sabato 22 maggio 2021
Secondi pensieri - 449
Il racconto dell’odio volto in idillio
Tre solitudini, di personaggi e
trascorsi che si intersecano e si inestricano, ma non si liberano dal
pregiudizio, dalla passione, dalla debolezza. Una storia del migliore
Antonioni, dell’incomunicabilità, anche a dispetto delle migliori intenzioni. Tra
ebrei condannati dalla memoria, fascisti violenti, anche con se stessi, e la
bontà minuta, generosa, che “non può essere”. Una storia di sentimenti buoni e pulsioni
aggressive. Un film violento e idillico insieme, eppure tiene.
Sfortunato all’uscita, alla vigilia
del secondo lockdown, dopo il successo al festival di Venezia, si avvale di tre
superbe interpretazioni. Di Sara Serraiocco, la fatina che attraversa le
turbolenze: è la sua presenza, minuta fisicamente e moralmente, della
vita come viene, a far muovere la difficile guerra di posizione dei pregiudizi.
Di Alessandro Gassman, il protagonista, in un difficile ruolo bifronte, tra il dover essere, del
medico, del buon cittadino, e la passione, la vendetta. Di un esordiente Luca
Zunic, che non sembra recitare lo squadrista picchiatore, a caccia di “giudei”.
In un ambiente inconsueto, che aggiunge realismo e magia alla vicenda: una
Trieste terragna, seppure a bordo d’acqua.
Il racconto è semplice, dell’odio.
Immotivato, dell’odio come avviene. Un chirurgo di nome Segre, solitario, in
lite col padre, ancorché morto, perché da studente di medicina curò i denti dei
nazisti per salvare la pelle nella deportazione, non salva, come potrebbe, il
padre di tre ragazzi vittima di un pirata della strada perché ha tatuata sul petto
la croce runica. Ragazzi con cui viene poi in contatto, bene e male, tra l’essere
una brava persona, benché solitaria, e l’essere “un giudeo”. Tale è per il
bambino innocente. E per questo esca a molta violenza del figlio picchiatore,
nella palestra equivoca di boxe, tra camerati che sono anche aguzzini e usurai.
Mentre la figlia oppone umile la resistenza del dover essere, tra le passioni
opposte.
Mauro Mancini, Non odiare
venerdì 21 maggio 2021
Ombre - 563
Enrico
Letta propone tasse. Invece di lasciarle, come pure dovrebbe, al governo. Gioca
contro il suo partito?
Lo
stesso Letta vuole anche lo ius soli
e\o lo jus culturae subito, in piena
emergenza sbarchi. Lo fa per impedirli, per impedire la giusta regolarizzazione
dei lavoratori immigrati? Una legge deve trovare una maggioranza, perché Letta
vuole renderla impossibile?
Si
direbbe che il segretario del Pd lavori per sé, per la sua gloria intellettuale,
contro il suo partito.
“La
Repubblica” si ricorda di Pannella, per la penna di Francesco Merlo. Uno che Scalfari,
suo vecchio compagno di partito, non voleva nemmeno si nominasse. E Berlinguer,
nelle due grandi riunioni che tenne con la redazione del quotidiano nei primi
ani 1980 nominava con disprezzo.
Un
lettore poi scrive a Merlo: “Mi ha convinto: era di sinistra, moderna e autorevole.
E la sinistra di oggi lo deve riconoscere”. Al che Merlo risponde: “Stia sicuro
che non lo farà”.
Lo
stesso Merlo ricorda che al lancio delle monetine a Craxi, “idea del fascista
Buontempo”, “c‘erano addetti stampa e militanti
di sinistra, che venivano dal comizio di Occhetto a piazza Navona”. Di sinistra,
cioè non del Pci (Pds)?
L’erba
sta per seccare e la sindaca di Roma Raggi trova finalmente i fondi per lo
sfalcio. Che però non si può fare, perché bisogna prima fare i bandi, indire le
gare eccetera, con i parchi pubblici e i parchi archeologici (Argentina, mausoleo di Augusto, etc.) a rischio incendio. Poi uno, abitando a
Roma, passa per l’Eur, che è un’area grande quanto tutta Milano, e trova l’erba
rasata, compatta e tutto quanto. La gestione del verde pubblico non è quindi un
problema di costo. Di disorganizzazione probabilmente, sicuramente di disattenzione
– il verde non porta voti.
I
giudici Ardita e Storari, grandi giustizialisti, più del loro sodale Davigo, si
trovano d’improvviso ributtati su fronti opposti. Da una manina sapiente? Chi
di giustizia ferisce di giustizia perisce – si dice per dire, mai un giudice è
stato condannato, se non col coltello in mano.
Ma
Ardita e Di Matteo erano inquisiti dal loro grande amico, e capo sindacale, Davigo.
Era la manina di Davigo? Si direbbe, dopo che si è scoperto che non è stata la
sua (ex) segretaria a divulgare le accuse di Storari-Amara contro Ardita.
Non
lo dicono però le Procure. Che intanto, per evitare la conclusione ovvia, prendono
tempo, mandandosi documenti, o contestandoseli, tra Roma e Milano, Brescia e
Perugia. Finché non avremo dimenticato che non è stata la segretaria?
La
Corte Europea accoglie il ricorso di Berlusconi contro al condanna di Gamacchio-Esposito: vuole sapere se ha
avuto un processo equo. Cioè ritiene che non lo ha avuto. Ma non vuole sapere
niente, poiché lo chiede allo Stato.
Lo
Stato italiano è equo per diritto. La Corte Europea doveva chiedere: equo per
chi?
È
strano che i due giudici di Berlusconi siano noti per pratiche che normalmente
sarebbero delittuose: concussione per i conti (e i debiti) non pagati, traffico
di influenze per la carriera del figlio, assegnazione personalizzata dei casi
da giudicare, camera di consiglio con “pesanti” ingerenze esterne. Non in
Italia naturalmente, dove i giudici sono al di sopra delle leggi. Ma vale
allora la vecchia morale delle tenutarie di bordelli, e dei biscazzieri: che
non c’è niente di più corrotto della questione morale.
La
Corte Europea accoglie il ricorso di Berlusconi dopo otto anni dalla
presentazione. Andrà riformata anche la Corte Europea? A pena Recovery Fund se
non si adegua? O l’Europa è troppo vecchia, ha i riflessi lenti?
I soldi della droga in sacrestia
Vista a freddo, è solo un’opera
di sciacallaggio. Incredibile: si possono moltiplicare abbonamenti e pubblicità
con lo sciacallaggio. La serie è perfino monotona di sospetti e accuse di parte
– che si avvertono di parte. Con una fila interminabile di accusatori, e come
contraltare solo il figlio, che è fuori dall’azienda-comunità da un
quindicennio. Non i continuatori. Non gli specialisti. Nemmeno Letizia Moratti,
che pure fa audience.
Opera dell’ideatore e produttore
Gianluca Neri? Della regista, che vanta “immagini tratte da 51 archivi
diversi”, ma tutti monotoni?, “180 ore di interviste” e “venticinque
testimonianze”? Sicuramente della programmazione italiana della rete americana,
che Eleonora “Tinny” Andreatta presiede. Basata sulle accuse di gente
condannata per ricatto e estorsione, per primo Delogu padre – padre della
vedette tv. “Luci e tenebre di San Patrignano” è il sottotitolo, ma è una
formula: non ci sono che delitti, ma non quelli acclarati in giustizia – il titolo
originale è schietto, “The Sins of the Saviour”, i peccati del salvatore.
Il processo a Muccioli, uno dei
fondatori di San Patrignano, un’impresa agricola che si fece una delle prime
comunità per tossicodipendenti, nel 1978, da lui gestita fino alla morte, nel
1995. fu voluto dai giudici di Bologna perché Muccioli non era comunista, e non
era di sacrestia. Un vero processo cattocomunista. Uno sciacallaggio: lanciata con una pubblicità
milionaria, una serie cinica – “luci e tenebre” si direbbe di Netflix Italia,
di un cinismo che lascia a bocca aperta. Hanno campo libero profittatori e
bugiardoni, con nomi che Muccioli ha reso anche altisonanti, come il Delogu.
Muccioli, l’animatore di San Patrignano,
dava fastidio a “Bologna”, al cattocomunismo che governava la città. Partiva il
“terzo settore”, l’affidamento ai privati di funzioni che il sistema pubblico
non riusciva a gestire, e si voleva che i lauti fondi governativi restassero in
parrocchia. Muccioli fu per questo processato due volte, nel 1983 e nel 1984.
Assolto in Cassazione – la seconda volta perché i Procuratori del cardinale a
Bologna nella foga avevano sbagliato imputazione. Nel processo secondo il maggiore
accusatore è stato Delogu padre, che doveva tutto a Muccioli ma era stato convinto
a ricattarlo – per questo fu condannato, i suoi protettori non poterono venire
allo scoperto.
Il cinismo della serie è solo di
cassetta, o c’è ancora un cattocomunismo forte e all’opera? Un debutto si direbbe terrificante di Andreatta a capo della
programmazione Netflix in Italia. Non sentire Letizia Moratti, che pure è un
personaggio, anzi uno che avrebbe fortemente drammatizzato la serie, non è un
errore di regia, è deliberato.
Cosima Spender, SanPa, Netflix streaming
giovedì 20 maggio 2021
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (457)
Giuseppe Leuzzi
Anche
al cimitero il Sud è un altro. “La città dei mori di Aquilonia Nuova è tutta sopra
il livello del terreno, come spesso accade al Sud. Linda, curatissima, con un
alto muro di cinta e popolata da signore in nero che paiono uscite da un
romanzo di Silone” – Paolo Rumiz, “La leggenda dei monti naviganti”, 293.
Seppelliti sottoterra non piace, ai morti e ai vivi. È la legge, e allora si
sopperisce con i tumuli. È uso antico.
Un’illusione
come un’altra? Ma non fa male.
Fa
senso vedere Michele Santoro in tv, in collegamento amichevole con Paolo Mieli,
rifarsi a Falcone e Borsellino. Proprio lui che, quando era una vedette tv con
“Samarcanda”, nel 1990 o 1991, s’intignò a delegittimare Falcone. Anzi,
propriamente a criminalizzarlo. Facendolo accusare da Orlando, un (ex) democristiano
nemico di Falcone, di depistare le indagini.
Senza diritto di replica, o di accesso.
“Canadian 'ndrangheta connection”, tutti assolti. Ma tardi, uno si è già suicidato.
Gregoraci,
che poi è risultato innocente, dovrebbe in teoria essere stato ritenuto
colpevole, se è stato carcerato. Ma aveva bisogno di carte, che non gli sono
state date – malgrado i solleciti delle carceri dove era stato variamente
rinchiuso.
Un
“muro del silenzio” venne evocato in Assise in Francia settant’anni fa nel
processo celebre detto dell’“affaire Dominici”, un vecchio contadino condannato
a morte per l’assassinio di una coppia di turisti inglesi e della loro figliola.
Jean Giono, che seguì perplesso il processo - del tutto indiziario e mal
condotto in Assise - perché Dominici era un contadino del suo “paese”, delle
sue contrade, s’inalbera: “Questo muro non esiste nella regione. La formula è efficace
ma la cosa non esiste. Non esisteva. Io ho sessant’anni. In quarant’anni non lo
mai incontrato. Chi ha costruito questo muro? Chi lo ha reso incrollabile? Il
crimine? Non spiega niente. Al contrario, il crimine è sempre stato denunciato,
e immediatamente”. Anche al Sud. Ma non seguono i fatti. E allora…
La donna del Sud
“A
Sud non si dice più «uomo», ma «chiesa madre»”: Paolo Rumiz, “La leggenda dei
monti naviganti”, 307, raggiunge, oltre i luoghi comuni d un giornalismo pigro,
una tradizione di grande e consolidata cultura. Delle donne che chiedono grazie
e fanno voti a Santa Rita, “che forse non sanno chi fosse”. nota: “A loro bastava
incontrare un’entità femminile. Solo una donna poteva portare salute e
fertilità, recapitare le loro richieste alla Grande Signora oltre il muro
dell’invisibile. A Sud Dio non ha bisogno di camuffarsi sotto tonache
maschili”.
Tutto
è materno al Sud, anche la mafia – Rumiz se lo fa spiegare da Marino Niola,
dall’antropologo: “Persino la criminalità organizzata ha un lessico familiare
materno. Si dice: ‘Mamma comanda e picciotto fa’. Il capo si chiama ‘Mammasantissima’.
Il pizzo di chiama ‘olio per la Madonna’”.
Sudismi\sadismi
“Dosi
ai cinquantenni e anziani in attesa. Le strane priorità decise al Sud”: il
“Corriere della sera” ci fa una pagina. Poi uno legge l’articolo e scorre le tabelle
della stessa pagina, e vede che non è vero. Il giornale di Milano non vede l’ora
di ributtare la pandemia sul Sud – non è il primo tentativo.
Quelo
che si vede dalle tabelle regionali è che al Sud un po’ tutte le regioni sono indietro
nei vaccini, seppure di poco, rispetto alle altre. Quello che non si dice è che
alcune, sicuramente la Campania e la Calabria, non hanno avuto i vaccini in proporzione
alla popolazione per classi di età, come si è fatto in altre regioni, secondo
il programma di vaccinazione nazionale.
Pavese calabrese
Molte
scoperte e una sorta d’immedesimazione fa Cesare Pavese nei dieci mesi che trascorse
a Brancaleone in Calabria al confino, tra 1935 e 1936 – dopo essere stato in
carcere a Torino e Roma per antifascismo. Forse a sua insaputa ma forse no,
dato che queste impressioni traspone alcuni anni dopo nel racconto-romanzo “Il
carcere”, che pubblicherà infine nel 1948 – con una quarta di copertina, alla
riedizione Einaudi successiva, del 1990, che prospettava “la scoperta di un’altra
Italia da parte di un settentrionale”. E di più, anche se senza alcun riferimento
diretto, nel “Dialogo con Leucò”, che scrisse tra fine 1944 e inizio 1945, a
Roma, a cui tanto teneva – se lo portò in albergo la notte del suicidio.
Il
paese all’arrivo lo respinge, “terre aride” e “spiaggia desolata”. Tutto lo
respinge, non solo il posto: Pavese è fortemente cosmopolita di cultura, ma non
ha man viaggiato, se non dal paese a Torino. La desolazione è però solo un
primo riflesso – Brancaleone è nell’allora arida e desertica Jonica (per
contrapposto alla fascia tirrenica, allora verde, fertile, ricca: come la geografia
economica può mutare rapidamente), oggi Locride, ma Pavese nel 1935 può leggervi, con continuità, la “Gazzetta del popolo”, il giornale di Torino (oggi
non potrebbe…). Si profonderà ampiamente,
nelle lettere più ancora che ne “Il carcere”, in apprezzamenti e ringraziamenti, per l’ospitalità,
la correttezza, la generosità eccetera. E ne mutua i linguaggi.
Ne
fa suoi, inavvertitamente, alcuni modi di dire. Soprattutto nei dialoghi: “Siamo
nelle mani di Dio”. “Conosciamo qualcuno, se cosa vi occorre”. “Fare razza”,
per fare gruppo, famiglia, banda. “Quello è storto”, non sa difendersi. “Che
scherzate?”, non se ne parla. È ben locale, calabrese, l’osservazione: “Qui sono
tutti avvocati. Hanno tutti un parente in prigione”.
Alla
seconda pagina de “il carcere” ha già colto il senso e lo schema della
conversazione, del commercio umano: passeggiare tra uomini sottobraccio, i
saluti “asciutti” e “il riserbo”, gli scambi laconici (“Tutto il paese
conversava così”, per ellissi, per rinvii a significati noti, “a occhiate e
canzonature”, bonarie), l’autocanzonatura (“Siamo gente inquieta che sta bene in tutto
il mondo ma non al suo paese”, “Si è vecchi quando si torna al paese”, “Voialtri
avete il lavoro, noi abbiamo l’amore”).
Leucò,
Leucotea, dea bianca, s’identificava in antico con Ino, dea marina. Ed è a Brancaleone che Pavese “scopre”
il mare, come presenza invadente. Con fastidio e con sollievo – è il solo
luogo, la spiaggia, dove gli piace passeggiare, da solitario, e può farlo, per “prendere
l’aria”, senza doverne dare ragione. Una superficie che a volte respinge, per
la monotonia, ma anche popola, di ninfe. Lo stesso che in paese, dietro la
serva scura e altera che affascina il suo alter ego della narrazione, Concia, ragazza
e madre, che vuole “caprigna” – capro è la personificazione in antico della
lussuria o desiderio. Ma gode anche i favori, in carne, assicura, non nel mito,
di una classicissima Elena, che lo accoglie sorridente e muta al suo interno,
anch’essa bianca, e grande – Grande Madre, Dea Madre.
Calabria
Vanta
“l’aria più fine in tuta Europa”, nel sito in (ottimo) inglese su wikipedia: “La
Calabria ha anche l’aria più pulita
dell’Europa. La scoperta è stata fatta da una ricerca del 2010 sulla qualità
dell’aria, nel corso dela quale i nanopatologi rilevarono che un’area del parco
Nazionale della S ila aveva l’aria più
pura in Europa”.
Nanopatologia, termine di nuovo conio, appena vent’anni fa.
Era
l’aria, in chiave ironica (“a zannella”) una canzone di Otello Profazio
gionvicello: “Cca’ ‘ndavimu l’aria” – come dire: abbiamo l’aria, e ci basta.
“I
miei compagni erano in maggioranza calabresi”, racconta a Paolo Rumiz nel
maggio del 2005 Carlo Orelli, 110 anni, “cavaliere di Vittorio Veneto, ultimo testimone
vivente del 24 maggio 1915”, dell’“armata perduta” sul Carso all’inizio
trionfale della Grande Guerra, del 32mo Reggimento Fanteria, Brigata Siena:
“Non si capiva niente di quello che dicevano. Bravi e analfabeti”. E morti, si
suppone: “Ci distrussero. Eravamo troppo esposti. Dopo i primi assalti restammo
in venticinque su trecentotrenta. Un’ecatombe”.
In
tutti i ricordi della grande Guerra ci sono fanti calabresi, analfabeti e
bravi.
Il
Faussone di Primo Levi in “La chiave a stella”, il romanzo dell’Uomo
Lavoratore, il piemontese specializzato che sa tutto di tutti i cantieri,
dall’India alla Russia, dall’Alaska all’Africa, ha interiorizzato i calabresi a
Torino. Nella tipologia degli ingegneri che fa allo scrittore – un ingegnere
gli ha creato un pasticcio in India - ce n’è anche uno (p.122) “che dormiva in
piedi e batteva la calabria”, batteva la fiacca.
Il detto veniva dalla Francia? Girando
per la Calabria nel 1812, in fuga dalla madre, il marchese de Custine annota
nelle lettere di avere capito perché in Francia per indicare un uomo senza
vitalità si diceva: «Gira per la Calabria».
In
precedenza però Faussone racconta che in Russia si è immedesimato con i suoi
nuovi concittadini, a p. 99: “La brava gente si somiglia dappertutto, e poi lo
sanno tutti che fra i russi e i calabresi non c’è tanta differenza. Erano bravi,
puliti, rispettosi e di buon umore”
Uno
storico la dirà vittima dei commissari. Comunali, sanitari, dei porti, e di
ogni altro centro di spesa. Un’orda di generali, prefetti, vice prefetti e
questori in quiescenza, e di funzionari prefettizi a caccia di diarie, con
autista, e orario di lavoro casa-casa. Un mercato molto calabrese, però: i
funzionari prefettizi che moltiplicano i commissariamenti, di comuni, asl, aziende
pubbliche e quant’altro capita a tiro, sono ben locali. Altrove non li avrebbero
cacciati? Sì.
“Arghillà,
zona Nord di Reggio Calabria, in seimila nelle case popolari, molte occupate”,
abusivamente, racconta Smorto sul “Venerdì di Repubblica: “Macchine smontate
bruciate, accatastate. Immondizia”, etc. – “amico, dammi 5 euro per il gasolio”.
È “una popolazione al 50 per cento di ex rom, che chiama «italiani» l’altro 50
per cento, che annovera anche maghribini, filippini, polacchi”. Quale altra città ha una tale concentrazione?
Arghillà,
dove un tempo si producevano ottimi vini, è la new town di Reggio. Col carcere e la città giudiziaria. Zona molto
bruta di architetti, che deturpa dall’alto la bella cornice (ex) naturale della
città. Giudici e polizie stanno lì, ma
non vedono non sentono.
Si
entrava in città in primavera, tra Catona e Arghillà, nell’agro di Villa San
Giuseppe, tra le raffiche di zagara degli agrumeti.
Di
mattina presto, se si viaggiava in città per lavoro, per le pratiche, per l’apertura
degli uffici alle otto, si avvertiva d’inverno anche l’odore pungente delle arance
sull’albero. Misto alla zagara, che per le arance di san Giuseppe, tardive, di
aprile-giugno, fiorisce tardi a febbraio.
Il detto veniva dalla Francia? Girando per la Calabria nel 1812, in fuga dalla madre, il marchese de Custine annota nelle lettere di avere capito perché in Francia per indicare un uomo senza vitalità si diceva: «Gira per la Calabria».
leuzzi@antiit.eu
Petrarca senza l’aura
Nugae, nugellae, poesiole. L’appellattivo che
Petrarca usava per le poesie in volgare, ora “Canzoniere”, vale piuttosto per gli epigrammi in latino.
Variamente sparsi, da lui mai raccolti, benché pregiasse la sua produzione in
latino, di cui Francisco Rico recupera una dozzina. Un altro Petrarca, sui toni
dell’amicizia e del nonnulla, della levità. Che lo studioso spagnolo sottolinea
in profusi commenti – forse la parte più godibile della pubblicazione.
Epigrammi anche profusi, fino ai
dodici versi, ma tutti lievi.
Gli epigrammi fanno di Petrarca,
spiega Rico, “il primo dei grandi moralistes
dell’Europa moderna”. E sono una felice eccezione, quasi estemporanea, alla pratica assidua della expolitio. Della rifinitura costante - “ossessiva”,
dice Rico - cui Petrarca sottoponeva instancabile la sua produzione latina,
quella che avrebbe dovuto assicurargli la gloria, una cura che lo impegnò tutta
la vita.
Sono componimenti che non si curò
di pubblicare e non volle pubblicati: “L’ultima volontà di Petrarca fu di non
pubblicare gli epigrammi”. E inediti restarono fino a verso il 1400, quando un
anonimo ammiratore si dette a raccoglierli. Composizioni minori, d’occasione,
il cane che saltella attorno al poeta, una cartolina di viaggio, le scarpe preziose
regalate a una contadina, un amore felice. “Gabbiani” Rico ha voluto intitolata
la raccolta perché immagina che “i gabbiani mediterranei sono l’immagine dell’amore
e dell’amicizia”. “Gabbiani” avendo intitolato l’epigramma in cui Petrarca,
rivolgendosi a uno dei suoi grandi amici, il musicista fiammingo Ludovico di
Beringen, lo immagina con l’amata “sui flutti,\ qua e là dovunque felice con
lei”. E lo stesso immagine di sé, e della “sua” Laura: “Abbiano i quattro alati
questa più amabile vita,\ e niente mai darà troppo dolore”.
Unn componimento doppiamente
importante, spiega Rico. Recupera la nozione platonica, e poi medievale,
dell’amore che “trasforma l’amante nell’amato, «in amatos mores», secondo il
modello dell’amato”. Ma, soprattutto, “non siamo più di fronte allo stesso
mondo né nella stessa Laura del
«Canzoniere»”. Lì “è una belle dame
praticamente sans merci,
inaccessibile e schiva”. Qui è ben presente.
Un’edizioncina curatissima. La
traduzione dei dodici epigrammi Rico ha richiesto ad altrettante latiniste, in
amichevole concorso. Tra le illustrazioni
un raro ritratto di Petrarca, opera di Altichiero, e uno schizzo particolareggiato
dell’erta di Valchiusa opera di Boccaccio.
Francesco Petrarca, Gabbiani, pp. 101, ill. € 5,50
mercoledì 19 maggio 2021
Il mondo com'è (428)
astolfo
Deportazioni – Erano correnti
nell’antichità, di grandi gruppi e anche di intere popolazioni, parte della
strategie militari. La più famosa, o più ampia, sarà stata quella operata dai
Romani tra gli Apuani e i Sanniti, due
popolazioni che resistevano al dominio romano. Anche i Geti-Daci, le antiche
popolazioni dell’attuale Romania, furono largamente deportati dall’imperatore
Traiano e dai successori – la Romania attuale si ripopolerà con tribù
sarmatiche, germaniche, turco-tatare, e con le popolazioni erranti, rom e
ebrei.
Federico
II di Svevia, il re di Palermo, la praticò con una certa frequenza, anche se
non in forme radicali. La più famosa è quella dei mussulmani del regno a Girifalco
e a Lucera. Gli abitanti di Celano, in Abruzzo, che resistettero per due anni
al suo assedio, li deportò a Pantelleria – si erano rifiutati di cedergli i
diritti di gabella sulla transumanza, allora, e ancora fino al primo Novecento,
praticata su larga scala da e per il Tavoliere delle Puglie.
Kennedy –
Fu vera gloria? Recensendo sulla “New York Review of Books” il primo volume della nuova biografia di John
Fitzgerald Kennedy, il presidente assassinato a Dallas, “JFK: Coming of Age in
the American Century, 1917-1956” di Fredrik Logewall, lo storico Michael Kazin,
specialista dei movimenti sociali, si chiede: “Come mai, quasi sei decadi dopo
il suo assassinio, gli Americani si occupano così tanto di lui e, per la gran
parte, continuano ad averne così alta opinione?” Perché, conclude subito, ha fatto
poco o nulla: era soprattutto un operatore astuto, e oggi quello che si direbbe
una celebrità, più che un grande leader politico, nel suo partito e al governo
dell’America.
Kazin, attivista in gioventù
degli Students for a Democratic Society, che contestavano la guerra in Vietnam,
nonché redattore di Dissent” ed esponente della New Left, trova nella guerra in
Vietnam, che Kennedy avviò surrettiziamente, un grosso titolo anzi di demerito. E non si può non dargli ragione: Kennedy la avviò come una avventuretta, quando si sapeva, dalla Corea, quanto era forte il sovietismo in Asia, e da Dien Bien Phu quanto era resistente il nazionalismo vietnamita. Nel quadro del confronto con l’Unione Sovietica, il suo mito si fa forte del
sostegno assicurato alla Germania Occidentale dopo l’erezione del Muro a
Berlino, col famoso discorso “Ich bin ein
Berliner”, sono un berlinese. Ma nel complesso la gestione anche del confronto con Mosca fu negativa e anzi
disastrosa.
Una serie di errori
commessi contro Castro (tentativi di assassinio) e contro Cuba (l’invasione fallita
ala Baia dei Porci) hanno fatto di Fidel Castro un polo di sovversione, e hanno
alienato agli Stati Uniti l’America Latina, aprendo la via ai regimi militari.
La prova di forza contro i missili sovietici a Cuba nella seconda metà di
ottobre del 1962 fu una crisi teatrale. Preceduta dal lassismo nell’avvicinamento
di Castro a Mosca e nella stessa questione dei missili. Poco è stato fatto
durante la presidenza Kennedy per i diritti civili – niente al confronto con la Great Society del successore Lyndon
Johnson: la battaglia contro il segregazionismo, lui uomo del Sud, le leggi sui Diritti Civili, sui Diritti di Voto, sull’istruzione pubblica,
l’assistenza medica ai pensionati e ai poveri, Medicare e Medicaid. Di più contro la mafie, ma a opera
del fratello minore Robert, ministro della Giustizia. È tuttavia il presidente
meglio ricordato e più ammirato. Per la fine tragica - spettacolare, thrilling (l’assassino assassinato…). Ma
già prima adorato, malgrado i tanti pericoli aperti agli Usa, per inesperienza, per superficialità.
I “mille giorni di
Kennedy” aleggiano nell’opinione come una pietra miliare. Nei sondaggi Kennedy
è costantemente il terzo miglior presidente degli Stati Uniti, dopo Washington
e Lincoln – alla pari con F.D.Roosevelt. Vinse nel 1959 per pochi voti su Nixon,
ma l’America pensa di averlo votato unanime, plebiscitato. “Camelot”, il regno
ideale di re Artù e dei suo Cavalieri senza macchia e senza paura, è riferimento
costante nella pubblicistica sugli anni di Kennedy.
È cresciuto nell’immediato
attorno a Kennedy in America, e non è mai svaporato, l’analogo del culto delle
celebrità in Europa, che fino ai suoi tempi, metà Novecento, era soprattutto
culto delle regalità. Kennedy richiama e si onora come una sorta di principe.
Lo stesso la sua famiglia, i suoi discendenti, i suoi ascendenti. Se ne
osservavano, diffondevano, commentavano le minute attività quotidiane. Sue personali,
dei bambini, della moglie Jacqueline. E quello che non si poteva commentare in
gloria veniva sottinteso sempre positivamente. I continui adulteri. La
persecuzione di Marylin Monroe, e forse la violenza. L’incostanza. E il lato oscuro:
forse la cocaina, forse la contiguità con gruppi mafiosi.
Il mito del presidente Kennedy si
estende alla famiglia. Ai fratelli Robert, cui viene dato più credito politico,
anche lui assassinato, e Ted, senatore e leader del partito Democratico per molti
anni, ai suoi figli, alla vedova Jacqueline. E ai collaterali e ascendenti. Le
cui avventure e disavventure sono state e continuano a essere vissute con largo
seguito. Col trasporto, misto di curiosità e di orgoglio, che hanno gli inglesi per i
minuti eventi della loro famiglia reale.
L’accostamento era di
Gore Vidal nel suo primo volume di memorie, “Palinsesto”, 1995, un anno dopo la
morte di Jacqueline. A proposito di quest’ultima, Jacqueline Bouvier, sua “cugina”.
Che rappresenta ragazza nobile e algida,
per questo pronta a un matrimonio di convenienza con i Kennedy, di ricchezza recente
ma famiglia politica potente. I Bouvier erano ricchi di quinta generazione, e parte
della High Society di New York. Il padre di Jacqueline era broker, agente di
Borsa, gestore di fiducia dei patrimoni ricchi. Vidal, nipote del senatore
dell’Oklahoma Thomas Gore, figlio della sua unica figlia, Nina – da loro prenderà
il nome da scrittore - era giovane in
vista anche lui nell’alta società americana. Ed aveva avuto a patrigno, al
secondo matrimonio della madre Nina Gore, Hugh D. Auchinloss Jr., un avvocato anche
lui reputato agente di Borsa, che più tardi sarà patrigno di Jacqueline, avendo
sposato sua madre Janet Lee Bouvier, nata Janet Norton Lee, di famiglia
cattolica irlandese, immobiliaristi a New York, anch’essa alle seconde nozze,
dopo il divorzio da John Vernon Bouvier III, il padre di Jacqueline. Jacqueline era la “moglie” ideale anche per il
patriarca dei Kennedy, il padre Joseph, che aveva disegnato e perseguito il
futuro dei maschi in politica, e per le numerose figlie aveva cercato matrimoni titolati,
principeschi. Come usava in quegli anni – in Italia è stato lo schema del senatore
Agnelli per i nipoti e le nipoti.
Joseph aveva fatto fortuna a Wall Street con metodi
disinvolti, ma ne era uscito poco prima del crac del 1929 – avendo già costituito
un fondo da un milione di dollari per ciascuno dei nove figli. Si criticherà
molto il suo ruolo nel voto popolare dell’elezione presidenziale del 1960, che
John vinse senza la maggioranza assoluta dei voti, e per sole 117 mila
preferenze su Nixon, 49,7 contro 49,5 per cento. Ci furono irregolarità nel
voto in Texas e Illinois. Che molti esponenti repubblicani, compreso il presidente
uscente Eisenhower, avrebbero voluto contestare. Ma Nixon si rifiutò. Con
questa motivazione, avvocatesca (Nixon era avvocato) ma precisa: “Non so pensare
a un esempio peggiore per le nazioni all’estero, che per la prima volta stessero
tentando di introdurre processi elettorali liberi, che quello degli Stati Uniti
in lite sui risultati delle nostre elezioni presidenziali, e anzi insinuando che
la presidenza stessa possa essere stata rubata nell’urna elettorale”. Nixon è
il presidente americano più disprezzato – prima di Trump.
Questione spartana – Perché Sparta non ebbe grandi uomini? È vecchio
argomento, ora desueto. L’opinione di A. Gide (“Journal”, 1895) è che “la
perfezione della razza impedì l’esaltazione dell’individuo”. Per un anticipo di
eugenetica anche. Che permise di creare il canone maschile e il vigoroso ordine dorico. Ma con la soppressione
dei meno capaci portò anche alla soppressione delle specificità, delle rarità.
Gide lo nota da entomologo, o botanico: “Con la soppressione dei gracili si sopprime
la varietà rara – fatto ben conosciuto in botanica, o almeno in floricultura, i
fiori più belli essendo spesso generati da piante all’aspetto sofferente”.
Anche
l’emofilia, la malattia dei ricchi e potenti che si sposavano tra di loro e
quindi spesso tra parenti (in uso fino all’Inghilterra vittoriana, fine
Ottocento) può avere influito. Ma allora con effetto opposto al fine
dell’eugenetica.
astolfo@antiit.eu
Pavese fuori dal mito
Riedizioni ricche, del Pavese
più pacificato, quasi scherzoso, allo scadere del copyright. L’editore per
eccellenza di Pavese, la casa che lui stesso ha per larga parte creato, raddoppia
lo spessore della sua edizione 2014, con introduzione di Nicola Gardini in
aggiunta a quella di Sergio Givone, e con antologia critica, note, vita e
opere. Adelphi, nuovo arrivato, assortisce l’opera con un’introduzione
frizzante e informata di Giulio Guidorizzi. E con una conversazione tra Carlo
Ginzburg e Giulia Boringhieri. Lo storico è figlio di Natalia e Leone Ginzburg,
la compagna di lavoro più stretta di Pavese alla Einaudi (e quella che ne
curerà a lungo le opere dopo la morte) e l’amico forse più intimo, sicuramente
più brillante, di Pavese (di lui si ricorda nelle biografie che, benché minore
di un anno dello scrittore, ma già addentro all’università, gli trovò in un paio di giorni un
relatore per la tesi di laurea su Walt Whitman, che l’anglista con cui Pavese
aveva lavorato, Federico Olivero, non voleva presentare).
L’intervista è poco informativa,
e quasi svogliata. Come se l’allora undicenne storico fosse già in polemica
generazionale con la madre Natalia (il padre, Leone, era morto ai primi del 1944
a Regina Coeli a Roma, per le torture subite da parte della Gestapo). O forse
impacciata: forse lo storico non ha ricordi precisi. Ricorda però il silenzio:
lo sconcerto, e la tristezza. Pavese si continua a prendere dalla fine, dal
suicidio – l’editoria non trova probabilmente altri temi promozionali.
I “Dialoghi”, scritti a Roma tra
fine 1944 e inizio 1945, a guerra finita, sono il libro che Pavese sentiva più
suo, e si portò dietro la notte del suicidio. Accolto con “elusiva diffidenza”,
eufemizza l’editore Adelphi: “Si stenta oggi a crederlo, ma all’epoca in Italia
il mito godeva di pessima fama” - godeva si dice per dire. Ma non è tanto il
mito che muove Pavese quanto l’allegria, lo scherzo, la disinvoltura. Per una
volta leggero, nella lettura che su questo sito ne è stata fatta di recente:
http://www.antiit.com/2019/04/il-mito-dei-miti.html
E più per riuscirci immerso nella
cultura, da lui ferocemente acquisita e vissuta. Un “capriccio serissimo”, come lo dice Givone nella
presentazione. Ma rilassato, ironico – Saffo è “lesbica di
Lesbo”, la “dea vergine” Artemide ha “carattere non dolce”. Un capriccio non di un creatore di miti: Pavese,
appassionato di antropologia, sapeva che i miti non si creano.
Non c’è scrittore del Novecento
più colto, dell’antico e del moderno (contemporaneo) di Pavese. È questo un
tratto che la liberazione del copyright, e quindi inevitabilmente degli studi,
dovrà approfondire. Ma qui, in quest’opera, è la vena irriverente che emerge di
Pavese, come nelle lettere e nel “Mestiere di vivere” non espurgato (lo è stato
per molti anni a opera purtroppo di Natalia Ginzburg).
Un Pavese fuori dal mito Pavese –
il disadattato suicida. Sì, si parla di destino, e cose del genere, ma come se ne parlava in antico, in conversazione. Molto c’è anche, in quest’opera apparentemente
stravagante, dell’anno trascorso da Pavese a Brancaleone in Calabria, al confino
politico. Notte e giorno a fronte del mare – Luecotea è la “dea bianca”, in antico
identificata con Ino, dea marina, bianca come la spuma sul mare? Con immagini di satiri
e ninfe, benché “caprine” - o perché “caprine” nel senso che in antico si
voleva, di esseri voluttuosi?
Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò, Adelphi, pp. 226 €
18
Einaudi, pp. XIV + 224 € 12
martedì 18 maggio 2021
Problemi di base a proposito di donne (pavesiana) - 639
spock
“Le uniche donne che vale la pena di sposare,
sono quelle che non ci si può fidare a sposare”, C. Pavese?
“Nessuna donna fa un matrimonio
d’interesse: tutte hanno l’accortezza, prima di sposare un milionario,
d’innamorarsene”, id.?
“Siccome una donna presto o tardi bisogna
piantarla, tanto vale piantarla subito”, id.?
Prima che ti pianti lei?
“Una dichiarazione di guerra è come una
dichiarazione d’amore”, C. Pavese: cioè il viceversa?
“Come possedere senza essere posseduti”, id.?
“Ci sono dei vestiti femminili così belli
che si vorrebbe lacerarli”, id.
spock@antiit.eu
Le nuove parità, neri i buoni cattivi i bianchi
È il racconto di Roald Dahl, dei
bambini trasformati dalle streghe in topi (una in gallo), che la nonna di uno
di loro, un po’ fattucchiera, non riesce a far tornare umani. Non è sorprendente,
e non è divertente. È solo una storia di suspense, che Zemeckis stiracchia nelle
quattro scene topiche, la nonna che istruisce e corazza il nipotino, il concilio
delle streghe, sotto forma di Lega per la protezione dei Minori, la trasformazione
dei ragazzi in topi, la fine delle streghe e la vita felice dei topi. Con una
trovata radicale: nero è buono, bianco è cattivo. Anche stupido – il direttore
dell’albergo e il suo figliolo - ma di più cattivo.
Le streghe sono bianche - Anne
Hathaway, la Grande Strega Suprema, è fatta biondissima e bianchissima. Il ragazzo
di colore e la nonna - che sono di colore nel racconto, venendo dall’Alabama - occupano la prima parte del film con altri afroameircani ed esclusivamente con
loro, al mercato, in chiesa, al supermercato. E in effetti la cosa colpisce, la
storia in nero anziché in bianco.
Prima di dedicarsi a Pinocchio in
live-action – cioè recitato da attori
- per la Disney, dove non ci sono minoranze da gratificare, Zemeckis si è
acquistato dei crediti da spendere presso l’Academy hollywoodiana da far valere alla
prossima edizione dei premi Oscar? Secondo le nuove regole: ruoli femminili
paritari, presenza paritaria delle minoranze, buone cause, paritarie. È probabile
– il film è prodotto da Cuaròn e Guillermo Del Toro, fra i primi beneficiari
dele nuove regole.
Robert Zemeckis, Le streghe
lunedì 17 maggio 2021
Cronache dell’altro mondo – o dei miracoli (116)
Da metà marzo 2020 a metà maggio 2021, per
tutta la pandemia e i lockdown, l’indice Standard&Poor’s dei titoli
azionari a Wall Street è cresciuto dell’89 per cento, cioè ha quasi raddoppiato
di valore.
Negli ultimi cinque mesi gli investimenti in
azioni a Wall Street sono stati di molto superiori a quelli cumulativi dei
dodici anni precedenti: 569 miliardi di dollari contro 452.
Record anche il debito privato contratto con
le banche per comprare titoli azionari a Wall Street. Con ipoteche immobiliari
di secondo e di terzo grado.
Tutte le quotazioni dell’indice sono record. In
particolare, sono in continua inarrestabile ascesa, da oltre due anni, i titoli
tecnologici. Un’azione Amazon quota oggi a Wall Street 3.223 dollari, la società
capitalizza in Borsa 1.626 miliardi di dollari – quanto il pil dell’Italia. Analoghe
le performances dei titoli maggiori
del settore. Apple, che quota solo 126 euro, vale in Borsa 2.127 miliardi di
dollari. Google quota 2.278 dollari per azione, e vale 1.538 miliardi. Tesla è
a 590 dolari e a 568 miliardi. Facebook a 316 dollari e 896 miliardi.
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Appalti, fisco, abusi (202)
Il catasto di Roma vuole ventuno mesi per regstrare
una variazione catastale.
Il tempo di due 730, ai quali intanto ha
fornito informazioni errate, ma incontestabili.
Acea, la società di servizi che il Comune di
Roma condivide con la francese Suez e col gruppo Caltagirone, si fa bella col
monopolio dell’acqua nela capitale. Di cui ha, fatti tutti i conti nella selva
delle tarffe, raddoppiato il costo medio per l’utente nei dieci anni intercorsi
dal referendum che sancì l’acqua bene pubblico inalienabile. Ha raddoppiato la
tariffa dell’utenza domestica più
diffusa, la “agevolata” (l’acqua potabile, e una lavapanni che vada una volta
al giorno), portandola a 0,40 euro al metro cubo. E ha ridotto a un terzo il
quantitativo agevolato, da 92 a 30 mc l’anno: da 30 a 60 mc la tariffa unitaria
è di 0,80 euro, quattro volte quella ante-2015, da 60 a 90 mc è di 1,34 euro –
si va a 1,88 euro sopra i 90 mc. Cioè, ha moltiplicato la tariffa per quattro
volte: i 90 metri cubi, che costavano 19 euro, ora ne costano 79. Più Iva.
Nel giorno in cui emerge primo gruppo automobilistico
europeo per vendite, Stellantis perde a piazza Affari ben 4 punti, un primo record
negativo della sua recente storia. C’è
una ratio?
Unicredit, fra tutti grandi gruppi bancari quello che ha fatto meno bene nel primo trimestre, ha guadagnato
in Borsa nei successivi cinquanta giorni il 35 per cento, un record fra tutti i
titoli quotati – poco meno, il 30 per cento, da 8,7 euro il giorno prima della
trimestrale a 10,30 oggi, otto sedute di Borsa. C’è una ratio?
Th. Mann fa la pace a Parigi
Presuntuoso, come soleva. Ma qui
anche pomposo. E ipocrita come non si penserebbe possibile: a nemmeno dieci
anni dalle “Considerazioni di un impolitico”, in cui vituperava con ogni possibile
insulto la Francia e l’Italia (dove pure aveva trascorso prima della guerra, e
avrebbe trascorso dopo, lunghi soggiorni), e lo stesso suo fratello Heinrich
per essere francesista e francofilo, invitato in Francia come celebrità per
rianimare “l’amicizia” dopo la Grande Guera, viaggia come un dignitario, e anzi
un principe. O così la racconta. Tutti lo ossequiano sprofondandosi. Con quella
mania tutta francese per la cucina sghiribillosa. Se c’è colpa è della
Germania, col suo melenso miscuglio di “romanticismo e rozzo affarismo”, che
non può che suscitare “universale antipatia”, lui non c’entra.
Una chicca, si penserebbe. Ma non
un buon servizio a Th.Mann. Che si manifesta per una volta senza la maschera
politicamente corretta. Marco Federici Solari, che ha scoperto il resoconto,
tralasciato dalle raccolte di prose e saggi, rende un servizio al lettore italiano,
che può rivedere l’uomo, oltre l’autore, nella sua interezza.
Th. Mann è andato a Parigi su
iniziativa della fondazione americana Carnegie, che lo ospita in alberghi e
ristoranti lussuosi e gli organizza incontri con vari ministri. E col conte Coudenhove-Kalergi,
l’europeista, per approfondire il “dialogo” - personaggio di cui si appropria
subito: “Uno degli esseri umani più straordinari e, sia detto per inciso, più
belli che abbia mai incontrato”. Ma per affermare con lui, scrive
inconsiderato, che la democrazia non fa per la Germania, per noi, per l’Europa:
“Si parlò della democrazia, e dissi quel che pensano tutti, ossia che in un
certo senso oggigiorno sia piuttosto un ostacolo”. È ancora il Th.Mann del “Fratello
Hitler”: “Quel che ci vorrebbe oggi in Europa è una dittatura illuminata”.
Ritornò peraltro, almeno così la
racconta, in una Germania che la pensava peggio, e gli faceva una colpa di
essere andato fino a Parigi, di aver cauzionato i cattivissimi nemici. La “sua”
Germania evidentemente: nazionalista, imperialista, fascista – un po’, solo un
po’, naturalmente. Un capolavoro, di autoironia involontaria.
Thomas Mann, Resoconto parigino, L’Orma, pp. 136 € 16
domenica 16 maggio 2021
Problemi di base della sofferenza - 638
spock
“Di
qualunque nostra sventura non dobbiamo incolpare altri che noi.
Soffrire
non serve a niente.
Soffrire
limita l’efficienza spirituale.
Soffrire
è sempre colpa nostra.
Soffrire
è una debolezza.
Almeno
un’obiezione c’è: se non avessi sofferto non avrei scritto queste belle
sentenze”, Cesare Pavese, “Il mestiere di vivere”?
“La felicità è soltanto il momento in cui l’infelicità si sta riposando”, G. Simenon?
“La
vita a volte è così triste che l’unica reazione possibile è riderci su”, Woody Allen?
spock@antiit.eu
La vera storia, che non si fa, del compromesso storico
“Mi è sembrato abbastanza tranquillo sui primi
risultati della sua manovra avvolgente messa in atto per contenere il Pci e se
fosse possibile imbrigliarlo prima e metterlo in crisi poi”. Ettore Bernabei è
andato a trovare Aldo Moro, e ne registra questa impressione.
È il 1977, e il compromesso storico, con i governicchi
presieduti da Andreotti, altro non è in casa Dc che “una manovra avvolgente”
ordita da Moro per bloccare l’ascesa del Pci. Caprara mette in rilievo oggi sul
“Corriere della sera” questo punto dei materiali diaristici di Bernabei, che
Piero Meucci recupera in “Ettore Bernabei, il primato della politica”.
Giustamente, qualcosa della verità storica infine emerge.
C’è anche Moro dunque nelle note di
Ettore Bernabei - non a caso il libro di
Meucci si sottotitola “La storia segreta della Dc nei diari di un protagonista”.
Inevitabile che ci fosse, per quanto sia stata forte, e costante, l’ostilità
con Fanfani, di cui Bernabei era stato portavoce e poi sempre assiduo.
Bernabei naturalmente non è in
sintonia con Moro - e Moro si confida con lui ancora meno che con i suoi
fedelissimi. Ma non esita a dargli il merito della “manovra avvolgente” che
bloccò l’ascesa trentennale del Pci: la verità della cosa passa sopra le
inimicizie di “corrente”.
La verità storica peraltro è nota a tutti, nei
fatti, solo omessa. Non se ne parla. Si
fanno ancora saggi e ricostruzioni del
compromesso storico, ma il suo significato è accuratamente omesso, al 100 per
cento – Moro è un santino del Pci, eccetera. Per ordine del Partito certo non
più. Per una coazione a ripetere – la storia è stanca, gli storici lo sono? Per
perdurante, costante, imperitura, ipocrisia?
Poi però capita di leggere questo Moro in
parallelo col suo storico Gotor, che su “l’Espresso” lo manda, per una volta
agitato e presciarolo, a Castelporziano ad accusare Saragat – da lui eletto al
Quirinale cinque anni prima - delle bombe di piazza Fontana e della “strategia
della tensione”, e uno trasecola. Cioè, non è nemmeno malafede.
Pavese prigioniero di se stesso
La riflessione diaristica meno
censurata e più vivace di Pavese, autore diaristico per eccellenza, tutto ripiegato
su se stesso, anche più ricca del “Mestiere di vivere”. La solitudine, fino al
suicidio, è tema costante. O il senso di prigionia anche senza pareti – il tema del
racconto del confino, “Il carcere”. E la lingua poetica. Col “piemontesismo” –
senza mai alcun riferimento a Gozzano o altri piemontesi “tipici” (se non “il
buon Salgari” appaiato a Melville quale scrittore di avventure). L’uso del
dialetto, comunque, non è realismo, è letteratura: “Io quando torinesizzo sono
più letterato che mai”. Il suo lettore può testimoniarlo, dalla tesi su Walt
Whitman in poi, a 21 anni, “Interpretazione della poesia di Walt Whitman”, e
anche nelle poesie e i racconti adolescenziali. Senza contare, concorda con
Libero Novara, “Bero” o “Berin”, che il Piemonte non ha canzonette, canta
stornelli romaneschi o fiorentini.
L’altro tema è l’amore. Inafferrabile.
Della donna inafferrabile – perché idealizzata, compagna “non strumento
occasionale” (e “non ancora sposa”), non
in senso politico. Nelle personificazioni note, E., collega d’insegnamento, “la
signorina” della disgrazia politica (Tina Pizzardo), Fernanda Pivano, se
qualcosa ci fu, Bianca Garufi, Constance e Doris Dowling, e altre frequentazioni ancora
meno riuscite – un’inettitudine che lo accomuna a Nietzsche, pure autore
all’apparenza a lui alieno, benché letto e riletto. Una inettitudine che affiora
anche nelle lettere più professionali, una sorta di paranoia. Indotta - “Il
mestiere di vivere” è già chiaro, benché censurato - dal rapporto
incredibilmente ingeneroso e anzi ostile, a leggere lui, con Tina Pizzardo, per
“salvare” la quale era andato in carcere e al confino, nel mentre che lei si
“accasava” altrove – in prigione, scrive e ripete alla sorella Maria, con la
quale lamenta ripetutamente il silenzio della “signorina”, solo “per la
leggerezza di qualche conoscente”.
Non c’è ponte, non c’è dialogo,
fuori dalle amicizie di gioventù. Legittima in una corrispondenza “il
sacrosanto misoginismo di ogni piemontese”. Nel “Mestiere di vivere” si dice
anche: “Misogino eri e misogino resti”. Ma non lo, poiché privilegia la
compagnia femminile, amorosa e amichevole. Femminile anzi lui stesso, così se
lo dice nel “Mestiere di vivere”: “Sei una donna, e come donna sei caparbio”.
Uno dei pochi autori del Novecento che con la parte femminile convivono, e non
per parità di genere o altri proponimenti – non più tormentosi che con la parte
maschile. Misantropo piuttosto - la creazione propriamente amorosa, la prole,
“è la fine di ogni autonomia da parte del creatore”. Senza una causa visibile,
come prigioniero di se stesso, anche nelle effusioni, che non si risparmia. Per
un fondo di disperazione che non sembra peraltro coltivato, anche se non se ne
vedono le cause, non sono apparenti o storiche. E che anzi, il più spesso, gli
dà fastidio, se ne sente limitato.
Considerazioni derisorie sono
ricorrenti anche in dialogo, nella corrispondenza con gli amici, oltre che nel
diario. “Parliamo delle donne con una volgarità impressionante, e questo è il
loro bello”. Anche nei momenti in cui è sorridente, ironico, comico, beffardo –
che ricorrono paradossalmente soprattutto nelle lettere dal confino da
Brancaleone (dove invece è ricordato “triste, solitario y final”, ma forse è
ricostruito, in testimonianze rare e tarde, col dover essere del dopoguerra). E
quando è contento, come appunto a Brancaleone, combattivo, reattivo, anche nella
censurata questione della “signorina” per la quale si ritiene condannato e che
di lui non ne vuol sapere, si autoanalizza vivacemente - “questa allegrezza che
mi schiarisce la pagina”, scrive ad Augusto Monti, “il professore”, “lei avrà
già capito che nasce dall’enormità dell’afflizione”.
Ovunque l’infelicità. E il
fastidio della politica. Di quella professionale, esibita, e delle ortodossie
di partito. Il “gruppo dell’«Unità»” dice a Onofri “squalificato e malvisto” -
il gruppo “torinese” dell’“Unità”. Tiene testa a Mario Alicata, il depositario
del Pci per l’ortodossia letteraria, che lo vuole acculare al realismo – anche
se di Verga tesse un grande elogio con un corrispondente americano, raccomandandone
la traduzione. Ma la politica in genere lo infastidisce. In lettere fluviali a Pinelli,
non ancora ventenne ha inventato un “Carlo Emmenthal”, “contaminazione” di
“Carlo” Marx e Immanuel Kant, o delle astrusità. Nel 1930 sollecita da
Prezzolini a New York, “a nome di Sua Eccellenza Arturo Farinelli”,
informazioni su un incarico alla Columbia University. “Mai occupato di cose
politiche”, pretende nel 1935, con la prigione e il confino. Alla rivista
“Cultura”, si difende da Regina Coeli, ha invitato a collaborare “parecchi
camerati”. Interessato a tutto, insisterà, “eccetto, ab aeterno, la letteratura
politica”.
Molte naturalmente le curiosità.
Calvino è “scoiattolo della penna”. “Paesi tuoi”, allora reputato il suo
racconto migliore, spiega stimolato dal “Postino” di Cain. Il secondo libro di
Moravia (“Le ambizioni sbagliate”) difende dal giudizio (“brutto”) di Luisa
Monti, figlia di Augusto, moglie dell’amico di sempre Mario Sturani, in questi
termini: “È un libro scritto con i piedi, sbagliato nella psicologia,
ambientato antipaticissimamente, ma spiritoso, tragico, avvincente, fenomenale:
un romazo d’appendice di gran razza. È meglio del cinema”. Omero sempre, ma “il
mare colore del vino” no, d’accordo con Rita Calzecchi Onesti, traduttrice che
felicita molto: “Sono d’accordo per il mare cupo.
Via il vino”.
Lo “stile epistolare”, scriverà
Domenico Starnone delle sue letture pavesiane, introducendo la riedizione de “Il
mestiere di vivere” Einaudi, trascrizione 1990, “mi piacque molto: pensai che
avrebbe dovuto scrivere a quel modo anche quando vestiva l’abito del
narratore”. Ma è la pubblicazione, curiosamente, che nessuno riedita, nella fiera
post-copyright.
Scrive anche in inglese, lettere anche lunghe, benché bocciato al concorso per insegnarlo.
Cesare Pavese, Lettere 1926-1950, Einaudi, 2 voll. pp. 817
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