sabato 17 aprile 2021
Problemi di base cinesi - 632
S’intendono Merkel e Macron con Xi
senza Draghi: il nome fa paura?
Cronache dell’altro mondo - bellicose (107)
La guerra in Afghanistan sarà stata la più
lunga mai combattuta dagli Stati Uniti, venti anni. Il doppio della guerra di
Troia. Senza gloria e senza un progetto: non imperialista, non contro il terrorismo,
non per costruire una nazione, pacifica, democratica, “avamposto dell’Occidente”.
Una guerra anche questa perduta.
Non c’è mai stata requie per gli Stati Uniti
dacché sono entrati in guerra l’11 dicembre 1941. Tre anni di guerra di trincea
in Corea, lo sbarco in Libano, dieci di guerra a tutto campo in Vietnam, guerra del
Golfo, Serbia, Afghanistan, Iraq.
Solo negli anni 1980, con i repubblicani di
Reagan, gli Stati Uniti non hano fatto guerre – giusto una per ridere a Granada.
Il primo amore di Calvino
“Conobbi Calvino nel ’55. Un anno
che fu poi fatale per me”, è la dichiarazione d’avvio. E a seguire:
“Cominciava, e forse il mio libro ne era una delle prime espressioni, il
malessere di una generazione che aveva creduto ingenuamente che bastasse
debellare il fascismo ufficiale per ricostruire una società moralmente
vivibile”.
Il “libro” è un romanzo, “I
coetanei”, che si presentava con una
prefazione ammirata di Gaetano Salvemini, ancora inedito. L’anno sarà “fatale”
anche per altri eventi (la sparizione del marito, Alessandro “Sandrino” Contini
Bonacossi), ma anzitutto per questo: nel numero speciale del “Ponte” per il
decennale della Resistenza, Calamandrei, Tumiati e Enriques Agnoletti avevano
incluso un capitolo dei “Coetanei”, col titolo “Un partigiano torna a Firenze”
che ne riassumeva lo spirito, trasfigurando il ruolo di Sandrino. “Il pezzo
piacque a Vittorini, il quale venne a Firenze” per opzionare il romanzo per i
suoi “Gettoni”. Poi ci ripenserà – Elsa era della società bene fiorentina - e lo
passerà a Calvino per le edizioni Einaudi. Da qui l’incontro.
Nello stesso anno, il 31 luglio,
scompare Sandrino, il marito di cui lei fa grande caso in tutto il libro per la
cultura, lo humour e l’uso di mondo. Scompare nel senso che si dilegua, dove
non si sa, né il motivo: riapparirà un anno più tardi, chiederà la separazione,
non concessa dalla moglie, e avvierà complesse procedure ereditarie essendo
morto a ottobre, tre mesi dopo la sua sparizione, lo zio-padre Alessandro, nella
cui casa era stato allevato, orfano di entrambi i genitori, morti pochi giorni dopo la sua
nascita. Lo zio-padre, e soprattutto sua moglie, Vittoria Feroldi, cacciatrice
“naturale” di opere e artisti, avevano creato la più grande e qualificata
collezione d’arte privata al mondo. Che Alessandro, nominato per questo
senatore da Mussolini, aveva promesso allo Stato. Ma tra i suoi due figli e il
figlio acquisito Sandrino, coerede con pari diritti, l’eredità sarà una storia
lunga alcuni decenni – Sandrino morirà suicida, a New York, nel 1975.
Calvino stesso è uno dei
“coetanei”, dei delusi: “Ripensando a
quel Calvino incontrato nel 1955, ci si rituffa nell’inquieto fervore di
sentimenti che già presentivano la dispersione delle speranze”. E subito dopo,
lamentando l’inconsistenza dell’apparato critico su Calvino in morte e dopo,
solo in Citati trova una meditata verità, “l’aspetto esistenziale, rinunciatario
della realtà, che (ne) aveva connotato gli ultimi anni”. Lei lo testimonia alla
fine della narrazione: “Ho storicamente testimoniato del distacco definitivo di
Calvino dal comunismo. Fu a un suo incontro casuale con Alicata alle Acque Albule a Tivoli”. Con
Alicata, depositario nel Pci dell’ortodossia, Calvino discute a tu per tu “per
oltre mezz’ora, in piedi sotto il sole”, mentre con Elsa stava per uscire dallo
stabilimento. Alicata gli contesta “La bonaccia delle Antille”, “lo splendido
racconto apparso su ‘Città Aperta’ che aveva deliziato mezza Italia”. Calvino “è
teso, quasi aggressivo”. E una volta in macchina “ebbe un commento
sprezzante”.
Ma il disagio lo ha rilevato in
precedenza, a margine della vicenda editoriale dei “Coetanei”: “È l’acme di una
crisi profonda quella che nel ’59-60 spinse Calvino fuori dall’Italia”.
Dapprima in America, poi a Parigi.
A questo punto lei tronca la
relazione. Calvino le scrive, come sempre, lunghe argomentate lettere, lei non
risponde, lui continua a scriverle, e niente: “A me era accaduto un fatto
provvidenziale: quel nuovo Calvino anche confidente, ma guardingo, prudente,
sospettoso, avaro soprattutto di se stesso, non interessava più. Era diventato
un estraneo e non ero più portata a condividerne emozioni e idee”. I biografi diranno se la relazione è
finita come qui si narra: “Decisi un distacco assoluto e severo durato fino
alla sua morte”. Ma è vero il seguito: “Calvino era già in fuga da se stesso,
da Einaudi, dall’Italia, da quanto l’aveva determinato fino allora”.
Dalla biografia, si sa che con “I
coetanei” lei vincerà il premio Viareggio opera prima, sempre nel 1955. E che
dopo la rottura con Calvino sarà a Roma critico teatrale per “Pensiero
Nazionale”, quindicinale dei fascisti di sinistra, e per “Il Lavoro”, il
quotidiano socialista di Genova, nonché per “Opera Aperta”, trimestrale del Pci.
Amica di Cecchi, Bontempelli, Guttuso, Savinio, Trilussa. Ma soprattutto di Carlo
Levi. Nonché di Luchino Visconti, che con lei ricorda il sempre amato fratello
morto, uno dei flirt dell’attrice giovane, e qualche volta ride – “veder ridere
Visconti era raro”. E di più di Pasolini, che la menziona in versi allegri, distesi, la considerava una familiare, in confidenza
con la madre Susanna, di sostegno nelle burrascose trasferte al festival del
cinema di Venezia, e in ritrovamento privatissimo a Casarsa, con la madre e le zie,
le sorelle della madre, e i cugini Graziella e Nico, e la vorrà anche negli
ultimi film “Salò-Sade” e in “Rogopag”, nell’episodio “La ricotta”. Molte memorie lei confiderà a Elio Pecora, suo assiduo per trent’anni.
“La Repubblica” e Edith Singer,
“Chichita”, Calvino, la vedova, tenteranno di mettere in ridere la sua storia.
Lei non se ne adonta, si difende con Moravia: “Le lettere d’amore si difendono da
sé”. Limitandosi a riflettere. “Ridere di un amore, deridere chi potendo testimoniarlo lo fa, è
sintomo nel nostro paese della più sinistra imbecillità”. Di fatto è stata
destinataria di centinaia di lettere di Calvino appassionate – “il più bel
carteggio d’amore del Novecento” a detta di Maria Corti, nel cui fondo manoscritti
a Pavia sono confluite. Un caso eccezionale nel Novecento – l’altro epistolario
celebre, di Celan con Ingeborg Bachmann, non è così appassionato a giudicare da
quel poco che delle lettere di Calvino si sa.
Un libro onesto. Pensato e
scritto, dopo un “riserbo assoluto per venticinque anni, in seguito a un
articolo di Citati, neofita di “Repubblica”, che il 17 luglio 1990 tagliava
Calvino in due, e ne annientava “la prima fase”, dei racconti e le favole,
addebitandola a “False Contesse” che lo avrebbero circuito con l’opulenza. Ma
senza eccessi in senso contrario, nemmeno contro Citati. Il racconto dell’amore è dimesso, e molto contestualizzato.
Nel disincanto, nella ricerca di sé, di entrambi. Si incontrano per mesi negli interstizi, con
sotterfugi, con lunghi viaggi in treno, per poche ore o pochi minuti. Per un periodo,
dopo la sparizione del marito, quasi convivono, lui le sta “molto vicino”. La
storia s’avvita sullo sfondo del dramma Contini Bonacossi, per l’eredità e la
destinazione della grande collezione d’arte: “Ero tormentata dalla pietà cui il
pensiero di Sandrino mi condannava, quello della solitudine in cui si murava,
certo per non coinvolgermi”. Per questo, “per oltre un anno non frequentai nessuno
per paura di nuocere a mio marito”. Non frequentò nessuno da socialite. Frequentò invece Calvino,
quasi ogni giorno.
Convivranno nei week-end in una “villetta” che lei affitta a
Caponero (Ospedaletti, Sanremo), per stare lontano da Firenze e da Roma. Un alloggio
che lui ha individuato per lei – il primo “segno pratico” di Calvino, altrimenti
confuso nella relazione, adolescente attardato. Lui viaggia da Torino nei week-end,
mentre lei frequenta casa Calvino, la madre. Entrambi frequentati da Carlo Bo,
Betocchi, che vanno a trovarli, con le mogli – tutti ricordati con affetto. Con
molte nuotate. E molte lettere, due al giorno – perché a Ospedaletti non c’era
il telefono. E con la scoperta
improvvisa: “Cara, tu sei il mio primo amore”. Lei s’indentifica nella
Viola-Paloma del “Barone rampante”, 1957 – di cui la scrittura fu alacre sulla
spiaggia di una caletta a Praia a Mare, l’estate precedente: “La prima copia di
stampa del Barone rampante Calvino me
la portò di persona a Milano dove, al piccolo teatro con Strehler, recitavo
Madame Roland nei Giacobini. In
stampa il libro era dedicato «A Viola» e a mano «A Paloma, il barone»” - la
prima copia “ci rese molto felici”.
Con molti lampi sul teatro. Sulla
“teatralità filologica” di Gadda. Sul corpo recitante dell’attore, compresi i
silenzi e le pause, i gesti minimi, di Eduardo, di Renzo Ricci. Che Renato
Simoni avrebbe portato dalla Russia nel 1920, da Stanislavsky, ma che de’
Giorgi convincente trova in Eleonora Duse – che insegnò le pause a D’Annunzio,
il non detto, glielo impose (è il D’Annunzio che si salva). “Metodo” passato dalle
sorelle Gramatica, sue allieve, di Duse, ai mattatori degli anni 1930-1940. Già
autrice, prima dei “Coetanei”, di uno “Shakespeare e l’attore”, saggio ammirato
e sostenuto da Giacomo Debenedetti, Gerardo Guerrieri e fino a Oreste Del
Buono.
Con una coscienza acuta dei tempi.
Di Calvino comunista incerto e non solo. Degli anni 1950 del disincanto, dopo le
aspettative della Resistenza – nella quale il marito Sandrino aveva avuto una
parte molto attiva, a fianco di Ferruccio Parri, e ancora con la presidenza
Parri. Le tre pagine finali sull’opinione pubblica di fatto smarrita all’epoca
del (finto) comunismo di facciata, nelle lettere e le arti, restano chiare e
semplici. Personalmente salva il giovane Giorgio Parisi, il fisico teorico che
si adopera a regolare il caos, e Benigni, col tardigrado Fellini: i tipi dell’onestà,
o della realtà-verità, anche in scena, a fronte del tradimento degli
intellettuali. Ma un tradimento, così vasto e radicato, che è un modo di essere
più che un opportunismo. Un’incapacità, un’impossibilità – la “testimonianza”,
che sempre è coraggiosa, è vivida e chiara.
Con più di una verità ancora incognita
su Calvino. Minime. “Calvino usava il perbacco”. Non “capiva” Pasolini, “che
gli scriveva lettere incantevoli”. “Scriveva a mano, e finché è durato il
nostro amore non ha mai guidato la macchina”. E non: “Mancava a Calvino il
senso della colpa e del tragico”. Sulla vita, la vita materiale, pratica: a
trent’anni, già scrittore riconosciuto,
vive in una stanza da affittacamere, con poco o nulla riscaldamento, il bagno
in comune, il telefono nel corridoio. Sui traumi sotto la riservatezza: poca
attenzione, e impazienza, balbuzie, scarsa affettività. Alla Meridiana, la villa
di famiglia a Sanremo, si sente, le scrive, “chiuso come un riccio”: “Ci aveva
vissuto più di vent’anni, tutta l’infanzia e l’adolescenza, ma non riusciva a
sentirla sua – uomo di città, in confidenza con le capitali d’Europa, a casa
sua in tutte, ma non nella sua”.
Analizza Calvino a più riprese,
frammentaria per non appesantire la narrazione, ma sempre al punto, non con superficialità,
né con acredine. L’“aquilotto” della madre”, lo “scoiattolo” di Pavese, tanti
gli vogliono bene, aveva 33 anni all’inizio della relazione, e nessuna
fidanzata, lei 41, sposata, una ventina di film da protagonista, e dieci di
teatro nelle compagnie più importanti, Ricci-Pagnani, Ricci-Magni, con Renato Simoni,
e al Piccolo con Strehler, nonché in un suo Teatro delle due città, uno stabile
Firenze-Bologna. Al primo incontro, una cena in casa dominata dalla conversazione
arcibrillante di Sandrino, ne avverte il “mistero”: “Più tardi seppi la forte
tensione a capirsi che c’era in Calvino. Sospettava di sé. Spiava negli altri
le ragioni delle loro sicurezze e se ne stupiva. Non sempre si stimava ma
sempre si proteggeva. C’era molta infanzia in tutto questo, un’adolescenza
inconsumata”. Poche righe prima, ascoltando la conferenza che Calvino aveva
tenuto, intitolata “Il midollo del leone”, ha annotato: “Un senso del «gioco»,
nel significato francese del verbo «recitare» che non poteva sfuggire al mio
gusto del teatro; fu questo a rendermi curiosamente familiare Calvino”. Anche
se sa, o avverte subito da quel primo contatto, che “Calvino non amava le donne
che scrivevano”.
Una galleria di personaggi fa
memorabili in breve ma a tutto tondo, per aspetti a volte sorprendenti dei più
noti. Bernard Berenson. Paola Olivetti, prima moglie di Adriano, sorella di
Natalia Ginzburg, molto amica di Carlo Levi, che era andata a trovare pure a
Eboli. Carlo Levi. Anna Magnani, amica e confidente, un ritratto d’antologia.
Palazzeschi – Montale e Palazzeschi, un cameo
noto e tutavia interessante. Ornella Vanoni. Renzo Ricci. Ruggero Ruggeri.
Memo Benassi, che a tutti sbatteva in faccia la sua omosessualità, ma era solo.
Savinio. De Chirico. Savinio e De Chirico dietro la loro imponente madre a
Parigi. Eva Mameli Calvino, la madre, tanto più sorprendente in quanto solo qui
rappresentata, benché personaggio notevolissimo. Il suo giardino delle meraviglie,
che mai Italo e il fratello Floriano considereranno casa propria. Pasolini.
Susanna Pasolini, la madre, la vera Susanna.
Elsa Morante - con i rassegnati Moravia e Pasolini che distribuiscono le
fettuccine ai “regazzini”, a Trastevere e fuoriporta.
Una brutta foto in copertina, di
due bocche incattivite (era rispondente invece la copertina della prima
edizione, Leonardo, dove campeggiava lei sola, elegante, quale era di fatto), come
in battibecco, per un libro sorprendente - un minimo di cura editoriale non sarebbe stata male, per la ortografia e soprattutto per i nomi, per es. il Giorgio Parise di p. 282, per Parisi, il giovanissimo, allora, fisico matematico, che fa esemplare, con Benigni, della generazione fattiva, successiva al disincanto. Un libro di curiosità e anche di acume, filologico
e critico. Elsa de’ Giorgi era ben dedicataria delle “Fiabe italiane”, l’opus magnum di Calvino prima delle favole,
sotto l’anagramma “a Raggio di Sole”.
“La sua presenza è palese”, scrive Roberto Deidier nella presentazione, “in
diversi luoghi dei racconti, e qualcosa dei suoi tratti è rimasto anche nella
Viola del Barone rampante”. Ma molti
echi della relazione Deidier rintraccia anche nei racconti “L’avventura di un
viaggiatore”, “Nuvola di smog”, “Avventura di un poeta”
Con una dedica “ancora a Carlo
levi”, l’amico di sempre, già tra le due guerre. Con quale condivide tutto, la
fiducia nella Liberazione e il disincanto. E soprattutto “l’ambiguo rigore del
vero”, sottotitolo della sua precedente scrittura, “L’eredità Contini
Bonacossi”: della scrittura che si vuole vera, cioè duratura e non fuffa. Dopo
“I coetanei” e “L’eredità”, questo “Ho visto partire il tuo treno”, conclude
una trilogia di memorie storicizzate, non arbitrarie (“poetiche”) o personali
ma legate ai fatti, e al contesto, storico e culturale.
Un libro sorprendente, ma non del
tutto, considerando la censura che ancora imperversava nel 1990. Nato, è utile
ripetere, in risposta a un Citati nuovo entrante a “la Repubblica”, la
corazzata del politicamente corretto, che per esaltare un suo privato Calvino
tutto testa e niente cuore lamentava: “Spesso si innamorava… Si trattava di
False Contesse che lo istruivano, gli insegnavano le buone maniere… lo
obbligavano a frequentare ristoranti costosissimi o a bere Veuve Cliquot” – un
articolo non più reperibile, se non evidentemente nell’archivio cartaceo di
“Repubblica”, in biblioteca: non viene fuori nell’archivio digitale, non si
legge nelle raccolte saggistiche di Citati. De’ Giorgi reagì su “Epoca”,
mostrando a Pasquale Chessa la raccolta di lettere che Calvino le aveva scritto
(“esattamente 407, divise per argomenti in 11 cartelline azzurrine”, testimonia
Chessa), disponendo la pubblicazione di alcuni estratti di esse, e difendendosi
con finezza in dialogo col giornalista: “Il personaggio Calvino descritto nell’articolo
di Citati è catastrofico”, sul piano comportamentale e su quello letterario, se
scriveva scemenze. E perché le sue lettere non “s’hanno” da pubblicare? “Certo,
Citati non si rassegna che sia considerato tra i maggiori quel Calvino che,
proprio lui, aveva così ben situato nel limbo fluido dei minori. O dei «falliti maggiori»?”
A Citati, che ricorda al suo desco a San
Leonardo a Firenze giovane insegnante di liceo, dedica in fine alla sua memoria
righe tutto sommato di apprezzamento, dopo averlo citato come critico eminente
- i Giorgi Alberti, si può aggiungere, nome d’origine dell’abbreviato de’Giorgi, nobili di Bevagna
e Camerino, patrizi di Spoleto, erano comunque “più nobili” dei Citati nobili siciliani,
e comunque Elsa era contessa non falsa, sposa di un conte vero, anche di spirito.
Sulla querelle specifica, dopo quella dell’eredità Contini Bonacossi, non
le si può dare torto: l’eredità di Calvino è scandalosa. Non solo per le intemperanze
critiche di Citati, che per impossessarsene lo ha ridotto a poca cosa (un
epigono, poco geniale, degli dei dell’Oulipo, loro sì geniali, Perec e Queneau). Ma,
tra l’altro, per la censura sull’epistolario custodito da de’ Giorgi, confidato
al fondo manoscritti creato da Maria Corti a Pavia , in attesa della pubblicazione
25 anni dopo la morte dello scrittore – ne sono passati 35 e la cosa è sempre
impossibile. Un insulto allo stesso scrittore, prima che a de’ Giorgi.
Elsa de’ Giorgi, Ho visto partire il tuo treno, Feltrinelli,
pp. 295 € 9,50
venerdì 16 aprile 2021
Ombre - 558
“In
Italia avete un ottimo sistema universitario, ma i migliori se ne vanno”,
spiega a Platero su “la Repubblica” Larry Fink, creatore e gestore di Blackrock,
il gestore di risparmio più grande del mondo. Semplice. E allora come si
risolve la questione? Ma mandando in malora le università - così nessuno se ne
andrà.
La
Procura di Civitavecchia, competente per territorio, documenta una serie di assunzioni
illegali nell’Alto Lazio, ad Allumiere, portando alle dimissioni del presidente
Pd del Consiglio Regionale. La Procura della Repubblica di Roma allora affida
ai Carabinieri la ricerca di assunzioni illegittime da parte della Destra. Non
su notizie specifiche di reato, così a largo raggio, pescando tra i social. Che
la giustizi in Italia sia politica, cioè la negazione della giustizia, non è
una novità. Che lo sia sfacciatamente sì.
La
giustizia politica sembrerebbe un armamentario da destra, antidemocratico oltre che illegale. Ma in
Italia è di sinistra, e con orgoglio.
“Ristori
inferiori al reddito di cittadinanza!”. Beh, è un fatto. La nuova politica
privilegia chi non lavora. Un sogno.
È
un fatto, infatti, che i percettori del reddito di cittadinanza si fanno un
dovere di non lavorare, per quante occasioni si presentino. Non barano.
Formidabile
vocabolario delle sigle burocratiche in continuo cambiamento senza alcuna
ragione, redatto da Milena Gabanelli e Rita Quercé sul “Corriere della sera”
lunedì. I “ristori”, termine già esoterico, sono d’improvviso diventati “sostegni”.
La Dad , didattica a distanza, Did, didattica integrata a distanza. Quattordici
sigle diverse sono in uso nelle varie Regioni per dire le Asl. Dodici per dire
il Prg, piano regolatore (qui si capisce, bisogna imbrogliare le carte). La
tassa sui rifiuti, oggi Tari, forse perché si vergogna è cambiata di nome quattro
volte in quindici anni.
“Dall’inizio
dell’emergenza la percentuale maggiore di occupazione dei posti letto si è
avuta negli ultimi sei mesi”: il calcolo è semplice, della direttrice dell’Istituto
Clinico Casalpalocco a Roma, da quattordici mesi Covid Hospital per conto della
Regione Lazio. Si paga caro la spensieratezza estiva.
E
non è tutto, spiega ancora la direttrice, Valeria Giannotta: “Nel 202 la
maggior parte dei ricoverati aveva 70/80 anni, ora l’età è scesa di almeno
dieci anni. Molti anche i giovani”. La spensieratezza, appunto.
Molinari
offre al giudice Gratteri la possibilità di sdoganarsi dal libro di Bacco e
Giorgianni sul “complotto Covid”. Peppe Smorto e la corrispondente calabrese di
“la Repubblica” svolgono il loro compito contestando al giudice il
contestabile. Gratteri si difende dicendo che ha letto del libro un estratto.
Ma di un libro che di 350 pagine, che parla della pandemia, e si intitola
“Strage di Stato”? Certo, la superficialità esiste.
“Che
senso ha infangarmi perché ho lavorato per gli oligarchi (ex sovietici, n.d.r.)?
Credete ci sia differenza con i miliardari americani o cinesi?”. Si difende con
Paolo Brera sul “Venerdì di Repubblica” l’architetto bresciano Lanfranco Cirillo,
che gli oligarchi, e le loro mogli, hanno arricchito. In effetti non c’è
differenza. Eccetto che se si deve obbedire alle “direttive” cinesi, oppure
americane. Che senso ha la stampa?
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Beati gli oziosi
L’elogio sarebbe degli “oziosi”, dei
fannulloni ma fantasiosi. Dei pigri, degli oziosi che però si guardano attorno.
A partire dalla scuola, e poi nel “lavorerio” - l’applicazione toglie molto più
di quanto dà.
Sulla linea del paradosso, ma con
applicazione, Stevenson nel 1877, a 27 anni, argomenta con cipiglio a favore
del guardarsi attorno piuttosto che faticare. Con serietà - il saggio ricomprese
poi, nel 1881, nella accolta “Virginibus Puerisque, and Other Essays”.
Un’argomentazione d’epoca, col flâneur di Baudelaire, e col Buonannulla
tedesco, di Hebel, e poi di Eichendorff e di Hamsun.
Roba d’abbondanza, insomma, nelle
attese, in prospettiva, in clima Excelsior. Una letturina corroborante, felicemente
in controtendenza con questa epoca, ricca come non mai, con una ricchezza diffusa
come non mai, nelle classi e nel globo, e triste, tetra - effetto del mercato,
i padroni sotterranei ci vogliono morti, moribondi, cupi, terrorizzati?
Curato da Franco Venturi, una delle
sue ultime cose. Con testo originale.
Robert Louis Stevenson, Elogio dell’ozio, La Vita Felice, p. 58
€ 6,50
giovedì 15 aprile 2021
Il mondo com'è (426)
astolfo
Aborto di genere – L’esposizione,
quando non la soppressione, delle figlie femmine in India e in Cina, a lungo
parte dell’eugenetica tradizionale nella famiglia patriarcale, è diventata
aborto selettivo. In India non si sa – si sa che si pratica, ma non se ne hanno
le cifre. In Cina la pratica è confermata dalle statistiche demografiche. Nei quaranta
anni dacché è stata introdotta la legge del figli unico (1979), per limitare la
crescita demografica, il numero delle donne è risulta vieppiù ampiamente
inferiore alla parte della popolazione di sesso maschile. In contrasto col dato
quasi biologico, certificato dalla demografia ovunque altrove, che dà ovunque
una preminenza della popolazione femminile su quella maschile, attorno al 52-54
per cento. In Cina la proporzione si è presto rovesciata: per ogni 100 donne
106 uomini. Una discrepanza che, nei numeri della Cina, significa quaranta
milioni di donne in meno. .
Lo
squilibrio è ancora più accentuato fra le generazioni più giovani: si contano
115 uomini ogni 10 donne fra i i 15 e i 24 anni, e 117 a 100, fino ai 14 anni.
Cassa del Mezzogiorno – Un istituto
speciale che presiedette per
trentacinque anni, dal 1950 a tutto il 1985 (fu abolita a marzo del
1986) allo sviluppo del Sud dell’Italia. Modellata sulla Tennessee Valley
Authority creata dal presidente americano F.D. Roosevelt nel 1933, nel quadro
delle misura anti-crac de 1929, per lo sviluppo della regione depressa del Sud.
Con un obiettivo analogo, di riequilibrio territoriale e sociale. Dismessa con
l’insorgere del leghismo in Italia, con ignominia ma senza colpa.
Una storia
resta ancora da fare - a trent’anni da quando lo storico pavese Carlo M.
Cipolla ne lamentava la mancanza (“Storia facile dell’economia italiana dal
Medioevo a oggi”. Ma, si sa, con qualche merito. “È troppo facile liquidare la
Cassa per il Mezzogiorno come inefficiente carrozzone clientelare”, lamentava allora
Cipolla a conclusione della sua “Storia facile”, “sulla base degli esiti recenti
della presenza pubblica nel Sud”. E intendeva: al riscontro degli “esiti
recenti” di una politica che ha fatto a meno della Cassa. “In realtà”, continuava
Cipolla, “uno studio serio sul suo impatto politico-sociale oltre che economico
deve ancora essere effettuato e non potrà ignorare il fatto che, per la prima
volta dall’unificazione, il Mezzogiorno d’Italia uscì dal suo profondo
isolamento e sperimentò una crescita del reddito uguale alla media nazionale”.
Gournay – Scuola di
Gournay è la “scuola” di economia del primo Settecento in Francia che si
rivaluta da qualche tempo come iniziatrice - comunque teorica - del libero
scambio. Prima ancora della scuola scozzese, di Hutcheson e Adam Smith. Prende
il nome da un commerciante di export-import, poi anche Intendente di commercio,
(Jacques-Claude-Marie-)Vincent de Gournay, che nella breve vita (1712-1759)
elaborò il fondamento dell’economia attuale, basata sullo scambio – sul libero commercio
e il consumo: della globalizzazione. Autore supposto del celebre motto
“laissez-faire” – in origine “laissez faire, laissez passer”. Degli scambi cioè
senza restrizioni, né di tariffe (dazi) né di contingenti, come è al fondamento
della globalizzazione.
Gournay
è coautore certo del Tableau Économique del Quesnay, che si pone a fondamento
della scienza economica. E quindi suppostamente vicino ai fisiocrati, i teorici
che la ricchezza ponevano nella natura, cioè nell’agricoltura. Da cui però si
distingue in modo netto, teorico al contrario della “scienza del commercio”. Il
“Quadro” di Quesnay, delle interrelazioni che presiedono all’accumulo, alla
crescita della ricchezza, si ispirava alla teoria dei cicli che François Véron Duverger
de Forbonnais veniva di abbozzare. Ma si costruiva sullo “Zig-zag”, una raffigurazione
sinusoidale dell’accumulazione elaborata da Gournay con Richard Cantillon. In
anticipo su Adam Smith, i francesi Quesnay, fisiocrati e Gournay si occuparono
delle fonti e dei meccanismi di creazione della ricchezza.
Dai
17 ai 31 anni a Cadice, al fondaco di famiglia, membro influente dei circoli
finanziari della città andalusa, Gournay aveva frequentato la corte di Spagna,
allora fulcro del mercantilismo, e su questo background aveva cominciato ad elaborare l’idea opposta, del libero
scambio. Rientrato in Francia, aveva convinto il notabilato mercantile di Cadice
a rimpatriare gli attivi sudamericani per investirli più convenientemente in
Francia: 200 milioni di sterline furono investiti in Francia. Alla guida degli
affari di famiglia, studiò poi molto, specie gli economisti del Seicento,
l’inglese Josiah Child e l’olandese Johann de Witt, e viaggiò, per rendersi
conto delle novità economiche, in Austria, Olanda e Inghilterra, dove fu in
relazione con Robert Walpole, il whig primo premier, e per ben venti anni, con due re, e il diplomatico e intellettuale Lord Chesterfield.
Gournay, un nome si
direbbe innovatore. Gournay
è un nome evocatore anzitutto di Montaigne. Marie de Gournay, prozia dell’economista
(entrambi traggono il nome da Gournay-sur-Aronde, il feudo di cui l’economista
era marchese), era stata un secolo prima la “figlioccia”(fille d’alliance) di Montaigne. Ed è nella storia come la prima femminista,
autrice di un manifesto “Dell’uguaglianza degli uomini e delle donne” e di una “Lagnanza
delle donne”. Una ragazza non bella e presto in fama di “preziosa”, che giovanissima
aveva scritto a Montaigne per elogiarne la prima edizione dei “Saggi, ne aveva
suscitato la curiosità e quindi l’amicizia e una copiosa corrispondenza. Fino a
diventare la curatrice della sua opera - nel 1592, alla morte, la moglie e la figlia ne affidarono a
lei le carte, compresa l’opera sempre in
progress dei “Saggi”.
Montaigne
conobbe Marie de Gournay dopo la seconda edizione dei “Saggi”, 1582, i primi
due libri della raccolta. La diciottenne Marie de Gournay gliene scrisse
entusiasta, i due s’incontrarono più volte e Montaigne fu, oltre che lusingato,
sinceramente interessato dalle doti di carattere e d’intelligenza della
giovane. La dichiarò sua figlia spirituale e ne introdusse un elogio al cap.
XVII del libro secondo dei “Saggi”, che intitolava “Della presunzione”: “Mi
sono compiaciuto di dichiarare in molte occasioni le speranze che ripongo in
Marie de Gournay Le Jars, mia figlia spirituale: e certo da me amata molto più
che d’affetto paterno e inclusa nel mio ritiro e nella mia solitudine come una
delle parti migliori del mio stesso essere. Non considero più che lei al mondo.
Se dall’adolescenza si può trarre presagio, quest’anima sarà un giorno capace
delle cose più belle e tra le altre della perfezione di quella santissima
amicizia alla quale non abbiamo notizie che il suo sesso abbia potuto finora
innalzarsi. La schiettezza e l’integrità dei suoi costumi vi sono già di per sé
sufficienti, il suo affetto per me più che sovrabbondante, e tale insomma che
non c’è nulla da desiderare, se non che il timore che essa ha della mia fine,
poiché mi ha incontrato quando avevo cinquantacinque anni, la tormenti meno
crudelmente”. Più ancora è lusinghiero nel seguito: “Il giudizio che essa dette
dei miei primi Saggi, da donna, in questo secolo, e così giovane, e sola nel
suo paese, e lo straordinario ardore con cui mi amò e mi desiderò a lungo per
la sola stima che aveva di me, prima di avermi visto, è un fatto di degnissima
considerazione”. Questa professione di amitié amoureuse ricorre nell’edizione 1595 dei “Saggi”, postuma,
curata dalla stessa Marie, allora trentenne.
Marie de Gournay
vivrà fino a ottant’anni, età per i tempi prodigiosa, e a sessanta, in difesa
del “sesso malmenato”, avanzerà per le donne il diritto all’istruzione, il
diritto a governare, e il diritto al sacerdozio – anticipando il detto che sarà
attribuito a Voltaire: “Dio non è né maschio né femmina”.
Licantropia – Una patologia
di cui si sono perdute le tracce, che pure tanta letteratura, anche
scientifica, ha prodotto. Genericamente inteso come una forma di delirio, un “delirio
di trasformazione somatica”, che induce a credersi trasformati in animali – non
necessariamente in lupi, come la denominazione clinica sottende. A lungo
ritenuta una forma di magia, viene classificata tra le malattie mentali dal
1615, data di pubblicazione del trattato “De la lycantropie, transformation et extase des sorciers” cioè
dei maghi, del medico francese Jean de Nynauld. Che così la descriveva: la licantropia è una malattia
chiamata o malinconia, o follia lupesca, oppure licaonia, o cinantropia. I
licantropi escono da casa di notte e seguono i lupi come i cinantropi i cani;
sono pallidi e hanno gli occhi infossati; non vedono che oscuramente come se
fossero attorniati da tenebre; hanno la lingua molto secca; hanno sete; non hanno
alcuna saliva in bocca.
Paramnesia - È la penosa e brusca
impressione di avere già vissuto il tempo presente. Scientificamente
repertoriata come “disturbo della memoria”, e divisa in allomnesia, ricordi
incompleti, o allocati erroneamente nel tempo o nello spazio, e pseudomnesia,
ricordi di fantasia (affabulazioni, dejá vu, ricordi sbagliati, ricostruzioni
arbitrarie. Di fatto è alla base delle dottrine della trasmigrazione delle
anime, e del tempo circolare.
SS donne – Se ne
registrano almeno tre in Italia nel racconto storico “Partigia” di Sergio
Luzzatto. La “fantomatica” (p. 231) baronessa von Hodenberg, “direttrice della
Gestapo” a Torino e in Piemonte, secondo i collaborazionisti. Una Annabella,
reclutatrice di spie per conto dei tedeschi a Savona. E la sua “corrispondente”
a Pistoia, Albertina Porciani, maestra di scuola, che negli interrogatori alleati
è detta” stupid impressionable youg woman”.
astolfo@antiit.eu
Restituire Montalbano a Sironi e Degli Esposti
“So chi è l’assassino, ma il film
è tutto nuovo per me”, Camilleri spiega nella consueta garbata presentazione - questa volta a Mollica, che gli chiede se vede i film di Montalbano e con che spirito. Riproposto dalla Rai per l’uscita
in dvd, l’ultimo episodio dei “Montalbano” diretti da Alberto Sironi si fa
precedere da questa curiosa spiegazione di Camilleri. Curiosa non perché i film
di Montalbano, come tutti i film tratti da racconti, sono diversi dai racconti.
Ma perché Camilleri lascia il merito dei film a Francesco Bruni, lo sceneggiatore.
Cioè a un altro scrittore. Senza menzionare né il regista né il produttore.
Che erano fino a qualche tempo fa e probabilmente sono ancora, anche di diritto
oltre che di fatto, gli “autori” di un film, i padroni del copyright.
Il “Montalbano” del perdurante
successo, quello dei film (anche ieri sera, alla terza replica, pur dimezzando gli ascolti, a 4,5
milioni, ha coperto il 20 per cento della audience),
è senz’altro di Sironi, il regista, e del produttore Degli Esposti. È la sigla
rapinosa, “creatrice” di un mondo, di squarci, vedute aeree, angoli, luci,
colori, nuotate. Gli interni, mai anonimi, tutti caratterizzati, e parlanti. Come gli esterni,
non casuali. E i caratteristi, scelti con un sapiente dosaggio di linguaggio corporeo
prima che vocale: personaggi che parlano prima ancora di aprire bocca. Rapinosi sono questi Montalbano, pure di maniera, per la Sicilia che mostrano: non quella dei luoghi comuni, il mafioso e il turistico-macchiettistico, ma un mondo, peraltro più veritiero, di teatranti (il Siciliano era una maschera, in antico), in scenari molto caratterizzati, ricchi e poveri, dai linguaggi multipli, o meglio di spessore. Il dialetto latineggiante esprime forme mentali e idiomatiche levantine (fenicie?) e maghrebine - il dialetto siciliano era lingua franca nelle attuali Tunisia e Algeria prima del colonialismo francese. Mancato Sironi, già il titolo è fuorviante.
Alberto Sironi-Luca Zingaretti, Salvo amato, Livia mia, Rai 1, dvd
mercoledì 14 aprile 2021
Troppo pochi cinesi in Cina
La Cina dei ricchi, il grande mercato mondiale
della ricchezza, è minacciato dalla povertà. La Cina come l’Italia - anche se
in scala di venti a uno: per il declino demografico, meno nascite, più anziani.
È un problema che le diverse dimensioni – la
Cina ha una popolazione di 1,3 miliardi di persone - rendono più arduo e
insostenibile. Ma già in atto. La decrescita demografica, iniziata in Italia nel
2020, emergerà in Cina nel 2027: il tasso di fertilità (figlio per donna
fertile, tra i 15 e i 49 anni) è stimato il più basso del mondo, 1,18 – quasi
la metà del “tasso di sostituzione”, 2,1 figli per donna in età fertile, la
riproduzione necessaria per mantenere l’equilibrio demografico inalterato.
Il declino demografico, in atto ormai da tre
generazioni con la legge del figlio unico, renderà insostenibile in una
prospettiva ora ravvicinata, 10-15 anni, il mantenimento di una massa crescente
di anziani con una massa in declino di classi di età produttive. Per effetto di
dati noti. Una aspettativa di vita raddoppiata rispetto al 1970, nei pochi
decenni del boom – ora è a 78 anni. E una massa di anziani non attivi calcolata
in crescita di 150 milioni. Mentre il segmento attivo della popolazione si
restringerà di 100 milioni di soggetti. Portando il numero degli
ultrasessantacinquenni al 25-30 per cento della popolazione.
C’è già un “tasso elevato di dipendenza strutturale”,
il 42 per cento – il rapporto tra classi di età produttive e classi di età non
attive. Anche per effetto di età di pensionamento non aggiornate all’allungamento
dell’aspettativa di vita: 60 anni per gli uomini, 55 per le donne, 50 per le
donne operaie.
La forbice attivi\non attivi si allarga in
Cina con redditi ancora bassi per le classi di età produttive, redditi medi e
da lavoro. E ancora più bassi per i pensionati e i prossimi pensionandi, che
hanno lavorato quando i salari, e quindi i contributi, erano bassi e bassissimi. Senza più il “reddito
familiare”, la rete di salvataggio della famiglia grande, e dell’economia di
sussistenza: per la legge del figli unico, solo da poco temperata, e per lo
spopolamento delle campagne - il boom industriale cinese di quarant’anni le ha
spopolate.
E un gap demografico e contributivo non
colmabile con l’immigrazione – impossibile ipotizzarla alle dimensioni del
continente Cina. Che è peraltro sovrappopolata: il deficit demografico si coniuga
con la sovrappopolazione.
Il deficit demografico è già un problema per
la finanza pubblica. Il governo finanzia il sistema pensionistico, dei lavoratori
dipendenti e degli autonomi (artigiani, agricoltori) col 3 per cento della spesa
pubblica. Ma già sa che l’esborso crescerà rapidamente - fino a un insostenibile
20 per cento della spesa all’orizzonte 2050.
L’aumento dell’età pensionabile e la
ricollocazione della Cina in attività più qualificate e meglio retribuite ridurrà
il gravame, ma a lungo termine. E non in modo risolutivo.
La “Commedia” dalla A alla L
In due volumi (questo primo
va d alla A alla L), tutto il vocabolario della “Divina Commedia”. Non proprio
tutto: i nomi di persona, propri, storici, mitologici, letterari, di fantasia,
toponimi, pseudonimi, termini scientifici,
filosofici, astrali, concetti etici o religiosi. Di cui si tenta di fissare, se
occorre, per i diversi riferimenti eventuali variazioni di senso. Con rinvio
per ogni voce al-ai luogo-ghi di riferimento.
Un repertorio, da compulsare al bisogno,
ma anche un diversivo gradevole, allo sfoglio.
Enrico Malato (a cura di), Dizionario della Divina Commedia, Corriere della sera, pp. 339 € 7,90
martedì 13 aprile 2021
Problemi di base euroturchi - 631
spock
L’Europa non fa più figli, da ora?
L’Europa è morta, da ora?
O sarà un’Europa senza: senza più figli, lavoro, futuro?
O si muore lentamente, Roma nel 476, Costantinopoli nel 1453?
E Erdogan che fa, ricomincia dal 1453?
L’Europa finanzia questo Erdogan, un falso credente, sei miliardi in quattro anni, quindici in quindici anni (poco meno di un miliardo pagato dall’Italia): ne ha tanta paura?
spock@antiit.eu5 Stelle e Pd uniti nella lotta – per la corruzione
“Nel processo per la presunta corruzione sul
via libera allo stadio della Roma, l’ex assessore all’urbanistica Paolo Berdini
racconta: «Quando era sindaco Ignazio Marino venni contattato da Raggi e
Frongia. Mi chiesero di fare l’assessore con la mission di bloccare il progetto.
Ma a febbraio 2017 Francesco Totti invitò in un tweet a fare lo stadio. L’ex
vice sindaco Luca Bergamo mi disse allora che la mia posizione contraria non
era più sostenibile da un punto di vista politico e che Alfonso Bonafede (l’ex
ministro alla Giustizia grillino, ndr) non avrebbe dato l’assenso alla revoca.
Arrivò Luca Lanzalone (il presidente Acea arrestato per le presunte tangenti
avute dal costruttore Luca Parnasi, ndr) che mi sostituì nella gestione senza
incarichi formali e tutto cambiò»”. Nella “gestione” dell’affaire – la carica di presidente dell’Acea, la più grande azienda
romana, era una copertura, Lanzalone era chiamato, ed era, “il sindaco ombra”.
Cronaca ridotta al minimo nei giornali romani
per uno scandalo di corruttela da tempo più che accertato. Queste poche righe
sono di Fulvio Fiano, che ostinato li firma, in un angolo invisibile sul
“Corriere della sera-Roma”. Ma non c’è di più di più su “la Repubblica” e “il
Messaggero”. C’era, nel 2017, nel 2018, ancora nel 2019, poi non più. Anche la
Procura di Roma si è raffreddata, dopo i primi furori. E il processo va lento. I
fatti son gravi. La corruzione in se stessa, per somme non da poco. Di cui
ancora sono ignoti i beneficiari – Lanzalone è un “collector”, mandato da Grillo.
O il Bonafede al centro della corruzione, che è un giudice, ed è stato perfino
ministro della Giustizia. I 5 Stelle essendo cugini ora dei Pd, dopo averli per
un decennio spernacchiati e strabattuti, vanno trattati con riguardo?
Aprendosi il processo destinato a sicura
condanna, Grillo ha trovato conveniente mettersi con il Pd. E ci ha visto
giusto: la cosa non procede - giusto il minimo. Senza peraltro che se ne
sappia.
Sorrisi Hollywood sul Tevere
Un matrimonio di ventenni,
drogati a Las Vegas, e sconosciuti tra loro, da sciogliere dopo dieci o
vent’anni per poter convolare a giuste nozze. Anni nei quali molto è avvenuto
che rende il divorzio tanto facile nel deserto del Nevada molto complicato. Fino
a che, naturalmente, Las Vegas non riunisce i cuori – li divide così facilmente
come li unisce.
Come c’è il western spaghetti,
c’è una commedia Hollywood sul Tevere – anche se negli ambienti ovattati del
futuribile Enel X, l’Energia del Futuro. Una commediola teenager, benché qui
tra adolescenti attempati, che anch’essa costa sempre meno di una commedia
vera, cioè all’italiana – girare in America dimezza i costi di produzione.
Brillante grazie alle grazie di
Andrea Delogu. Con un Morelli troppo adagiato su se stesso, mentre Ricky
Memphis si supera.
Non si ride, ma ci si diverte.
Umberto Carteni, Divorzio a Las Vegas, Sky Cinema
lunedì 12 aprile 2021
Ecobusiness
Aumenta la Tari, la tassa sui rifiuti, mentre
diminuiscono i rifiuti per il lockdown delle attività produttive.
E mentre il servizio peggiora in una città
grande come Roma, per la disorganizzazione ma anche per minori investimenti.
Roma non riesce a trattare i suo rifiuti. In
aggiunta alle ecoballe che manda – a caro prezzo – in Germania, ora chiede a
Napoli di farsi carico di 100 tonnellate al giorno di indifferenziata – a
Napoli…
Enel prepara le colonnine per la ricarica
delle auto elettriche a Roma, l’Acea, l’azienda comunale che a Roma gestisce la
rete elettrica, non le mette in rete: questione di concorrenza.
Ma, poi, il ciclo elettrico riproduce il
circolo vizioso dell’energia nucleare: l’energia pulita si produce con energia
sporca, e produce rifiuti che non si sa come trattare, in quella le scorie, nel
ciclo elettrico le batterie esauste.
Napoli linda, con humour
Morelli, una serie sterminata di
ruoli al cinema, in teatro e in tv, si
rifà interprete e regista per il ritorno a Napoli, la sua città. Per un racconto
romantico sulla vena napoletana giusta, di comicità lieve. È anche l’anno
fortunato della coprotagonista Serena Rossi - altra napoletana, una che, dice,
“cantava ai matrimoni”, come in una delle scene comiche di questo “7 minuti” - con la serie fortunata di De Giovanni in tv, “Mina Settembre”, e programmi impegnativi
d’intrattenimento su Rai 1, sulle orme di Raffaella Carrà. Morelli è un
innamorato tradito e abbandonato, Rossi maestra d’innamoramento, in una sua scuola
che diventa una palestra di comicità napoletana.
Più fortunata e felice di tutti è
Napoli, che riprende il discorso interrotto vent’anni fa, della città normale,
moderna, e anzi bella, quella degli entusiasmi del “Rinascimento Bassoliniano”,
poi sommersa dalle “Gomorra”, giornalistiche, giudiziarie e (dis)amministrative. Riproposta da
Ozpetek con “Napoli velata” (2017), i Manetti Bros, “Ammore e malavita” (2018),
Pappi Corsicato “Vivi e lascia vivere” (2019) con successo di pubblico, si
rappresenta in serie tv ormai numerose, che Morelli ricalca, molto colorata, assennata, con piazze
pulite, mare limpido, spiagge bianche, squarci lindi colorati, e molto humour.
Giampaolo Morelli, 7 minuti per innamorarti, Sky Cinema,
Netflix
domenica 11 aprile 2021
Problemi di base ragionevoli - 631
spock
Ragioniamo, che vorrà dire?
Non c’è ragione?
Non c’è ragione, uno può sempre darsela?
Il diritto e il torto sono effetti
di legge, e la ragione?
Quanto è ragionevole la natura, sia
pure darwiniana?
Nella natura si crea e si distrugge?
Bisogna ripensare Lavoisier – e Darwin?
spock@antiit.eu
Il genio prospera nella Bassa reggiana
Le ossessioni di Ligabue il
bolognese Diritti, un “cultore della materia”, biografo del pittore-scultore,
soggettista e sceneggiatore del suo film, trasforma in un quadro amabile della bassa
reggiana, tra Brescello (don Camillo-Peppone) e Guastalla. Di Gualtieri precisamente, che ospitò
paziente e anzi benevolo l’artista pazzo, espulso dalla Svizzera come indesiderabile.
Tanto più al confronto con questa Svizzera, tanto ben regolata e animata da buone
intenzioni quanto fredda – Ligabue viene dichiarato indesiderabile dopo le
aggressioni alla madre adottiva, pure affettuosa, e il ricovero in manicomio, da
cui era uscito bollato come incurabile.
Le bizzarrie del pittore-scultore,
un esercizio di bravura per il suo interprete, Elio Germano, vengono rappresentate
senza censure, nemmeno di buoni sentimenti. Un genio che si vorrà sempre
isolato, bisbetico, anche se morirà col tormento d’amore, di non poter essere
riamato. Ma in un quadro affettuoso – sono le campagne di Olmi, di Avati, di
cui Diritti è stato aiuto. Il pazzo, il Tudesc, passerà dalle suppliche al
sindaco per una sistemazione da indigente alla morte nel 1965 tra le visite dei
compaesani affettuosi, con una bella casa, tre automobili, e dodici
motociclette.
Poteva essere – si temeva – un racconto di demenza. Tanto più per essere parlato in svizzero-tedesco e in reggiano. È invece uno
di serenità, malgrado tutto: un omaggio all’umanità. Nostalgico?
Giorgio Diritti, Volevo nascondermi, Sky Cinema
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