Giuseppe Leuzzi
Giuseppe
Smorto fa sul “Venerdì di Repubblica” (e con Antonio Nasso in docufilm sul sito
di “Repubblica”) un quadro della sanità perduta in Calabria. Dopo dieci anni di
commissari (prefetti, generali, questori), che hanno chiuso tredici ospedali e
non ne hanno aperto nessuno. Neanche quelli già costruiti. Mentre altri
finanziati stanno per perdere i finanziamenti per la neghittosità. Di chi? Dei
commissari – ma questo Peppe non lo dice. Coraggio, ancora uno sforzo!
Una
amitié amoureuse avrebbe salvato Pavese
dal senso di inadeguatezza che lo ha portato al suicidio? Quella con Bianca
Garufi sì, nei mesi in cui lavorò a Roma, tra 1945 e 1946. Scrisse con lei un
romanzo a quattro mani, “Fuoco grande”, e
la fece interlocutrice dei “Dialoghi con Leucò” – Leucotea è dea bianca in
greco. Ma non se ne innamorò. Non per timidezza. Perché Bianca era alla Einaudi
come segretaria? O perché era di Letojanni, sotto Taormina? Una compagna oltre
che una (possibile) amante, come si vede dalle lettere ora recuperate, trascurate nelle raccolte pavesiane.
La Cupola dei vaccini
A proposito di mafie, AstraZeneca lo è? Si
direbbe di sì, ne ha gli ingredienti: il guadagno indebito, il raggiro, la
violenza (non spara, ma negando i vaccini dovuti e attesi è come se lo facesse).
Però è inglese e svedese, e quindi non è mafiosa.
AstraZeneca
è anche protetta dai suoi governi, ed ecco la Cupola. Mancava la Cupola al paradigma
di questa mafia, ma eccola. Insomma, c’è tutto. Manca solo una Procura
antimafia che la dichiari. O per essere incolpati di mafia bisogna essere nati
in Sicilia o in Calabria – giustamente i giudici di Roma hanno detto che Buzzi
e Carminati non sono mafiosi?
In
quel caso, basta anche solo aver mercanteggiato i voti della famiglia, venti-trenta
voti, i parenti si prestano, per l’appalto di un marciapiedi, o per un posto da usciere comunale, per
essere acculato alla mafia: “voto di scambio” – l’antimafia è semplice.
La
prova in 60 mila pagine
Al processo Palamara al Csm si producono
60 mila (sessantamila) pagine di chat. Sessantamila – la Treccani, 74 volumi,
non arriva a tanto. Registrate necessariamente in un lungo periodo di tempo:
raccogliere 60 mila pagine richiede anni.
Con notizie di reato, evidentemente. Finali, se si presentano agli atti
d’accusa. Ma anche iniziali, se le intercettazioni sono state autorizzate. Ma senza
intervenire. Una giustizia singolare: non si punisce il reato quando se ne ha notizia
ma quando conviene. A chi?
È il singolare criterio dell’antimafia: non
si interviene subito, su una richiesta di pizzo, un attentato, una minaccia –
provatevi a fare una denuncia: non succede nulla. O nel mercato delle droghe,
che si fa alla luce del sole. Si interviene a distanza, periodicamente, in base
a certi criteri che non si sa quali siano.
Il Sud del Nord
“Era
diffidente come un meridionale”, testimonia Robert Walser di uno dei tanti
mini-autoritratti de “La rosa”, “tanto verso di sé che verso gli altri”. Lo
scrittore svizzero, che in “Würzbug” (“Vita di poeta”) si vestiva da “Italia
del Sud”, cioè colorato, riferisce qui un detto
comune - quanti meridionali avrà potuto frequentare a Berna prima della guerra,
della Grande Guerra?
Walser
ha anche, poco dopo, la “spensieratezza del Sud”: “Ieri ascoltavo un cantante
italiano e la sua canzone mi poneva innanzi al cuore il cielo e la
spensieratezza del Sud”. Dove Walser non è mai stato, non viaggiava.
C’è
– c’era – un Sud del Nord. Spensierato, allegro, colorato, canterino. Come
quello di Robert Walser, che non ha mai viaggiato al di sotto di Berna.
Il nostos
Si
ritorna perché è necessario estraniarsi, così Giorgio Agamben conclude la sua
immersione nella “follia” di Hölderlin (“La follia di Hölderlin”): “Il gesto
eversivo della poesia è anche quello del rivolgimento dall’estraneo verso il
natale (o nazionale)”. Come un riavvolgersi: “Poiché l’originale può apparire
solo nella sua debolezza, esso può essere raggiunto solo attraverso un viaggio
di ritorno che deve prima avere attraversato l’estraneo”. Il filosofo è convoluto
ma il senso è semplice: bisogna uscire per apprezzare ciò che si lascia – l’“originale”,
ciò con cui si convive come dato di fatto, non per scelta.
Agamben
lo dice a proposito della follia del poeta, che non lo convince, e che quindi
ipotizza sia stata una scelta per porsi fuori del proprio ambiente, per poterlo
meglio comprendere e governare, o soltanto per non farsene più ferire. Senza
una estraniazione, non si apprezza l’originale – non si può.
Argomenta
ancora Agamben: “Il possesso dell’origine è possibile solo nella forma «abitiva»
e spossessante di un’abitazione e di un’abitudine”, senza averne piena
coscienza cioè - “Essa non si può avere, ad essa ci si può soltanto assuefare”.
Diverso il caso del nostos, del ritorno da un’esperienza altra,
“estranea”.
Napoli
Gide
a Napoli, il 29 gennaio 1896, in viaggio con la cugina-moglie (poi
proseguiranno per l’Algeria, l’“Oriente”), annota nel “Diario”: “Mi meraviglio
di trovare già qui questo canto d’Oriente così strano, avviato su una nota troppo
acuta, che precipita bizzarramente fino alla tonica in due frasi parallele,
svolte come tra due toni, scandite spasmodicamente e che si fermano in un
soffocamento-troncamento”.
Un
anno dopo Gide, il 20 settembre, saranno a Napoli Oscar Wilde, uscito di prigione,
con mille progetti, col suo giovane Lord, Afred Douglas. Ospiti a spese dei
Douglas, alcuni dei quali risiedono a Napoli, in una villa a Posillipo con
giardino e veduta. Poi Douglas padre convince il figlio con i soldi a tornare a
casa, il 30 di novembre. Dando una buonuscita a Wilde. Che se la spende a
Taormina, e quando torna a Napoli deve alloggiare in pensione di infimo ordine.
Tenterà migliore fortuna a Parigi, il 13 febbraio.
Il
grande cuore di Napoli non fu generoso con Wilde. La coppia fu denunciata poco
dopo l’arrivo, il 7 ottobre, da Matilde Serao sul “Mattino” – una presenza che “ha
messo molte persone, tra le quali l’umile sottoscritta, in una certa
trepidazione confinante col panico”. Costringendo i parenti di Lord Douglas
residenti a Napoli a muoversi per sciogliere la coppia.
A
Napoli Wilde – come poi farà ad Algeri sei anni dopo, iniziandovi il
rispettabile André Gide – cerca “cattive frequentazioni” e “cattivi luoghi”.
Pullula
di edicole, e murali d’autore, di ragazzi morti giovani, la più parte uccisi
per questioni di camorra e di spaccio. Lo Stato chiede al Comune la rimozione
delle immagini di ragazzi morti durante una rapina o altro delitto. Il sindaco
De Magistris, un giudice, obietta. Un appello è pubblicato da artisti e scrittori, in testa
Maurizio De Giovanni, per conservare il murale di Antonio Russo, morto a sedici
anni durante una rapina.
È greca ma pure molto romana. Ospitava
la flotta imperiale a Capo Miseno, le galee, su cui erano imbarcati i galeotti.
Migliaia, decine di migliaia. Che si dispersero nel territorio alla caduta dell’impero.
Anche i disoccupati organizzati
vengono dall’antica Roma: le folle di nullafacenti, mantenute dallo Stato e
dalle famiglie, che ritenevano loro diritto lamentarsi, protestare, e rubare,
da soli o in bande.
Pippo Inzaghi giocò poco nel
campionato 1995-96 perché rifutò al mercato di gennaio il trasferimento al Napoli,
cui il Parma lo destinava – passerà invece poi volentieri, a fine campionato,
all’Atalanta. Ora sopravvive nel calcio per il buonvolere del Benevento, dove aveva
trovato casa in serie B. E col Benevento, ridestinato alla serie B, coglie il
primo, e unico, successo da allenatore, battendo la Juventus a casa sua.
Il
presidente della regione Campania De Luca che “prenota” il vaccino russo
Sputnik è irriso da “la Repubblica”. Che pure sarebbe il “suo” giornale,
filo-Pd. E non ha irriso il presidente della regione Emilia Bonaccini quando ha
chiesto un mese prima di “accelerare” col vaccino russo – le analisi. Il razzismo
è un riflesso condizionato.
Paradossalmente,
De Luca è il personaggio di Crozza con cui il comico si identifica, pur nella
satira. Solidarietà di dannati – la satira non ha più cittadinanza?
leuzzi@antiit.eu
La
“Recherche” come un inferno, nel quale, come in quello di Dante, profanazioni
parentali, vendette, spergiuri, umiliazioni si susseguono. La presentazione è
tassativa: “Proust è un alfiere del rancore che dopo avere radunato i suoi
personaggi nel terribile salotto Guermantes li ha sottoposti a umiliazioni che
ricordano per crudeltà i castighi danteschi”. Le pene “hanno la divina e
implacabile giustizia di una legge del contrappasso”.
Niente
diavolo né Dio, Proust è un nichilista, il suo romanzone è un’opera nichilista,
ma per il resto si direbbe un Dante, anche se limitato all’inferno: dal suo
esilio casalingo ha scritto un libro crudele. La memoria può essere crudele,
non conforto ma dannazione, la “Recherche” è un libro crudele: “È il libro
scritto da un uomo che cerca la verità. E chi cerca la verità con la violenza con
cui Proust l’ha interrogata non può che essere un uomo crudele”.
Proust
come Dante per “la forza rabbiosa” - altro che svenevolezza, “simulacro di
fragilità e deliquescenze morali” – e per “il vigore muscolare”. Forse anche
peggio, cioè più violento, perché la sua “Recherche” è un libro di storie – di
memorie – ma solo dell’autore, i suoi personaggi non avendo vita autonoma,
spessore storico. O allora, si direbbe, in chiave selfie, camuffata in Albert-Albertine, o appena dissimulata nel
barone Charlus.
L’inferno
proustiano nasce da una mancanza, anzi da due, argomenta Piperno. Dall’incapacità
degli ebrei, e degli omosessuali, di riconoscersi, di affermarsi.
L’antisemitismo del titolo Piperno trova nei personaggi dichiaratamente ebrei
della “Recherche”: Swann, Bloch, Rachel. Diversi tra di loro, ma tutti imprigionati
in un “modulo mimetico”: Rachel è attrice, Bloch scrive commedie, Swann è
“attore” di se stesso, lo conosciamo solo come su un palcoscenico. Bloch si
spingerà a cambiare nome, Gilberte, la figlia di Swann, pure. Di più - di peggio?: Proust è razzista nel senso pieno del termine, per lui i Swann e i Guermantes sono razze diverse, irriducibili.
L’argomento
è controvertibile. Guardando fuori dalla “Recherche”, questo rifiuto che il
filosofo Theodor Lessing definirà dopo Proust “l’odio-di-sé ebraico” era
diffuso. Lessing lo condannava, da sionista, ma era la rinuncia, non ingiusta
anche se a volte solo opportunista, a un marchio etnico. Piperno lo condanna in
Proust in quanto sarebbe un “gradus ad Parnassum”, il passo necessario per
essere accettato da quella high society alla quale più di tutto ambiva. Che di fatto
però lo accettava: lo invitava, lo coccolava perfino - Proust padre era un
professore importante, e nessuno gli rimproverava di avere sposata una donna
ebrea. Non lo apprezzava: ma perché ebreo e non piuttosto perché (ritenuto,
volersi) fatuo?
E
non è detto che non bisogni dare al signorino Proust, così dabbene, un po’ di
fuliggine. Anche se era un mite, nella scrittura (i pastiches, gli scherzi, le ironie, le lettere) e personalmente – a
parte la foia uranista documentata da Gide e Jacques-Émile Blanche. Uno
scherzosone.
Inoltre Proust non si riteneva inadeguato – limite ricorrente in
psicoanalisi ma di qualche decennio dopo. Era ben pieno di sé, e voleva,
fortissimamente voleva, forse a costo di uccidersi, lasciare una traccia. Dopo il
ciclone Balzac, dopo Flaubert e la frase giusta, dopo Zola e lo tsunami verista,
insieme col più fiacco (in volontà, determinazione) Gide, voleva lasciare una
impronta riconoscibile nelle lettere. Un’altra conclusione di Piperno gli si
attaglia meglio: “Proust ricerca faticosamente una scrittura che non si pieghi
in nessun modo al fascino confortevole del definito e del dimostrato. Una
scrittura incompiuta, che sposti il più possibile la verità, o meglio che
sappia scoprirla non in un approdo estremo ma in un’insaziabile rincorsa, dove
l’Oggetto viene raggiunto per subito sgusciare via, tutto questo all’infinito”.
Quello che si dirà “opera aperta”, fino al “flusso” ininterrotto, di coscienza
e non. Faticosamente, giusto.
È
il debutto di Piperno francesista vent’anni fa, critico con l’inevitabile
odiosamato Proust. Robusto, molto.
Alessandro
Piperno, Proust anti-ebreo, Franco
Angeli, pp. 176 € 10
Usa dire la Ue un burosauro, invece ha un cuore
tenero. In questo “caso AstraZeneca” sembra proprio una dama di san Vincenzo.
AstraZeneca si era impegnata a fornire 120 milioni di dosi di vaccino nel primo
trimestre 2021, e ne ha fornito solo 18, diciotto. Per il secondo trimestre ha
fatto un contratto per 140 milioni di dosi, e ora annuncia che ne fornirà la
metà, 70.
Problemi di produzione? No, i vaccini si
producono in centinaia di laboratori in tutto il mondo, specie in Asia, dove
costano poco o niente, se ne possono avere quanti se ne vogliono. Solo bisogna
ordinarli per tempo, non oggi per domani. Il problema è che AstraZeneca,
essendo il suo vaccino meno caro e più maneggevole, ha visto le commesse dopo quella Ue moltiplicarsi.
Anche con una sterlina in più per dose rispetto al prezzo pattuito con la Ue. E
quindi dirotta i quantitativi ordinati.
La Ue che fa? Blocca la riesportazione dei
vaccini prodotti o comunque approntati in Europa? No, non è protezionista.
Porta AstraZeneca in tribunale per un fermo esecutivo? Ci mancherebbe. Avvia
un’azione di risarcimento, con sequestro conservativo e provvisionale? L’Europa
è una signora: qualche morto in più che sarà?
Dall’università di Stanford, i professori di classics, di storia e cultura greca e latina,
hanno lanciato un appello nazionale,
agli studiosi e ai politici, per l’eliminazione del loro settore di studi – un
appello fatto proprio subito da altre università. Per il motivo che gli studi
classici impongono un “suprematismo bianco d’ispirazione neocoloniale”.
La cosa indigna un numero di storici e filologi
francesi, che promuovono, sostenuti da colleghi italiani, un appello sul
quotidiano “Le Fugaro” contro la cancel culture
americana: non si può abolire la storia. Dopo che Parigi ha avviato la
cancellazione delle numerazioni romane.
Il “Renmin Ribao”, il quotidiano del popolo,
organo del Pcc, il partito comunista cinese, pubblica un dossier sulla “violazione
dei diritti umani negli Stati Uniti”.
Un falso d’autore: Rita Monaldi e Francesco Sorti, i coniugi autori di
gialli storici, famosi anche come esperti pubblicitari di se stessi, freschi
collaboratori di “la Repubblica”, s’improvvisano cronisti e ieri all’alba
scatenano sul quotidiano una guerra della Germania contro l’Italia. Obbligando
alla lettura di un articolo parecchio noioso e inconcludente, che sarebbe –
avrebbe dovuto essere – il “telegramma di Ems” di questa nuova offensiva
teutonica.
L’articolo è inteso da un quotidiano di Francoforte, “Frankfurter Rundschau”,
due pagine del tabloid, con richiamo in prima, col titolo di una
filastrocca bambinesca (“fatela dentro il vasino”), come partecipazione alla
nuova festa italiana, il Dantedì. Una cosa simpatica. Ma, commissionato a Arno
Widmann, un Italianist, cultore di Malaparte e traduttore anche di
Eco, è pieno di riserve: Dante non piace ad Arno, che non nasconde di non
averlo letto. Ma non lo dice “un arrivista” e “un plagiario” come “la
Repubblica” allarmata titolava – inducendo la consorella “La Stampa” a
denunciare “l’incredibile attacco dalla Germania”. Dice anche scemenze, ma da
scettico, uno che non ama la poesia, non la sa leggere. Fingendosi perfino il
buon luterano che non è, severo, contro il solito lassismo
cattolico. Ma senza offesa.
Uno scherzo? Di tutta la vicenda il più interessante è un dubbio: come avranno
fatto Monaldi e Sorti a leggere di prima mattina a Vienna, dove vivono, un
quotidiano di Francoforte a circolazione locale: aspettavano un segnale? Due
dubbi: Monaldi e Sorti, che condividono con Widmann la passione per Malaparte,
hanno anche interessi editoriali in comune? Di certo hanno appena pubblicato un
“Dante di Shakespeare”, e lo hanno candidato al Campiello – sono autori
eccezionalmente dotati alla promozione: Dante che non è Shakespeare è uno dei
caposaldi di Widmann.
L’articolo è lungo e modesto. Widmann è uno che va per gli ottanta, con fama di
svogliato, di polemista anticonformista facilmente disappetente. E di
italianista della domenica. Della “Commedia” dice di avere letto il canto di
Paolo e Francesca, ma mostra di non avere capito nulla, e non gliene frega.
Riempie il pezzo con i soliti discorsi. Dante non è Shakespeare, appunto – e
perché dovrebbe esserlo? Anche se il poema fa molto dialogato, e in rima, cioè
sonoro, e scenografico: molto teatrale. Il viaggio nell’aldilà lo faceva
Maometto – e allora, ce n’è uno di Maometto anche lontanamente
simile? Dante è medievale e non c’entra nulla con noi. T.S.Eliot proclama Dante
il più grande perché entrambi sono cattolici. Dice anche Dante incomprensibile,
mentre resta comprensibilissimo, un’eccezione - Widmann ha mai provato a
decifrare un testo tedesco del Duecento, anche del Trecento? – che ne sancisce
la grandezza.
Da ridere, forse non involontariamente, è comunque il gaudente Widmann
impancato a buon luterano. Rimprovera Dante di celebrare sempre Beatrice, e non
dire nulla, negli “oltre 14 mila versi” e tra gli “oltre suoi 600 personaggi”,
di “sua moglie e i suoi figli”. Aggiungendo da uomo pio di sacrestia: “Per la
scoperta della vita di coppia come di una via per la santità bisognerà
aspettare Lutero e la Riforma”.
Da ridere anche l’insensibilità di Dante alla natura: il suo è un buromondo,
una Bürolandschaft, un buropaesaggio, afferma Widmann
compiaciuto del suo neologismo. Mentre ne è pieno, di cieli e animali, alberi e
rocce, isole e montagne, e volumi si sono scritti, si scrivono, sulla natura
nel poema. Uno scherzo?
Si entra nel rifiuto con un’argomentazione complicata, ma sul filo della
demenza. Si dice, si insegna, argomenta Widmann volendosi sarcastico, che
l’italiano nasce con Dante, e questo non è vero: “Questo è falso. Nessuno lo
direbbe oggi, ma sessant’anni fa veniva insegnato a ogni scolaro italiano”.
Cioè nel 1960? L’italianista qui si confonde, probabilmente voleva acculare
Dante al fascismo, quindi a settanta o ottanta anni fa – o ha preso il
suggerimento di qualche maestro italiano, senza sapere che andava collegato al
fascismo. E chi non lo direbbe oggi? Ma soprattutto scoraggia con una
prolungata dissertazione sulla superiorità dei trovatori occitani sul “volgare”
italiano. Come si vede anche, continua, con Marco Polo, che le sue memorie le
detta in francese – e Marco Polo, sì, che è un uomo moderno, ben superiore a
Dante! Non sa nemmeno – non ha letto wikipedia? – che Dante è autore di un
trattato sulla lingua popolare, il volgare, in latino, e di altre due opere, in
volgare, una sullo stilnovismo, l’adattamento della poesia cortese provenzale,
e l’altra sul superamento dello stilnovismo.
Una punizione. Una
curiosità malevola dopo tanta fatica va allora concessa: non sarà un esercizio
di malapartiana strafottenza? Magari condiviso con i coniugi Monaldi e Sorti?
Certo, nel “Dante di Shakespeare” della coppia non c’è – non ci sarà, non
l’abbiamo letto, ma sarebbe difficile – Malaparte. Ma un po’ di malapartiana
cialtroneria? Tutto può servire, si sa, alla promozione. Uno scherzo?
Su Dante in Germania, dove è arrivato a fine Settecento, si può dire che è
probabilmente il paese dove è più letto. L’ultimo repertorio della fortuna di
Dante in Germania, compilato da Thomas Klinkert cinque anni fa, “Dante
Deutsch”, ha contato almeno “centosettanta traduzioni”, parziali o complete, della
“Commedia” in due secoli – “una settantina di traduzioni complete e un
centinaio di traduzioni parziali”. È nata in Germania, a Dresda nel 1865, la
prima Società Dantesca, la Deutsche Dante Gesellschat. La fotografa Claudia Rogge ha prodotto e realizzato una serie eccezionale di immagini sulle cantiche, il progetto Ever After. Emil Ruth, italianista
“fiorentinizzato” di metà Ottocento, amava tanto Dante che lo voleva tedesco –
tedesco di origine: solo un tedesco poteva “ringiovanire” la poesia (a metà
Ottocento si poteva, era l’epoca dei “primati” nazionali).
Arno Widmann, Die Guten ins Töpfchen, die Schlechten ins Kröpfchen,
“Frankfurter Rundschau”, 25 marzo
Fra
le tante caricature di Crozza, anche cattivelle (il papa, Mattarella), quella
del generale Figliuolo era sembrata melensa per poca cattiveria. E tuttavia è
bastata per mobilitare mezzo Esercito in difesa del genera le e in attacco
contro Crozza. Ora speriamo che l’altro mezzo si mobiliti per i vaccini, a un
mese e mezzo dal giuramento del generale. Che li procuri e li faccia amministrare.
In quaranta giorni quanti milioni di vaccini (non) si sono amministrati?
Il
Tribunale di Milano non ha paura della Procura e ne sanziona dopo quarant’anni per
la prima volta le continue scorrettezze. Il casus
belli, l’ultimo di una serie interminabile, è stato il tentativo messo in
atto dalla Procura per evitare la sentenza su Eni-Nigeria, un processo lungo
ormai otto anni, invalidando il collegio giudicante. Con “subdole ipotesi e insinuazioni”,
dice il Tribunale.
Si
può assolvere il sindaco di una (grande) capitale perché “ingenuo”? A Roma sì.
Senza nocumento per il sindaco, che anzi mostra di apprezzare.
Certo,
meglio ingenuo che corrotto. Ma perché uno dovrebbe essere corrotto?
Se
ne va Prandelli schiacciato dai “tutti Ronaldo” – Prandelli non l’ha detto, ma si
sa. Tutti immagine e sponsor. Atleti per modi di dire, quanto basta per vendere
barbe, tatuaggi e muscoli.
“Cancellare
l’Antichità dalla nostra cultura è rinnegare l’umanesimo”, l’antichità greco-latina.
Un manifesto contro la cancel culture
americana in materia di classici, partita dall’università di Stanford, “dai
professori di storia dell’Antichità, di Latino e di Greco”, e allargatasi ad
altre università, è stato lanciato sul “Figaro” da buon numero di intellettuali
francesi. Dalla Francia che ha già cominciato, con l’abolire i numeri romani.
Al
referendum online della “Gazzetta dello Sport” decine di migliaia di tifosi
della Juventus se la prendono con la dirigenza del club, che non ha saputo
costruire una squadra – non una in cui il “fenomeno” Ronaldo potesse esprimersi
al meglio. E non ricordano che la squadra perdente di oggi costa un’enormità –
il doppio dell’Inter.
In
un certo senso, una squadra che ha vinto nove campionati di fila, che perde una
partita decisiva per il decimo scudetto, in casa, contro l’ultima o penultima
in classifica, fa storia. Fa storia anche per la insensibilità di squadra,
allenatore, società e presidenza.
Se
ne potrebbe trarne una lezione incoraggiante, della pratica che usava dire
“pretesca”, del male che ci scivola addosso. Ma spendendo per perdere 240 milioni? Il
calcio, lo sport, è solo una partita finanziaria?
L’onorevole
Morra che intima alla scorta di prendere le generalità dei medici di Cosenza
che non gli hanno ancora vaccinato i suoceri è scena più scandalosa che ridicola:
come può una persona qualsiasi, benché onorevole, “ordinare” alla Polizia di
“prendere le generalità” di qualcuno che non gli va a genio. Perché la Polizia obbedisce?
Si attacca l’asino dove vuole il padrone?
E
se i padrone è Grillo, un comico? Come questo Mora, comico involontario.
Ha
cominciato col nepotismo, i fratelli Marra che si promuovevano, e non ha cessato:
la giunta della sindaca di Roma Raggi è piena di assessori che invitano a pranzo,
con ricevuta rimborsabile, gli amici e assumono
i parenti. Da ultimi l’assessora alla Cultura, una compagna di scuola di Raggi
senza alcun titolo, che ha assunto il “marito”, mentre l’assessore al Bilancio
ha assunto la moglie.
L’assessore
al Bilancio del comune di Roma, Lemmetti, Raggi lo ha fatto venire da Livorno,
non ne trovava un altro più vicino. L’avvocato Lanzalone, per gli “affarucci”
di partito, lo ha fatto venire da Genova, inviato di Grillo.
Il
“Corriere della sera” evoca con Arbore “L’altra domenica”, la trasmissione
domenicale su Rai 2 che rivoluzionò la tv. Ricordando che le trasgressioni ideate
da Arbore erano già state bocciate dalla Rai e furono ripescate da Massimo
Fichera e Andrea Barbato, ma senza dire che Fichera e Barbato erano stati appena
nominati alla “rete socialista”, Rai 2. Il primo centro-sinistra, quello vero e
innovativo, resta sempre sulla punta della lingua.
Sempre
in corsa per l’ambita poltrona di Procuratore Capo a Roma, benché sia stata già
attribuita ad altro giudice, il Procuratore Capo di Palermo Lo Voi prova a
ingraziarsi il Csm mandando a processo Salvini per gli sbarchi degli immigrati.
Ma non sa – o lo sa? – che fa di fatto un favore a Salvini?
Conscio
del fallimento con le vaccinazioni anti-covid in Lombardia, Bertolaso declina
ogni volta che può la candidatura a sindaco di Roma. Ma Salvini lo candida lo stesso.
Roma è città a larga maggioranza di destra, ma la destra non vuole governarla.
Lo ha fatto nel 2016 presentando tre candidati, il modo più sicuro per no
andare nemmeno al ballottaggio, lo fa ancora oggi, con almeno due, e forse tre,
candidati. Allora si poteva capre: Berlusconi, incandidabile, lavorava a Roma come
altrove per bloccare la crescita di personalità concorrenti. Ora?
Biden
dà dell’“assassino” a Putin. Non si ricorda ingiuria più pesante fra capi di Stato.
Putin risponde: “Gli auguro buona salute”. Come a dire: forse non ragiona. Dopo
avergli rimandato l’insulto: “Chi lo dice lo è”.
Dice
che Biden fa delle gaffes. Ma, poi,
la guerra contro la Russia dobbiamo fargliela noi?
Biden
non era un pacioso, dopo il bellicoso Trump?
È
perfino incomprensibile il numero di gaffes
e errori, di fatto e di comunicazione, oltre all’inefficienza totale dei
servizi (trasporti, rifiuti, viabilità), della sindacatura Raggi a Roma. Ma
peggio è che dispone, nota Ceccarelli su “la Reubblica”, del “più alto numero per
metro quadro di comunicatori, portavoce, uffici stampa, consiglieri
all’immagine, addetti alle relazioni esterne, spin doctor, curatori, creativi,
videomaker e altre professionalità marketizzanti”.
Si
commenta da solo il presidente della Wolrd Athletics, il britannico Coe, baronetto
per meriti di loggia. Non ha parole per il blocco imposto attraverso i suoi laboratori
chimici al marciatore Schwazer nel 2016 per far vincere l’Olimpiade di marcia i
i cinesi. Si sa che la Cina paga, e bene. Ma è una ragione per tacere lo scandalo?
È stato per questo nel 2015 presidente della World Athletics?
Una raccolta di saggi, sugli echi
d’Italia nelle lettere francesi, e di Francia in quelle italiane, che prende il
titolo da quello più appuntito e più aggiornato, all’anno di pubblicazione,
1951. Un accostamento bizzarro ma vero. Balzac sceglie, dopo tanti altri nomi
progettati, quello dantesco di “Commedia umana” per i suoi cicli di romanzi, di
costumi, analitici, filosofici, eccetera, della vita privata, parigina, di
provincia, dei parenti poveri. Dopo avere ascoltato nel 1845 a palazzo Farnese
a Roma il principe Michelangelo Caetani - al quale dedicherà l’anno dopo “La
cugina Betta” – sulla struttura ideale e di pensiero che sostiene la “Commedia”
dantesca.
Nell’opera di Balzac molti sono
qua e là i richiami a Dante, anche se di Dante Balzac non ebbe, o non coltivò,
una conoscenza approfondita (ma chi e che poteva Balzac approfondire, che
scrisse 137 libri di romanzi e racconti in vent’anni - con 2.209 personaggi
secondo wikipedia?). Lugli ne rintraccia un paio di dozzine. Perfino, in “La
vie et les aventures d’une Idée”, 1834, incompiuto, che doveva far parte degli
“Studi filosofici”, una traccia del “Dante mussulmano”, in quanto “pontiere” tra
Oriente e Occidente. Soprattutto, a un influsso diretto di Dante Lugli può
ascrivere il “Livre mystique” del 1835, con i tre racconti “I proscritti” (su
Dante esule a Parigi), “Louis Lambert” e “Séraphita”.
Un rapporto un po’ speciale, questo
con Balzac, nelle fortune alterne di Dante in Francia – prima degli ultimi
decenni evidentemente, con le traduzioni nuove e diffuse di Jacqueline Risset, René de Ceccaty (in ottonari…),
Danièle Robert. Praticamente sconosciuto in Francia fino all’Ottocento. Se non,
ricorda Lugli, per l’odio guelfo, impersonato dal cardinale Bertrand du
Pouget - Bertrando del Poggetto, l’“angelo della pace” di papa Clemente XII,
che con una truppa di mercenari tra il 1320 e il 1327 sconfisse i principati
ghibellini, e guelfi-ghibellini come Dante, ad Asti, Pavia, Piacenza e Parma,
riprendendo per ultimo anche Bologna. E per le citazioni – “immagini e
sentenze” - di cui Christine de Pisan a fine Trecento-primi Quattrocento ha
infiorettato i suoi poemi, senza peraltro, più spesso, riferimenti alla fonte.
E poi, nel primo Cinquecento, Marguerite de Navarre, la sorella di Francesco I.
Sconosciuto agli italinisants, Du Bellay, Ronsard,
Montaigne. Indigesto a Flaubert e Lamartine – che però se ne ispira per il
grande poema, “la mia epopea dell’anima”, che avrebbe voluto e non ha scritto,
eccetto due frammenti, “Chute d’un ange” e “Jocelyn” (ma sempre dall’alto:
“Dante ha iscritto il suo nome a caratteri di fuoco sull’immaginazione dei
secoli” e “un grand’uomo e un cattivo poeta, un uomo più grande del suo
poema”). Poco amato dallo Chateaubriand del “Genio del cristianesimo” – sopra
Dante metteva Tasso e Milton. Recuperato tardi, da Delacroix, al Salon di
pittura del 1820, con la “Barca di Caronte”, che fece sensazione. Quindi, un
po’, da Victor Hugo, e soprattutto da Balzac, infine da Sainte-Beuve.
Manca nella rassegna di Lugli
Gustave Doré, che sulla “Commedia” fece un grosso investimento, rischioso, nel
1861, con l’editore Hachette, per un in
folio di 156 incisioni – manca pure Théophile Gautier, che sostenne Doré nell’impresa.
Ma c’è naturalmente molto altro, da francesista un po’ datato, ma di larghe
conoscenze. E di critico, con due saggi su Tommaseo, sul romanzo, “Fede e
bellezza”, e uno su Carducci. Con echi di Francia un po’ stiracchiati,
soprattuto nei riguardi degli italiani che hanno vissuto in Francia, come
Tommaseo (con Tommaseo c’è, apprezzata, anche “Giorgio” Sand), o a cui si
sforza di dare un’apertura oltralpe, come Carducci. Quest’ultimo medaglione è meritevole,
se non altro, per il fatto che non si dice di “Marchesa Colombi”: una
cacciatrice d’uomini, milanese, scesa a Bologna a corteggiare Carducci, che
dovette accontentarsi di Panzacchi.
Una
curiosità, Boccaccio in Courteline. Assortita dalla fortuna di Boccaccio in
Francia nell’Ottocento. E una disamina ancora interessante fra i due “Mastro
don Gesualdo” di Verga, quello a puntate del secondo semestre del 1888, e quello, “affatto
nuovo” come lo annunciava l’editore Treves a metà dell’anno successivo, e pubblicato
a novembre. “La monaca di Monza e una pagina di Bossuet” è un repertorio di
donne celebri “monacate” su cui Manzoni potrebbe essersi ispirato. A partire da
Jacqueline Arnauld, sorella del Grande Arnauld, poi madre Angélique e badessa
di Port Royal, individuata per primo da Pietro Paolo Trompeo – la lista è
lunga. Non manca Proust: come visto, criticamente, da Gide. E un seminale, dopo
settant’anni. “Stile indiretto libero”, tra La Fontaine e Flaubert, e poi in
Zola (meccanico),Verga, D’Annunzio (tedioso), con “gli accenni precorritori del
Manzoni e del Nievo”, il saggio più interessante dopo quello del titolo.
Di
buona (vecchia?) erudizone il discorso semiserio tenuto all’Accademia delle
Scienze dell’Istituto di Bologna il 9 gennaio 1949 e intitolato “Il senso di
una poesia”, sul “perché non c’è una poesia francese”.
Vittorio Lugli, Dante e Balzac, pp. 349, free online
spock
“A Dio non importa molto che gli uomini
siano irresponsabili”, Robert Walser?
“Solo i timori sono da temere”, id.?
“Di rado è decente essere sinceri”, id.?
“Sforzandosi di tornare in sé, si è fatto
più aperto”, id.?
“Un uomo gioioso non tiene in gran conto
la gioia; uno felice può disdegnare molta felicità perché è convinto che essa gli
verrà incontro comunque”, id.?
“Forse proprio l’amore è il nemico
dell’amore”, id.?
spock@antiit.eu
Ci sono tre Cine, continentale (Hong Kong
compresa), Taiwan e Singapore, che nel tempo dovranno tornare a essere una. Era
il pensiero, non esplicito ma ben delineato, del presidente Mao. Xi lo ha
ripreso, con fragore di flotte nei mari della Cina, di leggi speciali per Hong
Kong, e di rivendicazioni nuovamente esplicite su Taiwan.
Le tre Cine erano un tema degli anni 1960,
prima che Kissinger avviasse con Nixon nel 1971 l’adescamento di Pechino, per
aggirare Mosca e alleggerire il Vietnam. Poi la Cina post-maoista, soprattutto
quella di Deng Hsiao-Ping negli anni 1980, ha trovato conveniente arricchirsi,
proponendosi come fabbrica del mondo. Senza più agitare la bandiera rossa, e
nemmeno quella nazionale. Sono stati i trent’anni, ora quasi quaranta, della
globalizzazione: il disegno di Deng si è incontrato con quello americano a
partire da Reagan, di abbattere gli ostacoli al commercio mondiale.
Da qualche anno, con la presidenza Trump, e
ora con Biden, gli Stati Uniti mostrano di avere più problemi che benefici
dalla globalizzazione. E ne perseguono un re-indirizzamento, in sede Wto, e
bilaterale. Ma anche la Cina è diversa: la presidenza Xi non è quella aperta di
Deng. È assertiva, e anzi imperiale. Nel mondo, Africa, Medio Oriente, Europa, con il 17 + 1 nel Centro-Est e gli accordi con i 5 Stelle in Italia, e soprattutto in Asia.
Il “Renmin Ribao”, quotidiano del popolo, il
giornale del partito Comunista Cinese, redatto online anche in inglese, lo ha appena
ribadito netto: “Alle nazioni asiatiche ricordiamo che la Cina è un vicino, inamovibile,
mentre gli Stati Uniti sono geograficamente estranei”. Un avvertimento che è
una minaccia, e quindi diplomaticamente un errore. Ma Xi si muove così –
all’avvertimento ha fatto seguito un dossier sulla “violazione dei diritti
umani negli Stati Uniti”.
La Cina secondo Pechino è ancora la “fabbrica
del mondo”. La fabbrica degli arricchimenti facili per mediatori e produttori,
piccoli e anche grandi, di tutto il mondo. Ma ora in un quadro di espansione
all’estero, con la via della Seta e con la flotta. Un imperialismo da tempo
scritto, al coperto del nazionalismo.
La “Divina Commedia” illustrata:
156 tavole (97 dell’ “Inferno”), per una “guida visuale al poema dantesco”. Un
regalo. Introdotto da Théophile Gautier, che nel 1861 presentava “il giovane
artista”. Spiegando che Dante non è “così
astruso” come si dice: “L’oscurità di Dante è un pregiudizio”. Il poema
richiede “una certa applicazione”, ma è di “plastica nitidezza”: “Quasi tutti i
suoi versi sono quadri o composizioni”: ogni atteggiamento, ogni gesto, ogni
cambiamento di colore o di forma della folla dei dannati è descritto con cura
minuziosa”. E Doré è il più indicato a figurarlo: oltre al talento compositivo
e grafico, egli possiede quell’occhio visionario di cui parla il poeta”.
E la “Commedia” si anima. Tra Ann
Radcliffe e Piranesi, come dice Gautier, in “chimeriche architetture”, ma “con un vivissimo senso della realtà e una
potenza caticaturale straordinaria e selvaggia”, tipo Goya. I richiami più
evidenti sono però, a sfogliare le incisioni, michelangioleschi, nelle nudità,
in una con la contemporanea sensibilità preraffaellita delle figure femminili.
“A partire dall’inverno 1860-1861
Gustave Doré invase la scena parigina con Dante”, secondo un recente agiografo
dell’illustratore, Philippe Kaenel. Il Dante di Dorè è nato con le 75 tavole
dell’“Inferno”, pubblicate nel 1861, un investimento importante, dell’incisore e
dell’editore Hachette, che fu promosso
con una serie di manifestazioni. Tra esse il parigino salon annuale di
pittura e scultura, dove Doré presentò anche una tela a grandezza naturale (mm.
3,15 x 4,5 – ora a Bourg-en-Bresse, “Musée de Brou”), “Dante e Virgilio nel
nono cerchio dell’Inferno”, incentrata sul “fiero pasto” di Ugolino, con altri
personaggi, compresi Paolo e Francesca.
Gabriele Baldassari presenta
brevemente Doré.
Gustavo Doré, La Divina Commedia di Dante Alighieri,
Oscar, pp. 167, ill. ril. € 22
zeulig
Antisemitismo – Donatella
Di Cesare, “Heidegger e gli ebrei – I quaderni neri”, lo dice caratteristico
della filosofia tedesca, di Kant, Hegel, Schopenhauer, Nietzsche, e della
migliore cultura filosofica europea. Ma questo non è possibile.
Heidegger – Che cosa
leggeva? Perché no si studi la sua biblioteca privata, per esempio. Nelle sue
sterminate opere, e nella (poca) corrispondenza nota non c’è mai un accenno a Walter Benjamin, per
esempio sulla storia, o Adorno e Horkheimer. Nemmeno a Hannah Arendt o ai tanti
altri suoi discepoli professi, Löwith, Jonas, Anders, Strauss, Marcuse, tutt’e sei
ebrei, è vero, ma nemmeno di Jaspers, di Gadamer, probabilmente nemmeno del
coautore Jünger, non ce n’è traccia.
Natura – L’aorgico di
Hölderlin nella “Ragione dell’Empedocle” (la lunga riflessione che accompagna
le successive stesure de “La morte di Empedocle”) è la natura illimitata, e incomprensibile-inafferrabile,
come opposta all’organico, all’individualità limitata e cosciente - il poetico,
l’artistico. In opposizione dialettica, che confluirà in una conciliazione, una
sintesi. Che è illusoria – di convenienza? – e quindi momentanea, un momento
del conflitto.
Si può concepire la vita in conflitto con la natura, di cui è espressione?
La natura non arriva all’intelligenza - all’intelletto pratico, dispositivo? La natura
è ambivalente, ma fondamentalmente temibile, in Hölderlin. Che pure,
soprattutto, avrebbe voluto essere, formarsi, da filosofo della natura, invece
che da teologo, e con Hegel porrà il tema della contemporaneità,
dall’Ottocento in qua, in varie forme, della “infinitizzazione del finito”:
l’ambizione prometeica, o titanica, dell’individuo (anche della comunità, del
“nazionale”) di essere Dio, di prenderne il posto.
L’Iperione del suo romanzo
fa della natura oggetto di desiderio, di rimpianto, quindi la natura è amabile,
benevola, protettiva. Ma è anche una potenza incontrollabile che fomenta la
dissoluzione e porta alla morte – è su questa base magmatica, invasiva,
caotica, che il soggetto si staglia a fatica, acquisisce identità.
La natura sta a sé, ma nutre sogni – quando non li demolisce.
Questione spartana – Ritorna,
in altra veste, ma nel corpo centrale: la standardizzazione. Dei destini, delle
qualità, delle attese. Facendo aggio sull’uguaglianza come diritto umano fondamentale,
che interpreta (appiattisce) come non differenziazione. L’uno vale uno, che ne
è la summa, reinterpreta (rilancia) l’appiattimento e la censura, anche letale,
che erano al centro della “questione spartana”.
Sparta, l’ideale spartano sono stati roba del secondo Ottocento, con
coda nella eugenetica, nelle leghe di salutismo tedesche, e nel “Mein Kampf”,
il programma di Hitler. André Gide ne fa la sintesi migliore in uno dei “foglietti”
sparsi del “Diario”, che si data a fine Ottocento: “La famosa questione spartana
dev’essere posta: perché Sparta non ha avuto grandi uomini. La perfezione della
razza impedì l’esaltazione dell’individuo. Ma questo permise loro di creare il
canone maschie; e l’ordine dorico. Con la soppressione dei meno dotati si
sopprime la varietà rara – fatto ben conosciuto in botanica, o almeno in floricultura, i fiori più belli essendo
dati spesso dalle piante di aspetto gracile”. O nella stessa eugenetica, per le
malattie da consanguineità, che i reali e gli altri “migliori” della terra producono
– hanno prodotto per secoli - sposandosi fra di loro.
Vangelo – È il manifesto
di una sovversione radicale, anche dichiarata, più volte. Un poema nomadico,
sradicato. Che termina con una rinascita, la Resurrezione – non quindi un
mistero, ma un fatto, un evento “storico” anche se non di fatto.
Come tali, in quanto cronaca e testimonianza di una rivoluzione, i
vangeli sono storici. Che non ci siano le “fonti storiche” – testi originali,
testimonianze contemporanee – non incide: sono altrimenti inimmaginabili, se non
come racconto di un ribaltamento. Di tutto, di singolarità totale, perfino da ultimo,
di rifiuto del Padre, una bestemmia. Fuori dalla famiglia, il Cristo, i
discepoli, i tanti personaggi. Fuori dalla chiesa, dall’autorità religiosa. Fuori
dal possesso, dall’idea di possesso materiale. Per una patria o stato o
comunità nomade, aperta – il Vangelo è un poema del nomadismo, in tutti gli aspetti
e gli aneddoti (episodi) del racconto. E per il contrario: per i legami
familiari, per la comunità di vita e di fede, per il possesso produttivo (bene
indirizzato),
Un messaggio di libertà. Si dice dell’individuo, della scoperta e la
fondazione dell’individuo, ma questo non c’è, c’è la libertà.
Vita – “I biologi
molecolari hanno la tentazione di descrivere la cellula come un organismo perfetto.
Non lo è. La vita è tanto meravigliosa quanto inefficiente, ridondante, piena
di accidenti.
“I fisici cercano semplicità e perfezione, ma l’evoluzione procede
per incrementi e aggiustamenti.
“Non sopravvive il più adatto in assolto m l più adatto in cere
circostanze”.
Paul Nurse, inglese, biochimico, Nobel 2001 per la Medicina.
zeulig@antiit.eu
Dante proscritto a Parigi nel
1308. In compagnia di un efebo angelico, uno dei tanti Godefroid dei romanzi di
Balzac, col quale condivide una stanza dalla guardia Tirechair, tiracarne, sul Terrain che è l’attuale piazza Notre Dame, il
quale non sa chi sono i suoi ospiti e li sospetta di magia o eresia. È il Dante
ascetico profetico della maschera mortuaria di Ravenna, o del ritratto
mortuario del “Trattatello” di Boccaccio: “un nibbio”, dall’“occhio d’aquila”, con
un “non so che di dispotico e di penetrante”, presente e remoto, “intrepido e serio”, mani “da guerriero”, naturalmente
autorevole, “al pari dello sguardo, i suoi gesti emanavano una potenza
irresistibile”, e “benché fosse di statura media, sembrava alto; ma guardandolo
in volto, era gigantesco”. Dante è a Parigi per ascoltare Sigieri di Brabante –
di cui ha salvato la posterità nominandolo nel “Paradiso”. Nel varo di una
nuova religione che Balzac, sotto l’influsso di Madame Hanska, immagina di aver
trovato in un Sigieri-Swedenborgh, di corrispondenze arcane tra paradiso e inferno,
sogni, angeli.
Un racconto poco noto, il meno
noto dei tre che compongono il “Livre mystique” del 1835, con “Louis Lambert” e
“Séraphita”. Balzac lo scrisse nel 1831, insieme col “Lambert”, incerto sul
futuro della sua opera, se far evolvere le narrative caratteriali e sociali
verso lo spirituale. Dante lo soccorrerà anche nella ricerca del nome complessivo
da dare alla sua opera, tra “Studi di costumi” e “Studi filosofici”: la “Commedia
umana”.
A Parigi Dante lo manda
Boccaccio, nel “Trattatello in laude di Dante”, per rendersi edotto di teologia
– sulla traccia di un accenno nella “Cronica” di Villani: dopo l’esilio a
Bologna, Dante va a Parigi. Sul fatto ci sono perplessità diffuse. Certamente
non andò a Parigi per ascoltare Sigieri di Brabante, la cui memoria è rimasta
sepolta fino al secondo Ottocento - tenuta in vita solo dal fatto che Dante lo
nomina nel “Paradiso.
Un racconto come un lungo, lento,
trattatello di teosofia. Nella prima redazione, il racconto era soprattutto dell’esilio.
Questo del 1835 è di una “nuova religione”. Balzac fa parlare Sigieri come Swedenborg,
di cui aveva appena letto e che mette ben sopra Dante stesso. Nella prefazione alla
seconda edizione del racconto, nel “Livre mystique” del 1835, lo fa continuatore
di una “teologia mistica”, cui si riprometteva di dedicarsi egli stesso negli “Studi
filosofici”: “Qui vedete Dante venire a far illuminare la sua ‘Divina Commedia’
dall’insigne dottore che sarebbe dimenticato senza i versi in cui il Fiorentino
ha consacrato la sua riconoscenza verso
il proprio maestro”.
Ma il Sigieri del racconto parla,
appunto, come Swedenborg. Una conferma di come Dante si presti, per la sua stessa
complessità, alla “latitudine di abuso” che Gianfranco Contini lamentava.
A suo modo, al modo rapsodico di
conoscenza di Balzac, Dante è per lui una costante. In collegamento con Dante
dà anche il proprio nome a due delle centinaia di personaggi e figure che
animano i suoi racconti e romanzi. Honorino, spiega qui Dante al giovane proscritto
suo convivente, per dissuaderlo da cattivi propositi, è al centro di una storia
non scritta della “Divina Commedia”: è un suicida per amore della sua sposa, con
la quale però per questo non ha potuto congiungersi con lei in paradiso, e vaga
fuori della Gerusalemme celeste. Honorina, nel romanzo omonimo del 1843, si
difende nelle sue tante incertezze amorose così: “A nessun uomo, foss’anche
sant’Agostino, che per me è il più tenero dei padri della Chiesa, è dato entrare
negli scrupoli della mia coscienza, che per me sono i cerchi invalicabili dell’inferno di Dante”.
Con una introduzione irta di Daniela
De Agostini. E una postfazione distesa di Andrea Mazzucchi, che si interroga su
come Balzac possa essere venuto a conoscenza del “Trattatello”, che ancora non
era stato tradotto in francese, e la cui lettura in originale giudica
fortemente improbabile. La chiave è il corso di letteratura francese di
Villemain, l’iniziatore degli studi di letteratura comparata, pubblicato nel
1830. Qui, per spiegare la popolarità di Dante presso i contemporanei, Villemain
traduce alla lettera un altro aneddoto del “Trattatello”, di Dante a Verona,
dove alcune donne, sedute davanti casa, vedendolo passare si dicono: “Vedete
colui che va ne l’inferno, e ne torna”, riportandone “la barba crespa e il colore
bruno per lo caldo e per lo fummo che è là giù”. Che è come Balzac tratteggia l’esule
a Parigi, pigionante nello spiazzo di Notre-Dame.
Un racconto dedicato alla Almae sorori, la sorella Laure, la “sorella
che dà vita” – soror alma viene dall’“Eneide”, X, 439. Inizialmente,
nel 1831, era dedicato a Rossini: in epigrafe recava “O Patria!...”, dal “Tancredi”.
Honoré de Balzac, I proscritti, Salerno, pp. 109 € 8
letterautore
Balzac – Fu “mistico”
per due terzi della sua vita attiva – della mistica di Swedenborgh.
Cervantes – “Uccise la
cavalleria con una commedia scritta”, Balzac, I proscritti”.
Dante – Non piaceva a
Lamartine, di suo un po’ petrarchesco: “poeta barbaro”, “poema illeggibile”.
Nemmeno a Flaubert, che così ne scrisse a Louise Colet l’8-9 maggio 1852; “Ho
letto ultimamente tutto l’Inferno di
Dante (in francese). Ha delle grandi cadenze, ma quanto è lontano dai poeti
universali, che non hanno cantato, essi, il loro odio di paese, di casta o di
famiglia!... Quest’opera è stata fatta per un tempo e non per tutti i tempi; ne
porta il sigillo. Tanto peggio per noi che la capiamo meno, tanto peggio per
essa che non si fa comprendere!”.
Gide
invece si commuove sul Purgatorio,
nel “Diario”.
La
fortuna di Dante in Francia è stata alterna. Era di cultura francese, si
direbbe oggi, per la mediazione del suo maestro Brunetto Latini, e per le ascendenze
personali e del suo gruppo di amici poeti nella poesia cortese, di cui lo stil
novo è per molti aspetti una adattamento. Ma nel Trecento, a dispetto dell’aneddoto
tramandato da Boccaccio, di una sua lunga permanenza a Parigi durante l’esilio,
dopo Bologna, per addottorarsi in teologia (ripreso da Balzac nel racconto “I proscritti”,
dove fa di Dante l’interprete del misticismo … swedenborghiano), è stato
censito dagli studiosi un solo conoscitore di Dante, il cardinale Bertrand du
Pouget, Bertrando del Poggetto, l’ “angelo della pace” di papa Clemente XII,
che con una truppa di mercenari tra il 1320 e il 1327 sconfisse i principati
ghibellini ad Asti, Pavia, Piacenza e Parma, riprendendo per ultimo anche
Bologna. Ancora Chateaubriand, nel “Genio del cristianesimo, pone Tasso e
Milton sopra la “Commedia”. Dante irrompe in Francia con Delacroix, col dipinto
“La Barque de Caron” al Salon del 1822. Seguito da V. Hugo, in clima romantico
e delle “rovine”, e poi da Sainte-Beuve, analista della “Via nuova”. Delacroix se
ne dice affascinato in avvio del “Diario”: “Il Dante è veramente il primo dei
poeti. Si freme con lui, come davanti alla cosa. Superiore in questo a Michelangelo,
o piuttosto diverso; perché è sublime altrimenti, ma non per la verità”.
Balzac
ne farà un pilastro del “Livre mystique” del 1835, col racconto “I proscritti”
del 1830 (confluito nel “Livre Mystique” insieme col racconto coevo “Louis
Lambert” e col successivo “Seraphita”). Ne “I proscritti” Dante è a Parigi per
discutere di teologia con Sigieri di Brabante. È raffigurato da Balzac in dettaglio “come un
nibbio”, da “vecchio”. Con i tratti della maschera mortuaria di Ravenna, e con
quelli del “Trattatello” di Boccaccio - che non era stato ancora tradotto in francese
e Balzac non conosceva, ma ne sapeva abbastanza da un corso universitario di Villemain.
Il “Cours de littérature française”, che inaugurò gli studi di letteratura
comparata. E convivente con un bellissimo nobile ragazzo, “bianco e roseo”, di “candido
collo”, “vero e proprio collo di cigno”, “grazioso collo di donna”, e di “virginea
bianchezza della pelle”. Non c’è – ci sarà? – un Dante gay.
Gide – Lo studio dello
scrittore vuole molto italiano - così annota nel “Diario” agli inizi della carriera
di scrittore, 1894 - e comunque severo: “Niente opere d’arte, o pochissime, e
molto serie: (niente Botticelli), Masaccio, Michelangelo, la ‘Scuola di Atene’
di Raffaello; meglio ancora alcuni ritratti o alcune maschere: di Dante, di
Pascal, di Leopardi: la fotografia di Balzac, di…”.
Montaigne – “L’umanissimo
Montaigne, ondyant e divers
sul molle origliere del dubbio, incomparabile modello della nostra mediocre natura”,
è il ritratto del francesista Vittorio Lugli, in apertura a “Dante e Balzac”: “Montaigne
che onestamente confessa di non sentire gli eroi, i santi. Non li nega, li
lascia nella loro ara superiore…”,
Napoleone – Incantò la
migliore Europa, non solo Hegel. Il 1mo ottobre 1808 Goethe registra nel diario
l’invito ad assistere, insieme con altri dignitari, “al levé dell’imperatore Napoleone nel castello di Erfurt” – nel 1808,
vent’anni dopo la rivoluzione. Il giorno dopo Napoleone convoca di nuovo Goethe
a Erfurt e lo fa assistere al suo pranzo con Talleyrand e col sovrintendente
alla Finanze, Daru (il cugino e protettore di Stendhal). Due settimane Goethe dopo
registra commosso la concessione della Legion d’onore, la massima onorificenza
francese. – che “non smette mai di
indossare”, scriverà Wilhelm von Humboldt alla moglie (“ha preso l’abitudine di
chiamare chi gliene ha fatto dono il mio imperatore”).
Proust – Il suo “uranismo” lascia perplesso
Gide. Nel 1921, benché ormai confinato a letto, moltiplica i contatti con Gide,
in previsione dell’uscita di “Gomorra”. Mandando a prenderlo il suo chauffeur, “il marito di Céleste”,
annota Gide nel suo “Diario”, con formule cerimoniose che il brav’uomo doveva
imparare a memoria e ripassare nel tragitto, poiché le ripete tal quali, e dall’inizio,
se interrotto. Gide annota di avere dubitato che “non facesse un po’ di scena
con la malattia per proteggere il suo lavoro” – aggiungendo: “Il che mi sembrava
molto legittimo”. Ma presto si ricrede, trovandolo “molto sofferente”, poiché “deve
restare (immobile) per ore senza poter nemmeno muovere la testa”, e “coricato
tutto il giorno, per lunghi giorni di seguito” - morirà qualche mese dopo. Annota anche che “lungi dal
negare o dal celare il suo uranismo”, la forma passiva, femminile, dell’omosessualità
maschile, “la espone, e potrei quasi dire: se ne vanta”.
Su “Sodoma” Gide
si trova a disagio. Un mercoledì di maggio (1921) annota: “Non abbiamo parlato,
ancora questa sera, d’altro che di uranismo: dice di rimproverarsi questa «indecisione»
che l’ha fatto, per nutrire la parte eterosessuale del suo libro, trasporre «all’ombra
delle fanciulle in fiore» tutto ciò che i suoi ricordi omosessuali gli proponevano
di grazioso, di tenero e di fascino, sicché non gli resta più per Sodoma che del grottesco e del ripugnante.
Ma si mostra molto colpito quando gli dico che sembra aver voluto stigmatizzare
l’uranismo; protesta; e capisco infine che ciò che noi troviamo ignobile,
oggetto di riso o di disgusto, non gli sembra, a lui, così ripugnante.
“Quando gli
chiedo se non ci presenterà mai questo Eros sotto specie giovani e belle, mi
risponde che, anzitutto, ciò che l’attira non è quasi mai la bellezza e che
ritiene che essa non ha che poco a vedere col desiderio – e che, per quanto
riguarda la giovinezza, era ciò che poteva con più facilità trasporre (ciò che
si prestava meglio a una trasposizione)”.
A fine anno, il 2 dicembre, Gide ritorna su
Proust, “Sodoma”, che taccia di opportunismo: “Ho letto le ultime pagine di
Proust (numero di dicembre della NRF) con, anzitutto, un soprassalto d’indignazione.
Conoscendo quello che pensa, quello che è, mi è difficile vederci altro che una
finta, che un desiderio di proteggersi, che un camuffamento, il più abile,
perché non può tornare a vantaggio di nessuno di denunciarlo. Di più: questa
offesa alla verità rischia di piacere a tutti: agli eterosessuali di cui
giustifica i pregiudizi e lusinga le ripugnanze; agli altri, che profitteranno
dell’alibi e della loro scarsa somiglianza con quelli che ritrae. In breve, nella
vigliaccheria generale, non conosco nessuno scritto che, più che il Sodoma di Proust, sia capace di
affossare l’opinione nell’errore”.
Nel primo di
questi incontri del 1921, il 14 maggio, Gide ha portato a Proust una copia di “Corydon”,
la prima o seconda edizione riservata,
in poche copie, per gli amici – la pubblicazione avverrà nel 1924, dopo “Sodoma”.
Una difesa dell’omosessualità, in forma di dialogo, prendendo spunto da un
processo nel 1910 in cui un uomo viene processato per omicidio e condannato, in
tutti i gradi di giudizio, esclusivamente perché omosessuale.
Venezia – Vittima di Thomas Mann “La morte a
Venezia”, che l’ha condannata a “essere” malinconica e lugubre? Marco Cicala lo
sostiene sul “Venerdì di Repubblica”: “lo straordinario racconto lungo – o romanzo
breve” di Thomas Mann - ha “arrecato enorme nocumento all’immagine della città,
rafforzando un cliché fatto di suggestioni estenuate e agonizzanti. Tutto un
catalogo di emozioni lugubri che saltando tra calli, ponti, campi, rive e
vaporetti, moltissimi di noi non hanno mai provato in vita loro”. È vero, anche la
Venezia di Proust e quella di Sartre, che ne voleva fare un lungo racconto,
sono malinconiche e un po’ jettatorie. Il carnevale stesso è, al cinema,
specie se di opere shakespeariane e mozartiane, un sorta di danza macabra. Ma è anche vero, per esperienza, che da novembre a marzo , tramontato il sole,
è una città di ombre, vuota, gelida.
letterautore@antiit.eu
A febbraio (ma anche a marzo) si sono vendute più
auto elettriche che a combustione. Perché mezzo regalate dal govrrno. Elettriche
ibridi, beninteso, che poi vanno a scoppio, non essendoci le colonnine di ricarica, né sulle strade e autostrade né in città.
Impensabili, se non fossero le più vendute, le
ibride plug-in. Che si ricaricano
cioè mandando il motore a scoppio. Un capriccio, senza effetto sull’ambiente, e
oneroso per le casse statali. La protezione dell’ambiente come un capriccio,
uno dei tanti rivoli dello shopping compulsivo, dell’economia voluttuaria.
“Con una dieta sostenibile l’impronta idrica
dei pesi dell’Unione Europea potrebbe essere ridotta del 23 per cento”. “Impronta idrica” è l’acqua utilizzata per bere, lavare, pulire, cucina e, più
quella utilizzata in agricoltura e nell’allevamento per produrre ciò che
mangiamo, e quella utilizzata
nell'industria per produrre ciò che utilizziamo. Si conserva acqua, a livello planetario, con una dieta? Investire negli
acquedotti, recuperando quella metà dell’acqua a usi domestici e produttivi che si
disperde nel trasporto non è all’ordine del giorno. Non fa ecobusiness, la dieta lo fa.
Una
galleria di figure, di paese per lo più. Un mosaico. Un puzzle: completandolo,
un signor Walser un po’ bislacco un po’ divertito, solitamente nei campi, o in
paese, con qualche gita in città, buonannulla, buontempone, si ricompone. Un
autoritratto per pennellate vaghe. Svagato ecco, apparentemente, gnomico a ogni
passo – un insieme di “pensierini” se ne possono collezionare.
“Camuffate
confessioni”, insinua di queste piccole prose la presentazione, “in una
sequenza di autoritratti”, e così le trova il lettore. I pezzi al centro della
raccolta, “Erich” e “Titus”, lo dicono: “Tutto lo riguardava molto e per
niente. Non essere mai d’accordo con sé stesso era una delle sue peculiarità”,
un tipo singolare, che si vede (vuole) singolare. E: “Del fatto di essermi un
tantino istupidito vado decisamente fiero. Sono orgoglioso e limitato”. O: “Per
chi non abbia la buona volontà di mentire non
c’è più niente da fare. Di rado è decente essere sinceri”.
Prose
umoristiche, sui dolori di Werther, sugli amori di Parsifal, sulla ragazza
fine, a se stessa. Malinconiche, ripetitive. Sull’esempio di Gottfried Keller, molto citatoPopolari anche, völkisch: Preziosa, la giovane bella che
s’intrattiene al caffè con lo sicimmiotto, all’improvviso è “l’ebrea”. Di un
viandante senza posa, più spesso nell’atto del lèche-vitrine, che molto si diverte a guardare, dall’esterno, senza
domandarsi o congetturare. Che
a un certo punto evoca lui stesso l’“Idiota” di Dostoevskij, solo bighellone.
Con un pizzico d’ironia: “Io non sono assolutamente idiota (idiota “in assoluto”,
n.d.r.?), anzi sono sensibile a ogni cosa ragionevole. Non sono all’altezza di
un simile ruolo, solo, talvolta, leggo un po’ troppo”.
Robert
Walser, La rosa, Adelphi, pp. 146 € 13
astolfo
Agalmatofilia
–
L’amore delle statue – c’è un amore delle statue - la chiamano agalmatofilia,
c’è in qualche manuale psichiatrico. E sarebbe diffusa, non solo tra gli scultori. La
Venere di Cnido, famosa per eccitare gli osservatori, non è un caso isolato. Né
il Pigmalione di Ovidio, una passione di tale intensità da trasformare la
statua in persona viva. L’amore vi prende diversa valenza.
Riguarda però forme perfette. Solo statue
femminili a Olimpia, stadio degli agoni maschili. L’uomo è - era - satiro, un
mezzo capro. La statua maschile deve aspettare Michelangelo, e piuttosto
torcersi, tormentarsi – il David è di culto perché è, era, un’eccezione.
America tedesca– L’America fu per essere tedesca,
invece che inglese, come si sa. Dalla Vinnland dei vichinghi, che vi sono
arrivati, dice Grozio, per via di terra, loro uomini di mare, al dottor
Kissinger – o a Woody Allen, che nasce Königsberg, la città di Kant. Furono i
soldati tedeschi di re Giorgio, i reggimenti dell’Assia, a propiziare a Trenton
nel New Jersey la prima vittoria e il carisma di Washington - a Germantown invece sconfitta dura per gli americani il 4 ottobre
1777, a causa della nebbia. Fu per una decisione a suo tempo minoritaria che
l’America parlò inglese e non tedesco. Il dollaro è il tallero. “George Washington
crossing the Delaware”, il (tardo) dipinto cardine della storia americana, è di
Emmanuel Gottlieb Leutze, svevo di nascita, della scuola di pittura di Düsseldorf.
Aveva
torto il germanista Cesare Cases a dire il tedesco – la lingua tedesca - “americano
travestito”: aveva voglia di épater le
bourgeois, ma non senza fondamento. Ovunque s’incontrano in America -man, –burg
e -ich, e le case col tetto spiovente
che fanno Germania attorno a Filadelfia, cuore della nazione, tra Harrisburg e
Gettysburg. È tedesca pure Yorkville a New York. Dietrich è il cognome più
diffuso, con Hoffman, con una e due -n.
Eisenhower si scriveva Eisenhauer, Smith spesso Schmidt. È tedesco,
postnomadico, l’uso americano di cambiare i mobili ogni tre anni, magari per
ricomprarli uguali. E il coniuge, seppure non con la stessa frequenza: il divorzio facile non è inglese, è
piuttosto tedesco, postnomadico, viene dal ripudio. Quentin Tarantino ha
avviato il riconoscimento col dottor Schultz, il virtuoso cacciatore di taglie
di Django unchained, e l’eroina
Brunhilde che parla tedesco.
I tedeschi si distinguevano anche per
qualità degli insediamenti, oltre che per essere numerosi. In America più che
in ogni altro posto dice Kant nell’“Antropologia”, i tedeschi emigrati si sono
distinti per formare comunità nazionali “che l’unità della lingua e in parte
anche della religione trasforma in una specie di società civile che, sotto una
superiore autorità, si distingue nettamente dagli insediamenti di ogni altro
popolo per la sua costituzione pacifica e morale, l’attività, il rigore e
l’economia. Questi sono gli elogi”, concludeva Kant, “che gli stessi Inglesi
fanno dei Tedeschi dell’America del Nord”.
Non
si dice, ma molto”Mein Kampf” Hitler tirò fuori da “The passing of the Great
Race”. La scomparsa non di una corsa, automobilistica o podistica, ma della “razza
grande”, nordica. Opera dell’eugenista celebrato Madison Grant, che fece le
leggi per l’immigrazione negli Usa, a danno dei latini, gli slavi e gli
asiatici neri, contro la misgenation
e per la “morte misericordiosa” dei portatori di handicap.
Attrici – La presenza
femminile in teatro, in ruoli riconosciuti, professione già esercitata nell’antica
Roma, trova un riscontro in età moderna per prima a Roma nel 1564, il 19
ottobre, sulla base di un contratto di recitazione con Lucrezia di Siena. Che quindi resta nella storia del teatro come
la prima attrice di professione. Che agiva col suo proprio nome. Degli stessi
anni 1560, con grande glamour ma
senza contratti, si esibivano Vincenza Armani, di suo anche nota ricamatrice,
nonché poetessa e cantante lirica, e Barbara Flaminia, le prime “primedonne”
documentate della Commedia dell’Arte. Le due avrebbero anche gareggiato a chi
era la più brava nel 1567 a Mantova. Vincenza Armani morì presto, di 38 anni,
si pensa avvelenata da un amante rifiutato.
Bronte - I rivoltosi di
Bronte che Nino Bixio fece fucilare non erano contadini affamati ma professori,
avvocati, medici e medi proprietari che volevano le terre della ducea in base
alle leggi antifedudali del 1848 (?? Di prima? 1820? Call). C’erano “squadre
popolari” ma finanziate dai possidenti agiati. Due anni dopo, a fine 1862, la
Commissione parlamentare sul brigantaggio ne indicherà la causa nei “ritardi
nella ripartizione delle terre pubbliche”.
Gottinga – “Un piccolo e
triste paese in una regione molto triste” (per il medico francese Clément-Joseph
Tissot, chirurgo nell’esercito di Napoleone, pioniere della fisioterapia) è
stato al centro per due secoli dell’“arianità”, della guerra in Europa a chi è
più “puro” degli altri, del nazionalismo, dei primati nazionali. Lichtenberg ci
insegnò scontento la Fisica. Ancora nel 1786 un viaggiatore tedesco ne
lamentava le “vie puzzolenti”. Ma era già il centro di costruzione della
cultura ariana, anglo-tedesca. All’università Georgia Augusta, fondata nel 1737
da Giorgio II, principe di Hannover e re di Gran Bretagna.
La
Georgia Augusta resta negli annali perché vi studiò Schopenhauer, e prima di
lui Wilhelm von Humboldt e Metternich, vi si laureò Heine. Ma Gottinga fu soprattutto
famosa come culla dell’“arianesimo”, quello filologico e etnico, non quello
cristiano. Rinata dopo
la disfatta nel ‘18 a centro meritorio della Fisica, con la meccanica
quantistica di Heisenberg, Pauli, von Neumann, Oppenheimer e Born, Gottinga
è stata per due secoli la culla della storia eretta
a scienza grazie all’invenzione della filologia, e del modello “ariano” della
storia greca: dal Nord arrivano i Dori, parlanti indo-europeo, e soggiogano
la cultura egea.
Nel 1770 Blumenthal aveva imposto la prima graduatoria
delle razze, inventando il caucasico. Winckelmann la Grecia delle statue patinate
quale ideale di bellezza. Tra il 1820 e il 1840 Karl Otfried Müller, il filologo
di Gottinga, dà significato culturale e politico alla storia “antica moderna”,
con la scoperta dei Dori. Era la filologia dei primati.
astolfo@antiit.eu
Perfomance mostruosa di
Elio Germano nelle vesti di Nino Manfredi giovane, in scena in ogni singolo
fotogramma per due ore, sempre accattivante su mille registri. Ed è forse questa
la chiave del fascino del racconto, girato da Massimo Manfredi quattro anni fa,
riproposto da Rai Fiction per i cento anni della nascita di Manfredi padre.
Le vite si possono raccontare sempre
romanzesche, sorprendenti. Questa non ne ha bisogno, l’aneddotica è talmente
vasta che basta inscenarne qualche pezzetto. Qui è Manfredi giovane: dal sanatorio
“Forlanini” a Roma all’Accademia di Arte Drammatica, col “dottore” Orazio
Costa, che Camilleri ha abbondantemente celebrato. Compagni di corso, di
bevute, e di lunga impecuniosità Tino Buazzelli (il deuteragonista: il Grande
Attore Classico, impersonato da Stefano Fresi, anche lui di larga presenza scenica e sempre in palla), Rossella
Falck, Gianni Bonagura. O forse il fascino è in questa compagnia, pure così
variegata, di scuola e di vita – in tanta bravura quella del regista sembra perfino
ovvia.
Massimo Manfredi, In arte Nino, Rai 1, Raiplay