? di avviamento? impossibili), il “George’s”,
vecchio ristorante che nessuno frequenta, 50 milioni. In tutto un patrimonio,
si dice, di 200 milioni.
Pignatone,
il Procuratore di Reggio Calabria che ordina l’operazione, si libera infine
dell’ingrata sede per l’agognata Procura di Roma.
I
beni sequestrati agli Alvaro a Roma al processo sono stati restituiti, non c’è
mafia – non agli atti del processo.
Non
si colpisce la mafia – non è difficile, basterebbe prendere i mafiosi, subito –
per non colpire l’indotto? Comprese le carriere – se finisce la mafia finiscono
le carriere?
L’Italia
a pezzi
Dopo la pandemia, anche i rimedi hanno
una distinta caratterizzazione regionale. Più inefficiente al Nord, per stanchezza,
incapacità o presunzione. Già dai provvedimenti
differenziati di lockdown. Per lo
svago si è imposta l’apertura di caffè e ristoranti, dove si sta al chiuso, a
distanza ravvicinata, uno di fronte all’altro, bisogna togliersi la mascherina,
e bisogna parlare a voce alta. E non si è consentita al cinema e al teatro,
dove bisogna stare zitti, allineati e non
frontali, e sarebbero posti ideali
per respirare con la maschera. Perché? Perché il business dei caffè e ristoranti
è dieci o cento volte quello dei cinema e teatri.
La regione Lazio, cioè la burocrazia
indolente di Roma, dimostra che si può fare una campagna di vaccinazioni di massa:
il sito di prenotazione ha funzionato, l’organizzazione sembra perfino semplice
tanto fila liscia, anche senza le “primule” del design milanese, e si poteva
benissimo raddoppiare la somministrazione dei vaccini, l’organizzazione è così decentrata
ed efficiente che si potevano dimezzare i tempi, cinque minuiti per
somministrazione invece di dieci.
In altre regioni si sposta l’obiettivo,
per dire invece di fare. Comprare altri vaccini autonomamente – la tentazione
dell’appalto prima di tutto? La variante inglese? La sudafricana, la napoletana,
l’olandese? Astrazeneca? Negli Usa (del deprecato Trump) la vaccinazione di massa
subito, già da metà dicembre, ha subito circoscritto i contagi: i contagi giornalieri
sono crollati sotto i 100 mila, la metà del picco di Capodanno.
Non ci sono molte soluzioni. Ma le poche
non piacciono. Tutti improvvisati Napoleoni, gli autonominati “governatori” di
regione. Quasi tutti imbonitori, specie i leghisti del Nord: Veneto, Lombardia,
Piemonte - che infettano la finitima Emilia. Gli stessi che hanno voluto
l’Italia a sanità regionale, per meglio lucrare nel ricco settore.
Il Sud senza
portafoglio
Solo
due del Sud, due potentini, Speranza e Lamorgese, fra i ministri del governo
Draghi. C’è anche Carfagna, salernitana, ma ha un ministero senza portafoglio,
cioè le serve solo per potersi dire ministro - e riguarda il Sud: un luogo
senza portafoglio. Oltre Di Maio, titolare di un ministero che non governa.
Alla scomparsa della questione meridionale succede la scomparsa del Sud politico.
Quella si poteva ritenere una buona cosa, eliminare la minorità del Sud, se il Sud
fosse – fosse stato, ormai sono trent’anni e più dalla scomparsa – ammesso alle
politiche economiche nazionali. Senza rete di protezione, ma avesse una giusta
quota di investimenti pubblici. Per esempio le strade e autostrade, le ferrovie,
la telefonia, in fibra e anche solo col doppino, il wifi.
Il
Sud ha avuto due presidenti della Repubblica in successione, Mattarella dopo
Napolitano. Come non detto. Napolitano ha nominato senatori a vita, l’eccellenza
del Paese, solo dell’estremo Nord: Abbado, Monti, Cattaneo, Rubbia e Piano –
Mattarella sobrio ha nominato Liliana Segre.
Sicilia
Camilleri,
come già Sciascia, rivendica una “amizicizia siciliana”. Ma come un mistero,
“un po’ complesso”, che scioglie assimilandola al rapporto fra gemelli, una
sorta di immedesimazione. Intuitiva, senza bisogno di parole. “Tra siciliani”,
spiega in “I detti di Nené”, “un vero amico non deve chiedere all’altro una
qualche cosa, perché non c’è bisogno, in quanto sarà preceduto dall’offerta
dell’amico, che ha intuito…”. Da qui, dall’immedesimazione, le rotture
terribili: “Già mettere un amico nelle condizioni di fare una richiesta indica
un’amicizia imperfetta”.
È
siciliano, palermitano, il campion mondiale di Glovo, le consegne di cibo a
domicilio – pizze e panini. Lo fa da vent’anni, ha cominciato a vent’anni, per
passatempo. Faceva anche il dj ma con le consegne ci guadagna, abbastanza. La
voglia non manca. L’applicazione neppure.
Nick La Rocca, cornettista virtuoso e bandleader, nato a New Orleans da genitori
del trapanese (a New Orleans si dirigevano a fine Ottocento i siciliani di
Palermo eTrapani), è l’autore di “Tiger Rag”, il brano che impose il ragtime, lo
stile New Orlenas. A capo della Original Dixieland Jass Band – la parola era allora
più vicina al significato originario, derivato dal francese jaser, eccitare. Jelly Roll Morton rivendicherà
poi la paternità del brano, un arrangiamento, disse ad Alan Lomax, di una quadriglia
francese. Ma la prima incisione di “Tiger Rag” è stata di La Rocca e la sua
band.
Mario Praz la trovava perfetta: “Il massimo
piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si
unisce lo spostamento nel tempo. In Sicilia, il retroscena storico è
profondissimo, e la varietà del paesaggio supplisce alla relativa ristrettezza
spaziale, sicché si potrebbe facilmente sostenere che quello di Sicilia è il
viaggio perfetto”.
La meraviglia dei viaggiatori è una costante: “Per
chi un viaggio in Sicilia non ha rappresentato un premio, o quasi il compimento
di un voto? L’uomo non ha cessato, neanche nei tempi storici, di favoleggiare
sulla Sicilia, che è la terra stessa del mito: qualsiasi seme vi cada, invece
della pianta che se ne aspetta, diviene una favola, nasce una favola.” - Cesare
Brandi.
L’immagine della Sicilia era prevenuta e di
maniera già nel 1963 per Sciascia – che pure se ne dilettava: sommerso da un profluvio di film sulla Sicilia, ammoniva (“La Sicilia e il cinema”, poi in “La
corda pazza”), lo spettatore dovrebbe cominciare a chiedersi “che cosa la
Sicilia non è”. L’anno successivo
stroncherà Germi, “Sedotta e abbandonata”, per avere tratteggiato una Sicilia
che non esisteva.
Sciascia si è detto
presto infastidito dalla sicilianità, che pure aveva elogiato, seppure in forma
di “sicilitudine” – “categoria metafisica, condizione esistenziale o stato antropologico dell’essere siciliani”. Nel 1964, stroncando il film di Germi, e
una ricerca dell’antropologo Tentori (“Le svergognate”), lamenta una Sicilia
acculata “al delitto d’onore, votata al mito della verginità”. Di cui lui, nato
nel 1921, nella Sicilia “profonda”, non conosceva nessun caso. Ma non rinunciava,
in altro ambito, alla “linea della palma”, che sale, sale.
Rieditando il “Padrino III”, per i trent’anni,
Francis Ford Coppola ha cambiato il titolo, “Mario Puzo’s The Godfather Coda:
the Death of Michael Corleone”, la morte di Michael Corleone, perché invaghito di
un altro finale: Corleone seduto su una sedia nel cortile del palazzo,
meditabondo, su questa considerazione che lo spettatore legge sullo schermo:
“Quando i siciliani ti augurano «cent’anni» è un augurio per una lunga vita… e
i siciliani non dimenticano”. La Sicilia come condanna a morte in vita. Ma i
luoghi del “Padrino III”, sopra Taormina, sono infinitamente riconoscenti a
Coppola per il film.
leuzzi@antiit.eu