venerdì 30 aprile 2021
Ombre - 560
La
XVIII.ma legislatura, quella in corso, registra già un record di cambi di casacca:
143 alla Camera e 86 al Senato. Ma resta la prima legislatura – da molti anni
ormai - sicura di arrivare alla fine: nessuno rinuncerà alo stipendio.
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Il triangolo di Nietzsche amoroso
È il carteggio di Nietzsche, Lou von Salomé e Paul
Rée, per alcuni anni legati reciprocamente da intima amicizia, con periodi
anche di convivenza. Paul Rée Lou, golosa ma onesta, preferiva a Nietzsche,
troppo arruffone.
Leggendolo in questa ottica
semplificata, il carteggio diventa anche piacevole. La cosa infatti si sa, ma
non si dice, né nelle corrispondenze incrociate, né nelle tante biografie di
Nietzsche, o dal curatore Peters. Che fu anche biografo di Lou, ma impegnato a
idealizzarla - all’evidenza innamorato del suo soggetto, al punto da farne una
vergine immacolata.
Non che Lou fosse satanica, ma,
poveretta, doveva barcamenarsi, essendo capitata accanto al grand’uomo. Che
riconosceva – è lei la prima, o una dei primi, a riconoscerne la portata - ma
di cui non veniva a capo. Di tutt’altro genere, per esempio, sarà la relazione
di Lou col giovanissimo Rilke, quasi una svezzatrice, eppure proficua a
entrambi, piena di cose, oltre che di letti.
Un carteggio in questa ottica saporito,
prima che le recenti riprese di Lou Salomé ne attestassero la cospicua capacità
intellettuale e critica, a prescindere. A prescindere cioè da Nietzsche, come
da Rilke.
Un carteggio che si gusta, tutto
sommato, per il sapore di Ottocento. Di grandi e piccole questioni. Di passioni,
incomprensioni, visioni, ubbie che si dicevano, in dialogo, si scrivevano anche,
in qualche modo fissandole. Poi non più l’amore, ma nemmeno l’amicizia, o l’inimicizia,
hanno alimentato le corrispondenze celebri, solo questioni di testa, e qualche bisogno
alimentare. Per esempio l’orrenda corrispondenza che si viene pubblicando di Proust, che si rende cioè orrenda
con le decadi.
H.F. Peters, Triangolo di lettere,
Adelphi, pp. XIX + 492 € 18
giovedì 29 aprile 2021
Il mondo com'è (427)
astolfo
Colonne d’Ercole – La porta
proibita più attraversata probabilmente della storia, anche nei tempi antichi.
Un limite estremo del mondo conosciuto che di fatto era una porta per l’attraversamento
verso altri lidi, cabotando l’Africa occidentale. Già a opera dei cartaginesi-fenici.
Si navigava in epoca storica dalla Scandinavia e dall’Irlanda – non dall’Inghilterra,
terra di terragni, fino allo sbarco dei Normanni - verso il Mediterraneo e
ritorno (meglio verso il Mediterraneo che per il ritorno, per i venti e le correnti),
lungo la penisola iberica e attraverso le Colonne d’Ercole. L’“Edda” celebra la
spedizione di Sigurd re di Norvegia verso il Mediterraneo con la sua flotta nel
1107 per recarsi in Terrasanta in sostegno del regno di Gerusalemme, creato con
la prima Crociata. Navigò senza problemi, facendo tappa a Palermo, pe rendere
omaggio al suo quasi connazionale Ruggero II d’Altavilla, conte di Sicilia,
partecipò alla conquista di Sidone, fu ospite gradito e sorpreso a Costantinopoli,
e con i cavalli dell’imperatore Alessio I Comneno, al quale aveva ceduto le sue
navi, fece un ritorno lungo tre anni, invece delle poche settimane dell’andata:
attraverso la Bulgaria, l’Ungheria, la Pannonia, la Germania meridionale (Baviera
e Schwabia, la Soave di Dante), la Danimarca, fu a casa nel 1111.
Lucera – La concentrazione
nella città apulo-molisana, porta del Tavoliere, poi capoluogo della
Capitanata, degli arabi del Regno del Sud, il regno di Palermo, normanno e poi
svevo, nel 1223, per editto di Federico II di Svevia, con libertà di usi, leggi
e culto, è portata ad esempio di integrazione e tolleranza. Presentata dagli
storici, e conosciuta dal largo pubblico, come tale: come una “società mista”,
di popoli, culture, religioni, anche ostili fra di loro e tuttavia in pace. Anche
per la fedeltà al regno di Palermo che Lucera mussulmana mantenne nei
successivi eventi - successivi alla morte di Federico II nel 1250 - per tutte
le guerre che portarono all’annientamento degli eredi del terzo “vento di Soave”di
Dante in “Paradiso”: Corrado IV, Manfredi (“Sultano di Lucera” fu uno dei suoi
appellativi) e Corradino. Lo stesso Federico II promosse e favorì quella
lettura, forte della “crociata pacifica”, la sesta, 1228-29, quando ebbe dal
khedivé d’Egitto, per conto del sultan Saladino, tutti i luoghi sacri cristiani
e altri, Gerusalemme, Betlemme, Nazaret, Sidone, e altre località col sol
negoziato diplomatico. Visitò spesso Lucera mussulmana e ne promosse costruzioni
monumentali e difese. Ma Lucera fu mussulmana in realtà per un atto di
deportazione.
A Lucera, il posto più remoto del suo regno rispetto a Palermo,
Federico II confinò i mussulmani per mettere fine alle croniche rivolte degli
arabo-berberi. Avevano vissuto in Sicilia per due secoli e mezzo
(827-1091), ma non si erano integrati. Confinò quelli rimasti nell’isola
dopo la sconfitta del califfato di Palermo, e in Calabria e Puglia nelle
piccole-grandi enclaves di saraceni costituitesi al tempo
degli effimeri califfati, organismi pirateschi, diffusi lungo le coste ioniche
e tirreniche al cessare del controllo bizantino. Di ventimila di essi, si
suppone i più facinorosi, Federico II dispose la deportazione a Lucera – inizialmente
anche a Girifalco, in Calabria, e Acerenza in Basilicata, da cui poi fu costretto
a ritrasferirli a Lucera: agli antipodi della sua capitale, in una sorta di
deserto urbano, non creava un “paradiso degli infedeli” ma un campo di
punizione.
Quanti
erano gli arabo-berberi, i mussulmani, nel regno non si sa. A Lucera furono confinati
i più riottosi, gli agitatori. Molti altri, probabilmente i più, restarono
nelle aree di origine, più o meno convertiti, comunque integrati alle comunità
locali, di cui restano testimonianze diffuse nell’onomastica: Pagano, Morabito,
Vadalà, Bagalà, Zappalà, Gangemi, Macaluso, Molé, Sciortino, Musumeci, Caffaro,
Buscemi, Cabibbo, Jacchia....
La
Lucera mussulmana, detta Lugarah, o Lushira, di governo facile perché direttamente
dipendente dal re, conobbe una immediata fioritura economica. Gli arabi erano
le maestranze in Sicilia, e anche i commercianti piccoli e grandi dell’isola - lasciarono
vuoti che Federico II dovette colmare
con l’immigrazione qualificata dal Nord Italia, che l’onomastica tuttora
certifica. Lavoravano la pietra, il ferro (armi), i metalli in genere. Organizzarono
perfino, ai margini del Tavoliere, delle
colture irrigue. Se ne parlò in Nord Africa come di una nuova Cordoba. I
proscritti avevano anche libertà di reggimento politico e di culto. Ma non fu
un’esperienza di integrazione: Lucera fu mussulmana senza cristiani – una tradizione
riduce a dodici i cristiani rimasti: un dato non storico che però dice come la
concentrazione fu vissuta. Nel campo cattolico, subito dopo la morte di
Federico II, il papa Alessandro IV, Rinaldo del Sannio, il papa nipote di
Gregorio IX, nel 1255 emise una bolla “Pia Matris” contro Manfredi e Lucera,
chiamando a una crociata. Altri interventi
papali seguiranno, contro la “Luceria Saracenorum”. Nel 1300, anno del primo
giubileo, papa Bonifacio VIII riuscì a organizzare la crociata, “Crociata angioina”:
Lucera fu conquistata il 23 agosto – San Bartolomeo. Gli abitanti sopravvissuti
furono dapprima dispersi, poi rintracciati e venduti come schiavi. Anche i
neonati. Il “Codice diplomatico dei saraceni di Luceri”, a cura di Pietro Egidi, esumava un secolo fa fra i tanti un bando di vendita in latino di 44
saraceni ad Altamura, maschi e femmine, “mares et feminas”, tra i quali un bambino di un anno e mezzo,
una bambina di due anni e mezzo, un “masculus” di “anni IX” e una “infantula di
tre mesi che ancora non ha nome”.
Lucera
non ricorda con orgoglio quell’esperienza. Ne tiene contro nella sua storia, ma
soprattutto si rifà al suo ruolo e ai suoi monumento nell’antico impero romano,
e poi con i regni longobardi.
Mers-el-Kébir – Nel 1940 la
flotta inglese, temendo che le navi da guerra francesi concentrate in Algeria,
a Orano e Mers-el-Kébir, passassero sotto controllo tedesco, in virtù dell’armistizio
firmato dalla Francia con la Germania il 22 giugno, le affondò. Provocando la morte di 1.300
marinai.
Non
fu un’azione di sorpresa, né un colpo di mano. Lunghe discussioni si erano avute
tra i governi ancora alleati, prima e subito dopo l’armistizio, di Londra e
Parigi sul destino della flotta militare. Ma la stessa fu affondata di sorpresa, il 3 luglio dieci giorni appena dopo gli accordi franco-tedeschi. Nel corso della “drôle de guerre”, la
guerra per finta, del 1939-40, la flotta era stata messa al sicuro in Nord Africa
e nell’Africa Occidentale a dominazione francese. Maturando la sconfitta, l’ammiraglio
in capo, Darlan, aveva detto chiaro che in caso di armistizio non si sarebbe
consegnato ai tedeschi. Ma poi, nominato ministro della Marina nel governo collaborazionista
di Vichy, aveva trasformato le indicazioni in generiche messe in guardia contro
interessi “non nazionali”. L’attacco inglese avvenne di sorpresa, ma era stato
preceduto da un intenso scambio diplomatico, in cifra. Diffidenti l’una dell’altra
entrambe le parti.
Vivaldi - Ugolino e Vadino Vivaldi hanno tentato nel 1291
la via delle Indie per via d’Occidente: oltrepassando le colonne d’Ercole, circumnavigare
l’Africa. Non fecero ritorno, probabilmente naufraghi alla foce del Senegal.
astolfo@antiit.eu
Ecobusiness
La ricarica più veloce per auto elettrica è
quella della Mercedes-Benz Eqa: bastano trenta minuti per arrivare all’80 per
cento della batteria a una colonnina veloce a 100 kwW.
Il listino Mercedes-Benz Eqa parte da 51.150
euro. Ma con gli incentivi statali e regionali scende di diecimila euro, assicura la pubblicità. Finanziamo
le vendite di automobili che non apportano alcun beneficio all’ambiente o al
clima.
Considerando un parco automobilistico fatto
tutto di Mercedes Eqa, ricaricabili velocemente, in mezzora, il numero di
colonnine installate dovrebbe passare dalle attuali 100 mila circa, nelle 21
mila stazioni di servizio a benzina\gasolio, a 2 o 3 milioni.
Non tutto il parco automobilistico può essere
sostituito naturalmente da macchine da 50 mila euro in su, ci sono anche le
medie e le piccole cilindrate, che sono la maggioranza. Ma con ricariche più
lente, il numero delle colonnine di ricarica dovrebbe essere molto maggiore.
Le tariffe per i consumi di acqua, per le
utenze domestiche, sono esplose, letteralmente, nei dieci anni dal referendum
che sancì l’acqua bene pubblico inalienabile. La utility romana Acea (comproprietà Comune-gruppo Suez-gruppo
Francesco Gaetano Caltagirone) ha raddoppiato dal 2015 al 2020 la tariffa dell’utenza domestica più diffusa, la
“agevolata” (una lavapanni che vada una volta al giorno), portandola a 0,40
euro al metro cubo. Ma, soprattutto, l’ha ridotta, da 92 a 30 mc l’anno: per
mandare la lavapanni la tariffa unitaria (per metro cubo) passa a 0,80 euro da
30 a 60 mc, a 1,34 euro da 60 a 90 mc, a 1,88 euro sopra i 90 mc. Cioè, ha
moltiplicato la tariffa per quattro volte: i 90 metri cubi, che costavano 19
euro, ora ne costano 79.
.
Il migliore è il peggiore, o dell’inutile critica
La critica infine venne, con
lode, all’ultimo libro, questo, il più brutto – i recuperi difficilmente sono
interessanti (a meno di censure, vedi Morselli).
Messe sterminata di
recensioni, ripetitive ma encomiastiche, per questo, mentre i cinque libri
pubblicati da Glauser in precedenza, alcuni appassionanti, erano passati sotto
silenzio. Ma questo “Primi casi” è bruttissimo. È un risarcimento? O i critici
lavorano per echi, per accumulo – dopo cinque libri l’autore è ok?
Friedrich Glauser, I
primi casi del sergente Studer, Sellerio, pp. 212 € 12
mercoledì 28 aprile 2021
Secondi pensieri - 447
zeulig
Assurdo – Si ha bisogno
dell’assurdo, l’uomo ha bisogno dell’assurdo, la ragione non saprebbe come
definirsi, ritrovarsi, se non costeggiando l’assurdo
Fede – Viene con la
preghiera, dicono i papi da qualche tempo. Cioè bisogna credere per avere
(rafforzare, consolidare) la fede? Un processo di autoconvincimento.
È il principio dell’arte, l’immedesimazione. Lo stato passionale.
Delle fede religiosa come di quella amorosa: il trasporto fuori di sé.
Le avanguardie tentano – hanno tentato, per tutto il Novecento – di rompere
questo legame, lo “stato di grazia”, con dissonanze, macchie, eventi invece di “prodotti”,
con invenzioni, macchinari, materiali, deiezioni, ma a nessun effetto, se non
di (temporanea) sorpresa – épater le
bourgeois. Sono gesti-atti-manufatti politici, di una politica che si
pretende estetica, ma non può esserlo – o allora nei limiti (contesti, fini,
effetti) della politica, arte manuale (artigianato) per eccellenza.
C’è arte senza la fede, senza una fede? No. La Dea Ragione perderà
Calvino (Italo) nel mentre che lo sterilizza, in arzigogoli alambiccati. Produce
giochi – esercizi di stile, sciarade, lipogrammi, acrostici, decostruzioni,
postmoderno – e narcisismi. Si dice creazione, in arte, una sorta di abbandono
mistico.
Femminismo – S’intende una
rivendicazione di uguaglianza, nei diritti e nella prassi. Ma una riscoperta, prima
che una rivendicazione: di un’eguaglianza di fatto sotto il diritto
patriarcale, maschilista. “Gli studi degli ultimi trent’anni del Novecento anno
mostrato ampiamente come i ruoli femminili, nel Medioevo, fossero più vari e
complessi di quelli che i maschi ammettevano”, anche “nel loro donneare” – Elena Ferrane, “L’amica
geniale e gentile di Dante”, (“Robinson”, 24 aprile). Tra i poeti cioè
femministi dell’amor cortese. Ferrante cita Matilde di Magdeburgo, Ildegarda di
Bingen, Giuliana di Norwich, Margherita Porete, Angela da Foolino, magistra theologorum. Ma la lista è lunga
– molto c’è negli studi sul latino medievale di Rémy de Gourmont, “Il latino
mistico”: Rosvita di Gandersheim,. Santa Lutgarda, Eleonora d’Aquitania, Eloisa, Virdimura, la dottoressa (in medicina)
ebrea di Catania, Trotula de Ruggiero, Herrad von Landsberg, le tante sante.
Freud – “Imbecille di
genio!” lo scopre Gide nel “Diario” a giugno del 1924: ha liberato il sesso, il
discorso sul sesso, “ma quante cose assurde presso questo imbecille di genio!”.
Che l’essenziale, nota ancora Gide, lascia inesplorato: il desiderio, o la
mancanza di desiderio. Questo soprattutto: “Che avviene quando, per ragioni
sociali, morali, etc., la funzione sessuale si trova portata, per esercitarsi, ad
abbandonare l’oggetto del suo desiderio, quando la soddisfazione della carne non
comporta alcun assenso, nessuna partecipazione dell’essere, e che questo si
divide e una parte di sé resta in ritardo?” Nei rapporti mercantili cui Gide
era aduso ma anche, evidentemente, in altri contesti, anche coniugali o di “innamoramento”.
Materia oscura – Se il 90
per cento dell’universo (massa incalcolabile) è inerte, donde la vita? Ma
qualcosa c’è: è questo Dio?
La materia senza moto, senz’anima, c’è ma non esiste. Lo spirito ha
bisogno anche della materia inerte, ma la materia non esiste senza lo spirito – è l’argilla che il vasaio fa vivere.
La vita è un mistero. Che si forma (conforma) nell’anonimato. In
attesa della scintilla vitale, di una
scintilla. Non di un passaggio (evoluzione): ha bisogno di un salto, un’altra
realtà.
Ortodossia – Esclude, non
include. Respinge, più che avvicinare. Ciò è evidente nella forma politica. Ma
anche, al fondo, in quella religiosa, benché discutibile – l’eresia minaccia il
credo o lo allarga?
È una difesa? È verità – quanto è vera, se è intangibile?
Si può dire l’opposto dell’umanesimo, della condizione umana: che è,
deve essere, aperta. Alla riflessione ma anche alle credenze, seppure con un
minimo di potenziale critico. Una disponibilità scuramente ferace in politica
(indispensabile: la politica è mobile, la fissità la sua morte), e
probabilmente anche nella religione.
Piacere – Si vuole speciale
- unico. Proust Gide trova “gran maestro in dissimulazione”, così come Wilde,
per non voler ammettere la condizione o passione omofila. Che tuttavia, Proust
e Wilde, sono icone della gaytudine. Il proibito è parte de piacere, di un
piacere che ci guadagna a volersi eccezionale.
Vangeli – Ma sono paolini, più che cristologici. Conformati sulla Passione e la
Morte. Cioè sulla rinuncia del temporale: la salvezza non è di questo mondo.
I Vangeli sono una cavalcata
in un mondo possibile di bontà e letizia. Anche trionfale, fino all’ingresso in
Gerusalemme. Poi convergono tutti, compreso Marco, che è il più antico, nel
Cristo paolino, del sacrificio per la salvezza, della salvezza attraverso il
sacrificio. Il simbolo diventa la croce, non più la palma. La gloria passa per
l’ignominia la mortificazione. La carne viene divisa dall’anima. Una ortodossia
si crea, tanto fine (afinata) quanto ingombrante.
Una fine che dovrebbe
sorprednere il Gesù di prima, dall’annuncio a Maria alle parabole, ai miracoli,
con la pace, la giustizia, l’amore. Nulla lasciava presagire la fine in croce, Gesù
non si è posto fin ad allora dentro le polemiche tribali dell’ebraismo. È il
Gesù di san Paolo che entra in queste diatribe, e ne esce vittima. Un agnello sacrificale
che diventa capopopolo, capo di una chiesa, di un’ortodossia.
Virtù – Era la “repubblica
della virtù” quella del Terrore, di Robespierre, 1793-94. Un assolutismo e una
schiavitù. Alle leggi, ma di un ristretto numero, e quasi capricciose. Richiamandosi
alla democrazia diretta, di fatto governata assolutamente, al volere del Capo -
vita associata, commercio, consumo.
La virtù di Machiavelli è il valore, che sconfina nel coraggio,
quello politico come quello fisico. In questo senso, classico, colloquiale, è
anche la virtù di Nietzsche, la forza o “volontà di potenza” come opposta alla
virtù cristiana della rinuncia.
Le quattro “virtù cardinali” del catechismo, che sancisce sant’Ambrogio,
prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, erano di Platone. Assunte come in Platone, senza in questo caso
le sottigliezze classificatorie di Aristotele.
Un tema che non ha stimolato. Contro il “mito virtuista”, in materia
di letteratura e di spettacolo, aveva facile gioco Pareto a prodursi nel 1911
nell’arringa che i mali chiamava analfabetismo, miseria, corruzione, camorra, e
Austria.
zeulig@antiit.eu
Pavese era giovane, e avventuroso
Un Pavese sorprendente, sicuro di
sé, anche troppo, che a vent’anni sfida la critica americana e europea su Walt
Whitman. Di cui si arroga la chiave di lettura giusta – “Walt Whitman canta la
gioia di scoprire pensieri”, così la sintetizzerà tre anni dopo in un articolo
per “La Cultura” di luglio-settembre 1933. Nella tesi di laurea, passata a
ventun anni, che il relatore si rifiuterà di presentare.
Pavese andava di fretta - è morto di poco più di quarantuno anni, anche se sembrava fosse lì da sempre. Da ragazzo anche di corsa. Si laurea a 21 anni, superando ben quattro esami di fila, biennali, nelle poche
settimane intercorse tra la chiusura dell’anno accademico e la sessione di
laurea. Tratta la materia dall’alto, e come con sufficienza – la materia essendo
le letture precedenti di Whitman, la bibliografia e le biografie, di critici
americani, italiani, inglesi e francesi. Compreso Stevenson, a cui Whitman non
piaceva (“Familiar Studies”: gli “preferiva” Milton…)
Whitman l’aveva scoperto l’estate
dell’iscrizione all’università, scrivendone – con opposti pareri a distanza di
poche settimane – all’amico Tullio Pinelli. “Io, in questi boschi, mi esalto
con Whitman”, scriveva da Santo Stefano Belbo l’1 agosto 1926, diciottenne, in
vacanza dopo la maturità. E un mese e mezzo dopo, il 19 settembre: “Ora io, non
so se sia l’influenza di Walt Whitman, ma darei 27 campagne per una città come
Torino”.
Lettore dunque da sempre già avventuroso
in inglese. Anche se ne sarà dopo la laurea insegnante mancato: al concorso del
1932 passò scritto e lezione, ma la cattiva pronuncia ne pregiudicò l’orale. Il
suo Whitman è presto detto. “Una letteratura fuori dalla letteratura”? No,
letteratura al quadrato. Anzi, “un Walt Whitman arcade!”. Non per scherzo: “C’è da far rabbrividire molte ombre di
suoi apostoli. Pure, dopo tutti i Whitman che ci ha dato la critica, questo non
è forse il più paradossale”. Come tutti i poeti, creò un suo libro dove il
sogno pratico si risolve nella poesia di questo sogno, nella lirica del mondo
veduto attraverso questo sogno”. Whitman “non creò affatto un libro diverso dai
libri «europei», un nuovo modello letterario”, come si proponeva: “Non fece il
poema primitivo che sognava, ma il poema di questo suo sogno”.
Di più. La poesia “democratica” di
Whitman era un assurdo, e non gli riuscì: “Non riuscì negli assurdi di creare
una poesia adatta al mondo democratico e ai caratteri della nuova terra
scoperta”. Cosa fece allora? “Fece poesia di far poesia”: “Fece la poesia di
questo disegno, la poesia di scoprire un mondo nuovo e di cantarlo”. Questo
punto, precisa concludendo il primo capitolo, “Il mito della scoperta”, che
serve da sommario, è “l’essenza del mio studio”.
Esclude “la critica della critica”,
e “il problema storico di Walt Whitman – derivazione e influssi”. Ma poi
procede in parallelo, quasi sempre in antitesi, sia della critica che delle
anamnesi già in essere del “problema storico”. Iperdisinvolto, tratta anche “L’amore
virile”, al terzo capitolo, sotto questo titolo.
Appiattito – spremuto, stinto –
dal paradiso-inferno Einaudi, dall’universo concentrazionario del politicamente
corretto ante litteram, emerge con la
liberazione dai “diritti” un Pavese più che robusto, una sorta di campione, vincente se non altro per
spavalderia – non il suicida per mancanza, semmai sarà stato per eccesso di
vitalità, compressa. Uno che a vent’anni sapeva di Whitman cose che nessuno in
Italia sapeva, e nemmeno in America, e a ventuno le aveva scritte.
La sua tesi non fu presentata dal
relatore, con cui l’aveva concordata, l’anglista Federico Olivero. Che anzi non
si presentò alla seduta di laurea. Gli subentrò, giusto per la forma, il
titolare di francese, Ferdinando Neri, per non far perdere la sessione al giovane laureando. Su insistenza di Leone Ginzburg, l’amico giovane di Pavese, minore di
un anno, ma già influente slavista.
Il rifiuto di Olivero non è stato
spiegato – si potrebbe ipotizzare la difficoltà di accettare lezioni da uno
studente, il tono professorale. Il voto di laurea si decise corrispondente alla
media degli esami, di 28 più tre lodi: 108 punti su 110. La discussione fu
limitata, ai tantissimi errori di battitura, e all’uso di termini desueti (“spallata”,
alla Papini, per “sbagliata”, “migliarola” per “quantità”).
Il Pavese giovane che ancora oggi
si trascura: precoce, onnivoro, di ottime compagnie e migliori insegnanti,
perspicace, deciso, scrittore “naturale”, in prosa, in poesia, nella
corrispondenza, magistrale a ventun anni. “Veemente”, lo dice Magrelli nella
breve, succosissima, presentazione, anche supponente. Ma di formidabile
perspicacia, come ancora dice Magrelli e si rileva alla lettura.
Subito apprezza di Whitman - in
omaggio alle “masse” all’ordine dei suoi anni, degli anni di Pavese, a sinistra
come a destra - “la protesta di fede nella massa del popolo piena di grandezza
e di capacità di sacrificio e da nessuno mai introdotta in poesia in modo
degno”. Senza dimenticare “l’accenno al molto di rotten e di canker’d che vi è nell’America”, che
anch’esso rientrava in Europa nel politicamente corretto dell’epoca, la
democrazia essendo in sospetto. Ma ne ricorda anche il programma di creazione “dell’Individuo
Democratico”. Che comunque ricerca e sa far parlare, anche se a suo modo,
manierato (il suo pioniere è “uno che sa di essere tale”), sia nella prima
immersione nell’America profonda, dal suo Illinois viaggiando per tutto il Sud,
lungo il Mississippi, nel 1848-1849, sia nella scoperta del West, nel 1879.
Cesare Pavese, Interpretazione della poesia di Walt Whitman, Mimesis, pp. 152 € 13
martedì 27 aprile 2021
Problemi di base identitari - 634
spock
Perché è così difficile fare la
Spid?
E la Pec, non ne parliamo?
C’era un ministero per la
Semplificazione, ce n’è uno ora, anzi un paio, per l’Innovazione: di che cosa,
delle pratiche?
Pensano di fare l’Italia 4.0
con la burocrazia’
Contro lo Stato è terrorismo, ma ci
sarà un santo Tommaso d’Aquino che spieghi e giustifichi, dopo il tirannicidio,
il burosauricidio?
Eppure la rete è semplice, anche
nelle cose complicate, riservate e riservatissime: perché il governo ce la
complica?
spock@antiit.eu
Letture - 456
letterautore
Asino
– Tomasi di Lampedusa lo vuole femmina in siciliano
(“Ricordi d’infanzia”): “Attorno caracollavano gli asini (anzi «i scecche»
perché in siciliano l’asino è quasi sempre femminile, come le navi in inglese)”.
Braciere
– I cugini Piccolo di Tomasi di Lampedusa a Capo d’Orlando
non avevano il riscaldamento né il camino, d’inverno si scaldavano al braciere –
“Quando conobbi i Piccolo (1953), la loro villa non aveva il riscaldamento centrale
e nel salone veniva portata la braciera”, ricorda Gioacchino Lanza Tomasi in nota
ai “Racconti” di Tomasi di Lampedusa.
Nella stessa nota GLT spiega il braciere, “braciera”
in siciliano, un artefatto indispensabile in tutte le famiglie che non
disponevano di una caminetto, in tutto il Sud fino a tutti gli anni 1950, e
anche 1960, che è utile ricordare a futura memoria: “Gran parte delle case
antiche nella mia giovinezza (GLT è del 1934, n.d.r.) erano ancora riscaldate
con la «braciera», consistente in una sorta di grande teglia bassa in lamiera
di ferro del diametro di 40-50 centimetri. Questo recipiente aveva bordi larghi
che poggiavano su un tripode di misura adeguata in ottone, con piedi a zampa
leonina”. GLT lo ricorda anche coperto da una “campana in ottone traforato”,
per mantenere e diffondere il calore, che però per lo più era sostituita da una
gabbia in ferro ottone, di spazi quadrati o rettangolari molto larghi, per
evitare cadute incidentali, specie dei bambini, sulla brace. “La teglia veniva
riempita con brace di carbone di legna”, continua GLT: “In inverno la famiglia
si disponeva attorno alla braciera: si posavano i tacchi su uno spesso fascione
a cerchio in legno di castagno e si appoggiavano le suole sulla campana”. Con l’avvertimento:
“Le esalazioni di ossido di carbonio dalla braciera erano evidentemente
tossiche, e si doveva stare attenti all’aerazione”.
Ma nessuna abitazione aveva – ha - le imposte a tenuta
stagna, gli spifferi possono anche essere notevoli. Si appoggiavano i piedi
senza scarpe, in realtà – da cui il rischio di geloni, che colpivano i talloni,
per i passaggi repentini dal caldo al freddo (malanno soprattutto dei bambini,
scomparso con la scomparsa dei bracieri).
Più spesso il braciere delle case di abitazione
aveva il bordo largo in ottone, sbalzato, con maniglie anch’esse in ottone che
consentivano di maneggiarlo. Era uno dei manufatti più ricorrenti degli zingari
“calderai – allora i rom, quasi stabilizzati in tutto il Sud, avevano mestieri
e funzioni: artigiani del ferro e dei metalli (del fuoco), cavallari (fiere di
cavalli, muli, asini), mediatori. Il braciere si ad agiava su una base ottagonale
o circolare di legno di castagno (il “fascione a cerchio in legno” di GLT), una
sorta di pedana larga giro giro, in modo da accogliere la famiglia, di
consentire a più persone di poggiare i piedi sul brodo rialzato, e\o tendere le
mani al calore della brace.
Camurria
– È gonorrea – Gioacchino Lanza Tomasi, nota 89 ai “Racconti”
di Tomasi di Lampedusa: “Adoperato per indicare una seccatura cronica”, la parola
sta per “malattia venerea (scolo, gonorrea) nel dialetto siciliano”.
Doc
– È spesso insincera, o di fantasia. Non solo per i
vini. Zuppa inglese, insalata russa sono i più comuni, che non hanno di che spartire
con l’Inghiltera e con la Russia. Pochade,
parola francese comune in italiano per
dire una commedia leggera, di avventure grasse, non è in uso in Francia, lo stesso
“articolo” viene chiamato vaudeville –
nel vocabolario francese pochade è “schizzo
a colori dipinto con pochi colpi di pennello”.
“All’inglese”, o “all’olandese”, per comportamenti scorretti, sono comuni
rispettivamente in olandese (e nelle lingue continentali: italiano, francese,
tedesco), e in inglese.
Gattopardo
– Un “libello storico” arriva a definirlo Gioacchino
Lanza Tomasi, nel suo continuo peregrinare attorno al padre adottivo e al suo
vero “figlio”. Forse in un momento di malumore. Però.
È il romanzo della delusione. Anche di chi patriota
non poteva essere al momento dell’unità - ma probabilmente non lo sarebbe stato,
anche a distanza da Teano. Dell’unità che è stata, dice incauto a un certo punto
il sabaudo Chevalley di Monterzuolo, “la felice annessione”.
Manomorta
– La “facile” costituzione della borghesia italiana
dopo l’unità, a danno del patrimonio ecclesiastico comodamente nazionalizzato a
favore dei “nuovi ricchi”, è spiegata da Tomasi di Lampedusa, seppure con
occhio reazionario, nel racconto “I gattini ciechi”. Il cannibalismo degli
Ibba, i nullatenenti diventati con l’unità grandi e grandissimi padroni, faticoso
e stentato i primi tempi, esplode con la manomissione dei beni ecclesiastici: “Raggiunto
il traguardo delle prime centomila lire tutto si era (poi, n.d.r.) svolto con la
precisione di un congegno meccanico: i beni ecclesiastici, acquistati pagando
le prime due rate del loro miserevole estimo, si erano avuti per un decimo del
loro valore; i caseggiati, le sorgive in essi contenute, i diritti di passaggio
che essi possedevano (e di servitù, n.d.r., si può aggiungere) resero quanto
mai facile l’acquisto dei beni laici circostanti, svalutati; i forti redditi accumulati
permisero la compra o l’esproprio di altri più lontani terreni”.
Questo, l’accumulo facile, è alla base della sostituzione
al Sud dell’economia criminale su quella legale, almeno fino a tutti gli anni
1990, malgrado i primi provvedimenti di confisca – fino a 20-25 anni fa le
condanne si si risolvevano amministrativamente in “sequestri”, che i beni lasciavano
nella disponibilità dei condannati.
Pavese
– È sempre hanté
dall’inadeguatezza. A lungo, oltre mezzo secolo, come uomo, per via del
suicidio. Ora, in questo revival favorito dalla liberalizzazione
dei diritti (ogni editore ha qualche Pavese in catalogo), per via del mancato
impegno in guerra: della mancata partecipazione ala Resistenza, benché
tesserato del Pci, e anzi della titubanza tra Salò e la Resistenza. Anche se di
questa titubanza si sa solo perché lui l’ha voluta testimoniare. In un “diario
segreto” che però ha lasciato – e che era noto da almeno trent’anni. Ma vale per
lui, come pure per Calvino su altra sponda, la tentazione di vederci il segno,
o l’emersione, di una delusione culturale e ideale, prima che ideologica, o
politica, a pochi anni dalla fine della guerra. Della caduta delle illusioni.
Più forte per gli intellettuali sensibili, Pavese, Calvino, se la speranza era
stata coltivata nel Pci, nella sua gabbia di ferro ideologica.
È marcato dal suicidio: la sua fine è la sua nascita,
come autore. Misterioso, minaccioso. Sotto il sigillo funebre. Di una vita
invece vivace, briosa, coraggiosa – perfino sfrontata, nella sicumera con cui
affronta Walt Whitman e i suoi scritti nella tesi di laurea, ad appena ventuno
anni. Nella scrittura, nel lavoro editoriale, nelle frequentazioni, i gusti. Ma
poi presto passiva, perfino impaurita. Scandita singolarmente dai rifiuti in
amore. Tutti registrati. Che ogni volta lo lasciavano perplesso, più che
reattivo - adirato, sprezzante. Per esempio quello di Constance Dowling,
scandito dalle poesie tristi, rassegnate, terribili già nel titolo, “Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi”.
Piccolo
– I tre cugini di Tomasi di Lampedusa a Capo d’Orlando,
figli di una sorella dell’amatissima Madre, maiuscola, ricordavano all’autore
del “Gattopardo” in cerca di “casa” (la sua, comprata con la moglie, non gli
piaceva) l’infanzia felice a Santa Margherita Belìce, con l’accento sulla i, e
per questo li andava a trovare spesso.
Nelle
estati a S. Margherita, annota in “Ricordi d’infanzia”, “al mio capezzale pendeva
una specie di bacheca Luigi XV”, con la Sacra Famiglia. “Questa bacheca”,
spiega, “si è miracolosamente salvata e pende adesso al capezzale del letto
nella stanza della villa in cui dormo dei miei cugini Piccolo a Capo
d’Orlando”. Aggiungendo: “In questa villa del resto ritrovo non soltanto la
«Sacra Famiglia» della mia infanzia, ma una traccia, affievolita certo ma
indubitabile, della mia fanciullezza a S.
Margherita e perciò mi piace tanto andarvi”.
Gioacchino Lanza Tomasi ricorda, annotando i “Racconti”
di Tomasi di Lampedusa, che Lucio, il poeta, aveva “una serie di aneddoti
margaritani” su quella stagione.
letterautore@antiit.eu
La grazia del Nulla
“Non
sono ancora riuscita a capire il suo carattere – dice la bella e indolente
signora Tobler a Giuseppe Marti, l’assistente che serve con fedele riservatezza
la ditta e la casa ormai compromesse e
vacillanti. – È forse magnanimo? O è abietto?” Ma una terza risposta era
possibile, se la signora Tobler avesse letto “Jakob van Gunten”, un racconto
precedente dello stesso suo autore: “È privo di carattere perché non sa ancora
cosa sia un carattere”.
Seducente
e sfuggente, come sempre: che narratore è, Robert Walser? Il breve saggio di
Walter Benjamin. “Robert Walser” - qui ripreso (da “Avanguardia e rivoluzione.
Saggi letterari”) con le note di Hermann Hesse, e il breve saggio di Musil, “Le
«storie» di Robert Walser” - spiega molto. È egli stesso il Buonannulla di
tanta narrativa tedesca, Hebel e poi Eichendorff – cui Benjamin aggiunge
Hamsun. E sa raccontarla, la vita del nulla: scritture labili, in superficie,
di uno che sostiene di non avere mai corretto nemmeno una riga, e tuttavia,
per quanto “involontario” e “trascurato”, un linguaggio “che presenta tutte le
sue forme, dalla grazia fino all’amarezza”.
Non più in catalogo da Einaudi, e ancora non ripreso da Adelphi, questo che è forse il miglior
racconto di R.Walser ha prezzi d’affezione nell’usato.
Con
un saggio conclusivo di Claudio Magris. E una sorprendente antologia (“Assonanze”)
di scrittori su Walser: Seelig, Kafka, Zweig, molto Canetti. Passando da un
iniziale “Walser über Walser”, un’autodiagnosi: “Desidero passare inosservato”.
“L’assistente”
è scritto nel 1908 a Berlino, tra “I fratelli Tanner”, 1907, e “Jakob van Gunten”,
1909, i suoi tre romanzi, o “grandi libri di prosa” come li chiama Carl Seelig,
il curatore, non avendo intreccio, o contrasto (un quarto romanzo, “Teodoro”, scritto dopo il
1920 a Berna, sarebbe disperso in una casa editrice tedesca o svizzera).
Dovendo riassumerlo, è il racconto di una esperienza di lavoro dello stesso Walser, tra
il 1903 e il 1904, presso l’ingegnere meccanico Dubler (la signora Tobler è la
moglie dell’ingegnere), a Wãdenswill, qui Bãrenswill, sul lago di Zurigo, in
una villa con vista in collina, zun
Abendstern, Stella Vespertina. È il racconto di quella sua esperienza: “«L’assistente»
è un romanzo assolutamente realistico”, confiderà a Seelig nelle “Passeggiate”:
“Non ho dovuto inventare quasi nulla. La vita l’ha creato per me”. Walser ci ha
messo un po’ di vita, una scena inerte fa stare godibilmente in piedi.
Robert
Walser, L’assistente, Einaudi,
pp.XVIII + 225 € 7,50
lunedì 26 aprile 2021
Innamorati
S’incontrano ad aprile, si lasciano a ottobre. Il freddo lei preferisce
viverlo a casa sua. Viene dal Nord, un paese che nessuno le ha mai chiesto e
lei non ha detto. Può anche darsi che non si scrivano, e in che lingua poi,
ammesso che lui sappia scrivere? Né che comunichino nell’assenza, per quanto
ora usi il telefono. Ma si ritrovano come se si fossero appena lasciati. Lui
ripassa la calce, sostituisce i legni marciti, fissa i chiodi, la porta tiene
aperta e la finestra per purgare l’aria. Di una casa che non è una casa, ma una
grotta che ha recintato, da tempo immemorabile, vivendo sulla spiaggia, e ora è
suo domicilio. Lei arriva, se non il primo sabato di aprile il secondo, e
riprendono quella loro vita in comune che però è anche in parallelo, mostrandosi
insieme a una certa ora la sera, un tempo da Black ora nel loro locale, o a
tutte le cerimonie, sacre e profane, e talvolta sulla spiaggia, d’estate, la
mattina presto. Lei non disdegna un colpo, pare, con chiunque le va, anche
senza aver bevuto. Ma, se è vero, la storia finisce con l’atto: lei ama lui,
che i compagni d’infanzia ricordano avventuroso e solitario, senza ragazze, e
sospettano impotente, e lui ama lei. Si amano con tenerezza sdolcinata per il
luogo, che è al fondo ancora villico, riservato.
Lei arriva con i pennelli e i colori, e coscienziosa dipinge, su ogni
materiale, anche tavole appena piallate, cartoni, carta, stoffe, a olio, a
tempera, a penna, ad acquerello, limoni, viti, la cuccarda di palazzo Murat,
finestre senza imposte o con la grata bombata, con o senza vite americana, verde
o rossa, saggi di calore nella luce. È il suo secondo mestiere, poiché per sei
mesi è medico al suo paese in ospedale, che esercita senza presunzione,
volentieri cedendo per qualsiasi prezzo i suoi lavori, e quelli non venduti
imballa con cura e si porta dietro alla partenza. Con gli anni gli ha insegnato
a far fruttare i suoi piatti, dapprima su pochi tavoli all’uscio, ora in un capannone
adiacente alla casa-grotta. È l’unica abilità di lui, definendosi egli
pescatore per tradizione familiare, ma di suo incapace di ogni attività, senza
barca, senza soci, di nessuna famiglia, che in un paese è quasi impossibile,
senza amici e senza nemici. Di più ha dovuto lei faticare per vincerne la
rustichezza, che allontanava i clienti. Malgrado la lingua, la professione e le
diverse abitudini, lei ama conversare, guardando gli interlocutori con occhi
allegri. Nicola ha infine imparato a servire, tenendo un aiuto in cucina, ha la
pelle del viso distesa attorno agli occhi e alle narici, e anche lui guarda in
viso le persone quando gli parlano. Gli occhi di Agnes sono oro con riflessi
bruni, sotto la capigliatura biondo paglia, quelli di lui di un azzurro
cristallino.
Per qualche tempo ha portato i figli, in vacanza dalla scuola. Stava
allora in albergo, e con loro faceva la ruota la mattina in spiaggia. La bambina
imparava competitiva, il bambino obbediva senza entusiasmo, insieme riempivano
la spiaggia, a quell’ora ancora vuota, e più per lo sfavillio dello sguardo
sereno e l’agilità che per l’estensione dei corpi. Agh-nes è nella memoria
collettiva questa immagine naturale della bellezza, che la ruota amplia, la bionda
criniera slanciandosi al di là delle lunghe gambe e le braccia, e il comune
rapporto di amore familiare quietamente ingigantisce. Sono Agh-nes e Nicola,
loro e non altri, che il paese e anche i forestieri identificano, seppure non
ne hanno ancora tracciato con precisione la storia. Certi che il desiderio,
quello quotidiano, quasi istintuale, pianticella diffusa, e il rispetto ne
fanno una. C’è riconoscenza, più che invidia, per il loro ruolo modesto e
testato, una promessa di felicità ordinaria proprio nell’amore, che nella
storia del mondo è motivo principale di sofferenza.
Si fanno racconti di vicende ordinarie.
Gli amori modesti non sono infelici.
Ma l’amore no - sterminio al Conservatorio
Lo stesso nome di serie, due
racconti diversi. La prima stagione, 2020, fu sorprendente: si sceneggiava
niente meno che la musica - si poteva fare cinema facendo musica. Questa
seconda è di polpettoni sentimentali. Per giunta adolescenziali – anche di
adulti, anche in condizioni tragiche, ma adolescenti. Quindi turbamenti,
incertezze, disperazioni, consolazioni, abbandoni, ritrovamenti, insomma la
solita storia, rifritta per due ore, da perdere la pazienza, ogni scena a specchio dell’altra. Fra gli stessi personaggi
della prima serie, che quindi, più che deludere, fanno rabbia: anche i musicisti sono da poco, ragazzetti. Ci sono di mezzo pure le madri, del tipo signora mia. Si direbbe uno sterminio, al Conservatorio.
Ivan Cotroneo, La Compagnia del Cigno 2, Rai 1
domenica 25 aprile 2021
Problemi di base - 633
spock
“L’importante è che la scimmia\ non sia scesa
dal cristiano”, Trilussa?
“Siamo tuti i figli di qualcuno”,
Stefano Bollani?
Se le verità non c’è, allora tutto
è falso?
E se tutto fosse falso?
La testimonianza è sempre coraggiosa?
Della verità, o di che?
spock@antiit.eu
La SuperLega dei caratteri nazionali
È curioso, ma la farsa della SuperLega di
calcio è (stata) agitata dalle maschere nazionali – da quelli che una pubblicazione
pure importante, l’Enciclopedia Einaudi, chiama al primo volume “I caratteri
originali”. Che pure si pensavano superate nel lungo cosmopolitismo che ha informato
l’Europa del secondo dopoguerra, concluso con l’interrail, e poi l’Erasmus.
L’improntitudine italiana, la Spagna sempre seduta sull’Invincibile Armada, l’Inghilterra
furba – della pirateria camuffata da righteousness,
o dell’ipocrisia. Con i balcanici in soccorso dei vincitori.
Più curioso ancora è che in queste caratteristiche
“nazionali” sono coinvolti personaggi e interessi remoti e avulsi dall’Europa,
arabi e cinesi: gli arabi fanno gli inglesi, i cinesi gli italiani.
Mancano i tedeschi e i francesi, e anche
questo è indicativo, ma in altro senso: non si mescolano con le mezze calzette
europee, del vorrei ma non posso.
La vita in fuga, acchiappata di corsa
Un film lieve. Di immagini. Anche
nei lunghi dialoghi: gli interpreti, Clive Owen, Jasmine Trinca, Irène Jacob,
sono tutti nelle loro espressioni, come se fosse il loro film. In una rielaborazione
di “Easy Rider”, in una vecchia Vw invece che sulla Harley Davidson, altrettanto
bislacca, apparentemente, e vera.
Un racconto di identità smarrite,
cancellate. Delle persone, lei fobica, lui alcolista. Dei luoghi, abbandonati:
la chiesa di san Vittorino, al km. 72 della Salaria, il villaggio operaio di
Crespi d’Adda, Chateau Thierry nel Nord della Francia, un non-luogo, un parco
acquatico fuori stagione o abbandonato (quello di Guidonia), e il campo
militare di Stanford nel Norfolk, che era il paese dì origine di lui ma dopo la
guerra è stato consacrato alle celebrazioni della vittoria. Tanto più alla
deriva quanto le identità sono, erano, costruite: lei travel blogger - influencer
(propagandista) del settore viaggi, lui giornalista inglese accreditato in
Italia, e i luoghi prestigiosi o animati.
Un caleidoscopio, anche della
realtà come avviene, nel suo farsi, e disfarsi. Tra bugie che non reggono ma
non si sanno evitare – un’autocancellazione al quadrato. La filosofia è però lieve, sotto traccia.
Un racconto originale, della stessa
regista e di Carlo Salsa. Reso con immagini non ricercate, eppure
caratterizzanti.
Giorgia Farina, Guida romantica ai posti perduti, Sky
Cinema
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