sabato 29 maggio 2021
Ombre - 564
Il
calciatore Bernardeschi, pedina di scarto nella sua squadra (Juventus), è
titolare della Nazionale, una delle più
forti attualmente in Europa. Sacrificato nel suo club al calcio degli
allenatori - in serie Allegri, Sarri, Pirlo. Che anche senza Bernardeschi non ha
prodotto niente, o pressappoco.
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Cronache dell’altro mondo – violento (118)
Muoiono 50 mila americani l’anno per cure con
medicinali a base di oppio. I morti per overdose da oppioidi farmaceutici,
21.088 nel 2010, sono stati 47.600 nel 2017, e 49.860 nel 2019.
Alcuni magistrati lavorano alacremente per
costituire un Grand Jury che arrivi alla messa in stato d’accusa di Trump. Non
hanno prove, né reati specifici da contestare, e neppure indizi di reato: li
cercano. Il Grand Jury si costituisce per questo: è una giuria popolare
chiamata a decidere se tutte le accuse che i giudici avanzano meritino un
processo. Non è necessario che siano provate.
La giuria si dice popolare perché estratta a
sorte all’anagrafe. In teoria. In pratica ogni giudice si costituisce la “sua”
giuria: deve solo essere abile a scegliere giurati che superino le
contestazioni degli avvocati di parte avversa. E l’abilità in questo deve
essere eccezionale, perché il Grand Jury deve il nome al fatto che è
praticamente il doppio della giuria di un processo penale: è composto da 20 a
23 membri – contro i 12 del processo in Tribunale.
Praticato a lungo nei paesi di common law, di diritto consuetudinario,
l’istituto del Grand Jury è stato abbandonato da tempo ovunque, eccetto che
negli Stati Uniti. In alcuni stati dgli Stati Uniti: l’istituto è previsto
dalla Costituzione ma gli stati possono derogare e molti lo hanno fatto.
L’altra Calabria
Una “Calabria da bere”. Peppe
Smorto ci ha rubato il titolo, ma ha fatto bene: per una volta un cronista che
si applica a raccontare cose e persone che si vorrebbero frequentare, in
Calabria – cioè: non la solita cronaca locale di arresti, “dispetti”, processi,
condanne (e non locale, v. il catalogo dello stesso editore, Zolfo-Melampo).
C’è un aspetto luttuoso della
Calabria – c’è un altro posto al mondo dove le cronache siano solo di
malvivenza, a parte il verbo degli assessori e sindaci locali? Ma c’è anche un
aspetto festivo, non può non esserci, e Smorto ha voluto portarlo alla luce. Anche
se, pure lui, con un fondo di malinconia, legandolo praticamente al lavoro
delle parrocchie e dell’associazionismo religioso.
Questo è vero, e non lo è Molto
si fa anche senza la forza della chiesa.
Ma è vero che il problema della Calabria è quello che un tempo si diceva della
classe o ceto dirigente. Che si riforma in
continuazione, una partenogenesi incessante, molto democratica, ma in
una sorta di processo distruttivo. Basti il raffronto tra gli anni 1960, di
Mancini e Misasi, e il nulla odierno.
Nella società civile il declassamento
non è analogo, anzi ci sono oggi molte opportunità di formazione nella Regione che
cinquant’anni fa non c’erano. Ma non si è formato un tessuto connettivo, societario,
di idee e di interessi. Un tessuto che regga la produzione, moltiplicando l’accumulazione
– che possa o che ci riesca: la Calabria non accumula, al meglio segna il passo.
E questo perché dalla Calabria si continua a partire. Non per bisogno. Perché
le opportunità sono altrove – con i tanti medici calabresi di Roma si sarebbe
risolto da tempo l’ottuso commissariamento della sanità nella Regione.
Smorto, che pure lui è partito, senza
complessi o patemi, una vita e una carriera a “la Repubblica”, ha scoperto che
si può anche tornare, con piacere. Con disappunto, per il tanto spreco, ma a
sommatoria positiva. Non c’è un contesto favorevole, non politico, non d’opinione,
non, tutto sommato, repressivo, ma le idee e le energie profuse sono di per sé
esilaranti. Verrà pure un giorno in cui faranno valanga, invece di tenere, come
oggi, gli interstizi, o salvare la scialuppa col secchiello.
L’altra Calabria è raccontata con
vena lieve in una ventina di episodi. Non le bellezze naturali della pubblicità
– “l’aria” non è mai mancata, a sentire mezzo secolo fa Otello Profazio. Ma di
normalità eccellenti. Sì, c’è anche la storia, per dire, del palazzo di
Giustizia di Reggio Calabria, ma anche questa si legge in allegria (e poi la “Calabria”
non c’entra, ne è vittima): in costruzione dal tempo di Martelli ministro della
Giustizia, quindi almeno da un quarto di secolo, “un castello” di 600 stanze, bloccato
da dieci anni, non protetto nemmeno dalle intemperie, uno scheletro.
Giuseppe Smorto, A Sud del Sud, Zolfo, pp. 176 € 16
venerdì 28 maggio 2021
Ecobusiness
“Agli attuali ritmi autorizzativi,
necessiteranno 24 anni per conseguire gli obiettivi fissati per l’eolico e 100
anni per il fotovoltatico”: Roberto Cingolani, ministro per la Transizione
Ecologica.
La Cina è già largamente sopra i iveli di
consumi petroliferi 2019, precedenti la pandemia.
La produzione mondiale di petrolio è in calo:
dal 2014 gli investimenti in ricerca e sviluppo di nuovi giacimento sono stati in
riduzione costante – dagli 800 miliardi di dollari del 2014 a meno di 300
miliardi. Con la produzione di petrolio in calo e la domanda di prodotti
petroliferi in aumento - malgrado gli impegni di risparmio e di ricorso alle
fonti di energia alternative – il prezzo del barile di greggio è atteso a 200
ollari nel 2025.
Con questo prezzo al barile, la benzina in
Italia raddoppierebbe, a 3-3,3 euro al litro. Si fa preso a dire transizione.
“Usiamo solo contenitori in Pet, al 100 per
cento riciclabili”: Antonio Pasquale, “re” delle acque minerali di Karlovy Vary
(Karlsbad), con Stefano Lorenzetto sul “Corriere della sera”: “Paghiamo chi ci
riporta il vuoto di plastica. Lo sa che una tonnellata di Pet usato vale 1.000
euro? Gli enti che curano la raccolta differenziata e i riciclatori che vendono il Pet alle industrie automobilistiche sono una lobby. La Cina spaccia per riciclato il Pet vergine perché ci guadagna di più.
Una follia”.
Francesco re dell’ambiente
Della serie “Ulisse: il piacere
della scoperta”. Un ritorno in grande spolvero per le riprese ambientali
“fresche” , non di repertorio, su Assisi e dintorni. Curiosamente, la puntata
attrae in partenza, con le scene ambientali, mentre crolla negli sceneggiati,
tratti dal filmaccio di Liliana Cavani - l’ultimo dei suoi tre film
“francescani”: Mickey Rourke… Helena Bonham Carter…. combattimenti, morti,
morti nudi, Rourke abbondantemente nudo…, il ricettario del film “americano”.
Anche sullo schermo, insomma,
Francesco è il santo dell’ambiente. Chi è, chi era, di persona, è difficile sapere - comunque ininfluente (gioventù, guerre, compagni di ventura, caduta da cavallo, stimmate)?Chi era è la sua opera.
Alberto Angela, San Francesco e santa Chiara, Rai 1,
RaiPlay
giovedì 27 maggio 2021
Cronache dell’altro mondo – violento (117)
Un poliziotto “star” della polizia di New York
City è già costato alla comunità due milioni e mezzo di dollari in risarcimento
per “misconduct”. scorrettezze. È famoso perché è instancabile: sia di servizio
di giorno oppure di notte, li blocca tutti, soprattutto se giovani e neri, a ogni
angolo di strada. E malgrado le penali che la Polizia di New York deve pagare è
sempre al suo posto – “The New Yorker”.
Gli Stati Uniti hanno sempre il record mondiale di morti per assassinio, sia in assoluto che in rapporto alla popolazione.
Più del Messico, o del Brasile.
Numero record in America anche di uccisioni per
arma da fuoco, per mano di poliziotti: la Cnn ne ha contati “oltre” 1.300 nel
2019. Altri conteggi sono di poco inferiori: 1.004 per il “Washington Post”, 1.099
per il gruppo Mapping Police Violence. Per l’Fbi “soltanto” 407 sono state
uccise dalla polizie – “omicidi giustificati” è la dizione ufficiale. È comunque
il numero più alto anche in cofdronro a Paesi dove vige lo stato d’assedio,
come il Myanmar.
Nei sette anni dal 2013 al 2019 sono monitorate
da Fatal Force (“The Washington Post”) 7.663 morti per mano della polizia – una media
di 1.100 l’anno, lo 0,34 ogni centomila abitanti.
Comunque la polizia negli Stati uccide o ferisce,
arresta, imprigiona, più persone, in rapporto alla popolazione, di ogni altro paese
non dittatoriale.
L’Ufficio statistico del ministero Usa della
giustizia ha conteggiato, nei dieci mesi giugno 1915-marzo 1916, un numero
elevatissimo di decessi potenzialmente legati all’arresto, 1.348.
Pavese era Leopardi
È tutto, particolareggiato e
preciso, nell’autoritratto spedito a Fernanda Pivano – da Torino a Torino – il
25 ottobre 1940, con un titolo, “Analisi di P.” – dopo aver ponzato “Analisi
amorosa di P.” e “Analisi vergognosa di P.”. Scherzoso, ma non di fatto. Troppo
lungo, quattro pagine piene a stampa, per essere riprodotto, ma senza sconti
per se stesso: un raté, con
l’ambizione “di fare dei suoi giorni una galleria di momenti inconfondibili e
assoluti”. Uno che “recita”, anzi recita “terribilmente sul serio”. Un solitario,
incapace di amore (“si dimentica d’innamorare di sé la donna”), sempre perché “recita sul serio”, finendo per
“trasformare in vamp ragazze che non
se lo sognavano neppure”, ma col “desiderio feroce di una casa e di una vita
che non avrà mai”, con una “forte fantasia”, per cui gli basta rappresentarsi
se stesso in un’immagine dolorosa per risentirne fisicamente le torture”. Lungamente tentato da “una stoica
atarassia”, con “la rinuncia assoluta a ogni legame umano, se non quello,
astratto, di scrivere”, ma anche questo non gli riuscì, e “avvenne il
franamento”.
Einaudi riedita l’edizione del 1990
con un prefazione di Starnone, ma completa della vecchia nota introduttiva di
Cesare Segre, corposa. Una sapida rilettura del testo di Marziano
Guglielminetti. E la nota al testo, di Laura Nay, che rende conto di ogni
omissione, anche di virgole, tra la prima edizione e la riedizione.
Il diario è quello che era,
passata l’emozione del suicidio – della pubblicazione come a corredo
(spiegazione) del suicidio. Uno zibaldone nella migliore tradizione, di
Leopardi, di Goethe. Di un uomo non solitario, anzi socievole, benché incapace
di quella relazione duratura con una donna che fu il tormento della sua vita –
anche questo molto leopardiano (così come la passione filologica, una full immersion, un’apnea senza termine).
Un diario di moralità (riflessioni), con rare note autobiografiche, che si
rileggono a distanza sempre con interesse. Con una padronanza eccezionale,
oltre che dei classici, di letterature comparate, americana, tedesca, francese,
eccezionale per gli anni suoi, nelle lettere italiane – più tardo
Settecento-primo Ottocento.
Ma uno zibaldone quasi
monotematico, sull’amore. Uno scoglio, una tragedia al modo di Nietzsche.
Incapace come Nietzsche di allacciare quella relazione femminile stabile cui
pure ambiva, ciò che chiama nel diario “impotenza”. E come Paul Rée a distanza
dal rifiuto di Lou Andreas Salomè, lui dall’abbandono di Tina Pizzardo,
suicida.
Molta teoria dell’amore vuole che
lo stato erotico, come lo chiama Lou Salomé, sia “una benedizione”, sia
esso felice o infelice, poiché elettrizza, incrementa, moltiplica, vivacizza.
Per Pavese non sembra il caso, poiché se ne hanno tracce solo di fatica,
incapacità, cattiveria. Nella sua propria percezione. Ma forse lo ha tenuto
vivo, poiché, come lui stesso constata verso la fine, in pochi anni ha creato
un’opera voluminosa, oltre che di qualità.
Costeggia, distratto?, la fede,
quando annota “lo sgorgo di divinità”, il 29 gennaio 1944.Un evento che, forse,
lo porterà alla fede – “è questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di essere fedele: la
rinuncia a tutto”. Lo “sgorgo di divinità” è nella preghiera: “Ci si umilia nel
chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si
dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto godere sempre quello sgorgo
di divinità”. Il pensiero di Dio ritorna a inizio 1945, commentando l’anno
finito: “Annata strana, ricca. Cominciata e finita con Dio”. E “potrebbe essere
la più importante annata che hai vissuto”, di “lacerazioni notevoli”, “se
perseveri in Dio, certo”.
Molte letture di elisabettiani.
Finche tardi, a fine 1949, un 2 dicembre, non scopre di essere stato
influenzato (“plasmato”) da Lawrence, da “The Sun” e da “The woman who rode
away”. Ha letto anche, il 26 novembre,
Primo Levi, che evidentemente non ha voluto pubblicare – “Se questo è un uomo”
era uscito un anno e mezzo prima da De Silva – gli piace il “conservavamo i
ricordi della nostra vita anteriore”.
Con una verosimile autoanalisi di
“Lavorare stanca”: “La nostra poesia vuole eliminare sempre più gli oggetti.
Tende a imporsi come oggetto essa stessa, come sostanza di parole… è un’onomatopeica universale”. E “anche il mio
libro – Lavorare stanca - ha oscuramente
fatto questo. Cercava l’oggetto scarnendo la parola”. E a commento del 1945,
invece: “Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare.
Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti
complimentano, ti ballano intorno. Ebbene?”
Il problema è la viltà: “Non hai
mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per
qualcuno?” Apre il 1950, prima dell’innamoramento con Connie, ancora con l’idea
del suicidio. A freddo. In una Roma che sempre lo tenta. Continua
rimproverandosi “la passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio,
per la verità demonica di piante, acque, rocce e paesi”, come “segno di
timidezza, di fuga davanti ai doveri e gli impegni del mondo umano”.
La riedizione Einaudi è robusta,
con molto da leggere. Oltre Starnone (?) e Segre, Guglielminetti, e la
corposissima nota filologica di Laura Nay, una dozzina di “pensieri
cassati”. Un’appendice biografica e critica, con saggi anche recenti, Vattimo,
Mazzacurati, Fortini postumo. E un’ottantina di pagine di succulente note. Per
quanto con la scomodità di tenere il libro aperto su due pagine, e di correre
avanti e indietro. Ma senza novità, né nel diario né nelle note: gli asterischi,
ora nominativi, sono senza sorprese.
Gli asterischi della prima
edizione, quella curata da Natalia Ginzburg e Italo Calvino, erano promettenti.
Ma il riscontro con l’edizione non purgata del 1990 li riduce bizzarramente a
cosa di sacrestia, pruriginosa ma casta. Perlomeno nel comune senso del pudore
contemporaneo, che nessun organo esclude dal linguaggio corrente, anche
scritto. Certo, pensare Ginzburg e Calvino impegnati a eliminare, per conto del
grande editore Einaudi, “parolacce” e scatologie, dopo la morte drammatica
dell’autore, e in presenza di tanto testo, è una curiosità.
La nuova edizione Bur,
post-diritti, fa a meno dell’apparato critico, e include invece il cosiddetto
“Taccuino Segreto”, gli appunti sparsi fuori dal diario, ripescati trent’anni
fa da Lorenzo Mondo, con la testimonianza dello stesso Mondo. Espressione della
poca presa della politica su Pavese, al di là delle scelte fondamentali. Fino
allo smarrimento nel 1943 su quale via prendere – l’insofferenza per una
decisione da prendere – tra la Resistenza e Salò.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, pp.
CVIII + 554 € 16
Bur, pp.632 € 12
È tutto, particolareggiato e
preciso, nell’autoritratto spedito a Fernanda Pivano – da Torino a Torino – il
25 ottobre 1940, con un titolo, “Analisi di P.” – dopo aver ponzato “Analisi
amorosa di P.” e “Analisi vergognosa di P.”. Scherzoso, ma non di fatto. Troppo
lungo, quattro pagine piene a stampa, per essere riprodotto, ma senza sconti
per se stesso: un raté, con
l’ambizione “di fare dei suoi giorni una galleria di momenti inconfondibili e
assoluti”. Uno che “recita”, anzi recita “terribilmente sul serio”. Un solitario,
incapace di amore (“si dimentica d’innamorare di sé la donna”), sempre perché “recita sul serio”, finendo per
“trasformare in vamp ragazze che non
se lo sognavano neppure”, ma col “desiderio feroce di una casa e di una vita
che non avrà mai”, con una “forte fantasia”, per cui gli basta rappresentarsi
se stesso in un’immagine dolorosa per risentirne fisicamente le torture”. Lungamente tentato da “una stoica
atarassia”, con “la rinuncia assoluta a ogni legame umano, se non quello,
astratto, di scrivere”, ma anche questo non gli riuscì, e “avvenne il
franamento”.
Einaudi riedita l’edizione del 1990
con un prefazione di Starnone, ma completa della vecchia nota introduttiva di
Cesare Segre, corposa. Una sapida rilettura del testo di Marziano
Guglielminetti. E la nota al testo, di Laura Nay, che rende conto di ogni
omissione, anche di virgole, tra la prima edizione e la riedizione.
Il diario è quello che era,
passata l’emozione del suicidio – della pubblicazione come a corredo
(spiegazione) del suicidio. Uno zibaldone nella migliore tradizione, di
Leopardi, di Goethe. Di un uomo non solitario, anzi socievole, benché incapace
di quella relazione duratura con una donna che fu il tormento della sua vita –
anche questo molto leopardiano (così come la passione filologica, una full immersion, un’apnea senza termine).
Un diario di moralità (riflessioni), con rare note autobiografiche, che si
rileggono a distanza sempre con interesse. Con una padronanza eccezionale,
oltre che dei classici, di letterature comparate, americana, tedesca, francese,
eccezionale per gli anni suoi, nelle lettere italiane – più tardo
Settecento-primo Ottocento.
Ma uno zibaldone quasi
monotematico, sull’amore. Uno scoglio, una tragedia al modo di Nietzsche.
Incapace come Nietzsche di allacciare quella relazione femminile stabile cui
pure ambiva, ciò che chiama nel diario “impotenza”. E come Paul Rée a distanza
dal rifiuto di Lou Andreas Salomè, lui dall’abbandono di Tina Pizzardo,
suicida.
Molta teoria dell’amore vuole che
lo stato erotico, come lo chiama Lou Salomé, sia “una benedizione”, sia
esso felice o infelice, poiché elettrizza, incrementa, moltiplica, vivacizza.
Per Pavese non sembra il caso, poiché se ne hanno tracce solo di fatica,
incapacità, cattiveria. Nella sua propria percezione. Ma forse lo ha tenuto
vivo, poiché, come lui stesso constata verso la fine, in pochi anni ha creato
un’opera voluminosa, oltre che di qualità.
Costeggia, distratto?, la fede,
quando annota “lo sgorgo di divinità”, il 29 gennaio 1944.Un evento che, forse,
lo porterà alla fede – “è questa senza dubbio la mia strada per giungere alla fede, il mio modo di essere fedele: la
rinuncia a tutto”. Lo “sgorgo di divinità” è nella preghiera: “Ci si umilia nel
chiedere una grazia e si scopre l’intima dolcezza del regno di Dio. Quasi si
dimentica ciò che si chiedeva: si vorrebbe soltanto godere sempre quello sgorgo
di divinità”. Il pensiero di Dio ritorna a inizio 1945, commentando l’anno
finito: “Annata strana, ricca. Cominciata e finita con Dio”. E “potrebbe essere
la più importante annata che hai vissuto”, di “lacerazioni notevoli”, “se
perseveri in Dio, certo”.
Molte letture di elisabettiani.
Finche tardi, a fine 1949, un 2 dicembre, non scopre di essere stato
influenzato (“plasmato”) da Lawrence, da “The Sun” e da “The woman who rode
away”. Ha letto anche, il 26 novembre,
Primo Levi, che evidentemente non ha voluto pubblicare – “Se questo è un uomo”
era uscito un anno e mezzo prima da De Silva – gli piace il “conservavamo i
ricordi della nostra vita anteriore”.
Con una verosimile autoanalisi di
“Lavorare stanca”: “La nostra poesia vuole eliminare sempre più gli oggetti.
Tende a imporsi come oggetto essa stessa, come sostanza di parole… è un’onomatopeica universale”. E “anche il mio
libro – Lavorare stanca - ha oscuramente
fatto questo. Cercava l’oggetto scarnendo la parola”. E a commento del 1945,
invece: “Sei felice? Sì, sei felice. Hai la forza, hai il genio, hai da fare.
Sei solo. Hai due volte sfiorato il suicidio quest’anno. Tutti ti ammirano, ti
complimentano, ti ballano intorno. Ebbene?”
Il problema è la viltà: “Non hai
mai combattuto, ricordalo. Non combatterai mai. Conti qualcosa per
qualcuno?” Apre il 1950, prima dell’innamoramento con Connie, ancora con l’idea
del suicidio. A freddo. In una Roma che sempre lo tenta. Continua
rimproverandosi “la passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio,
per la verità demonica di piante, acque, rocce e paesi”, come “segno di
timidezza, di fuga davanti ai doveri e gli impegni del mondo umano”.
La riedizione Einaudi è robusta,
con molto da leggere. Oltre Starnone (?) e Segre, Guglielminetti, e la
corposissima nota filologica di Laura Nay, una dozzina di “pensieri
cassati”. Un’appendice biografica e critica, con saggi anche recenti, Vattimo,
Mazzacurati, Fortini postumo. E un’ottantina di pagine di succulente note. Per
quanto con la scomodità di tenere il libro aperto su due pagine, e di correre
avanti e indietro. Ma senza novità, né nel diario né nelle note: gli asterischi,
ora nominativi, sono senza sorprese.
Gli asterischi della prima
edizione, quella curata da Natalia Ginzburg e Italo Calvino, erano promettenti.
Ma il riscontro con l’edizione non purgata del 1990 li riduce bizzarramente a
cosa di sacrestia, pruriginosa ma casta. Perlomeno nel comune senso del pudore
contemporaneo, che nessun organo esclude dal linguaggio corrente, anche
scritto. Certo, pensare Ginzburg e Calvino impegnati a eliminare, per conto del
grande editore Einaudi, “parolacce” e scatologie, dopo la morte drammatica
dell’autore, e in presenza di tanto testo, è una curiosità.
La nuova edizione Bur,
post-diritti, fa a meno dell’apparato critico, e include invece il cosiddetto
“Taccuino Segreto”, gli appunti sparsi fuori dal diario, ripescati trent’anni
fa da Lorenzo Mondo, con la testimonianza dello stesso Mondo. Espressione della
poca presa della politica su Pavese, al di là delle scelte fondamentali. Fino
allo smarrimento nel 1943 su quale via prendere – l’insofferenza per una
decisione da prendere – tra la Resistenza e Salò.
Cesare Pavese, Il mestiere di vivere, Einaudi, pp.
CVIII + 554 € 16
Bur, pp.632 € 12
mercoledì 26 maggio 2021
Problemi di base istruttivi - 641
spock
“Se avessi letto tanto quanto gli altri,
non saprei tanto più degli altri”, Hobbes?
“I libri sono pure buoni per se stessi, ma
sono un potente incruento sostituto della vita”. R.L. Stevenson?
“Se un ragazzo non impara dalla strada è
perché non ha l’attitudine a imparare”, id.?
“La vita contemplativa è piena di
pericoli”, Jean Gerson?
“La vita attiva è virtù femminile; quella
contemplativa, maschile”, C. Pavese?
Bisogna
testimoniare, a rischio della vita?
spock@antiit.eu
Picasso, sono io - la papessa Gertrude
“E adesso vi racconto come
avvenne che due americani”, Gertrude Stein e suo fratello maggiore, a
Parigi, “si trovarono al cuore di un
movimento artistico di cui il mondo all’epoca non sapeva nulla”. Celebrata autocelebrazione
di Miss Stein, sotto il nome della sua compagna Alice, quale scopritrice e
animatrice dell’arte contemporanea a Parigi nei due primi decenni del
Novecento: Picasso soprattutto, ma perfino Cézanne, e anche Matisse, e tutti
gli altri, attorno alla casa-studio di miss Stein a rue Fleurus. Indisponente.
Regge un po’ con il brio, con la “frasetta” che è il trademark di Gertrude
Stein scrittrice, nella traduzione di Alessandra Sarchi anche brilllante,
andante con moto, ma è come ogni selfie,
per quanto il genere vada oggi di moda: inutile. Cioè non proprio inutile, può
essere un buon articolo di giornale, ma per trecento pagine?
Si continua a riproporre questa
“Autobiografia” come un capolavoro del Novecento - a partire da Pavese, purtroppo. Forse perché Stein e Toklas
sono icone lgbtq. Ma è pur sempre un vecchio racconto di bohème, con tutti gli artisti, più o meno (manca Modigliani) su
piazza a Parigi. Con un po’ di Apollinaire, e di Hemingway, stiracchiato. Per
non dire nulla. Sul tipo del racconto di bohème:
qui i personaggi e gli ambienti sono racés,
anche gli artisti, anche le loro mogli, e si fanno un pregio di esserlo –
pregiano molto i nobili, le duchesse, le contesse.
La celebrata “frase” su cui Stein
orchestra la sua scrittura, qui lungamente descritta, è efficace. Non nuova - se
non nella forma, breve: è di Defoe, che anche lui sembra che racconti correndo,
o corra narrando. Di Defoe, allora, si direbbe al quadrato, poiché Stein si
scrive sotto il nome di Alice come Defoe sotto quello di Robinson. Ma Robinson
non ci mette Defoe a ogni paio di righe.
Con un penchant per il pettegolezzo. Non disdicevole: un gradevole small talk, non fosse prolisso.
Di fatto è un repertorio di tutti i nomi, grandi e piccoli, della
Parigi artistica a Parigi negli anni 1900-1910, stanziale e di passaggio. Col
tono indigesto di “Picasso, sono io”. E con molto name dropping a ogni riga – non basta essere curiosi. Un repertorio anche di tutti gli
americani a Parigi, prodromo dell’efflorescenza dopo la Grande Guerra:
Hemingway (con più punte di veleno – ma lo Hemingway, peraltro soprattutto
bello, che pratica la boxe ed è molto fragile, oltre che infognato nella
“carriera”, non è male), Fitzgerald, Sherwood Anderson. Mc Almond et al.. Eccetto che (oltre che di
Modigliani) di Nathalie Barney, americana anche lei, che riceveva rue Jacob,
non scriveva così bene come miss Stein, ma era bella e molto più disinvolta,
celebrata da Gourmont, ed ebbe relazioni con tutte le belle donne di Parigi,
anche non americane: viene menzionata, una o due volte, per la sua amica
duchessa di Clermont-Tonnerre. E di Margherite, allora Chapin poi Caetani, che comprava giovani pittori più è meglio dei fratelli Stein, e avrebbe coronato Valery, Larbaud, Fargue, Saint-John Perse - prima di promuovere a Roma, alle Botteghe Oscure, mezza letteratura italiana postbellica. E a chi le dice che la apprezza come Picasso e
André Gide, risponde, va bene, ma perché Gide? Il tono è questo.
Sarchi ha problemi ad alleggerire
il peso di alcuni “negri” dell’autobiografata – da tifosa del generale Grant e
non di Lincoln. Specialmente sgradevole nel caso di Paul Robeson, al quale rimprovera
gli spiritual: “Non ti appartengono,
non più di qualsiasi altra cosa, perché li canti? Lui non rispose”. Nella
convinzione che “i negri non stavano soffrendo di persecuzione ma di non essere
niente” – “l’africano non è primitivo, ha una cultura antica ma molto ristretta
e immobile”.
Una foto celebre ritrae Gertrude Stein con
la vera Alice in abito e attitudine monacali, quando si tagliarono i capelli
perché la duchessa di Clermont-Tonnerre se li era tagliati. Si direbbe la
papessa Gertrude.
Nell’edizione originale corrente,
Penguin Classics, con fastidiosi ripetuti Pissaro e Gaugin: sono solo errori di
composizione?
Gertrude Stein, Autobiografia di Alice B. Toklas,
Marsilio, pp. 312 € 18
Lindau, pp. 360 € 26
Si continua a riproporre questa “Autobiografia” come un capolavoro del Novecento - a partire da Pavese, purtroppo. Forse perché Stein e Toklas sono icone lgbtq. Ma è pur sempre un vecchio racconto di bohème, con tutti gli artisti, più o meno (manca Modigliani) su piazza a Parigi. Con un po’ di Apollinaire, e di Hemingway, stiracchiato. Per non dire nulla. Sul tipo del racconto di bohème: qui i personaggi e gli ambienti sono racés, anche gli artisti, anche le loro mogli, e si fanno un pregio di esserlo – pregiano molto i nobili, le duchesse, le contesse.
La celebrata “frase” su cui Stein orchestra la sua scrittura, qui lungamente descritta, è efficace. Non nuova - se non nella forma, breve: è di Defoe, che anche lui sembra che racconti correndo, o corra narrando. Di Defoe, allora, si direbbe al quadrato, poiché Stein si scrive sotto il nome di Alice come Defoe sotto quello di Robinson. Ma Robinson non ci mette Defoe a ogni paio di righe.
Con un penchant per il pettegolezzo. Non disdicevole: un gradevole small talk, non fosse prolisso.
Di fatto è un repertorio di tutti i nomi, grandi e piccoli, della Parigi artistica a Parigi negli anni 1900-1910, stanziale e di passaggio. Col tono indigesto di “Picasso, sono io”. E con molto name dropping a ogni riga – non basta essere curiosi. Un repertorio anche di tutti gli americani a Parigi, prodromo dell’efflorescenza dopo la Grande Guerra: Hemingway (con più punte di veleno – ma lo Hemingway, peraltro soprattutto bello, che pratica la boxe ed è molto fragile, oltre che infognato nella “carriera”, non è male), Fitzgerald, Sherwood Anderson. Mc Almond et al.. Eccetto che (oltre che di Modigliani) di Nathalie Barney, americana anche lei, che riceveva rue Jacob, non scriveva così bene come miss Stein, ma era bella e molto più disinvolta, celebrata da Gourmont, ed ebbe relazioni con tutte le belle donne di Parigi, anche non americane: viene menzionata, una o due volte, per la sua amica duchessa di Clermont-Tonnerre. E di Margherite, allora Chapin poi Caetani, che comprava giovani pittori più è meglio dei fratelli Stein, e avrebbe coronato Valery, Larbaud, Fargue, Saint-John Perse - prima di promuovere a Roma, alle Botteghe Oscure, mezza letteratura italiana postbellica. E a chi le dice che la apprezza come Picasso e André Gide, risponde, va bene, ma perché Gide? Il tono è questo.
Sarchi ha problemi ad alleggerire il peso di alcuni “negri” dell’autobiografata – da tifosa del generale Grant e non di Lincoln. Specialmente sgradevole nel caso di Paul Robeson, al quale rimprovera gli spiritual: “Non ti appartengono, non più di qualsiasi altra cosa, perché li canti? Lui non rispose”. Nella convinzione che “i negri non stavano soffrendo di persecuzione ma di non essere niente” – “l’africano non è primitivo, ha una cultura antica ma molto ristretta e immobile”.
Una foto celebre ritrae Gertrude Stein con la vera Alice in abito e attitudine monacali, quando si tagliarono i capelli perché la duchessa di Clermont-Tonnerre se li era tagliati. Si direbbe la papessa Gertrude.
Nell’edizione originale corrente, Penguin Classics, con fastidiosi ripetuti Pissaro e Gaugin: sono solo errori di composizione?
Gertrude Stein, Autobiografia di Alice B. Toklas, Marsilio, pp. 312 € 18
Lindau, pp. 360 € 26
martedì 25 maggio 2021
Letture - 459
letterautore
America
– Gli Stati Uniti sono il paese “più vecchio” del
mondo, a giudizio di Gertrude Stein, nella b “Autobiografia di Alice B. Toklas”,
un secolo fa o poco prima. Per un motivo semplice: “Perché con i metodi della
guerra civile, e i criteri commerciali che la seguirono, l’America ha creato il
Novecento, e siccome tutti gli altri
paesi vivono ora o cominciano a vivere
la vita del Novecento, l’America avendo cominciato la creazione del
ventesimo secolo negli anni sessanta del diciannovesimo secolo è ora il paese
più vecchio del mondo”.
Cannibalismo
– L’omo e li animali sono proprio transito e
condotto di cibo, sepoltura d’animali, albergo de’ morti, facendo a sé vita
dell’altrui morte, guaina di corruzione”, Leonardo da Vinci, framm. cod. 17457.
Censura – La biografia dello scrittore Philip Roth, a opera di Blake Bailey,
mandata al macero dall’editore americano W.W.Norton, che l’ha commissionata e
pagata, perché Bailey è stato accusato di molestie o aggressioni sessuali, è
disponibile ovunque fuori dagli Stati Uniti. Anche in inglese, col nome dell’editore
inglese Johnathan Cape. Lo stesso per l’ultimo film di Woody Allen, “Rifkin’s
Festival”, “bannato” in America per le proteste del movimento #metoo, che lo
stesso produttore, Amazon, vende e promuove, con successo, in Europa e altrove.
Il movimento #metoo è, si vuole, fenomeno americano, limitatamente all’America.
Seppure addebitando colpe penali. Non è convinto fino in fondo delle sue
posizioni?
Classico
– È l’ultima difesa della traballante Italia? Tale
la trova Francisco Rico, lo scrittore spagnolo studioso di Petrarca: “La
cultura classica del buon lettore italiano non ha paragone in nessun altro paese
(e la prova è che in nessun altro Paese si può trovare tutto il Parnaso grecolatino
in edizioni tascabili)”.
Dante
– Scrisse prima il “Paradiso”, secondo Ugo Foscolo, “Lezioni
di Eloquenza” (in “Prose letterarie”), per una sorta di rigidità, linguistica e
narrativa, artistica: “Mi credo, e in ciò mi sento sicuro del vero, che
moltissimi tratti, e più veramente i dottrinali e allegorici del ‘Paradiso’,
siano stati i primi pensati e composti più tempo innanzi che il Poeta s’insignorisse
della lingua e dell’arte. Perché di rado nella prima cantica, e più di rado
nella seconda, gli è forza di contentarsi di latinismi crudissimi, di ambiguità
di sintassi, di modi ruvidi che alle
volte guastano l’anima”.
E del poema, sempre secondo Foscolo, non se ne
potrebbe fare un romanzo: “La lingua poetica di Dante non ha potuto, né potrà
mai, servire di modello a composizioni in prosa”. Al contrario della lingua
omerica: Omero “nelle parole procede costantemente semplice e naturalmente
grammaticale. Le sue frasi non sono mai troppo pregne di metafore, e non mai applicate
a idee metafisiche, né a pensieri o sentimenti che non siano, per così dire,
tangibili”. Se a Omero “si togliesse il metro dei versi”, l’“Iliade” e l’“Odissea”
“parrebbero storie romanzesche e meravigliose come mille altre”.
Expolitio
– Il rifacimento, la rifinitura, la ripulitura. Tipo
il Manzoni alle prese col toscano nelle tre redazioni dei “Promessi sposi”. Una
pratica con questo nome criticata in una “Ars poetica” da Geoffrey de Vinsauf
(o Gaufrido de Vinsolvo), il letterato inglese che a Roma, dove risiedette a
lungo, compose il trattato all’inizio del tredicesimo, dedicandolo al papa
Innocenzo III: “Tornando più e più volte su un punto, cambiandogli con
insistenza i colori retorici, (il discorso) pare dire molte cose, ma di fatto indugia
sempre sulla stessa, tirandola a lucido, come chi passa ostinatamente la lima. Ci sono due vie per fare ciò:
dicendo la stessa cosa in vari modi o dicendo vari modi della stessa cosa”.
Francisco Rico, che esuma la “expolitio”, la imputa a difetto del suo amato
Petrarca, un polissonneur, un lucidatore
di argenti, uno che le sue composizioni latine (le sole che apprezzava, che gli
avrebbero nel suo sentire assicurato la gloria perpetua) costantemente
riscriveva.
Italiano
– Per essere una lingua letteraria, è la più ricca? È
l’idea all’origine di Foscolo, “Lezioni di Eloquenza”: Per l’essenza sua
letteraria, la lingua italiana fu l’unica tra le lingue recenti la quale abbia
preservato quasi tute le sue parole armoniose, evidenti e graziose, e tutti i
suoi modi eleganti, per cinque secoli e più”. Dopo aver notato: “Non però è
meno vero che i dialetti diversi hanno perpetuamente cospirato a comporre una
lingua letteraria e nazionale in Italia, non mai parlata da veruno, intesa
sempre da tutti, e scritta più o meno
bene secondo l’ingegno, e l’arte, e il cuore più che altro degli scrittori”. Un
po’, si direbbe, a somiglianza della lingua omerica, sempre come la vede
Foscolo: “La lingua Omerica non fu congegnata a mosaico di dialetti diversi,
com’è genera le opinione; ma sì, fu studiata da poeti e d a storici a infondere
qualità letteraria a dialetti delle loro città, sì che scrivendoli riescissero
più agevoli a tutta la Grecia”.
Ma questa qualità è un limite, osserva altrove lo
stesso Foscolo: “Le lingue, dove è nazione, sono patrimonio pubblico amministrato
dagli eloquenti; e dove non è, si rimangono patrimonio di letterati; e gli
autori di libri scrivono solo per autori di libri”.
Petrarca – Debuttò, ala ricerca della gloria poetica, col nome di Francesco Fiorentino
– per redimere la provenienza aretina – o, peggio, pisana? Fiorentino era il
padre, guelfo bianco come Dante, e come lui condannato nel 1302 all’esilio, e
al taglio della mano destra.
Proust – Pavese lo lega a Croce (“Il mestiere di vivere”, 7 settembre 1940): “L’idea
centrale di Proust, che le situazioni e le persone mutino continuamente e
inafferrabilmente, tanto che ciò che si desiderava, una volta realizzato si
scopre insoddisfacente, somiglia all’idea di Croce, che situazioni e persone
sono risultati pratici che non danno un contenuto assoluto ma appena raggiunti
si trasformano e negano dialetticamente il loro primo essere”.
Con una “differenza enorme: per Proust ciò è incentivo
a ritrarsi dalla vita, per Croce a
buttarcisi”.
Spelling
- “The Autobiography of Alice B. Toklas”, il profuso elenco
di artisti a Parigi negli anni 1900-1910 di Gertrude Stein, reca nell’edizione Penguin Classics, Pissaro
in gran numero e Gaugin - anche Assissi, ma più scontato, storpiare i nomi
geografici era già privilegio inglese. Il Penguin Classics sarà stato
sicuramente stampato in qualche paese del subcontinente asiatico, ma appunto:
la Brexit vuole anche ignoranza – una volta gli scrittori indiani si pregiavano
di essere anglo-indiani?
Stendhal – “Spirito impertinente, sfacciato, perfino ripugnante”, anche se “le
sue impertinenze provocano utilmente la meditazione”, è in un raptus di
Baudelaire, all’avvio del saggio “Le Peintre de la vie moderne”.
letterautore@antiit.eu
La miccia del Black Lives Matter
Se la polizia ti ferma in
America, e sei nero, sono problemi. Comincia così, con niente, l’assassinio a
sangue freddo e senza ragione di un ragazzo che il padre è andato a prendere la
sera a casa di amici. Sembra un attacco retorico, sul nero buono e la polizia
brutale, ma si colora presto di una drammatica tela di razzismo, nell’opinione
che capisce l’agente, nella giuria che lo assolve di ogni misconduct. Nate Parker, più bravo forse come attore, nei panni del
padre del ragazzo ucciso, che come regista, ci costruisce un suspense ad alto voltaggio: l’uomo
ragionevole, tranquillo, reduce dell’Iraq, buon padre di famiglia, assalta con
i congiunti la stazione di polizia, prende gli agenti in ostaggio, fa
processare l’agente assassino da una giuria popolare, gli sfortunati che si
trovavano per caso dentro il commissariato, e naturalmente non finirà bene –
l’America uccide i testimoni scomodi.
Un film molto americano.
Apprezzato a Venezia nel 2019, ma in quanto testimonianza di un problema civile
– i tanti ragazzi indifesi uccisi dalla polizia negli anni di Obama. Non suggestivo,
se non in momenti brevi, non ragionato: gridato. E tuttavia convincente: il
pregiudizio razziale è talmente forte che prevale anche sulla ragionevolezza,
sul calcolo.
Il film esce con due anni di
ritardo per i problemi di Parker col movimento #metoo. Da giovane fu processato
per stupro. Fu assolto, ma il suo compagno nella vicenda fu condannato, e la
donna che lo aveva denunciato qualche anno dopo si suicidò. Esce quindi dopo la
reazione della comunità nera alle
violenze di polizia, col movimento Black Lives Matter. Ma come se ne fosse già
parte, se non la miccia.
Nate Parker, American Skin, Sky Cinema, streaming su Now
lunedì 24 maggio 2021
Problemi di base - 640
spock
L’amore è immedesimazione: trasforma
l’amante nell’amato?
Il sogno è creazione senza coscienza?
O è coscienza senza creazione?
“La morte è uguale per tutti”, Petrarca?
“Le cose gratuite sono quelle che costano
di più”, Pavese?
“Il nuovo è tutto nella sorpresa”,
Apollinaire?
spock@antiit.eu
Nel nome di Hitler mai - martire della guerra
La vicenda del “beato” Franz Jãgermeister,
un contadino austriaco, trentenne, padre di tre figlie, mobilitato nel 1939 nell’esercito
di Hitler, smobilitato all’armistizio con la Francia, che si rifiuta tre anni dopo,
richiamato nel 1943, di prestare il giuramento d’obbligo nel nome di Hitler,
dopo quello che ha visto. Finendo giustiziato.
Di Franz Jãgermeister la chiesa ha
avviato la santificazione, poiché Franz era molto religioso: una vicenda reale,
la sua. Mallick ne fa una macchina cupa, come di una rivolta contro la vita,
della vita come destino, infame: fatica, solitudine, grigiore. Tre ore marcate
dal sottofondo sordo di una presa in diretta, su prati cupi, tra montagne cupe,
tra montagne grige, mai un raggio di sole, interiezioni dialettali che non vale
la pena tradurre, grugniti di animali, e una vita di attesa, paurosa, della disgrazia
che non può non accadere.
La vicenda Mallick racconta come una
tragedia greca, in cui la ubris si
vendica, l’invidia degli dei, se non oggi domani, dell’impertinenza umana. La borghesia urbana,
composta, ragionevole, funge da coro: il parroco, il vescovo, gli avvocati, gli
agenti, guardiani, giudici di Franz, gente ragionevole o altrimenti più
arrabbiata che cattiva. Ci sono a contrappunto anche le scene familiari,
distese, di Hitler, dei giornali Luce dell’epoca, che si evitano di vedere, a
sottolineare la dimensione tragica, più che storica, della narrazione.
Lasciando a un certo punto il dubbio se Franz fosse, come pure dice, contro la
guerra di Hitler – scarta pure, ripetutamente, la destinazione ai servizi non armati,
per e s. la sanità, quali già allora evidentemente si proponevano agli obiettori
di coscienza – o non piuttosto contro la guerra.
Un film che può respingere. Per
la lentezza (lunghezza), il grigiore (luci, toni, ritmi), l’ambientazione
ripetitiva (carceraria, campagnola). Ma pure avvincente. Di tristezza –
compresa la causa di beatificazione, di cui lo spettatore sa dalle promozioni e
dalla presentazione. E ambiguo: si è lasciati con un perturbante unde Bonum, o il senso del martirio.
Terrence Malick, The hidden life, Sky Cinema 2
domenica 23 maggio 2021
Il sacco dei servizi pubblici, ferrovie, sanità
Le ferrovie inglesi ritornano allo Stato. Sembra
una non notizia – come tale è data. Invece è la dichiarazione di bancarotta
della privatizzazione dei servizi essenziali: le ferrovie inglesi, che erano servizievoli,
puntuali e anche vezzose, diventarono subito, alla privatizzazione, un incubo. Sporche,
e irregolari. Senza benefici di prezzo, anzi più cari. Con incidenti gravi anche
in gran numero.
Il fallimento dei treni privati è il primo
dichiarato del lodato thatcherismo. Che è stato, ed è, una barbarie civile e un
sacco. Economico (aziendale, reddituale) e sociale, a danno di chi non può
permettersi un servizio veramente “privato”, cioè costoso. Un altro, peggiore, è
in attesa, nella sanità: la sanità privata non ha ridotto i costi, anzi li ha
moltiplicati, ed è poco salubre, nella pandemia lo ha mostrato in eccesso, per
esempio in Lombardia e in Emilia: non sa fare alcune cose, quele necessarie, e
non sa (non vuole) adattarsi alle emergenze.
La privatizzazione è stata ed è un fatto
ideologico. Che non migliora i servizi, e non riduce i costi. In più casi che
non, ha diffuso il disservizio e moltiplicato i costi. Nel trasporto e la
salute come nell’energia: le bollette sono ipercare.
Allo stesso modo ha funzionato l’outsourcing,
l’altro corno dell’ideologia liberista: l’appalto del lavoro, in service, in consulenza. L’appalto all’esterno
di molte funzioni aziendali – di cui l’Italia ha abusato probabilmente più della
stessa Inghilterra, si veda lo sviluppo abnorme delle partite Iva. Moltiplica
le disfunzioni e non riduce i costi. Il gruppo telefonico WindTre,
ripetutamente multato per milioni da Agcom, l’autorità di controllo del settore, si difende imputando
i disservizi all’imperizia dei call center di cui si avvale.
La gelosa solitudine di Pavese
“Terre aride”, “spiaggia desolata”, Cesare Pavese scende dal treno, “tradotto”,
in manette, a Brancaleone Calabro il il 4 agosto del 1935 (ci rimarrà sette
mesi e mezzo, una calda estate e un brutto inverno), uno dei posti più remoti,
allora, della Calabria, nello sgomento. Ma è una prima impressione, per sottolineare
il lungo viaggio, l’entrata in un mondo altro. Che ha già temperato alle prime righe, dicendosi “felice del mare”, al maresciallo che lo prende in carico
dando “una grande umanità”. Subito il paese gli appare “quasi lieto”, “le prime
case avevano un volto quasi amico”, “cordiale” davanti al “mare tranquillo”. E ha
la visione che avrebbe dovuto essere il nucleo del racconto: “Una casa dai muri
in pietra grigia, con una scaletta esterna
che portava ad una loggetta laterale, aperta sul mare”, “un riquadro luminoso”,
“netto e intenso come il cielo di un carcerato”, “sul davanzale dei gerani scarlatti”, e sulla
scaletta “una certa ragazza”, la Concia.
L’idilio non si conclude – non si sviluppa – e il racconto resta della
routine di un confinato politico che si
nega, rifiuta ogni responsabilità, ogni impegno. E, al fondo, di un senso vago ma
ritornante, anche non di proposito, della vita come di una prigione, con e
senza pareti. E di una “scoperta del Sud” che, senza raggiungere l’intensità del
coetaneo, conterraneo e coevo Carlo Levi (del “Cristo si è fermato a Eboli”,
successivo di un quinquennio alla stesura dal “Carcere, ma pubblicato
tre anni prima, nel 1945 – pubblicato dallo stesso Pavese), sa rappresentare sia “il
profondo Sud” che lo spaesamento e la derelizione del confinato.
Concia l’ingegnere “l’aveva veduta girare in paese – la sola (le
donne non si mostrano, n.d.r.) – con un passo scattante e contenuto, quasi un
danza impertinente, levando sui fianchi il viso bruno e caprigno con una sicurezza ch’era un sorriso. Era una
serva, perché andava scalza e a volte portava acqua”. Il racconto dell’innamoramento di una ninfa
selvatica poi non quaglia – anzi si scioglie nel sordido, lei è proprio una
bestia, una capra. O Pavese ha voluto vivere (rivivere, far vivere) l’impossibilità
del mito, fuori dall’immaginazione poetica. Il suo ingegnere, l’ingegnere nel
quale s’impersona, anzi, fa succube di una donna materna, Elena, in carne,
lattea, che lo accudisce, anche a letto - senza trasporto o riconoscenza da parte sua, solo incertezza e fastidio, il materno è animale.
Resta il racconto, purtroppo ancora una volta in chiave
autobiografica, di uno stato semiallucinato della prigione dentro. Non della
vita come prigione, ma di una impossibilità, personale, frustrante, di viverla.
Un’impossibilità ribadita, con l’insistenza di un leitmotiv programmato. “Pareti
invisibili” gli precludono “ogni contatto umano” – “nessuno si fa casa di una
cella”. Il carcere? “Meglio restarci per sognare di uscirne, che uscire davvero”.
Un racconto del 1938, da leggere alla luce del tradimento da parte
della “signorina” alla cui leggerezza ritiene di dovere il confino, che lo ha
subito abbandonato, come presto scoprirà. Ma che diventa, nel contesto della
vita di Pavese, un’anticipazione dell’incapacità di vivere – dell’inadeguatezza,
oggi si dice. O dell’indattatibilità. Che viene solitamente letta come
impoliticità, incapacità di calarsi nel mondo delle passioni contemporanee, di
militare, di resistere. Ma questa è piuttosto – neanche risentita, o criticata –
la conseguenza di un disagio costitutivo, della personalità. Dietro la plurima intelligenza e l’energia
eccezionale che il poeta, scrittore, traduttore, critico e editore dispiegava. “I
miei racconti sono – in quanto riescono –“, annoterà poco dopo nel “Mestiere di
vivere”, “storie di un contemplatore che osserva accadere cose più grandi di
lui”.
Cesare Pavese, Il carcere,
Einaudi, pp. 144 € 10
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