sabato 8 maggio 2021
Cronache dell’altro mondo – dell’abbondanza (113)
Melinda Gates disperata per le infedeltà del marito Bill si rifugia con i figli, Jennifer, 25 anni, Rory, 22, e Phoebe, 19 anni, a Calivigny, isola di Grenada che la rete dice “in vendita” (ora in affitto), in cerca di un po’ di pace. Al costo di 132 mila dollari al giorno.
Giono anticipa Fo, e Truman Capote
“Il presidente, l’assessore, i
giudici, l’Avvocato generale, il procuratore sono uomini la cui onestà e
dirittura non possono essere sospettati. Hanno la convinzione intima che
l’Accusato è colpevole. Io dico che questa convinzione non mi ha convinto. Assassinio
a parte, tutti sono d’accordo nel riconoscere che Gaston D…. è un grande
carattere. Forse prepotente, cafone e crudele,
ma incontestabilmente coraggioso, fiero e intiero. Una ipocrisia molto
fine, Rinascimento italiano. La Corte, i giudici vestiti di rosso, i gendarmi e
i soldati non lo impressionano…”. In un processo di “parole” : Gaston D.
conduce il processo “malgrado il suo vocabolario ristrettissimo (per tutt il
tempo del dibattimento si è servito di trentacinque parole. Non una di più, le
ho contate)”.
La cosa tormenta Giono, che la
riprende più volte, è la sua chiave del processo - Giono anticipa Fo, tra chi
ne poche parole e chi ne ha molte: “L’Accusato non ha che un vocabolario da
trenta a trentacinque aprole, non di più (ho fatto il conto su tutte le frasi che
ha pronunciato nel corso delle udienze).
Il Presidente, l’Avvocato generale, il procuratore, etc., hanno, per
esprimersi, migliaia di parole”. E ancora: “Un Accusato che disponesse di un
vocabolario di duemila parole sarebbe uscito più o meno indenne da questo
processo. Se, in più, fosse stato dotato del dono della parola e di un po’ di
arte del racconto, sarebbe assolto. Malgrado le confessioni. Ho chiesto se
queste confessioni erano state riprodotte fedelmente nei verbali. Mi è stato
risposto: Si, fedelmente. Li si è soltanto messi in francese”. Li si è
“tradotti”.
Un “legal thriller” di campagna,
di ex pastori ex servi. Gaston D., l’Accusato, che il processo vuole soltanto
condannare, è “figliolo naturale di una serva che si diceva essere stata
piemontese (padre sconosciuto), nato nella portineria di questo palazzo di giustizia
dove ora lo si giudica”. Era la serva del portiere del palazzo. Della giuria,
che non ha mai preso un appunto né posto una domanda, Giono si limita a dire,
all’ultima riga: “Bisognerebbe anche poter parlare dei giurati”.
Un affare brutto, bruttissimo: una
coppia inglese in gita nell’Alta Provenza e la loro bambina trucidati, in tempi
diversi, nel campo dell’Accusato, Gaston Dominici, che a un certo punto
confesserà di essere l’autore dei delitti, e sarà accusato da due figli e un
nipote. L’accusato e un dei figli in udienza ritratteranno. Le nuore testimonieranno
in favore dell’accusato. Nel nipote ventenne, anche lui uno dei sospettati
dell’eccidio, che accusa il nonno Giono sconcertato vede la personificazione della
bugia – cioè il nessun senso della verità, per cui non può dire che bugie.
Un processo sbagliato, impiantato
male, condotto malissimo. “Un processo di parole, non c’è alcuna prova
materiale, in un senso o nell’altro; non ci sono che parole”. Senza movente, non nel processo, e senza nemmeno una dinamica
convincente. Con interrogatori in aula da teatro dell’assurdo. Gaston Dominici
è quello che aveva ritrovato i cadaveri la mattina, che ne aveva avvertito la
Gendarmeria. Sarà condannato a morte, ma la condanna sarà presto commutata (presidente
Coty) in ergastolo, per le condizioni insolite del processo (non era convinta
nemmeno la pubblica accusa), e poi (presidente De Gaulle, cinque anni e mezzo dopo
la condanna) in grazia.
Il resoconto di Giono è sempre
vivo. Embrione del grande successo di Truman Capote, “A sangue freddo”. Il presidente
ricorda i troppi presidenti impressionabili dei processi per il “mostro di
Firenze”, dove si diceva tutto e insieme il contrario, la colpa era nelle facce.
Le “note” sono le quattro corrispondenze
che Giono scrisse per la rivista “Arts”nel dicembre del 1954. Dopo il processo
e la condanna a morte di Gaston Dominici.
Entrambe le edizioni sono
corredate del “Saggio sul carattere dei personaggi”, che Giono pubblicò un anno
dopo. Un repertorio di estremo interesse dell’Alta Provenza ai suoi anni, che
si legge come un romanzo di ambiente. Il romanzo che non c’è dell’Alta Provenza
com’era ancora sessant’anni fa, di caratteri tutti “originali” – nuovi, cioè
veri. Molto lontana dalla Provenza urbana e costiera, e anzi a questo mondo
chiusa, quasi ostile.
Jean Giono, Notes sur l’affaire Dominici, Folio, pp. 115 € 2
L’affaire
Dominici,
Sellerio, pp. 132 € 8
venerdì 7 maggio 2021
Ombre - 561
Unicredit e Bpm dopo Intesa: le banche lavorano di meno, con i lockdown a catena, e guadagnano di più. Miracolo? La banca meno lavora e meno danni fa?
Intervista militante, incalzante, Zunino su “la Repubblica” la ministra dell’Università, la ex rettrice di Milano-Bicocca Maria Cristina Messa, sui concorsi universitari. Fare piazza pulita delle commissioni a ordinario. Ridurre o eliminare le autonomie degli atenei. Eliminare i localismi e i privilegi. Ma la ministra è cauta, e anzi, a leggerla tutta, dice il contrario: l’autonomia è buona e fa bene, i concorsi si fanno e si rifanno (“io l’ho fatto dieci volte”), il merito vince. “Adelante, con juicio”. O: il governo Draghi non è la rivoluzione.
Quale
che sia la verità dell’affare Storari-Davigo, e della loggia coperta
dell’avvocato Amara, la volgarità è alluvionale. Per lo squallore dei
personaggi, delle loro motivazioni. Per l’equivoco avvocato, denunciatore seriale
senza effetti. Per il rispetto dei media: non un solo commento critico. Per
esempio sulle Procure, finora tre, che si contendono l’indagine.
E la
“Loggia Ungheria”? Se c’è, va accertata. Perché, se non c’è, allora Amara va
chiamato a rapporto.
L’avvocato
Amara ha messo dentro la loggia Ungheria tutti - tutti quelli di cui ha sentito
parlare. Gente di diritto soprattutto. Con qualche nome noto di massone, tipo
Giancarlo Elia Valori. Il “Corriere della sera”, volendo dare la misura
dell’avvocato, dice che alcuni sono morti da tempo. Tra questi l’attivissimo,
in Corea (del Nord), Cina, etc., Valori. Non ci sono più santi?
“Da
Mani pulite ai dossier misteriosi”: sullo stesso giornale Buccini, pure uno non
succube, fa dell’intemperante giudice Davigo un pilastro della saggezza e della
sapienza giuridica - aristocratica, lomellina. Il giudice ne ha dette tante, e si sa come la pensa – “non esistono innocenti
ma colpevoli ancora non scoperti” – ma è un animo nobile. Leggere per credere:
https://www.corriere.it/politica/21_maggio_06/davigo-mani-pulite-dossier-misteriosi-ascesa-caduta-duro-toghe-2484aff6-add9-11eb-a291-9e846c3a1f8f.shtml
Fa
senso nella vicenda Storari-Davigo che persone che hanno fatto carriera su
indagini e accuse inventate o sballate, siano presentati come vestali sacre del
diritto e inflessibili – incorrotti, intemerati - ministri della legge. Magari
capitalizzata ai talk-show e sui media devoti.
Fa
pena il presidente della Repubblica Mattarella, nonché presidente del Consiglio
Superiore della Magistratura, che per salvare l’onore della corporazione si
appella alla memoria del giudice Livatino. Non c’è altro buon esempio che
quella che la chiesa ha certificato.
Fa
senso che il movimento 5 Stelle sia affidato a Conte, un democristiano naturaliter, che in queste settimane d’investitura
ha lavorato da democristiano vero, doc. Il comico Grillo, cui si deve l’investitura,
e i suoi followers, volevano solo
sostituirsi ai democristiani.
Non
hanno fatto altro in tutti questi anni, dopo che si sono sostituiti, che dare
mance, e gestirle.
Gli
assassini del brigadiere dei Carabinieri Cerciello sono stati condannati all’ergastolo,
ma sono dei galantuomini. Si può leggere nella cronaca della sentenza sul
“Corriere della sera”. Sono stati condannati, sì, ma:
https://roma.corriere.it/notizie/cronaca/21_maggio_05/omicidio-cerciello-sentenza-hjorth-elder-condannati-all-ergastolo-1c1320b0-ad83-11eb-a291-9e846c3a1f8f.shtml
Gli
avvocati dei due assassini sono importanti? Sono confidenti apprezzati dei
cronisti giudiziari? La famiglia di uno dei due lo è? I due saranno stati
condannati per qualche motivo?
Ma quanto s’imparava al ginnasio
La scuola di una volta in un racconto
corale. Un anno di vita a scuola, al ginnasio, tra quindicenni, tra interrogazioni,
flirt e scrutini, e professori
stanchi, tra concorsi a perdere e ritorni di fiamma, anche con ex allieve –
senza scandalo, a Milano.
Forse non il romanzo della
scuola, come si propone. Resta, nel fondo, il romanzo di Milano al tempo della
“nebbia in val Padana”, della “efficiente superautorimessa” al gusto “di
petrolio e affini”, e della campagne fiorite appena fuori città. Con gli
amoretti, dei ragazzi e dei professori – a Musocco di preferenza (ma non è il
luogo del cimitero?)..
Un libro che si è cercato, con qualche
problema, e si è letto, per un qualche motivo – una segnalazione, un collegamento
a interessi noti – che alla lettura non si scopre. Una cosa ben scritta, Corti
era già all’epoca, 1966, filologa di lungo corso e molti meriti. Ma, alla fine,
un raccontino allungato a trecento pagine. Un debutto – Corti ha all’attivo altri
racconti più sostanziosi.
Però: quanto s’imparava al ginnasio-liceo
di una volta, quando era l’unico veicolo per l’università e una professione.
Maria Corti rimemora la sua esperieza d’insegnante, nel mentre che – come
alcuni dei suoi personaggi – faceva i concorsi a cattedra universitaria. Con
indulgenza, anzi con affetto. Per i “colleghi” e per gli studenti, qui
ginnasiali, quindi sui quindici anni – dopo s’intravedono perticoni, un po’ curvi,
rannuvolati. Con una vena anche satirica. “Scatola a sorpresa”, il viaggio a
Roma al ministero di viale Trastevere, è un piccolo capolavoro. “Il ballo dei
sapienti”, dei conferenzieri per conferenzieri, anche – ma più scontato.
Maria Corti, Il ballo dei
sapienti
giovedì 6 maggio 2021
Problemi di base di Borsa - 635
spock
Nel giorno in cui emerge primo gruppo
europeo, Stellantis perde a piazza Affari ben 4 punti, un record: c’è una ratio?
Banca Intesa annuncia utili record
nei primi tre mesi, a 1,15 miliardi, “ai vertici del settore in Europa”, e
niente, quotazione piatta?
Unicredit non fa niente, e sale in
Borsa ogni giorno del 4 e del 5 per cento: in attesa della zavorra Mps che il
Tesoro gli sta imponendo?
Si magnifica Acea vendendo cara
l’acqua: di che vantarsi?
A.S. Roma si compra Mourinho, a
caro prezzo, e sale in Borsa del 21, e poi del 10, per cento: ha vinto qualcosa?
È utile mettere i soldi in Borsa:
per chi?
spock@antiit.eu
Cinecittà a Hollywood-Corea
Una tranche-de-vie. Di una coppia giovane, immigrati coreani,
“sessagisti” dei polli per dieci anni in California, che provano a cambiare
vita e fortuna, mettendo a coltura un terreno abbandonato nel profondo Arkansas,
tra “i bifolchi”, tutti in qualche modo suonati. Mettendosi a coltivare verdure
“coreane”, cioè al gusto coreano. Non c’è l’acqua, bisogna trovarla. Ci vuole
un trattore, quindi ci vuole un prestito. Il bambino ha problemi di cuore,
quindi ci vogliono cure – ma qui tutto va bene. La nonna, svanita, causa catastrofi senza fine. La parrocchia non aiuta, gli altri parrocchiani sono e
stanno peggio. Insomma, due ore di disgrazie. I grossisti che si erano impegnati a
ritirare il raccolto si tirano indietro. La coppia decide di dividersi, ma poi
forse no - malgrado tutto, siamo ancora
in chiave di American Dream.
Una copia - non in bella: è incredibile come il neo
realismo sia rivissuto in Asia, soprattutto in Corea. Da asiatici però americani.
Anzi, si professi il nuovo cinema americano, sempre in testa da qualche
anno agli Oscar – dopo l’ondata latina: “Parasite”, “Nomadland”, questo “Minari”, il
prezzemolo coreano. In chiave minimalista, sommessa. E della rassegnazione,
senza sovversione: all’epoca dei disincanto, anzi della crisi. Ma strappalacrime,
a effetto, e poco immaginativo – il neo realismo è “poetico”.
Lee Isaac Chung, Minari
mercoledì 5 maggio 2021
Secondi pensieri - 448
zeulig
Corpo – Denunciato, anzi
proibito dalla dottrina (catechismo) e dalla pratica cristiana (finisce quasi
sempre in confessionale), e più nei riformati che nel cattolicesimo, per quanto
ordinato e gestito da uomini e donne che lo rifiutano in principio, non è la scintilla
e il lievito del cristianesimo? Il suo trademark
rispetto ad altri monoteismi e il
suo massimo veicolo di propagazione? La Resurrezione è della carne. Il Verbo si
è fatto carne. I miracoli sono carnali. È
il corpo vivo del Cristo che il cristiano onora e adora, non una spoglia
esangue appesa alla croce, a un triangolo di legno.
Se ne trova la misura – della rilevanza del corpo nella dottrina
cristiana – al confronto con l’islam. Che per converso rifiuta - lo disprezza –
il cristianesimo per questa “mancanza di misticismo”, per una sorta di materialismo.
Che a Dio guarda come a una famiglia, con padre, figlio, e buoni consigli e
comportamenti, e con parenti vari, buoni e cattivi, madri, sorelle, cugini,
amanti.
Dio – “C’è un certo modo
di adorare Dio che m fa l’effetto di una bestemmia. C’è un certo modo di negare
Dio che raggiunge l’adorazione”, A. Gide, “Journal”, 1937. È il modo di Scalfari
col papa, e nei suoi sermoni domenicali. Del laico che “vive” con Dio - seppure,
nel caso, di una vita esteriore, per gli onori e la parata. C’è sicuramente un
modo di vivere Dio negandolo – non bestemmiandolo: cercandolo e non “trovandolo”
(che vuol dire “trovare Dio”: non è una cosa, un oggetto).
Fasciocomunismo – Un
antesignano a sorpresa se ne può dire Gide in giro per l’Italia nel 1937, da
antifascista che comincia a essere deluso dal comunismo, visto all’opera di
persona l’anno prima a Mosca: “I re quarti delle iscrizioni italiane
(mussoliniane, n.d.r., del tipo “credere, obbedire, cmbattere”) potrebbe altrettanto bene convenire ai muri di
Mosca”. Dopo avere osservato: “Il comunismo stesso, che si pretende ancora antifascista,
ma non lo è più che politicamente e, anch’esso, domanda agli iscritti del partito
di credere, di obbedire, di combattere,
senza riflessione, senza critica, con circa sottomissione”.
Ironia – Stendhal la
deplora perché disseccatrice – la rimprovera ai francesi, a fronte della “passione”
italiana, la deplora in quanto preclude
ogni entusiasmo. Gide la scopre con entusiasmo (“Journal”, 14 giugno 1905) in Baudelaire,
dopo averne ripreso la lettura col più vivo piacere”: “L’ironia considerata come una forma della macerazione. Molto
importante”.
È la forma in cui la considerava, ignoto a Baudelaire ma con più
titolo, Kierkegaard: come una forma di distacco dal reale – il mondo come è – e
quindi di ascesi. In questo senso, curiosamente, Baudelaire attraverso questa formula
è stato elevato al rango dei mistici da Mauriac, “un martire senza nome”, e
Charles du Bos. Negli indici tematici di Baudelaire l’ironia non merita menzione:
la formula che ha attratto l’attenzione di Gide non è ricorrente, né il tema. A
essa tuttavia fa appello episodico nella corrispondenza. E specifico per quanto
riguarda il poemetto “L’Heautontimorumenos”, dalla prima raccolta “Spleen et
idéal”, titolo derivato da Terenzio, il distruttore di se stesso. La
composizione ha dedica che Baudelaire ha voluto segreta, “A J.G.F.”. Che però
si legge “a Jeanne (Duval) (Butor e altri – Jacques Crépet: “a Jeanne (Duval), Gentille
Femme”. È un avviso di amore sadico: “Ti colpirò senza collera\ e senza odio,
come il macellaio…”. Per una ragione
precisa: “Non sono io un falso accordo\ nella divina sinfonia\ grazie alla
vorace ironia\ che mi scuote e che mi morde?” Per concludere: “Sono del mio
cuore il vampiro,\ uno di quei grandi abbandonati,\ al riso eterno condannati,\
e che non possono più sorridere”. Il
riso distinguendo malefico dal sorriso. Ma è l’ironia il riso? O non il suo
contrario.
L’ironia dissecca, è così. Una forma di comunicazione che è una presa
di distanza. Continua, se è un abito mentale, linguistico, e inevitabile: un
fossato, non colmabile, sia pure con la migliore disposizione dell’interlocutore.
A proposito dell’“Heautontimorumenos”, Baudelaire lo spiega in una lettera (7
arile 1855) al segretario di redazione della “Revue des deux Mondes”, che aveva
in pubblicazione i primi “Fiori del male”: “L’epilogo (indirizzato a una
signora) dice pressappoco questo: Lasciatemi
riposare nell’amore. – Ma no – l’amore non mi riposerà. – Il candore e la bontà
sono disgustose. – Se volete piacermi e rinvigorire i desideri, siate crudele,
bugiarda, libertina, crapulosa e rapinosa! E se non volete essere tutto questo vi
batterò senza collera. Perché io sono il vero rappresentante dell’ironia, e la
mia malattia è assolutamente incurabile”. L’ironia come condanna all’insoddisfazione.
L’ironia come macerazione in senso proprio sarà relazione ripresa da
Jankélevitch nel suo trattato del 1937, “L’ironie”, che fa largo ricorso a casi
presi dalla letteratura e dalla musica. Ma il rapporto esuma in senso storico,
come di un approccio passato, e sbagliato: “Lo scopo dell’ironia non era di lasciarci
macerare nell’aceto dei sarcasmi né, avendo massacrato tutti i fantocci, di elevarne un altro al suo
posto, ma di restaurare quello senza il quale l’ironia non sarebbe ironica: uno
spirito innocente e un cuore ispirato”.
Jankélevitch vuole l’ironia una coscienza al quadrato, “una coscienza
della coscienza”. Una lucidità per fare luce. Contro la cattiveria, la fatuità,
la stupidità. Una saggezza che gioca il gioco della stupidità per arginarla e
aiutarla a indirizzarsi. Ne spiega anche, a lungo, i pericoli, l’ironia potendo
cadere, se non regolata, nelle sue proprie trappole. Ma la compara molto
favorevolmente alle attitudini che le si ritengono prossime: cinismo,
ipocrisia, menzogna a fin di male.
Monoteismo – L’islam si
pretende l’unico vero monoteismo, il cristianesimo perdendosi tra i santi, la
Vergine, la Trinità (così si vuole, anche se l’islam sciita, buona parte, se
non la metà, dell’islam, ha i santi, le
immagini e le preghiere) . E sospetta della teologia, che lavora a unificare
misticamente tutte queste realtà. È però anche vero che il monoteismo rigido
dei mussulmani li ha tenuti fuori, e probabilmente l’ha impedito, dal fulgore
creativo dell’arte. È nel monoteismo politeista – umano – del cristianesimo che
l’arte ha potuto rifiorire – riprendere la trardizione classica, pre-monoteista.
Il vero monoteismo – Dio in sé e per sé – è contrario all’arte? Ma
non è l’arte la prima immagine di Dio, la sua prima opera, il suo primo
suggello?
Vangeli – Sono compendi,
anche “manifesti”, proclamazioni, di una sovversione radicale. Per ciò stesso
storici, altrimenti inimmaginabili. E nuova, senza precedenti. Della resurrezione,
o rinascita. Di un mondo altro, dello spirito, dell’anima. Di singolarità
totale. Perfino, da ultimo, contro il Dio padre – la ribellione, la coscienza
di sé, portando all’estremo. Dopo essere stato contro la famiglia, e anche
contro la casa, la proprietà, il rifugio – la predicazione, con l’esempio, di una
sorta di nomadismo, singolare – ognuno col suo destino.
Sono unitari, ognuno nella sua narrazione. E, tutt’e quattro, convergenti,
seppure narrazioni diverse. Ma tutt’e quattro convergono in una rappresentazione
della vita e i miracoli di Gesù in un mondo e una maniera d’essere diversi, fino
all’entrata in Gerusalemme – quindi per “tre anni”, gli anni dei vangeli, della
predicazione. Diversi dalla condizione consueta, scontata: nomadici, senza
famiglia.
Il fatto è assunto nella condizione sacerdotale: la funzione isola,
da affetti e legami. Ma Gesù e gli apostoli non professano il sacerdozio,
vivono la vita di ognuno.
zeulig@antiit.eu
Cronache dell’altro mondo – corrette (112)
Ha avuto gloria anticipata Blake Bailey, con
l’annuncio e la promozione della sua biografia di Philip Roth, e poi – per questo?
– la dannazione. Bailey, professore universitario di inglese, è autore di una
biografia “autorizzata” dallo scrittore, che però lo fa donnaiolo anche
scorretto, oltre che misogino, quindi un po’ glamour. L’editore W.W.Norton ne ha tratto beneficio con le
anticipazioni. Poi, al momento di distribuire il libro, se lo aveva stampato, ha
annunciato che lo mandava al macero: Bailey è denunciato da due studentesse e
da una dirigente editoriale, con le quali aveva avuto un rapporto, di
aggressioni sessuali – Philip Roth è morto.
Si discute se distruggere o confinare alle
cineteche i film western, in omaggio alla cancel
culture. Anche quelli aperti agli
indiani, come i film da Jack London o da Fenimore Cooper. Tra gli indiani d’America
non c’è però una spinta in tal senso.
Ritorna la spinta afroamericana per la
distruzione o la messa al bando di “Via col vento”. E il vecchio problema del presidente Jefferson,
bandiera del liberalism americano, che
però possedeva schiavi, non prese mai posizione contro la schiavitù, ed ebbe
rapporti e figli, non riconosciuti, con una schiava, Sally, mandatagli dalla
famiglia a Parigi, dove era ambasciatore, quando lei aveva sedici anni.
Tre vite e nessuna, o della Germania confusa
“Una gabbietta per uccelli” apre
il racconto: “Dentro, uno scoiattolo cerca l’uscita da giorni”.
La tensione è assicurata dall’avvio
sinfonico, col tema dominante della composizione e i suoi possibili esiti, in
rispondenza a una storia passata che non conosciamo. È Josef Klein, che ritorna
a Neuss, in Renania, nel 1949, un tedesco emigrato in America, confinato
durante la guerra in quanto cittadino alieno, a Sandstone, Minnesota, “un vero
carcere con veri delinquenti”, e poi in prigione dorata a Ellis Island, fino alla
deportazione? Una spia, forse per conto dell’Fbi, che pure lo deporta in
Germania, forse per conto a suo tempo di Hitler, dell’ammiraglio Canaris che ne
organizzava (male, a tradimento?) le spie? Un tedesco povero emigrato in
gioventù e ora deportato come indesiderabile nella sua Germania, sulle spalle e
a spese del fratello commerciante? Forse l’uno e l’altro.
Josef era ed è uno degli innominabili,
degli hitleriani. Che fa per mestiere – lavora in tipografia – manifestini e
programmi per il German American Bund, per il Partito Nazista Americano, per gli
American Patriots, gente che non ama. Così con ama la ricca Little Germania di
Yorkville, il quartiere tedesco nella parte buona di Manhattan. Un uomo
semplice, dal cuore buono – per sei mesi porta ogni giorno la cagnetta
abbandonata sul posto dell’abbandono, in caso. Collaborazionista confuso,
controvoglia anche, ma non tanto: non è un resistente, è un mediocre.
L’America è confusa. “Mein Kampf”
è nella lista dei bestseller del “New York Times”. Charles Lindbergh,
isolazionista filohitleriano, ha largo seguito alla radio – “America First” è
il suo comitato. Fino a tutto il 1939, Hollywood ha avuto un occhio
di riguardo per il mercato tedesco, togliendo i nomi ebraici dai titoli di coda.
Josef ritorna sull’onda di “un
caso” giornalistico: protagonista in qualche modo del primo reportage che
“Stern”, il settimanale a sensazione appena creato in Germania sull’esempio di
“Life”, dedica ai servizi segreti tedeschi in America al tempo di Hitler. Senza
mestiere, e senza mezzi, finirà in Argentina, espatriato e accolto dai reduci,
che “fumavano grossi sigari” e parlavano “del governo in esilio che di lì a
poco avrebbe deposto Adenauer, la marionetta degli americani”. Un modo che rifiuta,
che lui si dice rifiutare, ma che lo protegge. Tra “visioni” intermittenti che
rinviano il lettore avvertito alla riunione sul Wannsee a fine 1941, il lago
berlinese dove si decise lo sterminio degli ebrei: acqua che gorgoglia
sciabordando, il vento nelle orecchie, “svastiche di glassa di cioccolato”
sulle torte, “svastiche incise sugli stipiti”, e il divieto di parlarne. Ma
potrebbe non essere – la “visione” non viene più ripresa: Josef vive ora in
Costarica, dove si aspettava l’uscita di “Stern”. E il ritorno trascina
nell’attesa nervosa di un signor Dörsam. Un personaggio da poco, a cui deve i
suoi documenti falsi e la sussistenza, da Neuss a Buenos Aires e in Costa
Rica.
Un thriller che infine si rivela
storico. Con una restituzione puntigliosa di ambienti, persone, eventi. Su vecchie
foto, cartoline, dischi, giornali. Sull’operazione Pastorius, il ridicolo
sbarco di un gruppo di spie tedesche, ubriachi ls gran parte, da infiltrare
negli Usa. E sulla rete di spionaggio Duquesne, dei servizi tedeschi in America
nel 1939-1940. Di cui però non approfondisce e spiega i termini. Una “storia
della storia” limitandosi a rappresentare, attorno a un destino privato. Sui
toni di “Smiley”, il personaggio e il mondo di Le Carrè, dello spionaggio
grigio e triste. Un grosso nodo di avventure, si cambia di prospettiva ogni paio
di pagine, ma in tono dimesso, da vinti. Neuss è la Germania del primo
dopoguerra, con frotte di profughi e mutilati che rovistano fra le rovine. Dove
si mangia con le tessere, e il caffè è ancora quello che Josef ha mandato con i
“pacchi” al fratello Carl – “trenta pacchi dal 1946 al 1949”. Più “i soldi
destinati all’avvocato”, altro indizio, altro spiraglio di storia, “seicento
dollari” in biglietti dentro i pacchi.
La vita minuta vi si vive, anche,
del tedesco piccolo, negli anni della sconfitta. Carl è il fratello che Josef
ritrova dopo venticinque anni: si sono separati a Ellis Island, dopo il viaggio
in comune sulla nave, quando Carl è stato respinto per la menomazione alla vista, un occhio di vetro
per un infortunio sul lavoro, alla saldatura. Ha un suo piccolo commercio, e in
quache modo se la cava, a casa sua c’è da mangiare. Josef ha vissuto a Est
Harlem, “in una delle poche case belle” di un quartiere “privo di ogni
fascino”, che così lo ha protetto, con “la sua attrezzatura ricetrasmittente” e
con Princess, la cagnetta abbandonata - ma è una nobilissima “femmina di pastore tedesco”. Ha vissuto di espedienti, è
radioamatore, sulle onde radio incontra una ragazza che non gli piace ma con la
quale arriva a convivere. Della cognata che lo accudisce in patria arriva a
rubare i minimi trasalimenti. In Costa Rica è accudito da una donna che un
giorno ha “la forma di una piccola botte”, e un giorno è “bella”.
Un’esistenza vicaria. È il tono
che dà il senso alla storia: una dimensione misurata, smagrita, pencolante.
Come si vuole la spia dopo Le Carrè, col fascino della mediocrità. Qui con
qualcosa in più: la Germania diversa, e dimessa, quale è riemersa nel
dopoguerra – Josef è a suo modo un “nuovo tedesco”, confuso.
La confusione è però anch’essa
lieve, per indizi minimi. Così la vuole la scrittura, da maestra di scrittura
quale Lenze figura - oltre che di scrittrice vissuta, benché giovane, in mondi
altri, l’India, la Siria, l’Iraq: succeda quello che deve.
Ulla Lenze, Le tre vite di Josef Klein, Marsilio, pp. 288 € 17
martedì 4 maggio 2021
Cronache dell’altro mondo – virali (111)
Un americano su quattro non si è vaccinato e
non intende vaccinarsi.
La metà dei Repubblicani professi (di chi si è
registrato e vota Repubblicano) sotto i cinquant’anni non si vaccina.
La media delle vaccinazioni giornaliere si è
ridotta del 20 per cento nelle ultime due settimane.
La maggior parte di chi non si vaccina non è,
secondo i sondaggi, contraria per principio ai vaccini, ma non lo ritiene
necessario nel proprio caso contro il Covid.
Una buona quota di chi non si vaccina, anche
tra i Democratici, ritiene la presentazione e gestione del Covid esagerate, e rischiose
per le libertà civili, favorendo forme di controllo poi durature, su dati sensibili,
e la dipendenza da medicinali (“Big Pharma”, il big business dei medicinali, è lo spettro monopolistico più risentito
oggi in America, dopo la diffusione degli oppioidi, che hanno procurato forwse
più morti del Covid e molte dipendenze, e altre patologie curate ma non guarite
con la farmacodipendenza).
C’è chi è stato positivo, con sintomi lievi, e
si ritiene immunizzato. E chi, facendo mestieri che lo spingono a ogni sorta di
contagio, ritiene di avere gli anticorpi.
Gli autotrasportatori obiettano che il rischio
su strada è superiore a quello Covid.
Letture - 457
letterautore
Classici
–Sono, devono essere, essere stati, rivoluzionari?
Si pone il quesito Gide nel “Journal”, gennaio 1936, partendo dall’uso di
addomesticarli: “Sembra che il lavoro scolastico sia di addomesticare i
classici; sempre temperati, corretti, addolciti, inoffensivi; le loro armi più affilate
l’assuefazione li mussa. Non li si legge bene
senza ridare loro dell’acuminato”.
Dante
– Gide lo celebra d’improvviso nel “Journal” il 26
agosto 1938. Non ne parla prima, ne parla ora senza collegamenti con eventuali
letture, anche occasionali, nel pieno della crisi che lo investì alla morte della
moglie Madeleine il 17 aprile: “Dante è uno di quelli ai quali debbo di più
(molto più che a Shakespeare, per esempio) e la cui voce mi ha più direttamente
chiamato. L’ho letto molto nel miglior tempo della mia gioventù, lentamente,
pazientemente, diligentemente; con altrettanto amore, quasi, e cura che il
Vangelo”.
Erasmo – La diagnosi retrospettiva sui resti ha
rivelato che è morto di osteite luetica dell’osso dell’avambraccio. Contrata
probabilmente in un rapporto mercenario.
Eugenetica – Ha avuto, non proclamata, richiamo
insistente fino a tutta la seconda guerra mondiale (e tuttora si praticherebbe,
senza enfasi, in ambito scandinavo). In un tratto del “Journal”, in piena
occupazione tedesca, il 12 gennaio 1941, Gide se lo dice: “Non hai tu stesso, quando ti occupavi di giardinaggio, capito
che il solo mezzo di preservare, proteggere, salvaguardare il raffinato, il
migliore, era di sopprimere il meno buono? Sai bene che questo non avviene senza
un’apparenza di crudeltà, ma che questa crudeltà è prudenza…”. Una obiezione
che si ripete in chiave di attualità: “Che parli di migliore? Il lavoro intrapreso da colui che si vuole il gran giardiniere
d’Europa, questo lavoro non è tanto sovrumano quanto inumano. Senza dubbio, se
lo portasse a compimento non resterebbe sulla terra né una voce per gemere né un
orecchio per permettere ancora di ascoltarla; e più nessuno per sapere o per chiedersi
se ciò che la sua forza sopprime non è della più grade qualità, infinitamente,
che la sua forza stessa e ciò che essa pretende di apportarci”. Per concludere
in termini di costi\benefici non di etica: “Il tuo sogno è grande, Hitler; ma
perché riesca, costa troppo caro”. Non che è sbagliato – “e se fallisce, (perché
è troppo sovrumano per riuscire), che ne resterà sula terra, ala fine, se non
lutto e devastazione?”
Italiano
– Lingua e storia, molto è opera di stranieri: molti
repertori linguistici, e anche vocabolari di grande ampiezza, sono opera di
filologi stranieri. Di tedeschi in particolare, e di svizzeri (tedeschi). Del
tedesco Gerhard Rohlfs sono le prima trattazioni dei dialetti italiani, e di quelli
grecanici in particolare. Rohlfs ha avviato lo studio dei dialetti con i tre
volumi della “Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti”, in
tre volumi, 1949-1954, “Morfologia”, “Sintassi e formazione del parole”, “Fonetica”.
Le ricerche onomastiche sono state avviate anch’esse
da G.Rohlfs, nel 1978, col “Dizioanrio onomastico e toponomastico della
Calabria” – la prima ricerca italiana è di quindici anni dopo: Emidio De
Felice, “I cognomi d’Italia. Dizionario storico ed etimologico”, peraltro con
supporti minimi, insoddisfacenti.
Sono tedeschi, primo Ottocento, i primi studi e i
recuperi dei canti popolari. August Kopisch, prussiano di Breslavia
(1799-1853), scrittore e pittore, traduttore di Dante, “scopritore” della
Grotta Azzurra a Capri, recuperò alcuni canti locali nella raccolta “Agrumi”
(titolo italiano) del 1838 – Alberto Maria Cirese si è dovuto rifare a questa
raccolta, nel 1966, per esumare alcuni canti folk. Prima di Kopisch aveva raccolto
canti popolari italiani Salomon Bartholdy, un diplomatico prussiano noto
soprattutto come grecista, e Wilhelm Müller, il liederista di Schubert – la raccolta
di Müller, morto anche lui di 31 anni come Schubert, fu ripresa e completata
nel 1829 da Oskar Ludwig Bernhard Wolff, sotto il titolo “Egeria” – una
raccolta a cui Kopisch espressamente si rifà.
Lo zurighese Johann Jakob Bodmer (1698-1783) scoprì”
autonomamente Dante nel primo Settecento e lo introdusse nella lingua tedesca. Carl
Witte, il filologo tedesco italianato, ha fodnato la prima Società Dantesca.
La prima, e unica, “Storia delle Repubbliche
italiane dei secoli di mezzo” – del periodo storico di maggiore spessore
sociale, politico, economico, artistico dell’Italia - è dell’economista e
storico svizzero Sismondi, Jean Charles Léonard Simonde de. Pubblicata a
partire dai suoi trent’anni, nel 1807.
Il Rinascimento è stato coniato da Michelet. Ed è
stato imposto da Michelet e dallo storico svizzero Jacob Burckhardt.
Italia è per Gide noblesse. Ci riflette il 5 agosto 1937 nel suo “Diario” a Sorrento,
ove vede celebrato “lo sforzo dell’uomo e il trionfo dello spirito” – “nessuna
mollezza qui accompagna la gioia di vivere”. La riflessione è breve ma decisa.
“Su nessuna altra terra, senza dubbio, il matrimonio è più felice della vegetazione
e di un’architettura audace… Noblesse,
questa parola mi perseguita, in Italia – dove la più sensale carezza raggiunge la
spiritualità”. E subito poi: “Non ho mai saputo dire ancora né tutto ciò che
devo all’Italia né quanto ero e resto innamorato di lei”.
Metastasio – Fu beneficiato dalle Marianne. Morirà a 84 anni di una polmonite presa
nel rigido del 1782 per essersi affacciato a vedere il nuovo re Giuseppe II,
erede di Maria Teresa, dal balcone degli appartamenti del cerimoniere di corte,
della figlia del cerimoniere, Marianna Martinez.
La prima Marianna la soprano Marianna
Benti Bulgarelli, celebrata come la Romanina, per essere di Roma, per la quale aveva composto “Didone abbandonata”, morì presto per lasciargli ogni bene. Marianna Pignatelli
Althann, contessa, lo portò a Vienna, lo protesse per venticinque anni, e gli
lasciò i suoi beni. Invecchiò con Marianna Martinez, che Stendhal stordito fa
allieva della Romanina a Roma. Mentre la storia vera è migliore: Metastasio
vecchio, confortato da Marianna, sorella del suo segretario, della di lei educazione
paterno si occupò facendole dare lezioni di canto da Haydn, il figlio del
barocciaio, che abitava la soffitta sopra il loro alloggio con un cembalo
tarlato, al quale insegnò in cambio l’italiano, e la melodia.
Proust – Scrive e pubblica – s’industria di pubblicare, con solleciti, raccomandazioni,
visite - i suoi salotti mentre infuria la Grande Guerra, la più orribile
carneficina, la fabbrica con milioni di morti, e di distruzioni, miserie, epidemie,
da ultimo, finita la guerra, la febbre “spagnola”. Un “a coté”, si direbbe, disturbante.
La sensibilità dell’insensibile. O dell’ombelico prominente: un anestetico, si
direbbe, imbattibile.
Wilde – È a Gide, a Algeri, che dice la frase famosa, rispondendo a una
critica (“molto impertinente” annota Gide nel suo “Journal” qualche anno dopo)
del suo teatro: “Ho messo tutto il mio genio nella mia vita: non ho messo che
il mio talent nelle mie opere”.
Gide si chiede però: “Sarei curioso di sapere se ha
mai detto questa frase ad altri che a me”.
letterautore@antiit.eu
Werther, o dei romanzi interminabili
Però, Werther non muore mai. Cioè
muore, ma in un tempo interminabile. Più volte è sul punto di, la cosa è
attesa, non è nemmeno inaspettata, ma ci ripensa, aspetta, rinvia.
È per questo che non è più in
edizione, da mezzo secolo ormai? I ragazzi tornano a suicidarsi, ma su altre
piste, meno dette e più rapide.
Come “Robinson Crusoe”, altro
“capolavoro,”, funziona ridotto, a un terzo, un quarto: i ragazzi che nel 1770
si suicidavano alla sua lettura, lo leggevano in antologia?
Johann Wolfgang Goethe, I dolori del giovane Werther
lunedì 3 maggio 2021
Cronache dell’altro mondo - autarchiche (110)
L’America ha bloccato molte centinaia di milioni di
dosi di vaccini di cui non ha bisogno, invece di condividerli. Perché non si sa
mai. Ma è con Biden come Trump diceva: America First.
A sei mesi alle elezioni e a quattro dall’accesso
alla presidenza, Biden non ha avuto negoziati, e nemmeno incontri, con gli alleati
europei. Ma ha delineato tutta la
politica mondiale: globalizzazione, Cina, Russia, Medio Oriente, Ucraina. In
via autonoma. A cui chiede agli europei di adeguarsi, senza più.
Nella pandemia covid gli Stati Uniti, di Trump
prima e poi di Biden, hanno fatto per sé. Nessuna politica atlantica, o
mondiale, di risposta condivisa alla pandemia. A differenza di Cina e Russia.
Che invece forniscono in Africa, in America Latina, in Asia, dispositivi,
ventilatori, i loro vaccini, seppure poco attivi, e quelli di altri produttori.
Arresti, Draghi, Italia, Macron insidia Le Pen
Cosa fa Macron, con gli arresti dei terroristi
italiani? Punta a insidiare il Rassemblement National, l’erede del Front
National dei Le Pen, nel prossimo voto regionale in Hauts-de-France, una
regione di operai che ora vota a destra.
In passato non ha funzionato: gia Sarkozy
aveva provato ad intaccare il blocco Front National con l’ordine pubblico, ma
senza risultato. Macron ci prova con gli arresti, con la mano ferma sull’immigrazione,
benché non dichiarata, e con l’esibito distacco dall’abbraccio con la Germania,
che molti in Francia risentono come soffocante.
La relativa presa di distanza da Berlino,
sulla politica estera (Mosca, Pechino), la politica militare, e la ricostruzione post-pandemica, è facilitata
dal gioco di sponda dell’Italia, da Macron sempre ricercato. Di più ora, con la
presidenza Draghi. E dal relativo indebolimento politico della Germania, per la
crisi della Cdu-Csu e la transizione già avviata di Angela Merkel, che della
coalizione Cdu-Csu è stata per quindici anni la condottiera vittoriosa.
I tentativi di scalfire il fronte compatto del
Rassemblement lepenista, il primo e più solido partito, consolidato da vent’anni, dal sorpasso di Le
Pen sul socialista Jospin, finora non hanno avuto successo. Le leggi elettorali
tengono l’Rn fuori dagli equilibri politici, ma il voto popolare è a suo
favore.
I sondaggi in vista delle presidenziali fra un
anno danno sempre Le Pen in testa. Poi perderà il ballottaggio, perché tutti si
coalizzeranno contro di lei, come si è fatto già per tre elezioni
presidenziali, dal 2002 in qua: fra un anno attorno a Macron, che dovrebbe
andare al ballottaggio, come nel 2016, al posto dei socialisti, sempre in crisi.
Ma Macron soprattutto opera per consolidare il suo movimento, En marche, nell’area
di centro-destra, quindi a scapito di Le Pen oltre che di Ump, la formazione
gollista, e di quello che ne resta con le scissioni di Fillon e di Sarkozy.
Il desiderio di confessarsi in vita - o il matrimonio malgrado tutto
In crisi creativa, nel 1931, il 14
giugno, Gide annota: “Senza questa formazione cristiana, senza questi legami,
senza Em. che orientava malgrado tutto le mie pie disposizioni, non avrei
scritto né “Andrea Walter”, né “L’immoralista”, né “La porta stretta”, né “La
Sinfonia”, etc., neppure, forse, “I sotterranei del Vaticano”, e “I
falsari” per rifiuto e protesta…”. Nel 1938 il desiderio si dirada. “Da quado
Em.”, annota, “mi ha lasciato (il 17 aprile 1938, n.d.r.), “ho perso gusto alla
vita, e quindi smesso di tenere un diario che non avrebbe potuto riflettere che
sgomento, angoscia e sconforto”. Em., Emanuelle, sta nel “Diario” per
Madeleine, la cugina-moglie da lui fortissimamente voluta, che ha sposato dopo
ripetuti rifiuti, e con la quale malgrado tutto ha sempre convissuto.
Il “Diario” sarà soprattutto la rappresentazione e la spiegazione di questo
matrimonio. In una vita di relazione complicata: sposato con la cugina, Gide fa
un figlio con la figlia dei suoi grandi amici, è sessualmente soddisfatto solo
con le pratiche gay, e un solo amore professa, per Marc Allegret, giovane. Un
matrimonio allora ambiguo e strano sotto tutti gli aspetti, da parte di lui, e
da parte di lei. Oggi, in epoca lgbtq, della sessualità in piazza e le
relazioni casuali, strano per essere un matrimonio pieno, di contrasti e
comprensioni, di slanci come basso continuo, di proiezione l’uno nell’altra.
Lei non voleva sposarlo, malgrado le sue ripetute insistenze. Quando cedette
fecero un viaggio di nozze di otto mesi, in Nord Africa, Italia, Svizzera –
ripetuto tre anni dopo, per cinque mesi, in Italia e in Svizzera. Lui faceva
periodiche scorribande nel sesso maschile mercernario in Nord Africa, che
vantava. S’innamorò di Marc Allegret – e in due lunghi soggiorni che fece con
l’adone ventenne, in Inghilterra tre mesi, e nel Congo dieci mesi, continuò a
scrivere a Madeleine, che distrusse quella corrispondenza. Frequentava la
“Petite Dame” Maria van Rysselberghe, e la figlia di lei Élisabeth, alla quale
nel 1923 fece una figlia, Catherine – la riconoscerà dopo la morte di
Madeleine. Ma passava la maggior parte del tempo a Cuverville in Normandia,
nella grande tenuta di famiglia di Madeleine, che sempre lo aspettava, come da
copiosa documentazione fotografica, e a suo dire lo indirizzava.
Un’antologia, delle migliaia di pagine scritte da Gide tra il 1889 e il 1949,
più di mezzo secolo e due grandi guerre. Di uno scrittore però immutabile. Che
si esercita al piano, per ore e anche giornate. Si interroga su tutto quanto va
scrivendo. Incontra Claudel, spesso, da ultimo con distacco, Martin du Gard con
affetto, Valéry con profondissima stima e simpatia, Proust un paio di volte,
Malraux, De Gaulle. Legge spesso Racine, che sente suo, e Stendhal, di cui lo sorprende il talento. Ha letto Dante, su cui
si è formato. Riflette molto sulle questioni di fede, con letture originali, di
cultura e penetrazione, dei Vangeli, di san Paolo, e anche del cattolicesimo –
Madeleine era cattolica - benché nato nato e cresciuto in ambiente protestante.
Una lettura paradossale. La lettura dettagliata, di giorni e settimane, non
aggiunge nulla ai primi rilievi, sfogliando il libro velocemente, per
annusarlo. Leggendo attentamente sembra di rileggerlo: tutto quello che attira
l’attenzione sembra di averlo già letto. Molte posizioni sono note: “È con i buoni
sentimenti che si fa cattiva letteratura”, “L’arte abita le regioni temperate”.
La lettura della letteratura dell’“io” rifugge dai dettagli - i dettagli, nella
letteratura dell’io, sono superflui, la continuità prevale. Molto, con
continuità, si interroga su quanto scrive. Se va, come va. Urtato fai
“fallimenti”: non abbastanza elogiato. Forse, si domanda a metà, perché
“libresco”? Ma anche questo è noto di Gide.
“Scrive” la musica, che pratica al pianoforte per ore, anche per giorni. Con
molto Chopin, di cui può dirsi, malgrado i limiti di tecnica pianistica, il
migliore interprete. Molto piano, dunque, e molto Cuverville, la casa di
famiglia, con Madeleine: la grande residenza normanna ereditata da Émile
Rondeaux, il padre di Madeleine, dove lei l’attende e dove lui passa il più del
tempo, benché in dialogo sempre più muto quanto devoto – “non c’è giorno in cui
non senta l’imbarazzo del mio amore,
del suo pensiero”.
E sempre il tormento: “La verità è che non posso decidermi ad allontanarmi da
Em.” – che dice dopo morta anche “il «testimone della mia vita», che mi
impegnava a non vivere «nella trascuratezza» come Plinio diceva a Montaigne”.
Nella lunga malinconia che lo assedia dopo la morte di lei riflette ancora con
precisione: “Da quando non c’è più, non ho fatto che sembrare di vivere, senza
interesse a niente né a me stesso, senza appetito, senza gusto, né curiosità,
né desiderio, e in un universo disincantato; senza più speranza che di
uscirne”. E l’8 ottobre 1938 - “anniversario, oggi, del mio matrimonio”: “Mi
abituo a poco a poco all’idea di dover vive e senza di lei; ma, senza di lei,
non mi interesso più alla mia vita”. Fa il suo mestiere.
In parallelo col rapporto con Madeleine, si distingue, seppure alluso, per
accenni, quello con Marc Allegret. Una relazione affettiva relativamente
stabile. Di Allegret fa anche un lungo, compiaciuto, ritratto di fauno nudo
sotto i pantaloncini corti - “niente può dire il languore, la grazia, la
voluttà del suo sguardo”. Il giovane sa scrivergli, anche, lettere “di una
fantasia e di una grazie squisite”. Gide ha 48 anni, Marc 18. Marc nel 1950
farà un film, uno dei sui tanti, “Avec André Gide”.
Spesso è in Italia. A Napoli. A Sorrento. In vacanza estiva nel 1912 nella
riviera marchigiana, a Grottammare, San Benedetto, Acquasanta, molto a suo
agio, riposo di grandi letture. Di letture sorprendenti. Di
“Madame Bovary”: “l’inizio è scritto molto male”. Di Wagner, Richard Strauss,
Victor Hugo, “indiscrezione dei mezzi e monotonia degli effetti, fastidiosep insistenze, insincerità integrale” – il tutto propoziato dalla “Salomé” di
Strauss, “esecrabile musica romantica, di una retorica orchestrale da farvi
amare Bellini”. Marinetti, ricco e vanitoso, incontenibile, protetto dalla mancanza di talento, che gli consente tutte le audacie. D‘Annunzio, fisico e poetico, tutto in poche righe. Bizzarro a
volte: “L’ammirazione delle montagne è un’invenzione del protestantesimo”. Di
Oscar Wilde dice qui meno di quanto potrebbe. Salvo ribadire che è a lui, che
gli criticava il teatro, che Wilde pensieroso famosamente confidò (ma non
l’avrà detto anche a qualcun altro?): “Ho messo tutto il mio genio nella mia
vita, non ho messo che il mio talento nelle mie opere”. C’è Marx illeggibile –
“negli scritti di Marx, soffoco”. Con un’anticipazione, l’estate del 1937, dopo
la delusione del viaggio a Mosca, del Marx in chiesa, di sacrestia – del
marxismo elevato a ortodossia.
C’è l’adesione al comunismo, nel 1934-1936, tornando da Berlino, fino al pamphlet “Ritorno
dall’Urss”. C’è anche, pur nella sconfitta vergognosa della Francia, un Hitler
“geniale” nelle strategie, politiche prima che militari – dividere gli Alleati,
illuderli, eccetera. Qua e là letture a sorpresa, occasionali: di Defoe
(“Colonnello Jack”), Conrad, Meredith, Steinbeck, “La battaglia”, Jane Austen,
Colette. Un’analisi stilistica fa di Colette in poche righe inarrivabile. Anche
di Proust, quando infine, nel 1939, legge “completamente” il primo volume, “Le
fanciulle in fiore” - ne individua e sintetizza in poche righe i principi
costruttivi: dettaglismo e architettura.
Col desiderio, più o meno esplicito, di “filarsela tra i negri; trovare un
luogo dove poter sorridere in libertà” – “vivere a lungo tra i negri nudi,
gente di cui non sapere la lingua e che non saprebbero chi sono: e fornicare
selvaggiamente, silenziosamente, la notte con n’importa chi sulla sabbia….”.
Con la malinconia costante negli anni, fin dalla prima maturità, di avere
scoperto il desiderio tardi.
Malinconia anche del primo intellettuale contemporaneo - cioè, per l’esattezza,
del Novecento: prima di Sartre, e Foucault.
Un “Diario” pensato e scritto per la pubblicazione (varie parti di esso furono
pubblicate in vita, curate dallo stesso autore): ci sono i possessivi, “la mia giovinezza,
i “miei amici”,
la redazione è netta, “finale”.
André Gide, Journal, Folio, p. 457 € 9