letterautore
Accademia dei
Lincei – “Una
banda omoerotica incline al misticismo e al melodramma, organizzata come un
ordine religioso e pericolosamente vicina all’eresia”, lo storico americano
della scienza John Heilbron, “Vita di Galileo”. L’accademia organizzata a Roma nel 1603, di cui Galileo sarà presto
membro, così caratteristica del “novismo” del primo Seicento.
Autobio
– È il genere preferito, in una letteratura di
generi, perché prevalentemente editoriale: sono in genere i romanzi dei
redattori editoriali. Da quando, mezzo secolo fa, l’editoria ha adottato in
Europa i criteri editoriali americani, del libro merce. Merce nel senso nobile
della parola, di un prodotto in forte domanda, per il quale si propone una
buona offerta, di qualità, e comunque di rapporto qualità\prezzo. Ma di
prodotti molto “sul mercato”, cioè nel gusto via via prevalente – che in buona
misura è artificioso e non spontaneo, prodotto esso stesso, dell’industria
della persuasione occulta. E in un mercato a forte volatilità: i prodotti hanno
arco di vita breve e brevissimo, anche solo di settimane – alcuni, “Gomorra” per
esempio, a tenuta anche di mesi, collegandosi a eventi fortuitamente
concomitanti - ma evidentemente remunerativo. Questo esclude libri a scarsa
circolazione: non si può pubblicare niente che non venda subito ventimila copie
Lo spiega Toni Morrison, redattrice editoriale illustre
per alcuni anni, prima di diventare professore di scrittura creativa nelle
migliori università americane, premio Nobel per la Letteratura 1993,
presentando nell’edizione italiana il suo capolavoro, “Amatissima” (“Beloved”).
Morrison lascia a un certo punto il lavoro editoriale per fare la scrittrice in
proprio. Anche se non è persuasa dell’obiezione: “La domanda sulle mie priorità
– come si può fare l’editing e
scrivere allo stesso tempo – mi sembrava stramba e scontata”. Del tipo,
aggiunge: come si può fare il pittore e insegnare la pittura, come si può fare
lo scrittore e insegnare la scrittura? Anche se gli “illustri scrittori” che
lei vanta di avere riscritto sono già pochi anni dopo illustri sconosciuti: “Toni
Cade Bambara, June Jordan, Gayle Jones,
Lucile Clifton, Henry Dumas, Leon Forrest”.
Feltrinelli - Il
primo supermercato apre in Italia il 27 novembre 1957 – che poi sarà Esselunga.
È anche il primo supermercato in Europa. Nello stesso anno Feltrinelli ha
aperto la prima libreria self-service, a Pisa e a Milano nel 1957. Una rivoluzione vera.
Gadda – Fu
artigliere nella grande Guerra, l’arma allora più distruttiva, più
dell’aviazione. Come Wittgenstein. Entrambi poi prigionieri – meglio che morti?
Germania
– “È una dura parola, e tuttavia devo dirla perché è
la verità: non posso immaginare alcun altro popolo che sia lacerato come quello
tedesco. Ti vedi degli artigiani, ma nessun uomo; pensatori, ma nessun uomo; signori e servi, giovani e vecchi, ma nessun uomo”,
Hölderlin, “Iperione”.
A seguire, la Germania Hölderlin assimila a “un
campo di battaglia, dove mani, braccia e tutte le membra giacciono separate una
dall’altra, mentre il sangue della vita scorre via nella sabbia”.
Italiano – Hölderlin, nella lunga follia, durante la quale, in presenza di
visitatori e curiosi parlava spesso senza costrutto, alternava al tedesco delle
frasi francesi, ma si firmava, e si voleva chiamato, con nomi italiani:
Scardanelli, Rosetti, Buonarroti, Buoarotti, Salvator Rosa, Scaliger Rosa,
Scarivari – eccetto che per Scardanelli, autografo, firma di molte
composizioni, la grafia degli altri nomi varia a seconda di come la registrano
gli interlocutori, con le doppie sparse qua e la, col k invece del c, con
l’elisione o senza.
Hölderlin negli anni della follia scriveva anche in latino, pensieri
filosofici. Brevi ma logici.
Era un avventuriero il maestro di italiano di casa Goethe a Francoforte,
di Wolfgang dopo esserlo stato del padre Johann Caspar. Un personaggio che ha
incuriosito anche Croce, “Putignano in terra di Bari e il maestro d’italiano di
Volfango Goethe”. Originario di Castellaneta, in provincia di Bari, risulta
essere stato “padre collegiale” nel convento di San Domenico a Putignano, a 24
anni, nel 1717, anno nel quale viene carcerato nello stesso convento con
l’accusa di “eccesso”, in attesa di processo. Un’accusa a carattere sessuale,
anche se non si sa di quale natura, ma evidentemente grave, che lo porta a
tentare l’evasione. Ci riesce e si rifugia in Svizzera. Nel 1723 a Zurigo
abiura pubblicamente e abbraccia il protestantesimo. Sposa anche una luterana.
La traccia successiva lo vede a Francoforte, dove nel 1726 ottiene il
permesso di soggiorno in qualità di insegnante di italiano. Fra i tanti allievi
ha il funzionario della Corte Imperiale Johann Kaspar Goethe. Che si accinge a
un lungo viaggio in Italia, effettuato poi nel 1740. Goethe padre è funzionario
a Wetzlar, sessanta km. a nord di Francoforte, la cittadina dove Goethe
ambienterà “I dolori del giovane Werther”. Giovinazzi insegnerà l’italiano
anche ai figli del funzionario, Wolfgang e la sorella Cornelia.
Al ritorno dal viaggio in Italia Goethe padre vorrà scriverne il racconto
in italiano, “Viaggio per l’Italia”, e Giovinazzi lo aiuterà nell’opera –
pubblicata in italiano nel 1932, a cura di Arturo Farinelli. Wolfgang studiò
l’italiano fino ai tredici anni, quando Giovinazzi andava per i settanta. Di
lui ricorderà che apprese a memoria “Solitario
bosco ombroso”, l’aria più celebre di Paolo Rolli, il discepolo più dotato, in
una col Metastasio, di Gian Vincenzo Gravina, il maestro dell’Arcadia.
L’apprese come una filastrocca, prima di intenderne il senso – con effetti
sensibili, a giudizio di Croce, sui Lieder
giovanili di Goethe. Terminato l’incarico in casa Goethe, nel 1762,
Giovinazzi finì nella miseria: qualche anno dopo viene citato dal magistrato alla
vigilanza sugli stranieri residenti come “morto da molto tempo nella miseria”.
Pasolini - L’
“io so” non è l’Io inquisitoriale? Viene da pensarlo barone di Münchhausen di
borgata. Che, nelle pause degli amori inconditi (“Petrolio”), si issa sul
Palazzo a denunziare nefandezze. Quelle degli altri. Se non che non è un
goliarda, lui negli anni veramente bui faceva la spia, dopo aver giocato al
pallone. Sarà il profeta dell’Italia degli imbroglioni e violenti nel nome
della verità, gli sbirri elevati a giudici. Tutti Procuratori della Legge quale
lui si vuole, gli occupanti del Palazzo che non si possono sfrattare. Avendolo
occupato in forma e a titolo di contestazione. Magari senza furbizia, perché
no.
Rommel – È
opinione di Borges che gli inglesi in guerra hanno bisogno di un eroe tra i
nemici. Napoleone, il più grande nemico dell’Inghilterra, ebbe ammiratori
incondizionati oltre Manica. William Blake si dispiacque moltissimo di
Warterloo. Anche Hitler, ma non si può dire. Nella prima guerra mondiale gli
inglesi elessero a eroe il capitano di Emden. Nella seconda Rommel. E lo misero
a braccetto con Montgomery – che certo non sfigura accanto a Eisenhower,
bisogna pur convenire.
letterautore@antiit.eu
Exor si farà carico di Juventus Fc Spa, o il
club diventerà una public company, come avrebbe dovuto essere quindici anni fa
– ma Giraudo e Moggi, che avevano preso il progetto di Umberto Agnelli su
serio, furono presto dismessi e anzi condannati? Passando da Fca a Stellantis,
il club calcistico non ha avrà più la copertura della casa automobilistica.
Tanto più che un ennesimo aumento di capitale è alle porte.
Decisioni radicali sono attese a breve sugli
assetti del club. Sull’organizaazione interna, essedo il consiglio e gli
incarichi gestionali in scadenza. E sugli assetti finanziari, per il crollo
delle entrate, in parte prevedibile, a causa del covid, ma accresciuto dal fallimento
degli obiettivi sportivi, e per la crescita “in automatico” del debito, evidentemente a condizioni non favorevoli.
La fuoriuscita dalla Champions League e il ritardo
in Serie A, con i mancati introiti conseguenti e un indebolimento inevitabile delle
sponsorizzazioni, s’innestano su una
semestrale, al 31 dicembre 2020, di forte sofferenza. Ricavi ridotti del 20 per
cento, a 258 milioni, rispetto all’analogo bilancio 2019. Perdita più che
raddoppiata, a 113 milioni. E un patrimonio dimezzato, da 239 milioni a 125. Con un debito
cresciuto a 357 milioni, dai 310 milioni di un anno prima. Malgrado il prestito
straordinario da 175 milioni lanciato a febbraio 2019, e l’aumento di capitale
da 300 milioni nel corso dell’esercizio 2019-2020.
Il dimezzamento del patrimonio netto, malgrado
queste due iniezioni straordinarie di liquidità, impone ristrutturazioni
radicali.
“Ero in totale soggezione”. Al
primo incontro odi et amo: “Col
tempo”, pochi giorni, “avrebbe cominciato a piacermi”, subito “poi, nel giro di
pochi giorni, avrei imparato a odiarlo”. Ma l’attrazione è stata immediata: è
“proprio lui, la cui fotografia sul modulo di richiesta, mesi prima, mi era
balzata agli occhi con la promessa di istantanee affinità”.
Tutto è detto alla prima pagina. Un
richiamo non di sentimenti ma fisico. Il sex
appeal è istantaneo: “«Dopo!», la parola, la voce, il modo” alla prima
riga, e subito poi, abbassando lo sguardo, “camicia celeste svolazzante aperta
sul davanti, occhiali da sole, cappello di paglia, pelle ovunque”. Guadagnino,
nel film che ne ha tratto, è ambiguo, Aciman esplicito, vuole provare un pornosoft . Molto soft. Françoise Sagan (chi era costei?) riscritta nel Duemila, in
chiave gay. Setting compreso, intellettuale
borghese: “Per aiutare i giovani letterati a rivedere il loro manoscritto prima
della pubblicazione i miei genitori li ospitavano durante l’estate”, in
Riviera.
Una seduzione non innocente. Non
da parte del sedotto, un ragazzo: il diciassettenne non ha alcuna riserva, come
è ovvio che sia in amore, è lui semmai che stenta a innamorarsi. Un sogno, un
trionfo: al tempo dei processi per pedofilia, un inno all’amore pederastico, un
invito. Il desiderio fa la differenza, non la cosa, il desiderio del sedotto.
In un gioco di scambi fra seduttore e sedotto.
Sarà questo che fa l’unanimità dei
consensi di chi l’ha letto, il 97 per cento dice wikipedia. Di vasta lettura
perdurante, dopo una quindicina d’anni. Altrimenti acqua fresca.
Un po’ è “Teorema”, l’irruzione
dell’estraneo, l’arcangelo, l’arcangelo del sesso?, che sconvolge la consuetudine
familiare, raccontata meglio di quanto Pasolini ha provato a filmare. Nella
gioia cioè, non nella devastazione. Ma è troppo dire, Aciman corre senza pieghe:
senza traumi e senza apocalissi, né di dannazione né palingenetiche.
Curiosamente, il racconto
sa di déja vu. Solo al femminile invece
che al maschile. E a parti rovesciate, di una adolescente che brama un contatto,
anche solo visivo, con la direttrice della scuola, che ne domina ogni impulso. Un
racconto pubblicato una cinquantina d’anni fa nel genere erotico (ma tradotto
da Fruttero?), “Olivia”, by “Olivia”, di autore cioè ignoto, ma femminile (poi elucidato
in Dorothy Strachey).
Il titolo è mediato da Toni Morrison,
“Beloved”, amatissima-o, maestra di scrittura di Aciman a Harvard: “Chiamami
col mio nome”, sottinteso “beloved”.
André Aciman. Chiamami col tuo nome, Guanda, pp. 280
€ 12
Marieke Lucas
Rijneveld, giovane e già apprezzata scrittrice, vincitrice a 26 anni del Man Booker
International Prize, il maggior premio britannico, ma bionda, incaricata
dall’editrice olandese Meulenhoff di tradurre la poesia di Amanda Gorman, la giovanissima
modella laureata a Harvard, all’insediamento di Biden, “The Hill We
Climb”, è stata ripudiata: la stellina nera non può essere tradotta da una
bianca.
Ripudiato pure il traduttore in catalano Victor Obiols, poeta e musicista di Barcellona. Traduttore in catalano di
Shakespeare e di Oscar Wilde.
La traduttrice
olandese è stata rifiutata dal proprio editore, su richiesta dell’agente di
Amanda. Il traduttore catalano è stato rifiutato dall’editore americano di
Amanda, Viking Books.
Rijneveld, che
si dichiara di identità sessuale “non-binaria”, cioè non definita, parlando di
se stessa come “loro”, ha subito fatto ammenda, dedicando all’amata Amanda su
Instagram un instant-poem, “Alles
bewoonbaar”, tutto inabitabile, una poesia molto lunga, in contemporanea con “The
Guardian”, “De Volkskrant”, “Standaard” di Liegi, la “Frankfurter Allgemeine
Zeitung”. Del tipo: non son degna di te.
Si è ripubblicato il libro
fortunato di Abbate in prossimità dell’8 marzo, con visi accattivanti in
copertina, ed ha fatto la fortuna dei giornalai. Il che è una buona cosa,
ottima. Ma la rilettura dieci anni dopo delude invece di entusiasmare, pone
problemi invece di risolverli.
Il sottotitolo è “come le donne salveranno
il Paese dalla ‘ndrangheta”. Il racconto è diverso. È di donne, di donne di mafia,
innamorate, variamente innamorate. “Vivere, amare, morire ai tempi della
‘ndrangheta”, come recita uno dei capitoletti. Storie di donne che hanno “una
storia”, anche più di una, benché donne di mafia, figlie, mogli, tenute per
questo suppostamente alla fedeltà coniugale a qualsiasi costo, benché
trascurate e anche se maltrattate. Donne sposate giovanissime, che fanno due e
tre bambini, e a 24 anni s’innamorano, di solito quando il marito è in carcere
– anche via internet. Donne eroine, alcune, comunque vittime, e donne cattivissime
altre, vedove e madri.
Storie personali. Anche
avvincenti, benché di persone ordinarie, ma incongrue. Non buone per analisi stereotipe,
quali qui e là Abbate azzarda, di società patriarcali e delitti d’onore. “Tra i
comuni di Filadelfia, Curinga, Francavilla e Pizzo Calabro sono sparite negli ultimi
anni oltre quaranta persone”, alcune probabilmente “a causa della loro relazione
con una donna, sempre la stessa”. Sicuro? Donne sposate a 16 anni, dopo una o due
“fuitine”, “anche contro la volontà delle famiglie”. È possibile, che mafie
sono?
Il sottotitolo è giusto (a San
Luca, per esempio, è successo, dopo Duisburg), comunque beneaugurante. Ma, aprendo
il libro, per un motivo triste: non ci salveranno i Carabinieri, non i giudici
– non l’apparato repressivo né la giustizia. Abbate scopre le pentite di ‘ndrangheta,
o meglio del clan Pesce-Bellocco di Rosarno, per essere stato richiamato in
Calabria dall’assassinio di un amato cugino. Che, scopre, i Carabinieri non
indagano. Mentre la Procura dà la colpa al morto. Non solo i Carabinieri
locali, anche il capitano dei Carabinieri non ritiene l’assassinio meritevole
di indagini. Portando Abbate a concludere alla terza pagina: “In molte zone della
Calabria, purtroppo, l’amministrazione della giustizia non sempre risponde ai
principi di efficienza e equità che lo Stato dovrebbe salvaguardare”. Che è il
problema della Calabria, senza dubbio.
Il Grande Mafioso di Rosarno, subito
poi Abbate scopre, un fanfarone, specialista in “fuitine” con ragazze puberi, è
un informatore dei Carabinieri: ogni tanto fa arrestare qualcuno, anche suoi parenti,
per affermare il suo potere. Ma il pregiudizio fa aggio. E il cronista
palermitano, assiduo indagatore della mafia, si prospetta “una Calabria molto
più crudele di quanto possiamo immaginare” - così strilla in copertina La
Licata, altro palermitano cronista dei misfatti mafiosi. Al confronto, conclude
Abbate, a Palermo tutto è cambiato: “La società civile si è ribellata, sollevando
un coro di voci indignate e schierandosi apertamente contro il potere di Cosa
Nostra”. Non come in Calabria, intende dire. Mentre racconta commosso dei
concorsi “Impegno scuola legalità” al liceo Piria di Rosarno.
A Palermo è tutto cambiato? È stato
abbattuto Totò Rina, la sua mafia sanguinaria. Palermo era civile anche prima –
la società è civile, per definizione. Solo nessuno la proteggeva.
Giusy Pesce, su cui soprattutto è centrata
la narrazione, è figlia e moglie maltrattata, benché suo padre sia un boss, si
annoia, s’innamora, è arrestata, tenta il suicidio, infine “si pente”, collabora
con la giudice Cerreti, poi si pente di essersi pentita. Sono storie personali più
che emblematiche. La moglie di Francesco Pesce, il più “terribile” della
famiglia, sposata in una delle tante “fuitine” con cui il boss andava a donne,
lo lascia dopo un anno, con matrimonio perfino annullato dalla Sacra Rota, e
non succede niente. Ma il tema ossessivo della narrazione è il delitto d’onore: il padre, lo zio o il fratello che sfregia o uccide la fedifraga. Una Calabria
immaginaria, oltre che poco appetibile.
Ma anche le tragedie di queste
donne Abbate subito dimentica, ingabbiato nell’oleografia, della Calabria di
maniera. Le famiglie Pesce e Bellocco sono la Calabria. E sono ricche e potenti
anche se la matriarca vive in una baracca. Rosarno, cittadina che ha sempre
votato a sinistra, è mafiosa: “In tutta Palermo non ci sono tanti affiliati (di mafia) quanti a Rosarno”. Possibile? Un buon reportage di un giornalista che finalmente è andato di persona a Rosarno sarebbe stato di spiegare che la rivolta
degli africani accampati nella campagna per la raccolta degli agrumi si è avuta
a Rosarno, invece che in un altro dei tanti analoghi campi di tutta Italia, perché
a Rosarno c’è sempre tato un forte sindacalismo bracciantile.
Oppure, attorno a Giusy Pesce,
delineare il contorno visibile invece di quello di questura, della “pentita” di
mafia. Il conto di Giusy Pesce è semplice - in questo ben calabrese, matter-of-fact: la mafia non paga. In
carcere ci arriva presto. Il figlio può vedere destinato al carcere, o con la
pistola in mano. Le due figlie sposate adolescenti a uomini di ‘ndrangheta - il
suo stesso destino: angariate e senza gioia.
Si dice delle mafie che si
riproducono per discendenza, come nelle famiglie reali. Ma non è vero, in nessuna
mafia. Solo in Calabria, e solo con la Repubblica. Con la seconda parte della
Repubblica, quando si è potuto, tuttora si può, essere famiglie mafiose per due
e anche tre generazioni. In Calabria i mafiosi ereditano, non c’è l’analogo
altrove. I Carabinieri tengono le statistiche, le illustrano anche, in alberi
genealogici dettagliati e precisi. Che sembra garantismo, ma è uno strano, per
così dire, modo di gestire la giustizia. Anche se la repressione sarebbe
facile. Le donne ribelli di mafia, in questo il libro è chiaro, tutte giovani e
giovanissime, ancora immuni al prudente “calcolo” della giustizia italiana, lo
sanno: che vita è questa?
Lirio Abbate, Fimmini ribelli, la Repubblica-L’Espresso,
pp. 207 € 9,90
La
Statale di Milano, dopo l’università di Salerno, reintroduce un corso di Latino
per la laurea in Scienze Storiche e Beni culturali. Cioè, si poteva insegnare
storia nei licei e dirigere un museo senza sapere il latino.
Ciò
per effetto della “riforma Gelmini”. Ma riforma è una brutta parola?
Due
fratelli in lite per l’eredita di un appartamento ad Agropoli, racconta “Il
Mattino”, a questo punto i loro discendenti, attendono una sentenza dal 1966 –
una prima sentenza, di primo grado.
La
cosa si sa perché la giudice di Vallo della Lucania che deve pronunciarsi lo ha
spiegato in margine ad altro processo: “La causa non può essere assunta in
decisione”, si è difesa, “atteso che sul ruolo assegnato alla sottoscritta
pendono oltre 1.700 procedimenti, il primo dei quali risalente al 1966”.
Millesettecento.
L’Ema,
l’agenzia europea del farmaco, se la prende comoda sul covid. Arriva ad
analizzare i vaccini in media dopo un mese dall’approvazione della Fda, l’analoga
agenzia americana, e dell’agenzia del farmaco inglese. Nel caso del vaccino
russo si prende qualche mese di più. Non sembra possibile, ed invece è così. Solo su Astrazeneca Ema ha anticipato la Fda, che si astiene.
Il
vaccino russo Sputnik sarà prodotto anche in Italia, da un’azienda di Monza. Per
l’esportazione. Per l’Italia naturalmente in dipendenza dall’autorizzazione dell’Ema,
ma intanto l’impianto si appresta. Su iniziativa dell’ambasciatore a Mosca
Terracciano – lo stesso che da un anno informa periodicamente gli italiani in
Russia con apposita newsletter dell’andamento
della pandemia, della possibilità di vaccinarsi, delle aperture e chiusure della scuola “Calvino”,
degli eventi culturali da remoto, e dei
controlli pubblici a mano a mano che vengono variati. Volendo lavorare ancora
si può – “aspettiamo Bruxelles” è la scusa per l’ignavia.
Un
nuova forma di aggressione a mezzo stampa: si pubblica un’accusa di giudici
anonimi sul sito del giornale, nella fattispecie contro Giorgia Meloni, senza
sentire la parte offesa. Poi, per evitare querele dopo che il danno è fatto,
sul giornale a stampa la mattina successiva si ripubblica la stessa storia con
la risposta della parte offesa. Ingegnoso, il nuovo giornalismo del nuovo
direttore Molinari.
Per
la prima volta la versione dei fatti sull’assassinio del brigadiere Cerciello
da parte di due americani per droga si può leggere non pregiudizialmente a
favore dei due assassini. Dovendo fare il resoconto della requisitoria del
pubblico ministero al processo. Che documenta quello che è avvenuto, ma che mai
– mai – è stato pubblicato dalle cronache romane, dal “Messagero”, da
Repubblica”, dal “Corriere della sera”. Circostanze, fatti, personaggi mai
registrati prima dai cronisti di nera. Informazione?
Fa
senso nella tanto vantata, e perigliosa, gita del papa in Iraq, vederlo i
visita da un ayatollah accigliato, con l’aria di dire ecco lo scocciatore. Al
Sistani non conta nulla, non ha mai contato politicamente, benché guida
spirituale degli sciiti – gli sciiti iracheni ormai sono diretti da Teheran. E
tuttavia: l’islam non è tarallucci e vino.
In
chiave “morettiana” - “mi si nota di più se…” - Zingaretti ha rubato la scena a
Draghi, come ipotizzato dal suo marionettista Bettini? O gli ha fatto un favore
– quando il Pd avrà un nuovo segretario, che rivoluzione, Draghi avrà accumulato
un bel po’ di fieno in cascina?
La
Nuova Zelanda, l’Inghilterra degli antipodi e altrettanto sportiva, fedele alla
Regina nel Commonwealth, non vuole perdere. Dovendo sfidare una barca italiana
per l’America’s Cup, ha rifiutato ogni contatto con i concorrenti, che pure l’hanno
molto aiutata nelle precedenti competizioni, lamenta Bertelli, il ceo di
Prada – il quale l’ha pure finanziata.
La
Nuova Zelanda vincerà - non può non vincere, altrimenti si suicidano. E naturalmente
è molto sportiva, ha il monopolio della sportività.
Un capolavoro di immagini, coloratissime, emzionanti. In
“piani” per risparmiare, americano, medio, primo e anche primissimo, ma una
goduria per l’occhio, un fuoco d’artificio. Su una sceneggiatura
veloce. Forme perfettamente calzanti al contesto, della creatività febbrile, e
determinata.
Nejma, una ragazza col viso
adolescente della trentenne Lyna Khoudry, studia moda in un college femminile a
Algeri, mentre crea suoi modelli, e li vende la notte nel bagno in discoteca,
evadendo dal campus. L’integralismo mussulmano è aggressivo, la propria sorella
di “Papicha” ne è vittima, sparata a freddo, ma Nejma non si arrende: non
emigrerà, pur avendone la possibilità, come tutti che vanno in Francia, e non
ha paura dei barbuti e le velate.
Un capolavoro anche politico. La
moda è femminile, “Papicha” è quindi un racconto di donne, ma dà corpo
finalmente alla donna nel mondo mussulmano. Che non è marginale, come si pensa
per pigrizia, che sciocchezza, soprattutto nel Nord Africa - o arretrata, quando
tutto va oggi all’unisono nel mondo, lacche e rossetti compresi. Ed è in primo
piano nell’islamismo aggressivo. Non da ora, sono state all’origine della a partire
dalla deriva feroce impressa alla “rivoluzione dei fiori” iraniana del 1978:
masse sterminate di donne in nero sono state all’avanguardia del khomeinismo già
nel 1979, e del suo imbarbarimento, a partire dall’assalto all’ambasciata americana
a Teheran. Le velate sono state perfino più aggressive in Algeria, non evitando
il contatto fisico, padrone di coltelli e kalashnikov.
Una realtà raccapricciante, che
Meddour sa raccontare senza enfasi, non di più ma non di meno di come è, fredda
e squallida – non c’è sentimento (trasporto, compassione, elevazione) nella
furia islamica, solo furia. Il fascino delle immagini è forse nel tema recondito
del film: la bruttezza non può uccidere i sogni, per quanto violenta.
Un film anche di distinta
connotazione algerina, benché non indulga in immagini da cartolina. Rapido,
sapido, di una mentalità e un linguaggio più volentieri autocritici e quindi
disfattisti. Ma non convinti: sardonici piuttosto. E robusti, benché in fuga,
di preferenza in Francia: non apocalittici e non rassegnati, fattivi. L’Algeria
aveva il capitale umano, le risorse finanziarie (gli idrocarburi, petrolio e
gas), e gli sponsor giusti, Francia, Italia, Stati Uniti, per diventare un paese
sviluppato rapidamente dopo la rivoluzione del 1954-62, ha già sprecato due o tre generazioni, tra
dirigismo sovietico e fondamentalismo islamico, con la corruzione endemica, ma
pensa sempre positivo.
Mounia Meddour Gens, Non conosci Papicha, Sky Cinema
spock
Perché la circolazione si riduce e il
premio Rca aumenta?
Perché gli affari truffaldini, anche nella pandemia, si concentrano in Cina?
Siamo tutti verdi, con macchine elettriche
e piste ciclabili, ma perché non si puliscono i marciapiedi?
Lasciamo moltiplicarsi le ortiche per impegno ecologico?
E le cacche?
Perché
i numeri verdi non rispondono – sono l’ultimo passo del mercato, arrangiatevi?
spock@antiit.eu
Quella contro il Porto non è per la Juventus
solo una partita persa, è una voragine finanziaria. Che mette a rischio le
gestione del club, a meno di una ricapitalizzazione – sarebbe la seconda in due anni.
Il club esce dalla Champions con soli 30
milioni, invece dei 120-150 programmati arrivando alla finale. Per il secondo
anno consecutivo. Con un investimento elevatissimo a questo fine: il solo monte
ingaggi è di 236 milioni. Gli sponsor e il merchandising non coprono più della metà
della differenza.
L’uscita anticipata dalla Champions per il
secondo anno consecutivo indebolisce anche il “ranking storico”, una delle
quattro tipologie dei premi Uefa-Champions League. In base al ranking vengono
distribuiti ben 1,1 miliardi fra i 36 partecipanti al torneo - i club sono remunerati
per la partecipazione, a prescindere dai risultati, in base al prestigio
storico accumulato nella competizione.
I debiti risultano a 327 milioni nella
semestrale 2020-2021 a fine dicembre, malgrado l’aumento di capitale da 300
miliardi sottoscritto da Exor e dai fondi che fanno capo ad Alberto Agnelli un
anno prima. Il bilancio 2019-20 si era chiuso in rosso per 71,4 milioni. La semestrale
2010-2021dà una perdita di 114 milioni (50 milioni un anno prima).
Il rischio finanziario è accresciuto dall’ipotesi
che il club, dopo nove vittorie consecutive nella serie A, quest’anno
non si classifichi tra i primi quattro, posizione che dà diritto alla
partecipazione alla Champions. Nella pandemia più che mai la partecipazione alla
Champions è il solo grande cespite finanziario, ben più dei diritti tv.
Una splendida cattiva azione, mediatica. E un brutto risveglio per i Brexiter,
che si immaginavano al comando del mondo a fianco degli Stati Uniti: da Los
Angeles è arrivato un brutto montante, anzi una serie di ganci, da destra e da
sinistra, che li rimettono al loro posto. Una serie di petardi, insidiosi, una mina, una serie di mine, sotto il regno, il fattore principale, se non unico, di unione. Una cannonata, la prima, di aggiustamento, per un salve, una serie di salve, contro il consenso nazionale in Gran Bretagna. Programmato per la vigilia della festa del Comonwealth, il resto dell’impero.
L’America è un parente ingombrante e un po’ manesco. Anche nelle vesti di due gentili
signore – a loro si devono i ganci in serie, con l’occhio vispo.
Si esce da due ore di intervista con
un’immagine deprimente dei britannici, stretti attorno a un’istituzione
razzista, cinica, spilorcia, anche violenta. Oprah Winfrey, con una scaletta e
un montaggio sapienti, nei tempi, le espressioni, ha toccato tutti i tasti
infamanti per i poveri britannici. Con l’aria di dire sono stata buona, l’aspetto
inalterabilmente ingenuo nelle lunghe ore. L’America era e resta temibile – la democrazia
italiana, per esempio, l’ha sempre saputo, l’America First non l’ha inventato
Trump, che sciocchezza. Anche perché non si può dire. Oprah Winfrey ha potuto
aprire la sua promozionatissima intervista dicendo che la duchessa non era
stata pagata, mentre è stata pagata sei milioni. Obiezioni? Io e il mio dio.
Sul merito delle accuse non resta
molto, a parte la prima sorpresa. Meghan è spregiudicata ma attrice da poco,
del tipo “Beautiful”: diretta da Winfrey rende, ma poi? Lui si sa che ha
problemi. Il razzismo ha semmai giocato al rovescio: Meghan, che non aveva nessuna
dote, neanche da ragazza da letto, donna di troppe esperienze per un principe
vergine, è stata accettata con entusiasmo proprio perché colorata. Né vessata,
come dice, perché in qualche modo tirava fuori dai problemi il principe. Mezz’ora
di denunce sulla scorta negata, al figlio Archie e allo stesso principe, sono l’unica
parte debole dell’intervista: Meghan è uscita da questi suoi due “anni d’inferno”
a corte ricchissima, e piena di contratti milionari. In una residenza hollywoodiana
che non si stanca di promuovere, che tutti sappiano che bella casa ha: niente ha più successo del successo era ed è la
morale negli Usa.
Ma non si può dire, come andrà a
finire. La regina ha spiegato diligente il nocciolo della questione – Harry – nel suo comunicato, con la mano sempre tesa al debole principe: “Tutta
la famiglia è rattristata di apprendere nella sua gravità quanto gli ultimi
anni siano stati impegnativi per Harry e Meghan. Le questioni sollevate, in particolare
quelle sulla razza, sono preoccupanti. Anche se i ricordi possono variare, esse
sono prese molto seriamente e saranno analizzate dalla famiglia in privato.
Harry, Meghan e Archie saranno sempre membri molto amati della famiglia”. La
scelta di andarsene è un fatto privato e personale, intende dire la regina. Ma avrà
molto da fare per tenerla in questi limiti. Meghan, se non è una grande attrice,
ha l’occhio furbo – come gli brillava quando raccontava delle vessazioni, del
suicidio, della mancata protezione, del ridicolo inchino alla regina: non è
personaggio di Henry James, l’americana innocente nella torbida Europa (ma c’è
mai stata, l’americana innocente a caccia di principi, nella torbida Europa, l’innocente
americano?).
Oprah Winfrey, Intervista con Meghan Markle e il principe
Harry, Cbs-Tv8
zeulig
Anima
– Quella dell’universo è come un grande albero, in
Plotino, “Enneadi”, IV, 3,4: “L’anima dell’universo assomiglia all’anima di un
grande albero che, senza fatica e senza rumore, governa la pianta”.
Auschwitz – Il silenzio di
Dio Camus l’aveva sentito nel 1944, nel “Malinteso”. Si vede ch’era nell’aria,
non si può darne colpa ai tedeschi.
Filosofia – Non è sinonimo
di saggezza. Rousseau condannava anche i libri, da scrittore di libri, in grande
formato. Locke condanna la poesia e la musica. Platone la scrittura, lui che
scrisse più di chiunque altro – prima di Heidegger.
La vuole incerta, madre e figlia d’incertezza, il filosofo Plotino:
“Soltanto quaggiù ha luogo la riflessione, quando cioè l’anima cade nella perplessità
ed è piena di ansie o in stato di maggior debolezza”.
O anche: “La saggezza è propria di chi desiste dal riflettere”.
“Non c’è niente di così assurdo che non
sia stato detto da qualche filosofo”, è pensiero di Cicerone, che molto soffrì
di non esserne uno. Ma limitando il campo dell’assurdo – oltre che della filosofia.
“La filosofia nasce nel momento in cui alcuni uomini si rendono conto di non potersi più sentire parte di un popolo”, è un passaggio breve, ordinario, dell’anamnesi che Agamben fa de “La follia di Hölderlin”: “La filosofia è innanzi tutto questo esilio di un uomo fra gli uomini, questo essere straniero nella città in cui il filosofo si trova a vivere e nella quale, tuttavia, continua a dimorare, ostinatamente apostrofando un popolo assente”.
Il filosofo come profeta, nella tebaide? Non propriamente. Agamben fa l’esempio di Socrate: “La figura di Socrate porta all’espressione questo paradosso della condizione filosofica; egli è diventato così estraneo al suo popolo, che questo lo condanna a morte; ma, accettando la condanna, egli aderisce ancora al suo popolo”.
E dopo Socrate? E prima?
La stessa condizione del suo filosofo Agamben vuole del poeta: “Un popolo come quello a cui i poeti credevano di potersi rivolgere non esiste o è diventato qualcosa di estraneo o di ostile”. Un caso? Nel caso di Hölderlin Agamben rileva sintonie avvertite, e durevoli, di persone del popolo, il falegname Ernst Zimmer che lo accudiva, gli studenti a pensione da Zimmer, gli studenti di Tubinga.
Fine – È sempre un principio,
di qualcos’altro? La morte come seme. Delle metempsicosi. Della chimica – nulla si crea nulla si distrugge,
tutto si trasforma.
Adorno, “scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”, è
anticipato da Hölderlin, in forma di domanda, ma un secolo e mezzo prima: “Che ce ne facciamo dei poeti (wozu
Dichter) nel tempo del bisogno?”. È verso di Hölderlin nell’elegia “Pane e
vino”. Che Heidegger legge come poesie della fine della poesia, dopo la fine di
Dio. Di un poeta che continuò a poetare anche nella follia, lunga più della sua
vita attiva.
Gratitudine – Il
sentimento meno indagato, ma non così scontato come appare. Hoelderlin la dice una virtù. Ma è sempre come voleva Tacito: “I benefici ci sono graditi finché crediamo di poterli
contraccambiare, ma se superano questa capacità, la riconoscenza si tramuta in
odio” – “Annali”, IV, 18
Molteplicità – È tensione, vocazione, più forte della personalità? È il mito di
Prometeo, moltiplicarsi. Il romanziere Roman Gary, che l’ha praticata (ma molti
altri casi si registrano in letteratura,
precipuo quello di Pessoa, che si era costruite almeno quattro personalità
distinte, o di Platone in veste di Socrate) la dice “La più antica
tentazione proteica dell’uomo, quella della molteplicità”. Nel mentre che montava
l’impostura del suo alter ego “Émile
Ajar” e ne farà anche il protagonista del capolavoro di “Ajar”, “La vita
davanti a sé”. Dove inventa-racconta-romanza una sorta di doppio, Momo, che figura
giovane arabo privato dei genitori all’età di quattordici anni, è costretto a
inventarsi un’altra vita.
Natura
- “Tutto questo mondo visibile non è che un
impercettibile segmento dell’ampio cerchio della natura…Nessuna idea le si avvicina.
Abbiamo voglia di gonfiare le nostre immaginazioni al di là degli spazi
immaginabili; non riusciamo che a generare atomi, in paragone alla realtà delle
cose”. Il mondo “è una sfera il cui centro è dappertutto, la circonferenza in
nessun luogo”. La nostra ragione è poca: “Se la nostra vista si ferma lì,
l’immaginazione deve procedere oltre; e
si stancherà prima lei d’immaginare che la vita di darle esca”. È parte del pensiero
di Pascal n. 72, “Sproporzione dell’uomo”. L’uomo è incapace di verità, ma lo
sa; è il piccolo-grande uomo di Pascal. Nell’infinitamente grande come
nell’infinitamente piccolo.
Storia - “L’io non
soggiorna più nella storia, è la storia, oggi, a soggiornare nell’io”, riflette
Ingeborg Bachmann, poetessa, narratrice. Nel suo senso è vero, dell’io che
scrive il romanzo del secondo Novecento.
Uomo
della Provvidenza – Prima che fascista, è romantico: il mito dell’io,
dell’individuo. Edgar Wallace, il giallista, al debutto nel 1906, con “I
quattro giusti”, venendo da una stagione di anarchia, così spiega il terrorismo
politico – i “giusti” fanno giustizia dell’ingiustizia: “È una concezione
romantica, e dal punto di vista dei Quattro assolutamente logica. Pensate
all’enorme potere di cui, nel bene e nel male, è spesso investito un solo uomo:
un capitalista che controlla il mercato mondiale, uno speculatore che accaparra
cotone o grano mentre la gente muore di fame e i mulini restano inoperosi,
despoti e tiranni che tengono fra l’indice e il pollice il destino delle
nazioni”.
Un solo uomo s’investe allora del potere di
uccidere, sterminare, “uomini che si arrogano il diritto divino del supremo
giudizio”: “Vaghe, evanescenti figure che si avvicendano sulla scena del mondo
a condannare e a giustiziare”. Non per interesse: “Con quel tanto di misticismo
che sempre accompagna i nostri sentimenti, noi diciamo che sarà Dio a giudicarli”.
zeulig@antiit.eu
Per sei
milioni di dollari la duchessa di Kent ex attricetta di terzo livello Meghan Markle, e dice che la regina
Elisabetta, regina del Commonwealth tricontinentale, è razzista.
La denuncia,
lungamente provata, strappa un sorpresissimo urlo alla conduttrice del programma-intervista Oprah Winfrey: “Che cosaaaa?”
Meno
convincenti le banderillas della duchessa contro la cognata Kate. La
futura regina essendo una signora, e intelligente oltre che bella, la
conduttrice ha tagliato corto.
Cioè, la
duchessa di Kent non ha detto che razzista è la regina Elisabetta, ma qualcuno
nella famiglia reale. Cioè tutti: la caccia può iniziare, lunga mesi, anni.
Il primo
indiziato di razzismo è il principe Carlo, erede al trono, suocero della
duchessa. Che aveva accompagnato la duchessa all’altare per il matrimonio in
cattedrale, in sostituzione del padre, che si era già venduto le foto del “padre della
duchessa” – ma per sole 100 mila sterline.
L’urlo di dolore
della duchessa di Kent ha suscitato raccapriccio nella comunità nera americana,
a partire dalla nuova poetessa nazionale Amanda Gorman: “Meghan ispirerà le donne”. E nel
promotore di Amanda, il presidente Biden: “La duchessa ha mostrato coraggio”, ha detto attraverso la sua portavoce rossa, Jen Psaki - rossa di capelli. Non bisogna
dare l’America per morta.
Il duca di
Kent Harry è stato lasciato in disparte nell’intervista, anche se fa parte della
ditta – ha sempre avuto problemi, una volta si è vestito e fatto fotografare da
camicia bruna nazista e non lo sapeva.
Un commissario Montalbano, messo
in scena dallo stesso Montalbano, al secolo Luca Zingaretti, da 8 marzo: la donna
gli si ribella. Nelle due forme, della compagna Livia da Genova e della fiamma
locale di cui s’incapriccia. Una dura scoperta per il maschilista o fascistone,
anche generazionale – come Camilleri spiega a Mollica in una vecchia intervista
sul “Metodo Catalanotti”: la giovane fiamma ci va a letto senza problemi, e con
piacere, ma il giorno dopo lo licenzia – oppure no, non sappiamo, la Rai deve
decidere se continuare Montalbano nuovo format oppure chiuderlo.
Un Montalbano strambato, si
direbbe, in chiave di Luna Rossa e Coppa America. Un altro: la foia per la
giovane collega lo allontana dall’inchiesta, complicata, quasi incomprensibile,
e anche da Vigata, giacché sembra disponibile al trasferimento. Una storia azzardata, lasciata cadere, o raccontata male.
Un Montalbano senza Sironi, e si
vede. Si direbbe senza Camilleri, ma lo scrittore non pesava sulla
sceneggiatura e sulla regia. Le caratterizzazioni sono sempre eccellenti, ma i
ritmi no, la sceneggiatura e le stesse scenografie. Non una buona premessa per
un’eventuale riedizione, di un Montalbano nelle trame d’amore.
Luca Zingaretti, Il metodo Catalanotti, Rai 1
Giuseppe Leuzzi
“Che
sia la mafia” se lo dice “la gente” (il giornale fa dire alla “gente”) a Londra
quando un ministro è minacciato dai “quattro giusti” del giallo di esordio di
Edgar Wallace, 1906. Se lo dice più volte. La mafia viene da lontano.
Tra
i “personaggi” di Maurizio Crozza c’è il presidente della Regione Veneto Zaia,
il più votato dagli italiani. Crozza fa precedere l’imitazione da una ripresa
dal vivo del personaggio che imiterà. Il curioso è che Zaia fa ridere più di
Crozza che fa Zaia.
“Siamo
una famiglia. E dobbiamo restare uniti perché non abbiamo nessun altro. Amici,
fidanzate, vicini, compaesani, lo Stato. Non sono che un’illusione e non
valgono un cazzo il giorno in cui ti ritrovi veramente nel bisogno”. È Jo
Nesbø, scrittore norvegese, che così avverte all’inizio del suo ultimo romanzo,
“Il fratello”, una faida tra
fratelli.
“La verità è che sono arrivato (a
studiare l’Inquisizione, n.d.r.) studiando la confessione, un rito o sacramento
di cui Lutero fu un difensore appassionato
e che Roma riuscì a far diventare un sistema di delazione diffusa e di
turpi intrecci sessuali”, Adriano Prosperi, “Robinson”, di sabato 6 marzo.
L’abuso della confessione, rito o
sacramento che fosse, era già diffuso al tempo in cui Lutero vi si appassionò.
In Spagna, e nell’Italia spagnola, a Napoli.
La memoria del
Sud
Ancora
Prosperi, ib.: “Il grande semiologo Jurij Lotman riteneva che l’intera storia
intellettuale dell’umanità si potesse considerare una lotta per la memoria. E
che la distruzione di una cultura si manifestasse come annientamento della
memoria e dei relativi testi che la sostengono. La distruzione del passato, su
cui richiamò l’attenzione anche Eric Hobsbawm , non è un esercizio di stile ma
la constatazione che siamo in presenza di una vera e propria malattia sociale”.
Una malattia o un’opera determinata di distruzione.
E
se la memoria fosse solo di disastri – occupazioni, vessazioni, delitti? La
memoria non è selettiva per niente – a nessun effetto. La storia potrebbe
essere un antidepressivo.
Fanfaneide (mancata) al Sud
La
serie di realizzazioni di Fanfani, che pure, nel complesso, ha governato
poco, quattro anni e sei mesi, e a capo di governi quasi tutti di brevissima
durata, è sorprendente, nell’Italia delle burocrazie. Questo sito ne ha
tentato alcuni elenchi:
http://www.antiit.com/2015/01/il-mondo-come-201.html
È
praticamente tutto quello che si è fatto nell’Italia repubblicana. Fino al
centro-sinistra, il primo – prima che Moro se ne impadronisse. Del Sud, di cui
vantava qualche radice (la madre, Annita Leo, era di padre calabrese, impiegato
delle Poste, sposato con una veneziana), si occupò poco. Ma fulmineo, come in tutto.
Sgamò subito, in una visita in Calabria da presidente del consiglio, che l’Ente
Sila gli faceva vedere sempre le stesse vacche, infiocchettate, spostandole
lungo il suo itinerario. E promosse l’arresto
di tutti i latitanti dell’Aspromonte in soli tre messi, tre o quattrocento, col
questore energico Carmelo Marzano nell’estate del 1955. Come dire a tutti i ras
Dc che ereditava da segretario del partito: guai a voi - si capisce che i Dc
non lo soffrissero.
La mafia è “facile
da estirpare”
A
metà della parte terza del suo “Le parole sono pietre”, il reportage della mancata inchiesta giudiziaria e di polizia sull’assassinio
di Salvatore Carnevale, il sindacalista dei contadini, il 16 maggio 1955, Carlo
Levi fa suo un giudizio che è il sentiment
di chi in zone di mafia vive: il banditismo è “facile da estirpare”. Levi lo sa perché “se ne era ben accorto il
generale Branca, che aveva visto chiaro, e parlato chiaro nella sua relazione”.
Del
generale Branca non si trova traccia nei tanti, ormai, volumi di storia della
mafia (c’è più storia della mafia che di ogni altro evento o assetto del Sud), dei
termini e del senso della sua relazione. Ma non sono difficili da ipotizzare.
Anche ragionando a contrariis: perché
la mafia sarebbe imbattibile? Fuori da ogni ipotesi razziale, non ce n’è ragione.
Solo questa: che il delitto va combattuto, nelle zone di mafia allo stesso modo
come nelle zone non di mafia.
Basilicata
È
la regione meglio amministrata al Sud, sanità, viabilità, ambiente, con la
fabbrica di punta della Fiat-Jeep a Melfi, e per questo con poco è riuscita a
fare molto. Sembrava anche quella che si sarebbe tenuta meglio al riparo dalla
pandemia, e invece è spesso rossa, soggetta a troppi contagi. La buona volontà
non basta contro la natura.
Ha
il privilegio di avere sei deputati e sette senatori. Più del doppio dei senatori
in rapporto ai deputati, considerata la diversa consistenza delle due Camere, di 630
e 315 membri. In virtù di collegi elettorali tagliati non sulla popolazione ma su
antiche convenienze – di quando la regione, con Emilio Colombo, contava a Roma.
Si
possono dire i Lucani vittime del fascismo. Si chiamano infatti lucani, come si
sono sempre chiamati, da Strabone e Tito Livio in poi e anche prima - in Ennio?
Ma abitano la Basilicata, il nome attribuito alla regione dopo la guerra, perché
Lucania era una denominazione “fascista”, data alla regione nel 1934.
Era
“Lucania” un piroscafo sulle linee atlantiche di fine Ottocento-primo Novecento
– lo ricorda “I quattro giusti”, il giallo di Edgar Wallace, 1906. Un piroscafo,
dice wikipedia, che a fine Ottocento era il più grande del mondo, da 13 mila
tonnellate, della White Star Line – quella del “Titanic”. Del suo salone
lussuoso una foto è – era, prima della chisura per virus – visibile al Meyerside
Maritime Museum.
Un “nave transatlantico “Lucania” naviga su internet,
formato cartolina illustrata, in vendita su ebay, dei Fratelli Grimaldi
Armatori. Una società armatorale napoletana del secondo dopoguerra – i fratelli
Grimaldi erano i nipoti di Achille Lauro, l’armatore allora più importante in Europa,
figli della sorella Amelia.
Dall’abbandono
al full swing, dalle stalle alle
stelle, dei Sassi facendo diamanti, Matera è un caso d sviluppo tanto miracoloso – rapido, inventivo, radicale – da apparire normale. Anche perché è uno sviluppo di idee e non di capitale - o di capitale allora umano. E lo sforzo, organizzativo, politico, promozionale, pubblicitario, deve
nasconderlo, la bellezza si vuole di pura grazia.
Immortalata
dalla Rai come luogo vivace di donne intraprendenti, la Imma Tataranni di
Vanessa Scalera e Mariolina Venezia. Dopo essere stata teatro di ritorni,
visioni, magie, nel paranormale alla “Twin Peaks” di Ivan Cotroneo con Anna
Valle. Un debutto tv folgorante.
Alla Sanità Speranza, all’Interno il
prefetto Lamorgese, i Vaccini il generale Figliuolo, tre potentini al controllo
della pandemia. Potere a Potenza è facile slogan, ma la congiunzione è ben
straordinaria.
Terra
di malie, tormenti, inquietudini. Mentre è pulita e lineare, nel paesaggio come
nel linguaggio – le attitudini, la mimica. Una regione si direbbe bianca.
Terreno privilegiato o vittima di Ernesto De Martino, l’antropologo delle forme
magiche.
leuzzi@antiit.eu
“A differenza di un orso o di un
serpente, una volta morto un negro non lo si poteva scuoiare per ricavarne
qualcosa e il suo corpo non valeva neppure un soldo bucato”. Era la sola ragione
per tenerli vivi: i cacciatori di schiavi fuggiaschi rifuggivano dall’accopparli,
che sarebbe stato al loro modo di vedere più semplice. Raccontata, rappresentata,
per briciole ma in evidenza raccapricciante, la vita degli schiavi, anche dopo
liberati, in America, non molti anni fa – e, in un breve pienissimo inciso a p.158,
anche quella dei Cherokee, degli indiani d’America: una storia di sterminio che
si trascura ma che è ben parte degli Stati Uniti. Per sapere cosa succede,
anche per apprezzare che una democrazia sia uscita da tanto obbrobrio – nessun risentimento
nella narratrice, giusto le stranezze dei bianchi, dei razzisti e degli
antirazzisti..
Sethe, la schiava fuggitiva, vive
a 37 anni libera in Ohio con una figlia di 18, Denver – cui ha dato il nome della
ragazza bianca, Amy Denver, a suo modo anch’essa fuggitiva, che l’ha aiutata a
partorirla. “Beloved”, amatissima, è la
figlia di due anni che la schiava Margaret Garner, “Sethe”, in fuga, ripresa,
ha scannato col coltello perché non ritornasse schiava. Ma presto Beloved ritorna.
A ridosso dell’apparizione di vecchi compagni di schiavitù, memori della
bellezza della madre, a suo tempo attrazione della Sweet Home, la casa dei vecchi
padroni Garner. Beloved riappare, compagna dapprima di giochi della sorellina
minore Denver, poi interlocutrice insistente, assorbente, della madre, il cui
rimosso riaffiora, tentazione e terrore di Paul D, il vecchio compagno di schiavitù
che ha eletto domicilio in casa Sethe. Così chiamata, era senza nome, al
seppellimento: allo scalpellino che gliene chiede il nome, offrendosi di inciderlo
sulla pietra in cambio di una sveltina, lì sull’erba, in presenza di un suo
proprio figliuolo, Sethe risponde “amatissima”. Ritorna, perché “chi muore di
morte violenta non rimane sottoterra, come il Cristo”.
Un lento, lungo, flahsback.
Attorno all’infanticidio un’epoca prende corpo, buia, fredda, insanguinata a
freddo. “Era il milleottocentosettantaquattro e i bianchi erano ancora
scatenati. Città intiere ripulite dalla presenza dei neri. Ottantasette
linciaggi in un anno, solo nel Kentucky, quattro scuole di colore distrutte dal
fuoco, adulti frustati come fossero bambini, bambini frustati come fossero
adulti, donne nere violentate dalle ciurme, furti di proprietà, colli spezzati”.
Una storia di violenza ordinaria, che si rimuove ma non remota, e non finita. Era
nel Kentucky Sweet Home, la proprietà gestita da un coppia di bianchi che riconoscevano
i negri, passata poi, alla morte di lui, al fratello maestro: non cattivo, ma
come tutti i bianchi, che i neri tiene per inumani: non li capisce, parlano,
vivono senza senso. Un racconto da antropologa meticolosa, sulla vita-non-vita
degli schiavi, non per paradigmi ma da indagine sul campo, di cose viste. come se fosse possibile vivere una storia passata.
La storia anche di una solitudine
altezzosa ma continuamente incattivita. Dai bianchi “senza pelle”, come appaiono
agli occhi degli schiavi, senza colore, trasparenti. Larve di cui è inutile
chiedersi la logica o approfondire il linguaggio. E dalla propria gente che si
pretende sodale, e canta e prega, ma non si stanca di giudicare, e rinnovane la
pena, il dolore, l’isolamento stesso nel mentre che si approfitta della
generosità della vittima. Un racconto del bene nel male, nella morte procurata
alla propria figlia, che è insieme di una contro tutti. Sethe, la madre dell’Amatissima,
è Medea, una donna appassionata ma senza personalità, non giuridica, senza
diritti. Una Medea in nero alla seconda potenza, doppiamente annientata, come
donna e anche come schiava. Una “tragedia greca”, un teatro di passioni e
riflessioni, più che di “qui” e “ora” – molto argomentare della narrazione si
potrebbe si potrebbe dire euripideo.
Un romanzo molto costruito. Di
testa. Si direbbe di stomaco, per i materiali in cui si articola, che inondano le pagine, con insistenza anche
ripetitiva, ma sono deiezioni, rifiuti. La tessitura, che si vuole complessa,
su più piani, personali, morali, affettivi, storici, è molto costruita. Dall’ordito
purtroppo in vista, e camaleontico. Morrison è l’autrice e il professore – il critico,
l’anatomopatologo il dissezionatore. Di eventi e modi di essere ma anche di simbologie
complesse, così come il linguaggio, che li trascendono. E occupano, invadono,
ingombrano la lettura – così come quando si legge Euripide e non lo si ascolta,
lo si guarda.
Morrison è stata una redattrice
editoriale di qualità, per scrittori di ricerca, attività che rivendica nella
nota introduttiva, ora da professore di scrittura creativa nelle maggiori
università, e si sente.
Il virtuosismo si sente e pesa. Il
racconto frammentario e ripetitivo, estenuato, lento. A ondate piane, che si
ripetono mutevoli e uguali. Insistito, abnorme come la realtà da esorcizzare. Nella
forma di un lungo, lento, esorcismo. Dell’infanticidio. Il delitto si
esorcizzia con la ripetizione, sfaccettata, di plurimi punti di vista, ma
statica, ripetitiva. Un capitoletto è anche in prosa ritmata, in versi.
Una storia di donne. Donne di latte,
di carne, di fatica quotidiana, e canti, divinazioni, divinità. Fustate,
marchiata a fuoco, mandate alla monta, del padrone, del figlio del padrone, di
un altro schiavo, e munte, del latte, proprio come le bestie. Della schiavitù
quale era di fatto, una storia sordida di mercati di esseri umani, alla fiera.
Spesso magnificata, anche in questa epoca di cancel culture, qui vissuta, senza rivalsa ma nella cruda polemica
dei fatti, di violenza impensabile, quotidiana, minuta, percosse, mutilazioni, assassinii,
con lo stivale, col bastone, col forcone, con la forca, e la fame, di esseri
considerati alla stregua di oggetti, senza stato anagrafico e senza nome –
sopravvivere era un lusso, un caso, anche nella logica del mercato, dello schiavo
merce da vendere. Addetti alla procreazione, nelle pause notturne delle corvées quotidiane, imposta: ai maschi
come stalloni, alle femmine come fattrici. Per produrre nuovi schiavi, sul
mercato già ai sette-otto anni. Terrorizzante
nell’apparente anonimità, normalità. Senza polemica, i padroni si commentano da
soli. Anche i buoni, la padrona bianca e la serva nera in simbiosi, come nel
film, entrambe cuoche, sarte, madri, faticatrici. E i bianchi che “odiavano la
schiavitù più di quanto odiassero gli schiavi”, ciò che ha reso – rende? –
sterile la solidarietà.
Un’opera narrativa a seguire di
un grande lavoro di ricostruzione storica della tratta e della schiavitù che
Tomi Morrison aveva condotta qualche anno prima, “The Black Book”, il libro
nero dei neri. “Sessanta milioni\ o più”, l’anonimo risguardo, è il numero degli
schiavi morti nelle razzie o nel viaggio attraverso l’Atlantico - se ne
cacolano quattro, secondo W.E.DuBois, per ogni sopravvissuto, i sopravvissuti alle
razzie in Africa e non finiti ai pesci nell’Atlantico. Una ecatombe ricorrente,
a ogni grande ondata migratoria, ancorché libera?
Con una postfazione di Franca
Cavaglioli, storica curatrice di Italia di Toni Morrison, Nobel 1993. Sportelli
fa l’anamnesi del romanzo, circostanziata, puntuta, in fine. Sui bianchi, gli
“uomini senza pelle”, diafani, spettrali, che “per riempire di sé il mondo”,
conclude lo studioso, “diventano essi stessi un vuoto”. Sulle simbologie di cui
la narrazione s’intesse.
Toni Morrison, Amatissima, Frassinelli, pp. 410 €
10,90
“Il sogno
americano è «se lavori duro ce la fai». Cioè, se sei povero è solo colpa tua”,
Dale Maharidge, analista della povertà in America.
“Actress” per
attrice è dizione sconsigliata, perché sessista, “actor” è preferito. Anche “director”,
per maestro (d’orchestra), regista. Nella questione linguistica dei generi non
ci sono regole ma usi dominanti.
In chiave anti-razzista si va anche verso un
ritorno deciso, giuridico, delle razze. I movimenti di rivalsa delle minoranze,
afroamericani, latini, asiatici di varia etnia, richiedono prove specifiche dei
vaccini. Come pure criteri differenziati di insegnamento e apprendimento.
Il dibattito è invece aperto, anche se limitato ai linguisti,
sul fuck, vaffanculo, se va trattato
come un verbo o come un epiteto.
Degli 87
giornalisti stranieri che compongono la Hollywood Foreign Press Association e assegnano ogni
anno i Golden Globe del cinema, premessa agli Oscar, nessuno è nero. La cosa è
stata oggetto di una inchiesta-denuncia del “Los Angeles Times” – anche se gli
elenchi dell’Associazione sono pubblici. Subito dopo, ai Golden Globe 2021 di
domenica 28, tutti i premiati sono stati neri – qualcuno asiatico: gli 87 hanno
votato colorato. Compresa Laura Pausini, premiata per la canzone “Io sì”, del
film di Edoardo Ponti, che non è nera ma è donna – la HFPA ha voluto omaggiare
in qualche modo Sofia Loren.
I presentatori
dei Globe Awards erano presentatrici, Tina Fey e Amy Poehler. Bianchissime, si
sono fatte perdonare così scherzando sui votanti dei premi: “Si dice che il
membro tedesco sia solo una salsiccia, su cui qualcuno ha dipinto una piccola
faccia”. Tina Fey fa di secondo nome Stamatina, benché di madre greca di
origine, e di padre di origini scozzesi e tedesche.
La Luna – volere la Luna – è il
sogno di Dario-Battiston, giovane solitario in una grande cascina nel Polesine.
Lo sbarco sulla Luna di Tito Stagno, vissuto sulle ginocchia del padre, la
notte che un vicino li invitò a vedere la televisione, è anche l’ultimo ricordo dell’uomo. Un poco di buono, che il fratellastro Mario-Fresi, richiamato da
Roma per prendersi cura di Dario, smaschererà. Ma questo non scalfisce il
sogno, che deve realizzarsi.
L’autore di “Finché c’è prosecco
c’è speranza” ritorna sui passi felliniani della Bassa, più malinconico che
scherzoso, o irridente: le nebbie, con il sogno della Luna. Le nebbie sono trasformate
in propellente, idrogeno e ossigeno, e il sogno di Dario è pronto per il decollo.
La Luna invece del padre? Ma non è
un racconto a chiave, è un sogno, vissuto come tale, e infine realizzato,
chissà. Su una scena quotidiana di derelizione – la piccola vita del piccolo paese,
di grettezza, stupidità, presunzione. Ma rivisitata con affetto.
Antonio Padovan, Il grande passo, Sky Cinema