sabato 27 febbraio 2021
Ombre - 551
La
dignità e la grazia della signora Zakia Seddiki, vedova dell’ambasciatore
Attanasio, riportano alla memoria il mondo islamico prima del khomeinismo.
Dell’islam del Vicino Oriente, dal Marocco all’Iran.
venerdì 26 febbraio 2021
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (450)
Giuseppe Leuzzi
Curioso
contrasto nell’edizione in commercio di Carlo Levi, “Le parole sono pietre”, tra
la prosa di Consolo nella presentazione, che vuole essere lirico e moltiplica
gli aggettivi, e l’asciuttezza di Levi, che il mondo contadino siciliano di cui
tratta sa leggere e far parlare. Il siciliano conosce la sua isola meno del piemontese.
In
viaggio da Villa a Messina nel 1952, sul traghetto “Secondo Aspromonte”, Carlo Levi avverte navigare, “sopra il
frastuono continuo” delle conversazioni, “pezzi di frase, modi logici inusitati
nel linguaggio comune delle altre parti d’Italia; sento dire «con cui», «del
quale», «dopo i quali»: legamenti logici di un pensiero raziocinante e naturalmente
complesso, eredità popolare dell’antica chiarezza greca”.
Di
seguito Levi legge “un cartello bellamente incorniciato” che dice: “Avviso ai
passeggeri. Chi vede cadere una persona in mare deve lanciare il grido «un uomo
in mare», e chi ode il grido di «uomo in mare» deve ripeterlo e deve cercare di
farlo arrivare, al più presto, al ponte di comando”. La chiarezza.
La donna in
Calabria
Il
sogno gay di un’amica gravida che scompare lasciando il figlio – nel caso la
figlia – Fabio Mollo fa terminare nel film “Il padre d’Italia” in Calabria sullo
Stretto, tra Scilla e Cannitello, nella famiglia d’origine della ragazza. Tutta
al femminile. Gli uomini ci sono, padri, zii, compari, ma la vita si svolge
attorno alle donne, alla madre della
gestante. Un ruolo complesso – molto è del conflitto madre-figlia - ma non
ambiguo, grazie alla presenza scenica di Anna Ferruzzo. Una forma di realismo
acuto, e lieve.
Della
serie “la donna del Sud”.
Lina
Wertmüller, che nel 1970 inseguiva un film su una donna di famiglia mafiosa che
rompe l’omertà e denuncia il malaffare, e si era rivolta in un primo momento a
Sciascia (che le aveva fornito un soggetto), successivamente lo decommissiona:
d’accordo con Sciascia che la mafia non è un gran soggetto, dice. Poi ci
ripensa: “Diedi un’occhiata in giro. Così mi sono avvicinata alla situazione
calabrese. Qui la cosa è cambiata. Mi è sembrato di trovare elementi per cui
valesse la pena riproporre il problema”. C’erano donne più combattive – meno
rassegnate, non succubi.
Sarà
di calabresi, ragazze e madri di famiglia, tutte in pace con se stesse, a
giudicare dai ritratti in copertina, il primo doculibro di donne che sfidano la
mafia, anche in famiglia, “Fimmini ribelli”, un decennio fa di Lirio Abbate.
Memorie di
Sicilia – omertose
“Nel
‘62”, Jacopo Fo ricorda sul “Corriere dela sera” sabato 20 dei genitori Dario
Fo e Franca Rame, “furono cacciati da «Canzonissima», perché denunciavano l’esistenza
della mafia in Sicilia. Il ministro Giovanni Malagodi, che era nella vigilanza
Rai, li definì due guitti che insultavano l’onore del popolo siciliano
sostenendo l’esistenza di un’organizzazione criminale chiamata mafia”.
Non
è vero niente. Cioè: “Canzonissima” 1962, di cui Fo e Franca Rame erano conduttori,
continuò senza di loro fino alla finale del 6 gennaio 1963, che fu condotta da
Corrado. Ma perché se ne erano andati di propria iniziativa, dopo che un loro sketch sul lavoro nei
cantieri edili era stato censurato dalla direzione generale Rai. Ma non c’è
altro scandalo per Jacopo Fo che la Sicilia, e in Sicilia la mafia – in altro
contesto si direbbe che Jacopo Fo divaga per non dire, omertoso.
Anche
Giovanni Malagodi difensore dell’“onore del popolo siciliano” è fuori dalla
realtà. Malagodi era un latifondista della Bassa, che probabilmente neanche sapeva
dov’è la Sicilia. Era il maggiore oppositore dell’apertura a sinistra della Dc
con Fanfani in quegli anni, da segretario e capogruppo alla Camera del partito
Liberale, che aveva spostato a destra. Sarà dieci anni dopo il ministro del
Tesoro dell’unico governo repubblicano di destra prima di Berlusconi, il primo
governo Andreotti, 1971-72, e varerà le “pensioni baby”, per insegnanti quarantenni,
e le “pensioni d’oro”, per i quarantenni dirigenti pubblici (Beniamino Placido, per
esempio, tra essi), ipotecando d’un colpo la stabilità dell’Inps e dei conti
pubblici. Sicuramete uno che non tollerava Fo e Rame in tv. Ma che c’entra la
Sicilia, e la mafia?
Per
Jacopo Fo, il prototipo del non-conformista, ciò di cui si deve parlare male è la Sicilia.
Sul presupposto che Sicilia significa mafia, una catena indissolubile.
Della
Sicilia di Jacopo Fo si ricorda invece – ma lui evidentemente l’ha dimenticato
– l’articolo semiserio del 1979 “Anche i comunisti rubano!”, sulla corruzione
del Pci isolano. La traccia del suo classico, due anni dopo, “Come fare il comunismo senza farsi male”.
Il Sud non è
antico
Nel
1955, in “Le parole sono pietre”, Carlo Levi ritrae la Sicilia con la stessa vivezza
e empatia, da pittore, attento ai colori, le ombre, i segni, del “Cristo s’è
fermato a Eboli”, del suo confino in Lucania vent’anni prima. Ma il Sud si è
dissolto, forse già quando Levi ne scriveva dopo i suoi tre viaggi in Sicilia.
Non è più quello che era e non è altro.
Concludendo
la sua vasta indagine un po’ in tutta Italia, e specie al Sud, sulla
persistenza di usanze e detti antichi, greci o latini, “Sud antico”, il
demofilologo (studioso di etnografia e insieme di filologia classica) Emanuele
Lelli spiega così il titolo: il Sud è antico rispetto al Nord. Dove “i
riscontri comparativi con ‘credenze’ e ‘superstizioni’ greche e romane
ammontano, grosso modo, alla metà di quelli offerti dalle regioni meridionali”.
Non
è un complimento. Lo studioso è entusiasta degli esiti della ricerca, della
continuità di una certa immaginazione e cultura popolare con le fonti
classiche. Che però, di fatto, sono anche i segni dell’arretratezza, di usi e
anche di mentalità.
Nelle
foibe istriane e giuliane i titini buttavano cani neri sgozzati, perché
avrebbero impedito ai morti - italiani trucidati - di lamentarsi. I titini
erano croati, sloveni, più qualche serbo, tutta gente del Nord. Ma il folklore
si vuole meridionale.
Ma,
seppure il Sud era “antico” per Lelli, non lo è più. L’indagine e la redazione
del materiale d’indagine sono degli anni 2010, ieri. Ma oggi Lelli non
troverebbe più differenze, i suoi “informatori” ottanta e novantenni essendosi probabilmente
estinti: anche il Sud non è più “antico”, morti i giovani anteguerra. Si può
ricordare o ricostruire a fini di “risveglio culturale”, che i fondi europei a favore delle
minoranze stimolano, come può essere dell’area grecanica attorno a Bova, che
tanto ha entusiasmato il ricercatore.
Il
Sud non antico e non è moderno, si sarebbe tentati di dire. Di fatto è moderno,
modernissimo. Ma è povero, di mezzi, e anche di iniziativa. Di voglia di fare e
d’impegno: non ci sono più “testardi” al Sud, “teste di calabresi”, ma figurini,
disappetenti. Rifiuta anche spesso ogni radice – che non sia folklore, la
tarantella, di cui non conosce e non cura le figure, o la straordinaria diversità
culinaria, più spesso solo onomastica.
Si
ambientano molti sceneggiati tv al Sud, la Rai li fa solo al Sud, e non s’incontra
nulla di antico o di nuovo meridionale. A parte il paesaggio, che entro certi limiti è indistruttibile, o il colore del mare. E le
parlate strane – salvo scoprire che quella “barese” dell’ultimo sceneggiato, “Lolita
Lobosco”, è imitazione a effetto comico inventata da Lino Banfi.
La
storia si direbbe indispensabile. Questa è la storia della memoria grecanica.
La ristretta area dell’Aspromonte grecanico, semiabbandonata, è una miniera per
lo studioso di forme antiche perché lo statuto di minoranza linguistica
riconosciuto in sede europea ha ravvivato la memoria e ha reso consapevoli della
tradizione, del valore di coltivarla. A uso turistico, necessariamente marginale.
Un altro mondo
Allontanandosi
dalla Sicilia, nel viaggio che vi fece nel 1952, Carlo Levi così ne scrisse in
“Contadini di Calabria”, il racconto di viaggio pubblicato sui nn. 5 e 6 del
1953, di maggio e giugno, de “L’Illustrazione Italiana”, rimasto fuori per
ragioni editoriali da “Le parole sono pietre”, il racconto dei suoi tre viaggi
in Sicilia, come lui steso spiega nell’introduzione, e mai più ripreso: “Lasciavo
alle mie spalle la Sicilia, e Messina, e l’intrico di poggi e montagne grigie e
nere e violette, il disordine tellurico dei valloncelli velati di nebbie mosse
da un vento bizzarro, e, lontano, il triangolo azzurro e bianco dell’Etna, nel
cielo. Avevo ancora la mente e gli occhi a quel mondo riboccante di vita, a
quei pescatori e contadini della costa, pieni di colorata eleganza nei loro
cenci e di grazia negli atti, a quegli
altri, delle terre dell’interno, dai visi tetri e feroci di represse
ingiustizie, neri in viso sotto i loro berretti neri: ai braccianti di Bronte,
nell’attesa secolare di una terra che è lì, davanti ai loro occhi, intoccabile,
di una riforma sempre promessa; a quegli altri che vivono come bestie nelle capannucce di paglia dei monti della
Ducea; a quelli che non sanno come pagare il debito forzato delle terre mal
comperate; a tutto quel mondo in fermento e in movimento, pieno, a volta a
volta, di speranza e di disperazione, e per il quale la terra, ancora più che
possesso e pane, significa vita di uomini, significa, letteralmente,
esistenza”.
Non
c’è altra Sicilia migliore, più sentita, in altre scritture.
Milano
Bergamo
ha avuto il record dei morti nella prima ondata del virus. Con immagini
anche indelebili. Ma questo non impedisce la folla fuori
dallo stadio per Atalanta-Real Madrid – a nessun effetto, giusto urlarsi il
tifo in faccia, urtarsi, senza mascherina. Lo stesso è successo
domenica a Milano, davanti allo stadio, per Milan-Inter.
L’epidemia
dilagò a Bergamo un anno fa, con gli spettatori in tribuna, per Atalanta-Valencia. I lombardi si vogliono ordinati. Allora è stupidità?
Dopo
gli operatori sanitari Milano non vaccina contro il covid le classi di età a
rischio, ma chi lavora. Non è un delitto, ma è una chiara maniera di essere.
Gli
inuit deportano gli anziani, a morire soli di stenti – così risparmiano, accudimento, alimentazione e sepoltura. A Milano non si può,
perché ancora ci sono l’Inps e qualche ospedale pubblico.
“Strana
città”, dice di New York un personaggio losangelino-hollywoodiano di Eve
Babitz, “Sex and Rage”, “dove le persone vivono per lavorare”. Si potrebbe dire
di Milano.
Si
pubblica una ricerca europea sulla morbilità causata dalle polveri sottili in
cui si vedono, tra le venti città con la mortalità più elevata per questa concausa
quattordici città padane. Una non notizia – se non ne parliamo, la cosa non
esiste.
Le
provincie di Torino e di Milano figurano nei prim cinque posti per mortalità
associata col diossido di azoto.
La
Lombardia ha mandato “dati sbagliati” sulla pandemia all’Istituto Superiore di
Sanità per 54 volte. Ogni volta gli errori venivano segnalati, ma la Lombardia
non rimediava. Milano über alles, non
sente ragioni.
A
causa degli sbagli degli uffici sanitari lombardi, gli operatori economici, dai
bar a molti artigiani, hanno avuto problemi grossi. Ma non se la prendono con
Milano, se la prendono con Roma. È il principio del leghiamo: autoassolversi. M è una forza o una debolezza?
Si
scopre, sporadicamente, quando una Procura denuncia un’azienda che prospera
inquinando, la Caffaro di Brescia, che la Lombardia è da tempo nel mirino dei
Verdi d’Europa come l’area più inquinata del continente. Ma si perseguono reati
puntuali, su un fatto preciso, il garantismo qui è d’obbligo. E poi, la Caffaro mica è stata condannata?
Quando sarà condannata…
Che
la Lombardia avesse raccolto gli sversamenti velenosi tedeschi, svizzeri e
anche austriaci lo diceva Günther Depas a Milano nel 1974 o 1975, corrispondente
amabile per l’economia del quotidiano “Die Welt” (come si è già raccontato su
questo sito dieci mesi fa, 22 aprile 2020), e lo scriveva anche, sul suo
giornale. A nessun effetto.
leuzzi@antiit.eu.
Cronache dell’altro mondo virali (95)
“Dare priorità
alle prime dosi, così da vaccinare più persone il prima possibile”, Mario Draghi
propone a Bruxelles al vertice a distanza sul virus. È la ricetta degli aborriti
Johnson e Trump, First Doses First, con la quale la Gran Bretagna della Brexit e gli
Stati Uniti sopravanzano di due mesi la Ue nella lotta ai contagi.
La Commissione
di Bruxelles, cioè la Germania, ha frenato subito, con i sorrisi di circostanza
- la Commissione, che non ha un’idea
migliore, non manca di dire che non si può fare, non ci sono i vaccini, gli accordi
non lo permettono… Ma non è questo il problema - del funzionamento della Ue –
qui: gli Stati Uniti stanno vaccinando molte più persone, in rapporto alla
popolazione, e molto più velocemente di qualsiasi paese della Ue. Benché i
paesi europei abbiano sistemi sanitari che si classificano più efficienti di quello
americano. I media americani ne deducono che il privato – la “libertà” – è meglio
del pubblico: le aziende americane che producono i vaccini Pfizer e Moderna
hanno risposto alla domanda, con la sperimentazione e la produzione, molto più rapidamente e con più affidabilità dei
produttori europei o cinesi.
Gli Stati
Uniti condividono con Israele, che conta su un sistema elettronico nazionale di
controllo sanitario, e con Abu Dhabi, che utilizza il vaccino cinese, il
maggior numero di vaccinati in rapporto alla popolazione: 16 su 100 – 5 su 100
in Germania, 4 su 100 in Francia, 2,3 in Italia (4,41 la prima dose).
Trump ha
assicurato la disponibilità senza restrizioni dei vaccini su cui gli Stati Uniti
hanno puntato, Pfizer e Moderna, attraverso un’apposita agenzia di velocizzazione pubblico-privata, Operation Warp Speed. L’agenzia americana del farmaco,
Federal Drug Administration, ha analizzato i vaccini appena pronti - non dopo
un mese come ha fatto l’Ema, l’agenzia europea. La commissione pubblico-privata
ha acquistato i vaccini al prezzo che ha giudicato giusto, e non ha perso mesi
sulla clausola di responsabilità delle aziende produttrici – va da sé che se i
vaccini non rispondono ai criteri dichiarati il fabbricante è responsabile.
Gli Stati
Uniti hanno ordinato 600 milioni di dosi del vaccino Pfizer a luglio, la Ue ne
ha ordinato la metà, per una popolazione superiore del 50 per cento a quella
americana, quattro mesi dopo.
Malgrado il sentiment libertario, e anzi anarcoide,
dell’ideologia americana, un americano su due (il 48 per cento) si dichiara “fortemente
convinto” che i vaccini sono sicuri - contro un terzo, il 36 per cento, degli
europei (peggio in Francia: solo due su cinque si vaccineranno, e uno su tre è
convinto che il vaccino fa male).
L’alfabeto dell’eros impossibile
Una sorta di libro d’ore: 24
brevi testi, in prosa raffinata, “poetica”, nei quali ogni frammento
corrisponde a una lettera dell’alfabeto, in ordine: A è il sonno, B il
risveglio, fino alla Z, zenit. Senza la K e la W. Con una J, “Je”, io, una doppia
O, “Ora, ci fu per qualche tempo”, e “Si (On
in francese) tace”, e una doppia T.
Un poema in prosa che Valéry elaborato
con cura, centellinato negli anni in cui fu legato sentimentalmente a Catherine
Pozzi, conosciuta nel 1920, e che non considerava finito. Ma impossibile da
finire, stando ai canoni che si era dato. Sul presupposto che la prosa è troppo
facile e va regolata, come la poesia. All’insegna di quello che nei “Quaderni”
chiama C.E.M., “Mon Corps, Mon Esprit, Mon Monde”, una sorta di insularità nel macroscosmo, di
soggettività riconosciuta. Riconoscibile, nella razionalità. Di fatto però
leggibilissima e significante. Per la seconda metà di fatto narrativa.
Un poema d’amore, nei limiti di
Valéry: l’alfabeto è di fatto dell’eros, pur misterioso. Di brillantezza,
sorriso, indiscrezione anche. E eccezionalmente intimo, personale. Delle due
“T”, la seconda è una dichiarazione: “Tu
se bella come una pietra”. Che non sembra un complimento, ma a seguire sì: “E
la tua forma si chiude così perfettamente che chiama le due mani a sposarla e
seguirla…” Le due lettere “O” erano state la constatazione dell’unione
possibile di due anime e non possibile: “Si tace. In silenzio…”
Lui parla e io parlo, e le nostre parole non si
scambiano, Valéry fa dire alla Lust, la passione, del “Mio Faust”. Qui, in
questo alfabeto dell’eros, vede alla lettera O “una figura ordinata e odorante
di giardino”, scossa da “un abisso mobile, in marcia, errante”, in cui “due
anime diverse si muovono separatamente verso la loro somiglianza”. Se non che
ognuno “si tormenta a causa dell’allontanamento interiore del suo altro sé”, e
la somiglianza “se la crea, se la ricrea in sé indefinitamente come supplizio,
facendosela ora troppo cattiva, ora troppo amabile”. Così, “ora troppo odiato,
ora troppo amato, l’amore inquieto compone e lacera l’immagine”.
Una
volta, fuori di poesia, il coniugio era necessariamente incesto - ancora Zeus
genera Persefone con la madre Rea, e con la figlia Persefone genera Dioniso.
Ci fu un tempo, che Frazer ha esplorato in quattro volumi, in cui l’uomo
sposava solo donne della sua tribù. Per non dire dei faraoni, che sposavano le
sorelle. Oppure non sposava, eros è un tormento.
Paul Valéry, Alphabet, Livre de Poche, pp. 156, ill. € 7
giovedì 25 febbraio 2021
Cronache dell’altro mondo bellicose (94)
Come primo
atto della sue gestione dell’economia internazionale, Biden confronta la Cina
con misure più unilaterali e più radicali di Trump. Rovesciando l’approccio
liberista che aveva tenuto con la presidenza Obama, di cui era il vice. Vuole
la riduzione delle “catene di valore” (le forniture) che fanno capo alla Cina
di prodotti sensibili, dal punto di vista economico e da quello della
sicurezza, e di grande impatto
commerciale: semiconduttori, “terre rare” (17 metalli), farmaci, auto,
elettrodomestici. In cento giorni, per decreto.
All’Unione
Europea Biden ha per prima cosa proposto al suo primo G 7 (a distanza) un
fronte comune contro l’aggressività della Russia e della Cina. Come secondo atto della sua
presidenza, dopo lo schieramento dei bombardieri a largo raggio B-1 in Norvegia, il presidente
pacifista Biden ha inviato le
cannoniere nel Mare della Cina meridionale, a difesa di Taiwan. Il bellicoso
Trump aveva esordito con un approccio al dittatore nuclearista nordcoreano.
Il narratore a caccia del personaggio
Un racconto pirandelliano, “chi è
chi?”, senza saperlo, che va veloce come un giallo. Come l’autore stesso mette
sull’avviso prima di cominciare, naturalmente negandolo – il giallo, non
Pirandello, di cui non c’è menzione. Chi è Smurov, che pure è un personaggio
d’autore? Un agente provocatore, una spia di Lenin, un imbroglione, un
profittatore di amori ancillari, un “mancino sessuale” (omosessuale represso),
un cleptomane? Di tutto e di più: i personaggi devono essere memorabili, ma a
volte, riflette lo stesso loro creatore, “tutta la loro esistenza non è stata
altro per me che sfarfallio su uno schermo”. Per un autore epico, o tragico, un
nodo, più inestricabile che di Nordio, per Nabokov, specialista di lepidotteri,
uno sfarfallio.
Un suicidio fallito fa del
narratore lo spettatore di se stesso. E gli apre la porta del possibile, al
gioco delle sliding doors, del “che
cosa sarebbe successo se…”. “L’occhio” è del narratore, che tutto vede
naturalmente, benché sfuocato. Innamorato della donna di cui è innamorato il
personaggio di cui racconta. Sia lui che lei essendo “in tutto per tutto una mia creazione”, si consola a un
certo punto il narratore. E sarà un trionfo dell’amore, la storia deve pure
concludersi. La storia di un amore, allora, “l’amaro dell’amore travagliato”,
Nabokov conclude beffardo la sua presentazione.
Ma non è finita. “Scoprire
all’improvviso che la vita reale è un sogno è terrorizzante, ma quanto più è
terrorizzante è il momento in cui ciò che si credeva un sogno - fluido e irresponsabile – comincia
all’improvviso ad aggrumarsi in realtà!”. Insomma, un distillato di Pirandello:
il narratore diventato personaggio tra
i personaggi della sua narrazione: non si può dire il “colpevole”, ma si sa chi
è.
Vladimir Nabokov, L’occhio, Adelphi, pp. 101 € 10
mercoledì 24 febbraio 2021
La messa dei mentecattocomunisti
Era
domenica trent’anni fa come oggi, nel delirio anti-Usa per la guerra del
Golfo, e questo era lo stato dell’Italia, nel diario del 24 febbraio 1991:
“Il Tg 3 “Telekabul”, con il Tg 1, ha fatto
un’edizione straordinaria per il messaggio domenicale del papa a piazza San
Pietro. Il papa ne ha approfittato per fare l’apologia della dottrina sociale
della chiesa, che oltre un secolo fa con Leone XIII riconosceva il diritto al
sindacato, etc.. I comunisti si aspettavano parole di fuoco contro gli Stati
Uniti, o contro l’Occidente, che ha osato attaccare l’Irak, dopo l’invasione
irachena del Kuwait.
“Forse non c’è stata malizia nel papa,
nell’approfittare del collegamento straordinario per far sapere quanto sollecita
è la chiesa con i lavoratori. Ma i mentecattocomunisti se lo sarebbero più che
meritato, ridotti come si sono allo stato vegetale, anzi larvale, per voler navigare
sempre nello stesso inchiostro.
“Cos’è l’antioccidentalsimo, da parte di
occidentali a tutto tondo come i comunisti, se non un riflesso condizionato?
Del sovietismo? Comunisti, poi, che si
aggrappano alle sottane di Giovanni Paolo II, il papa che li ha denudati e esposti
al ludibrio. Da essi denunciato tredici anni fa come il papa della Cia…”
Il Sud al tempo di Columella
Se si tagliano i capelli in luna
calante non ricrescono. Lo starnuto è propizio, beneaugurante. Si direbbe il
contrario, ma così vuole la sapienza antica. Al Sud. Il canto della civetta è
segno di prossima morte, anche a Roma e sulle Alpi. Ma il folklore si vuole
meridionale. Con esiti in effetti impressionanti: questo “Sud antico” è la sintesi di una serie di ricerche sul campo nella Calabria grecanica ai piedi
dell’Aspromonte e sui Nebrodi, e più rapidamente in Val d’Agri, nella Grecìa
salentina, le Murge, la Daunia, il Matese, gli Aurunci, tra Cassino e Venafro, la Sardegna sopra
Olbia.
Lelli trova riscontri
testimoniali e pratici, e spiegazioni, di usi, detti, formulari, credenze,
pratiche, gesti, oggetti antichi, greci o latini. E spesso la spiegazione di problemi
filologici ardui, di lettura e interpretazione dei testi antichi. Decine,
centinaia di problemi filologici, di lettura significante di formule e pratiche
controverse, dei testi letterari e filosofici e di quelli tecnici (Columella,
Apostolio, Diogeniano, Artemidoro, Festo, Igino, Prisciano, Mauele Fileta,
Strabone, Zenobio et al.) che Lelli
può sciogliere con le sue rapide incursioni sul campo.
Tutto inizia con una fortunata
ricerca (vacanza?) del demofilologo all’agriturismo “Il Bergamotto” a Condofuri, area grecanica a
sud di Reggio Calabria. Una serie fortunata di riscontri di antichi riti e
credenze lo porta ad allargare l’indagine in altri siti. È una vendemmia ricca:
“Dopo quasi cinquecento interviste, dirette e indirette, su questionari che
tematizzano elementi di civiltà greca e romana – credenze e superstizioni,
canti popolari, favole e leggende, proverbi – ho potuto riscontrare che la
quasi totalità delle notizie antiche è ancora presente, nella memoria
‘folklorica’ di uomini e donne nati nella prima metà del Novecento, in
numerosissime aree del Meridione”. Lelli ne ricava anche una linea di sviluppo
della demofilologia: un invito “a rileggere tutta la produzione letteraria
greca e latina sub specie folkloris”.
Specie nei punti controversi, di difficile comprensione. In questo senso una ricerca
indubbiamente feconda.
Perché Sud antico? Una
rivendicazione? Un risarcimento? Il Sud Lelli trova “antico” rispetto al Nord.
Dove, spiega, “i riscontri comparativi con ‘credenze’ e ‘superstizioni’ greche
e romane ammontano, grosso modo, alla metà di quelli offerti dalle regioni meridionali”.
Emanuele Lelli, Sud antico, Bompiani, pp. 431, ril. €
19.
martedì 23 febbraio 2021
Secondi pensieri - 443
zeulig
Apotropaismo – È una forma primitiva e
primaria di difesa salvaguardia del sé.
Della persona, della famiglia (la casa, i beni, la carriera), del clan p tribù
– si esercita con gesti e oggetti ma
anche secondo riti. Una forma istintuale. Che ha durato però nei secoli, e si
rilancia in epoca postmoderna – del disbelief,
anche cinico: nei gerghi, i tatuaggi, la socialità frammentata.
Comico – Eco ne fissa il
canone (i canoni? tutti, alcuni?), più che nell’inseguimento del trattato
aristotelico perduto sulla commedia, in
un breve scritto giornalistico su “L’Espresso” nel 1992 (ora in “La Bustina di
Mnerva.1990-2000”), intervenendo su un polemica giornalistica a proposito di
Chaplin e di Totò, “chi è il più grande”.
Chaplin è un artista, Totò un comico, stabilisce, un “fenomeno di comicità
istintiva, un fatto di natura, come un uragano o un tramonto”. Questa è la differenza maggiore, e
quella che fa, consente, il comico, la naturalezza: “Ci si può beare ogni sera
del tramonto, anche se si sa come va a finire, mentre non si può passare la
vita a guardare la Vittoria di Samotracia”, o ascoltare la “Quinta” di
Beethoven “tutte le mattine al risveglio”. Corollario di questa distinzione tra
arte e natura: l’arte è universale, la comicità specifica. “La grande opera,
anche quando racconta una storia qualsiasi, induce il destinatario a
proiettarvi se stesso e i problemi dell’umanità tutta”, mentre “Totò rimane un
partenopeo marginale sulla cui animalità ridiamo senza ritegno perché ci
sentiamo superiori a lui”.
Una seconda differenza, continua Eco, è “la coerenza testuale”. Chaplin non si puo’ spezzettare,
non può mangiarsi la scarpa in “Tempi moderni”: “Ogni sua gag «fa corpo» col
resto dell’opera”. Mentre ogni scena di Totò è intercambiabile: “La scena del
vagone letto è sublime (come il cielo stellato sopra di noi), ma potrebbe
essere inserita in qualsiasi film di Totò”.
Terzo elemento è l’“economia”, l’arte essendo “risultato di un
calcolo con squadra, compasso e misurino”: Chaplin disturba quando ripete
“senza ragione certe “mossette o sorrisini imbarazzati, e cade quando non sa
misurare i suoi tic”, mentre Totò viaggia impune in una “economia della
dismisura”: “L’economia di costruzione è quella che permette di non rileggere o
rivedere troppo sovente la grande opera d’arte”, mentre “la comicità naturale
va consumata con ingordigia, perché non si purifica nella memoria, ma rimette
in gioco ogni volta i nervi e le trippe”.
Il fatto è però che Totò era un riflessivo - l’analisi di Eco
confligge con quanto si da del “partenopeo (non) marginale” Totò: la sua
comicità “strabordante” si mostra istintiva per calcolo, sapiente dosaggio. Non
era rifinito, ma era progettuale: quella tra comico “naturale” e comico “artistico”
è la differenza fra l’artigiano, per quanto curato, e l’artista. Tra due forme,
in realtà, di arte – anche dall’artigiano si vuole sapienza e misura, nelle forme, nei tempi, nei limiti. In
termini banali, c’è chi sa raccontare le barzellette e chi no, chi sa far
ridere anche con barzellette stupide, e chi annoia con le più puntute.
Ebraismo – In Heidegger
non è connotato nel senso dell’antisemitismo, di qualunque specie, ma della lettura
hegeliana dell’ebraismo, del primissimo Hegel, “La positività della religione
cristiana”, 1796: “L’ebraismo, legato al formalismo farisaico, è negato all’etica
cristiana, spirituale”. Anzi, “ne provoca l’involuzione in religione positiva”,
dei dogmi, e della gerarchia necessaria ad amministrarli. Una spiritualità
legata alla Rivelazione, e a una chiesa gerarchica. Una comunità autoritaria. E
per questo separata. Di un’eccezionalità – elezione - che è anche annullamento
di sé.
Hegel oppone la morale superiore di Gesù non solo all’ebraismo ma
anche a Kant, nel successivo “Lo spirito del cristianesimo e il suo
destino”: Cristo predica non il rispetto
della legge ma l’amore, il suo imperativo morale è “superiore” alla legge
kantiana del dovere, che Hegel assume come un’etica ebraica interiorizzata, più
che scolpita nelle tavole mosaiche.
Ma quanto di Hegel e Kant c’è in Heidegger?
Incubatio – La credenza, da Epimenide in poi, che dormendo in un luogo o su un oggetto consacrato,
in grado di emanare fluidi benigni, il fedele ne ricaverà influssi benefici (sogni
o segni veraci, positivi) comune a tutti i repertori pratico-religiosi
conosciuti, è di fatto perpetuata - se
non ne è ispirata – dall’atto sessuale, dall’accoppiamento. In senso esplicito
anche in pratiche e repertori alchemico-spiritistici. Il “Malleus Maleficarum”,
martello delle streghe, fa ampio e dettagliato caso delle succubi e degli
incubi, ai fini della raccolta e della propagazione del seme della fertilità.
Intellettuale – Intermittente, anzi a tempo perso, lo vuole Umberto Eco: nel (poco)
tempo in cui è creativo. “O è colui che non fa una professione esclusivamente
manuale, e allora la questione è puramente sindacale; oppure, come credo, è uno
che in certi momenti svolge una funzione creativa”, U. Eco, “Cosa pensava
Leopardi delle ragazze di Recanati?” (in “La Bustina di Minerva. 1990-2000). La
funzione non sempre può essere creativa, argomenta Eco, non di Einstein nell’assemblea
di condominio: “La funzione intellettuale si svolge in certi momenti, e per il
resto si è cittadino paziente”, nella varie incombenze quotidiane.
Nella stessa raccolta, in un intervento del 1997, “Il primo dovere
degli intellettuali. Stare zitti quando non servono a nulla”, lo stesso Eco ne
fa una condizione utilitaria, servile. Di fatto, poi, il tema svolgendo al contrario:
“Gli intellettuali, per mestiere, le crisi le creano, non le risolvono”, e “Questo
hanno fatto gli intellettuali che abbiamo studiato a scuola, si chiamassero
Parmenide, Einstein, Kant, Darwin, Machiavelli o Joyce”. Non sono risolutori,
non nei tempi ristretti, degli accadimenti: “Lavorano nei tempi lunghi”, cioè
“svolgono la loro funzione prima e dopo,
mai durante gli eventi” – “quando la casa brucia, l’intellettuale può solo
cercare di comportarsi da persona normale e di buon senso, come tutti”. Con
l’eccezione di “quando sta accadendo qualcosa di grave e nessuno se ne accorge.
Solo in quei casi un suo appello può servire come allarme”.
Casi? Eco porta solo quello di Zola, del “j’accuse”. Ma la storia di
Zola e del “j’accuse” direbbe piuttosto il contrario - benché l’“Aurore” ne avesse
fatto un manifesto, di grande evidenza grafica.
Malocchio – Il timore che
un apprezzamento nasconda o induca un maleficio, e necessiti quindi di scongiuri,
baskanìa in greco, fascinum in latino, viene da lontano. Da
una probabile origine comune dei due termini, indoeuropea. Sottesa comunque ai
riti divinatori e propiziatori.
Storicamente, ne fa caso Socrate nel “Fedone”, avendo ricevuto da
Cebete un elogio: “Amico mio, non dirlo forte, che un qualche malocchio non ci
faccia tornare indietro nel ragionamento”. Cloazio Verro, dell’età di
Augusto, registra i due termini, greco e
latino, anche nel senso di “jettatura”, di occhio cattivo – “guardare male
qualcuno o qualcosa”, dice il grammatico. L’occhio peraltro è sempre stato
diffuso, anche in antico, in immagini e in oggetti di devozione, come segno
divino, quindi diabolico.
Nel senso più generico di invidia qualche secolo prima di Verro registrava
il malocchio nel prologo degli “Aitia” il poeta Callimaco, che i suoi nemici
dice “razza spregevole del Malocchio”. Lo stesso farà Catullo al carme 7,
quando sfida i curiosi a contare i baci con Lesbia, e a “lanciare il malocchio
con mala lingua”, nec mala fascinare
lingua. Plutarco dedica alla “fascinazione” il capitolo 7 del libro quinto
delle “Questioni simposiali”.
Il demofilologo Lelli ha una vasta serie d riferimenti classici al
malocchio in nota al suo “Sud antico”, pp.289-29: “Il «malocchio», το κακό ματι
o semplicemente το ματι (diminutivo di όμμάτιον) è ancora oggi in Grecia uno
degli elementi di foklore più diffusi e radicati”.
Totalitarismo – “Cosa è
nuovo nel totalitarismo è che le sue dottrine sono non soltanto insindacabili
ma anche instabili”. Volubili. Orwell fa il caso degli intellettuali comunisti
in Europa portati a credere nel 1939 che il patto russo-tedesco difendeva la
pace. L’instabilità è tale, argomenta ancora Orwell nel saggio “The Prevention
of Literature”, 1946, che “il totalitarismo non promette tanto un’età di fede
quanto un’età di schizofrenia. Una società diventa totalitaria quando la sua
struttura diventa scopertamente artificiale: cioè quando il suo ceto dirigente
ha perso la sua funzione ma riesce a tenersi al potere con la forza o la frode.
Una tale società, non importa quanto a lungo persista, non può mi permettersi
di diventare tollerante o stabile intellettualmente”.
zeulig@antiit.eu
L’amore di Pavese divorante
Un piccolo canzoniere, “poesia
d’amore” è il sottotitolo. Tanto voglioso quanto disperato, fin dall’inizio.
Gia da ragazzo, come alla fine. Forte di un sentimentalismo che lo blocca, e lo
distruggerà, qui antologizzati: tutto quanto si rilegge alla luce del suicidio,
ma in questo caso, su questo terreno, quasi esplicito.
Il primo componimento, 1923,
quindici anni, è in –ure, ma è lieve e delicato, non è facile. Il secondo è già
di scuola, sulla “Beata Beatrice”, ma non
male – è la la Beata Beatrix un po’ estatica in punto di morte, dal
prognato forte, non proprio suadente, di Dante Gabriel Rossetti. L’ultimo, il
celeberrimo “The cats will know”, 10 aprile
1950, “i gatti lo sapranno”, dalla raccolta postuma “Verrà la morte e avrà i
tuoi occhi”, è epicedio, un dei tanti, per l’ultimo amore impossibile, con
l’attrice Constance Dowling, reduce da una notte di bagordi, e di letto?, con
altri: sono gli ultimi versi prima del suicidio ma senza acrimonia, “sotto la
pioggia leggere”, “nell’alba color giacinto”, il disamore è ora nell’ordine delle
cose.
Una raccolta “bruciante”, di un
bisogno di amare, di essere amato, mai soddisfatto, da nessun partner, in nessuna
situazione, da ragazzo e da adulto. Presago peraltro immediato, aprile 1924, di
fronte alla Beatrix rossettiana, che “l’amore\ del pauroso giovane non sente.
Succeduto nella dedica, dicembre dello stesso anno. “Per un’attrice di
cinematgrafo giovanissima, straniera, lontana”. Presto, diciottenne nel 1926,
“convinto io stesso che il mio sogno è stupido”, O, ancora prima: “Senza una donna da serrarmi
al cuore!\ Mai l’ebbi, e mai l’avrò. Solo, stremato\ da desideri immensi di
passione\ e pensieri incessanti, senza meta”.
Un diario, una testimonianza. Una
silloge si sogni, impossibilità, addii, prima di cominciare. Versi molto adolescenziali,
nell’adolescenza – i versi fino a vent’anni prendono i tre quarti della
raccolta – e negli ultimi mesi di vita – il restante quarto. Ballerine nude,
ragazze bionde, e solitudine, già a vent’anni: “Solo, senza neanche più me
stesso”.
Un canto continuo alla porta chiusa: “Tu sarai per me per
sempre\ la mia anima più vera\ che mai conoscerò,\ perché racchiudi in te\
l’ansia della mia vita,\ la limpidezza azzurra delle origini,\ il gran sogno
sereno,\ che si travaglia dentro l’esistenza\ e si trasforma nella febbre
atroce\ che mi rigetta e affascina”. Un’impossibilità quasi costruita.
Riscoprire
Pavese
Scadendo i diritti, le riedizioni
si moltiplicano, nelle forme più strane: questa raccolta, che non dichiara le
origini né le fonti, è tuttavia la più nuova. Propone, impone, un Pavese
diverso. I versi coetanei, un paio anche di questo sentito, amoroso, erano già
antologizzati in “Pavese giovane”, ma nessuno di questi componimenti.
Per troppi aspetti Pavese è da
riscoprire. Fuori dalla “Einaudi”, l’universo intellettuale e politico dentro
cui è stato finora imbozzolato. Pavese era molto altro, e anzi era altro. Walt
Whitman. L’impegno politico controvoglia. Gli innamoramenti infelici. I
“Dialoghi con Leucò”, sua riflessione preferita. Un figura solitaria, pur nella
Torino aperta sul mondo e informata malgrado il regime, libera, entro cui si è formato e ha vissuto,
da Augusto Monti e Pietro Chiodi a Calvino. Un outsider, sotto tutti gli aspetti. Compreso l’autodidattismo, la
fortissima componente formativa da isolato. Nell’apprendimento
(padroneggiamento) dell’inglese. Nello studio del tedesco. Nella folle storia
con il cinema e la Dowling.
Struggenti, è la parola giusta,
gli ultimi componimenti, già noti in “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”, quasi
una maledizione – a questa volta estroversa. Si comincia dalla confidenza,
“From C. to C.”, da Cesare a Constance, in inglese – ma già con una riserva: il
dampled smile e il glowing laughter sono su un piano di ghiaccio,
tomorrow is frozen down in the plain.
E si comincia presto con le ansie. Sui
ritorni di lei all’alba, in the morning
you always come back, e non si capisce se è al risveglio oppure di ritorno
da una note di bagordi. L’estasi è di pochi giorno, dall’11 al 21 marzo.
Seguiti da “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi” – “sarà come smettere un vizio”,
dell’amore divorante. E dai settenari inflessibili di “You, wind of March”, una
macia funebre: “Il tuo peso leggero\ ha riaperto il dolore”.
Cesare Pavese, Il desiderio mi brucia, Garzanti, pp.
92 €4,90
lunedì 22 febbraio 2021
Letture - 449
letterautore
A
quel paese – La cantata di Sordi al Sanremo di quarant’anni fa,
ripresa da Ficarra e Picone, più digeribili di Grillo, è esercizio
intramontabile, insieme vago ma chiaro, fin da Omero. Che al canto 6 del’ “Iliade”
ha Elena sconfortata dalla guerra a lamentarsi di non essere stata gettata prima
da una tempesta “su un monte o sull’onda del mare risonante”. L’auspicio Plutarco
riprenderà in positivo nell’opuscolo “Come distinguere l’adulatore dall’amico”:
il vero amico è uno che ci correggerà, magari con un invito, a mandare il malfatto
o malpensato “al monte, all’onda del mare risonante”.
Erasmo da Rotterdam negli “Adagia”, al proverbio 3367,
ne fa grande caso, di Omero e di
Plutarco – e anche di Orazio e di Teognide, che il sentito, se non il verso, di
Omero avrebbero ripreso. Dando allo sconforto di Elena la funzione di invito, a
modo di scongiuro, apotropaico. Lo riprende a proposito dell’espressione “cacciar
via lontano”: “Quando vorremmo ammonire che bisogna cacciar lontano qualche
male o difetto sarà ben adatto quel verso, se non erro, omerico, mandare «al
monte o alle onde del mare risonante»”.
Cinema
– “Fatica senza faticare”, lo diceva Giacomo Debenedetti,
che s’immagina cultore arcigno della forma letteraria, mentre lavorò molto per
il cinema, soggettista e sceneggiatore, e gli piaceva farlo.
Critiche – Quelle letterarie erano scomparse già nell’ultimo del Novecento. Già dagli
anni 1980, arguisce Umberto Eco nel 1999 nella sua rubrica su “L’Espresso”, sotto
il titolo “Trionfo e tramonto della stroncatura” (ora in “La Bustina di Minerva
1990-2000”). Giudici critici sospesi o omessi, la recensione si pubblica solo
in positivo: “Sospetto che i critici italiani si siano accorti a un certo punto
che, a stroncare sempre, non venivano mai citati dalla pubblicità editoriale”.
Che è visibile, colorata e a grossi caratteri, e dà autorevolezza e fama - la
sola “ascesa al Parnaso” ora possibile. La gara, diceva Eco, ora è al blurb, alla citazione pubblicitaria, sulle
copertine dei libri, quindi a futura memoria, e negli annunci pubblicitari, a
grandi caratteri, a colori di richiamo: “Essere blurbista è segno di prestigio,
e non è indispensabile leggere”, c’è “un’arte consumata dell’elogio generico”. Il
top del top.
La pratica non è morale\immorale, spiegava Eco scherzoso – ma serio dal punto
di vista editoriale: “La pratica è molto morale, perché anche i lettori sanno
benissimo che un blurb è sempre e per definizione positivo… e si regolano di
conseguenza”. Con effetto comunque positivo: “Si è istintivamente portati a
stimare un autore per cui tante persone illustri sono disposte a mentire”.
Molto mora le? Semplicemente, non c’è più l’arte del critico.
Solo un inconveniente nel trionfalismo (ironico?) di
Eco: quando il blurb cita il giornale e non il critico. Il giornale fa più
colpo, più autorevole. E non contesterà l’esattezza dell’attribuzione – è pur
sempre pubblicità. Di un romanzo noioso si può leggere in copertina: “Un
romanzo meraviglioso” – “The New York Times”; “Il miglior romanzo del miglior
scrittore della sua generazione” – “The Guardian”; “Soltanto il geometrico,
cristallino XY poteva trascinarci con tanta sapienza in tale vertiginoso labirinto”
– “la Repubblica”.
Del critico non c’è bisogno. Anche perché non ci
sono più critici di nome, autorevoli.
Famiglie – Inutili alle arti? Lord Keynes, l’economista, in una delle sue
divagazioni stimava che un esordio letterario non è complicato, potendo contare
sulla sottoscrizione di amici, estimatori e familiari – una base di 400 copie, calcolava,
che avrebbe garantito l’editore della spesa. La nipote di Cesare Pavese, Maria
Luisa Sini, novantaduenne che è stata insegnante di Lettere, ha ricordato invece
con Maurizio Crosetti sul “Venerdì d Repubblica” che lo zio non era molto
quotato in famiglia, ancorché scrittore famoso, e appena premiato con lo Strega,
alla vigilia del suicidio – e ancora, per qualche tempo, dopo il suicidio, e il
grande rumore mediatico. Nessuno ne conosceva o ne leggeva i libri, ne sapeva l’esistenza.
Si sapeva che scriveva, ma come di un tipo originale. Lei sessa, allora 22nne,
e in procinto di laurearsi in lettere, lo scoprì alla morte, dedicandogli la
tesi.
Islamofobia – In un catalogo di rarità, di una libreria parigina, Intersigne, “Cabinet
de curiosités, II”, Umberto Eco trovava nel 1993 , accanto alle “analisi sulla
follia di Rousseau e E.T.A. Hoffmann”, un “Maometto considerato come alienato”,
cioè come pazzo, del 1842. Ma non ne dice di più.
Missile – Da “missus”, participio passato di “mitto”, latino per mandare,
inviare. Missile
in inglese è – era – il messaggio.
Montalbano
- Non se ne faranno di nuovi perché è morto Camilleri
o perché è morto Sironi, il creatore del Montalbano al cinema? Il Montalbano di
Camilleri è sempre lì, nei libri. Quello del boom tv è opera di Sironi, nelle
riprese e al montaggio (la sceneggiatura definitiva). Tutto, eccetto che nei
dialoghi: i colori, le luci, i luoghi. Esterni e interni, questi soprattutto,
magici, favolosi, anche quando sono una casupola in lamiera. E i personaggi caratterizzati,
i ritmi – specie le pause. Il linguaggio dei “Montalbano” è quello dei film.
Ombra – Cara a Borges,
Conrad, Hofmannstahl, Tanizaki, Aessandro Spina, è già in Pindaro: già l’uomo di Pindaro è “l’ombra di un sogno” - “Ottava
pitica”, 5.
Molta ombra è della Bibbia. Come dirà Origene, commento al “Levitico”: “La Scrittura è costituita, in un certo
senso, da un corpo visibile, da un’anima che si può conoscere attraverso il
corpo, e da uno spirito che è l’esempio e l’ombra dei beni celesti”.
La Bibbia si compone di visioni e profezie,
maledizioni, invocazioni, atrocità, storie d’amore fedele e d’amore infedele e
anzi assassino, eroismi, sublimi o banalmente quotidiani, tradimenti –
beneficiando dell’ombra della luce, dice Clemente d’Alessandria: “L’ombra della
luce non è tenebra, ma illuminazione”. Ma è ben artefatta. La stessa Palestina era,
è, un’ombra - come la stessa Scrittura.
Sinistra – “Non sono gli italiani che vanno verso la sinistra, è la sinistra che
va verso gli italiani… Essi faranno la sinistra a loro immagine e somiglianza.
Cioè, molto elegante”, Ennio Flaiano, “La solitudine del satiro”, 1972”.
Suicidi – Via internet erano già materia di una “Bustina di Minerva” di Umberto
Eco del Primo Maggio 1997, su “L’Espresso” (ripresa nella compilazione “La
Bustina di Minerva, 1990-2000”). Sono coevi di internet.
Del critico non c’è bisogno. Anche perché non ci sono più critici di nome, autorevoli.