Sull’origine del corona virus, “la
riconsiderazione giornalistica della storia del laboratorio è l’esito non solo
di nuove informazioni – «The
Washington post» ha pubblicato
cinque articoli sul tema in prima pagina nelle due settimane e mezza passate,
alcuni a seguito dell’inchiesta di 90 giorni che il presidente Biden ha affidato
alle agenzie di informazione – ma di correzione di titoli e di commenti
editoriali introdotti sui servizi giornalistici di un anno fa” – “The
Washington Post”, 10 giugno.
Si correggono i titoli e i commenti vecchi,
rileva il quotidiano, ponendo un problema: era la teoria dell’origine da
laboratorio riconosciuta “falsa”, sia pure erroneamente, oppure si trattava di
cautela eccessiva, e quindi di mancato approfondimento di una traccia che
poteva essere giusta - la manipolazione dei virus in laboratorio è pratica vecchia e diffusa? I media furono quasi tutti per la soppressione di ogni
ipotesi-laboratorio – non per indagini più approfondite, se possibile, ma per il
rifiuto dell’ipotesi come “teoria complottistica”. Solo perché era stata assunta
dal presidente Trump, che aveva proposto un’indagine a quella ora ordinata da Biden. “Lancet”, la bibbia della sanità, pubblicò un proclama di 27
scienziati americani che riducevano l’ipotesi laboratorio a “teoria cospirazionista”.
Promotore della lettera, si è ora saputo, scrive ancotra “The Washington Post”,
il titolare di una società americana che aveva organizzato il laboratorio di
biogenetica di Wuhan.
Con la prima diffusione del covid agli inizi del 2020, il
ronista scientifico del “New York Times” Donald McNeill jr. scrisse di una
teoria sull’origine del virus che lo riportava al laboratorio di ricerca
biogenetica di Wuhan, invece che come un elemento patogeno formatosi fortuitamente
in natura. L’articolo, circostanziato, 4 mila parole, due cartelle abbondanti. non
fu pubblicato dal quotidiano, per problemi di deontologia professionale – “un
disaccordo in buona fede”, secondo lo stesso McNeill, che poi ha lasciato il
“New York Times”.
La storia antica rivitalizzata attraverso
le “storie”, di - attorno a - Aristotele. Su trame vere che sembrano inventate.
Il moralista Demostene è un ladro, del tesoro pubblico. Alessandro Magno un
furbo, oltre che un violento: per il funerale del padre Filippo volle bruciate
armature d’oro – sapendo che il metallo non brucia, e poi si può raccogliere. E
il saggio Aristotele che parte alla ricerca dell’oro.
Aristotele si è occupato di talmente
tante cose che è difficile fargli fare qualcosa di nuovo. Margaret Doody lo ha
mandato a Eleusi, a turbare i misteri, in Persia, in Egitto, e nei meandri della politica, infetta
come ai giorni nostri. Qui, dopo la
morte di Alessandro, i generali se ne contendono l’eredità, e per questo il
cadavere – mentre gli ateniesi riprendono a mugugnare contro i macedoni
invadenti. Chi si appropria del cadavere giusto è il segreto del plot, e
quindi non si può dire – neanche wikipedia aiuta, la storia resta ambigua al
riguardo. Aristotele - poiché di lui si deve trattare, è il genere Doody, anche
se qui appare poco e male - si lascia convincere da uno sconosciuto, apparso al
Liceo vestito d’oro per maggiore inverosimiglianza, che a Filippi i buoni
Macedoni hanno preparato per lui un tesoro, un premio in oro, e il filosofo,
malgrado tutta la sua filosofia, parte alla ricerca.
L’eco è inevitabile del famoso
“ci rivedremo a Filippi”, ma il luogo della battaglia è ben vicino alla Montagna
d’Oro del Pangeo: Filippi è attorniata da montagne d’oro, o almeno da una, il
Pangeo. E l’oro è la forza dei Macedoni, che si sono potuti con esso comprare
Atene – Atene conosceva solo l’argento.
Aristotele è convocato misteriosamente,
ma non troppo, come testimonial, si
direbbe oggi, personaggio famoso per illustrare un evento:, deve onorare il
funerale di Efestione, l’amante di Alessandro Magno. Una comparsata, la sua, con
la commessa anche di un’ode-epitaffio per il giovane – che Aristotele compose
effettivamente… Ma, Aristotele alla ricerca di una “ricompensa”? Un premio in
denaro, quasi un premio filosofico o letterario. Certo, può succedere, per quanto
poco plausibile, o interessante: è quello che succede qui, per moltissime
pagine.
Dai best-seller non si pouò
pretendere tutto, e neanche molto. Però, lasciano sempre più il gusto della
macchina. Della compilazione collettiva, secondo un canovaccio. Mescolando cioè
ingredienti noti per vendere: un po’ di avidità, un po’ di malattia, un po’ di
violenza, qui, alla fine, la gaytudine, con la necrofilia. Si va come per la cucina, per ricette.
Ma si legge questo “Doody” come se fosse un brand,
o un nome collettivo – a parte la conoscenza minuta dell’aneddotica aristotelica,
che è il trademark doodyano originario,
su tutte le possibili fonti, e più sui “Deipnosofisti”. Come una sceneggiatura
senza regista, in cui ognuno degli sceneggiatori introduce un aneddoto o uno
sviluppo. Disinvolto, anche nella misura - sembra una parodia.
Margaret D oody, Aristotele e la Montagna d’Oro,
Sellerio , pp. 488 € 16
spock
“La ragione è opinione”, Montaigne?
La ragione è un vaso a due manici, che si
può prendere a sinistra e a destra?
“Per chi sa troppo è difficile non
mentire”, Wittgenstein?
“I colori stimolano alla filosofia”, Wittgenstein?
“Il linguaggio dei filosofi è deformato
come il piede da scarpe troppo strette”. Wittgenstein?
La filosofia si ripete perché il linguaggio
è rimasto lo stesso?
“La fede che non dubita è una fede morta”,
Unamuno?
“L’uomo è
liberissimo e asservitissimo”, Lutero, “Della libertà cristiana”?
spock@antiit.eu
Dopo l’autobiografia,
“L’Écrivain”, scritta nel 2001, all’arrivo a Parigi, avendo lasciato l’esercito
e l’Algeria nella guerra civile, da “arabizzante” di formazione che ha scelto
il francese per esprimersi, come lui stesso qui puntualizza, una lunga intervista
con Catherine Lalanne. Molto è della vita militare, una gabbia dura, per 36
anni. A partire dai 9, sottratto d’autorità e senza nemmeno una spiegazione dal
padre alla madre e ai fratelli, per confinarlo al collegio dei cadetti. Un
passato e una paternità che tuttora ossessionano lo scrittore. Cresciuto, nelle
poche licenze dal collegio militare e dalle caserme, con una madre infine
ripudiata dal padre, dopo una serie di va e vieni con spose occasionali, e
confinata con i figli a una vita povera in una periferia spersa, sporca. Qui lo
scrittore paga infine un omaggio alla madre, con la quale si fa ritrarre in
grasse risate poco prima della sua morte, che non sapeva leggere né scrivere,
ma per la quale il racconto, ogni racconto, anche di poveri poeti di strada,
era una rappresentazione, cosa viva.
Un libro nato come una
celebrazione, di questo scrittore algerino adottato, tardi, dalla Francia,
Mohammed Moulessehoul, che pubblica con uno pseudonimo femminile, due dei nomi
della moglie, adottato quando cominciò a pubblicare negli anni 1980, essendo
ancora un ufficiale in servizio permanente effettivo dell’esercito algerino (si
congederà nel 2000, ai 35 anni di servizio, collegio compreso, avendo maturato
la pensione, col grado di colonnello), è una resa dei conti con se stesso. Con
un’infanzia che ancora lo turba, tema già di “L’écrivain”. E di più - lui non
lo sa ma il lettore lo avverte – per non sapersi “liberare” del padre, che
tuttora malgrado tutto onora. La figura paterna come la cultura di origine: come
l’Algeria. Dove ha vissuto in prima linea una guerra civile ultradecennale,
violentissima, ma di cui mantiene integro il format culturale – c’è l’innatismo
anche nella cultura. A partire dal matrimonio combinato: quello dei genitori
negli anni 1940, e ancora il suo, nel 1990: “A trent’anni chiesi a mio padre di
trovarmi moglie” – i promessi sposi s’incontrarono solo una volta prima del
matrimonio, e il matrimonio è stato ed è felice.
Non la solita intervista
d’autore, il libro è per questo sorprendente: è come un manuale di antropologia
raccontato dal vivo. Khadra-Moulessehoul è “testimone”, volontario e
attendibile, di una antropologia insieme remota e viva, attuale, vicina.
Riservato, non intende portarsi ad accusatore del suo paese, ma ben informativo.
Di un paese che quarant’anni fa sembrava avviato sulla strada del benessere,
integrato all’Europa, per un dirigismo che l’eredità ancora viva del Fronte di
Liberazione Nazionale manteneva efficace, e si è poi dissolto tra una
corruzione spropositata e il fondamentalismo islamico. Un paese multietnico.
Che ha fatto scelte d’avvenire sicuramente controproducenti, come il
monolinguismo. Ed è uscito dalla guerra civile con i problemi di prima
peggiorati: la corruzione, la borghesia di rapina, il non expedit islamico. La guerra civile lo scrittore sa descrivere
bene in breve, lunga e crudele – basti l’evocazione di Sidi Alì, a Mostaganem,
quando l’1 novembre 1994, alla festa per i cinquant’anni della guerra di
Liberazione, un ordigno ad alto potenziale, nascosto nella tomba di un
“martire” della rivoluzione, sbriciolò, letteralmente, un gruppo di bambini, di
boy-scout.- “quel giorno, sì, avevo perduto la fede”.
È, soprattutto nella prima parte,
un quadro per una volta semplice e diretto della vita degli algerini in Algeria
fino a qualche decennio dopo l’indipendenza, nel 1963 – fino a un cinquantina
di anni fa. La tribù, dei Dui-Menia, dissolta, dopo un’esistenza di sei-sette
secoli, alla sconfitta da parte dei
francesi, quando nel 1903 occuparono anche il Sud Sahara. Insieme con l’onorata
famiglia dei Moulessehoul, parte consistente della tribù. I matrimoni
combinati. Il suo stesso matrimonio combinato, quando era capitano o maggiore e
aveva trent’anni, quindi trent’anni fa. La volagerie
del padre, figura in Algeria onnipotente, a Orano, la città di Camus e degli
elevati ragionamenti della sua “Peste”, non nel profondo del Sahara, che
entrava e usciva dalla famiglia ogni pochi mesi, curioso e insieme stufo di
nuove mogli – fino all’abbandono definitivo della famiglia, da cui continua
però a essere onorato. Un padre a sua volta vittima: “Mio padre non si ricorda
di essere stato un bambino”, orfano presto di madre, con un padre “patriarca
decaduto” con la sconfitta del 1903, votato all’abbrutimento – “mio padre aveva
il sentimento di non essere amato… mio nonno colpevolizzava”.
Interessante anche l’arrivo a
Parigi, appena maturata la pensione militare, nel 2000. In piena guerra civile
in Francia: l’opinione francese era per i fondamentalisti! Lo scrittore difese
l’esercito, spiegando che non massacrava e non torturava, ma tentava di
difendere la democrazia, e fu massacrato: spione, agente provocatore, eccetera.
Dovette tornarsene a Orano, anche se aveva liquidato tutto in Algeria e le
figlie erano alle scuole in Francia. Solo dopo qualche anno fu
“riabilitato”.
Il titolo, il bacio e il morso, è
“il nostro mektub”, spiega lo
scrittore – “la bocca che mi bacia su una guancia mi morde sull’altra”.
Yasmina Khadra, Le Baiser et la Morsure, Pocket, pp.
183, ill, € 7
Una dozzina di candidati, un voto confuso di
cui ancora si aspettano gli esiti, ma con una caratterizzazione precisa: alle
primarie del partito Democratico per il sindaco a New York c’è il candidato dei
neri, degli asiatici, dei latini, degli italo-americani, dei gay, delle donne, dei
“latini”, degli ebrei, e di altre “minoranze”, cioè di gruppi ristretti e bene identificati.
Le primarie sono essenzialmente una
mobilitazione di gruppo. Politico principalmente ma, in America, con non impercettibili connotazioni
etniche. A New York Eric Adams, che sicuramente avrà vinto le primarie
Democratiche, ed è anzi già quasi sindaco, è quello che è riuscito a mobilitare
e compattare la comunità afroamericana della città. Come il sindaco uscente De
Blasio, portato su alle primarie dalla comunità italo-americana.
Farsi maggioranza con le primarie, questa è le
verità dello strumento cardine - che si ritiene cardine - della democrazia:
vincere sfruttando le divisioni all’interno dei partiti, e la compattezza dei
sottogruppi: le primarie non sono determinate dalla più larga adesione ma dal
gruppo più compatto. Gruppo politico-personale come in Italia, le “correnti”. O
anche etnici come in America.
È il segreto del successo di Renzi, persona e
gruppo politico estramemnte minoritari che però, con la compattezza, hanno
dominato il Pds a Firenze per quasi vent’anni ora, e l’Italia per tutta la
passata legislatura. A Roma Gualtieri vince con gli zingarettiani – senza cioè
i lettiani. Diventa il candidato del Pd, e quindi andrà al ballottgaggio. E
solo dopo mostrerà le sue capacità, se ne ha. Renzi diventò il candidato Pd a
sindaco di Firenze mobilitando alle primarie i (pochi) voti ex Dc contro gli ex
Pci, divisi fra tre candidature. Lo stesso meccanismo ha applicato poi a
livello nazionale, nelle primarie per segretario Pd (ora, a Bologna come probabilmente altrove, gareggiando cioè alle primarie PD da fuori del PD, concorre solo a una pubblicità gratuita).
Una salda comunità, minoritaria ma unita, politica o etnica, è la via
per diventare maggioranza, entro un corpo più ampio ma non altrettanto coeso. Da qui le insofferenze, dentro i partiti e dentro le
nazioni, delle cosiddette maggioranze silenziose. Un sistema divisivo, questo
delle minoranze che si impongono, invece che unificante, come la politica (si)
vorrebbe. Delle minoranze s’intende che si difendano: le costituzioni si sono affermate
essenzialmente a questo fine. Con le primarie – in politica - diventano maggioritarie.
E, nella vecchia posizione, ideologica e psicologica, della minoranza da
proteggere, assolutiste: niente compatta una comunità più dei “diritti” da
imporre.
È il tema e lo snodo, oggi in Italia, della
legge Zan.
La
Procura di Agrigento chiude quattro anni di indagini sulla società pubblica
dell’acqua, la Girgenti Acque, quando finalmente può rinviare a giudizio,
insieme con 82 altri imputati, le eccellenze Pitruzzella, il presidente dell’Antitrust,
nientedimeno, e Micciché, il presidente dell’Ars, l’assemblea regionale. Non
per una colpa precisa, per reati che abbracciano tutto il codice: contro la Pubblica
Amministrazione, l’ambiente, la fede pubblica e il patrimonio. Torna così in piazza
il Procuratore Patronaggio, che già ci aveva provato con Salvini. Non senza ragione:
non resterà uno sconosciuto.
Un
rinvio a giudizio anche incoraggiante: che nella provincia di Agrigento non ci
siano altri reati.
Fedez
contro il papa? Beh sì, in Italia sì. Si legge strabiliati monsignor Galantino,
persona pure colta, polemizzare con Fedez. Fedez? Uno che sa tutto delle finanze
del Vaticano e conduce una campagna contro. Fedez? È l’Italia: non c n’è altra,
e anzi vi si riconosce.
Si legge strabiliati delle cifre che Al
Khelifa al Paris Saint-Germain paga annualmente ai calciatori, pur vincendo
poco e niente, una coppa Intertoto e alcuni, pochi, campionati e coppe Francia:
12 milioni a Donnarumma, 15 a Sergio Ramos, 35 ani, dieci al ventenne Hakimi,
dieci a Wijnaldum, trent’anni - oltre ai
36, da alcuni anni, ogni anno, a Neymar, che spesso è infortunato, nemmeno venti gol a stagione. Fair play finanziario?
I Khelifa sono padroni del Bahrein, ma uno
Stato patrimoniale, in epoca democratica, è titolo di merito o di demerito?
Pino Sarcina sulle barricate informa i
lettori del “Corriere della sera” che i repubblicani in 14 Stati hanno fatto
leggi elettorali per impedire ai neri di votare. Perbacco! Poi spiega che un
senatore Democratico, Joe Manchin, “il più moderato dei Democratici”, ha proposto
un compromesso ai repubblicano, accettando che l’elettore debba esibire un “documento
di identità”. Perbacco, una contro-rivoluzione! È giusto votare così, come
capita, mettendosi in fila?
Inghilterra e Galles si mettono in ginocchio all’Europeo di calcio, secondo la moda
americana, contro il razzismo. Per ipocrisia, ma anche per giusto senso di
colpa, il loro essendo un mondo dove si picchia il nero, e anche l’arabo, e l’ebreo,
così per spasso. Purché isolati, certo.
Non si inginocchiano molti atleti italiani,
perché non hanno un senso di colpa. Non si sentono razzisti. Né l’Italia, pur
avendo avuto l’Eritrea e l’impero, si fa colpa del suo durissimo colonialismo -
e comunque è cosa di ottant’anni fa, etc.. È giusto o è sbagliato?
L’antirazzismo, certo, vorrebbe qualcosa
di diverso che le coreografie.
Il giudice Cantore in campo contro la
Juventus per l’esame farsa al calciatore Suarez ha con sé i due terzi degli italiani,
gli anti-juventini, e nessun senso del ridicolo. Questo giudice è stato creatore
e capo dell’Autorità anti Corruzione. Dove non ha avuto mai sentore di quante
migliaia, decine e forse centinaia, di migliaia, di “italiani” d’A merica,
perché una trisnonna aveva sangue italiano, beneficiano della pensione sociale.
E che altro delitto (non) è successo a Perugia in questi dodici mesi?
In
Italia le retribuzioni sono mediamente più basse che in Germania, Francia,
Benelux, e il lavoro in nero tollerato, ma gli investimenti esteri non arrivano
in Italia a preferenza che negli altri Paesi. Per la burocrazia e la giustizia,
come si sa. E per la produttività del lavoro – degli investimenti non fatti nei
passati decenni, nella formazione, negli impianti. Draghi lo spiega nell’introduzione
al Pnrr, per il Recovery Fund, ma a nessun effetto: “Dal 1999 al 2019 il pil
per ora lavorata in Italia è cresciuto del 4,2 per cento, mentre in Francia e
Germania del 21,2 e del 21,3 per cento”. L’Italia resiste come territorio, cone
bene “naturale”.
“Era
il 2013 quando il Senato, con voto quasi unanime, si espresse a favore del
cosiddetto «metodo Stamina»”. Un stupidità, e una follia, ricorda la senatrice
Cattaneo su D”. Stamina, cioè “poltiglie di cellule”, somministrate da
ciarlatani. “Senatus” sempre “mala bestia”? “Il mese scorso il Senato ha reiteato,
con un solo voto contrario”, il suo, della senatrice a vita Cattaneo, promuovendo
l’“agricoltura biodinamica”, che non si sa che cosa è ma è stata inventata
dall’esoterista svizzero Rudolf Steiner. In effetti, la democrazia in Italia
risulta sempre un po’ esoterica: buffa, ma male non fa.
“La
Repubblica”, diretta dall’ex corrispondente a New York Molinari, ha due pagine
di politica estera venerdì 18 giugno. Quella pari, “di giro, meno visibile, è
sull’Iran che vota lo stesso giorno e torna, si sa già malgrado il voto, al
regime ayatollah duro, quella dispari, più visibile, anche eprché piena di donne
nude e di donne-macho, è dedicata a Victoria’s Secret, una ditta americana di lingerie, una pubblicità. Poi dice che
non si compra più il giornale.
Vertici
a Sette, vertici Nato, vertici bilaterali, Biden sollecita gli europei alla guerra
contro la Cina. Ma si dimentica di Hong Kong.
Si
fa grande caso degli Uiguri, la minoranza cinese mussulmani di cui invece i
mussulmani non fanno grande caso, e di cui poco si sa, se magari non sono
schierati col regime di Pechino invece che perseguitati. Mentre l’occupazione
di Hong Kong, contro tutti i trattati dalla stessa Cina sottoscritti, col
carcere per chi osa protestare, quello si trascura. Biden non vuole essere preso
sul serio – il business prima di
tutto (l’America non ha inventato la globalizzazione per niente)?
Proposto imperativamente da Paolo
Rumiz già nella “Leggenda dei monti naviganti” del 2007, e ora nella prefazione
di questa riedizione, quale scrittore “maestro di sobrietà”, anzi di “frugalità
letteraria” – “qui è difficile trovare
una parola di troppo” – autore di un racconto che “vi prenderà fin dalla prima pagina”,
“uno dei più grandi libri di viaggio di sempre”, e di “quei libri cui non è
possibile aggiungere nulla e che hanno raggiunto la perfezione”, forse per
questo è di lettura improba. Ma “aggiungere” non si vede perché, perché il racconto
non si fa mancare nulla, a parte la misura.
A giugno del 1953 Bouvier, 24
anni, ginevrino di buona famiglia, calvinista, lascia la sua città, dove ha studiato
sanscrito, storia medievale e diritto, a bordo di una Fiat “Topolino”,
raggiunge a Belgrado il quasi coetaneo pittore Thierry Vernet, e con lui intraprende
un viaggio di un anno e mezzo fino al kiplinghiano Khyber Pass, attraversando
l’ex Jugoslavia, l’Anatolia, il Nord dell’Iran (Tabriz), il Pakistan pashtun (Quetta), l’Afghanistan, fino a
Battriana, oltre l’Oxus, dove archeologi francesi cercano la città di
Alessandro Magno. Ha già esperienza di viaggi, brevi, in Francia, Algeria e
Jugoslavia. Ne farà dieci anni dopo,
pubblicandolo a spese d’autore, questo racconto. Di avventure per lo più
pratiche, legate all’attraversamento di fiumi, spesso esondati, quindi a guado, dopo aver svuotato la
Topolino della batteria e altre parti elettriche, o di montagne, su per le
quali bisogno spingere la Topolino più che esserne trasportati. La capacità
aneddotica emerge qua e là, nelle figure anonime che il giovane Bouvier incontra,
tutte per qualche verso poco regolamentari. Ma come seppellita di proposito sotto
la moltiplicazione del dettaglio, non sempre significante. Che si tratti di persone,
di etnie, serbi, bosniaci, armeni, curdi, beluci, pashtuni, di lingue, di
canti, di cibi.
A Bouvier si accredita per questo
“La polvere del mondo” un misto di cose
viste, singolarità (personaggi, situazioni), e cultura, letteraria,
linguistica, storica, geografica, sociale. Ingredienti che ci sono, ma
annegati. L’edizione Diabasis, una dozzina d’anni fa, con prefazione di
Starobinski, altro ginevrino, lo conteneva in metà delle pagine. Gli editori
dell’ebook lo propongono come un viaggio, più che altro, alla scoperta di se
stessi, come sarà poi “Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta”
di Robert M. Pirsig, e questo è già più vero.
“La polvere del mondo” fu
pubblicato nel 1963, in Francia, a spese d’autore. D’immediato successo ma solo
in Francia. Recuperato cinquant’anni dopo, è stato paragonato, chissà perché,
all’“Odissea”, e a “Moby Dick”. Forse da qualcuno che non l’ha letto.
Si legge oggi come un libro di avventure,
modeste. Un libro forse documentario, ma di un mondo passato. Lo stesso Rumiz
spiega che, tornato a Prilep in Macedonia un Ferragosto da fervente bouvieriano,
ci ha trovato “un buco polveroso”, dove non c’è motivo di fermarsi, “perso tra
alture brulle e minareti, con un fiumiciattolo torbido”. Quindi nemmeno
documentario. L’entrata in Afghanistan attraverso il Khyber Pass si vorrebbe
epica, ma il passo è alto appena mile metri, resta evocativo se legato ai
racconti di Kipling – alle disfatte degli inglesi.
Si legge oggi come un libro di
avventure, modeste. Sei mesi a Tabriz. Ma perché bloccati dalla neve. Senza
niente da fare, eccetto che guadagnarsi da vivere, suonando al piano bar. Gli
Armeni. Mossadeq. Ma niente che non si sappia – poco in realtà. La rottura di un
pistone. I grassi mercanti attratti dagli stranieri – europei non ricchi, non
potenti. In Turchia “la penetrazione della polizia” colpisce – perché oggi è
com’era ieri.
Con qualche pezzo di bravura. La
lettura della “Bibbia deli Assiri”. O a Mahabad, Curdistan iraniano, sotto il
lago di Urmia, la pensione-prigione: Bouvier e Vernet debbono, cioè possono, dormire
e mangiare in prigione perché due stranieri senza mestiere sono naturalmente
sospetti, al capoposto locale di polizia – che così se ne può gloriare. E in
coda: “In Iran niente è impossibile”, tutte le notizia sono buone, anche se
improbabili o false - “l’anima ha molta latitudine, per il meglio come per il
peggio” (ma anche qui, conoscendo l’Iran, una domanda s’impone: che Iran
Bouvier ha conosciuto, in Iran la memoria è lunga, perfino troppo).
L’edizione Feltrinelli riproduce
quella de “La Découverte”, con le llustrazioni di Vernet.
Nicolas Bouvier, La polvere del mondo, Feltrinelli, pp.
432 € 19
Giuseppe Leuzzi
Gianfranco Ulisse, classe 1948, fondatore dell’azienda vitivinicola Crecchio, ricorda del Montepulciano d’Abruzzo quarant’anni fa: “Era tutto molto diverso. Il vino era un alimento, il consumo locale. Ma nulla ci spaventa, nemmeno quel Montepulciano scuro e denso”. Detto “l’inchiostro” - si può testimoniarlo. Uno dei vini oggi più venduti, il
“rosso” di Roma.
L’Abruzzo è certo favorito dalla vicinanza col grande mercato di sbocco che è
Roma. Ma pur non avendo gli asset vinicoli di varietà e qualità della Sicilia e
della Puglia non ha aspettato gli imprenditori veneti e lombardi per
valorizzare il poco che aveva.
Difficile non vedere il razzismo dei londinesi del Tottenham contro Gattuso
allenatore. Sì, siamo tutti omofobi, etc., eccetto chi denuncia, ma il motore dei social contro
Gattuso è il “Ringhio” milanista che risponde agli insulti del loro Jordan
abbattendolo.
Il razzismo è subdolo: quelli del Brexit che si fanno campioni
dell’antirazzismo lo praticano naturalmente al quadrato – i neo inglesi figli
di immigrati e non solo.
Jumpha Lahiri, la scrittrice indo-americana di successo che ha scelto l’Italia
e l’italiano per una “rigenerazione”, ha nel suo secondo libro
italiano, “Dove mio trovo”, il potere liberatorio dell’isolamento. Anche di
essere stranieri in patria – questo si nota di più nella traduzione
dall’italiano in inglese, che la scrittrice non ha fatto da sé, ha voluto
professionale. C’è anche libertà nell’emigrazione.
Al Concorso Sud, per competenze informatiche e digitali, in grado di
gestire il Recovery Plan europeo, un candidato su tre degli ammessi non si è
presentato alle prove – in alcuni posti uno su due. Se ne trova la ragione nel
fatto che il concorso non dà “il posto” alla Checco Zalone, il posto a vita.
No, il concorso garantisce comunque una buona retribuzione, e solido titolo di
curriculum. Il fatto è che molti non hanno le competenze richieste. Hanno il
titolo di studio ma non le competenze che le prove di concorso prevedono. Il
posto pubblico al Sud è ancora quello del laureato in legge che insegna
inglese.
Si sono fatte indagini scrupolose, lunghe, dettagliate, sulla trombosi che ha colpito
una giovane di Sestri Levante alcuni giorni dopo la vaccinazione con
AstraZeneca. Che non si sono fatte per i primi morti dopo analoga vaccinazione,
i tre giovani militari e una giovane in Sicilia, quelle morti accantonando
sotto la frequenza statistica, bassissima. Non è un diverso trattamento, legale
e medico, tra Nord e Sud – lo è, ma ininfluente. È un altro approccio alla
vita, e alla morte.
Il Piemonte non ha
canzonette, spiegava Libero Novara, “Bero” per Pavese, “Berin” per gli amici di
Torino, da Parma allo stesso Pavese in una lettera del 25 gennaio 1931: “Quando
mai il Reale Piemonte ebbe una poesia dialettale che valesse
uan cica?” Qualcuna sì, ma adattata: “Qualcuno di loro (dei “nostri
nonni… i nostri barabba”) ha fatto il soldato nel meridionale, ha
sentito canzoni e stornelli…le ha importate e qui furono presto adottate”.
Nell’unità il Sud qualcosa ha apportato.
I banditi stanno al Sud
A Mahabad, tra i curdi dell’Iran, non c’erano briganti. Ma le storie di
briganti, spiega Nicolas Bouvier, “La polvere del mondo”, il racconto delle sue
peregrinazioni nel 1953, “fornivano un pretesto comodo al mantenimento di una
guarnigione importante. Gli ufficiali li illustravano compiaciuti, e li
esibivano al bisogno con arresti arbitrari”. Non s’inventa niente?
Il comandante dello Scico, Servizio centrale d’investigazione slla criminalità
organizzata, della Guardia di Finanza, generale Alessandro Barbera, denuncia
sul “Corriere della sera” ‘ndrangheta e camorra come quelli che si sono
appropriati i fondi pubblici contro il coronavirus – “Così le cosche hanno
sfruttato la pandemia”. Uno “sfruttamento” che ha visto in corsa migliaia di
operatori, più o meno improvvisati, tra essi anche una ex presidente della
Camera.
‘Ndrangheta e
camorra si sono approfittati più degli altri? Kit speciali, ventilatori polmonari, pillole miracolose, anche da 600 euro, oltre a mascherine a decine di milioni e gel igienizzanti privi di qualsiasi requisito, migliaia, decine di migliaia di truffe, tutte milionarie, opera di cinesi e di padani, anche di toscani, non mafiosi quindi per definizione, scoperti quasi tutti peraltro dalla Guardia di Finanza. È l'organo che crea la funzione - tante autorità antimafia tanta mafia? Giustamente, il generale dello Scico ingrandisce le mafie.
Come già il sindaco Marino, che si era applicato far lavorare i Vigili Urbani
di Roma, il pro-assessore ai Parchi Pubblici della capitale, principe Marco
Doria, che voleva liberare gli immobili occupati (e ceduti in
affitto…) nella Villa Doria Pamphilj, è andato sotto tiro. Questa volta con le
minacce dirette, benché anonime, e le bombe. Ma naturalmente non c’è mafia a
Roma, né tra i Vigili né tra gli addetti ai Parchi, la mafia è meridionale.
“Una tonnellata di cocaina tra le banane. Ennesimo maxisequestro a Gioia
Tauro”. Grande l’annuncio, ma senza dire se a Gioia Tauro i sequestri si fanno e
altrove no, a Rotterdam, Amburgo, Anversa, Marsiglia. Perché, da dove entra la
cocaina a in Europa?
E non si dice a chi era destinato il carico di banane con cocaina: sicuramente
non alle ‘ndranghete (l’avremmo saputo).
Basta il nome
La Regione ha fatto una gara europea per il trasporto pubblico regionale
sei anni fa, e solo ora, dopo sei anni, la gara va a buon fine. In questi sei
anni i finanziamenti europei per il rinnovo ecologico dei mezzi di trasporto si
sono perduti. Il servizio è andato avanti rappezzato, con mezzi vecchi e
concessionari scaduti.
Si continua a morire per l’amianto. Anche in grande azienda multinazionale, la
Solvay.
Il portale regionale del vaccino anti-Covid accetta solo prenotazioni per gli
over 60. Non si sa quando aprirà alle prenotazioni per il resto della
popolazione, come in tutta Italia.
Tra medici e infermieri sono almeno settemila persone nella sola Asl Centro,
una delle tre regionali, i cosiddetti camici bianchi “no vax”.
Siamo in Calabria? No, in Toscana: è la lettura di un giorno del “Corriere
Fiorentino”, un inserto locale di poche pagine del “Corriere della sera”.
Le altre notizie del giorno. A Firenze centinaia di persone devono dormire per
strada, accatastate malgrado il covid, per riuscire l’indomani, forse, a
raggiungere lo sportello per i permessi di soggiorno.
“Rischio continuo” sulla Fi-Pi-Li, l’autostrada Firenze –Pisa-Livorno - in
effetti, stretta e tutta buche (non da ora, per la verità, già trent’anni fa
era così). Ma anche l’autostrada Firenze-Mare, ribitumata, è un “rischio
continuo”, stretta, tuta curve - una specie di Salerno-Rc vecchio tracciato al
quadrato.
Saltano a decine le corse dell’Ataf, l’azienda comunale fiorentina dei
trasporti: autisti sottopagati, con contratti a termine, oppure forniti da
agenzie di amministrazione del lavoro e (finte) cooperative, non si presentano
la mattina. “Alcuni non si presentano neanche il giorno dell’assunzione”,
secondo un sindcalista.
Al Forte Belvedere di Firenze si può tenere una mostra fotografica, intitolata
“Beach Stories”, in cui Massimo Vitali è bravissimo a fare scogliere
e spiagge di sabbia di sogno, con bagnanti rari, iperdistanziati, e acque
celestine, ove invece la copertura è totale di ombrelloni degli stabilimenti,
non un metro è libero, e le acque, benché certificate da Bandiera Blu per
congrua promozione, sono ovunque grigie e sporche – questo non lo dice il
“Corriere Fiorentino”, si vede.
Lo stesso giorno “La Nazione”, il giornale storico di Firenze e della Toscana,
può celebrare: “La Toscana è tornata a essere la terra dei vip. Nella stagione
post Covid non badano a spese”. La foto mostra “una fila di Lamborghini e
Ferrari accanto al Grand Hotel Principe di Piemonte a Viareggio”. È un raduno,
ma non importa: Toscana, basta la parola – e la Storia, naturalmente.
I pentiti fallirono in trasferta
Il film di Bellocchio su Buscetta che si rivede su Rai 1 trascura un
episodio che pure avrebbe figurato nella sceneggiatura con più risvolti,
drammatici e anche comici: la trasferta dello stesso Buscetta, con Mannoia e
Mutolo, a New York, nel 1993. I tre, portati al processo per traffico di droga
e omicidio a carico dei fratelli Gambino riuscirono a far annullare il
processo. La giuria, dopo nove giorni di consiglio, riferì al giudice di non
poter decidere. Con questa motivazione: “Nessuno dei testimoni era credibile”.
Mannoia e Mutolo erano stati portati al processo dall’accusa, Buscetta dalla
difesa. Buscetta fu più abile: riuscì a screditare Mannoia e Mutolo. Il
Pubblico Ministero Pat Fitzgerald lo disse “non completamente credibile”, per
via dei suoi “precedenti non confessati” in sede di pentimento. Ma riuscì a
insinuare il dubbio nella giuria.
A New York erano altri i criteri di valutazione. Meno generosi. Meno politici –
è la debolezza-forza del giurato popolare: non vuole sulla coscienza un
verdetto errato. Claudio Lindner così descriveva Buscetta al processo, pochi
mesi dopo la strage di Capaci e la morte del giudice Falcone, che aveva
garantito per lui: “In forma smagliante. Da far invidia. Rilassato, abbronzato,
capelli neri e folti (veri o finti? Difficile dirlo…), doppiopetto blu,
cravatta con pochette al taschino, l’aria da manager fresco fresco di
Caraibi”.
Bellocchio ha trascurato anche un altro elemento altrettanto teatrale – ma
forse contestabile: che Buscetta era un informatore dei servizi segreti.
L’accusa era venuta lo stesso anno, il 28 aprile, dal senatore Carmine Mancuso,
della Rete, il gruppo politico palermitano creato da Leoluca Orlando in
funzione antimafia. Mancuso, ex poliziotto ed ex presidente del Coordinamento
antimafia di Palermo, disse di averlo saputo da suo padre, Lenin Mancuso,
maresciallo di Polizia, assassinato nel centro di Palermo a settembre del 1979,
insieme con il giudice Cesare Terranova. Buscetta collaborava con i servizi
segreti “dai tempi del Sifar del generale De Lorenzo”, imputato del golpe
“Solo”, spiegò Mancuso. Aggiungendo: “Tutto ciò che ho detto non lo posso
dimostrare perché dopo la morte di mio padre i suoi appunti furono rubati”.
Milano
La città degli untori la vuole Stajano, nel libro-saggio omonimo che si
ripubblica. Senza malanimo, né il solito polemismo. La città non della peste,
degli untori. È come diceva Malaparte, che Milano butta sempre gli avanzi di
sotto.
Il suo sogno di dirigere un corpo di ballo Carla Fracci lo ha potuto dirigere,
ma a Roma. Dove fu per dieci anni, ma con la testa sempre a Milano. Alla Scala, che aveva reso
illustre, dove invece non la vollero. La stessa Scala e la stessa Milano che he hanno celebrato in pompa
commossi la morte.
Ipocrisia? No, è la maniera d’essere: appropriarsi anche dei cadaveri, se
rendono.
Una teoria vuole che Carla Fracci non abbia avuto la direzione del corpo di
ballo della Scala perché di sinistra, in epoca leghista. Fracci non si ricorda
in politica per nessun fatto o evento. Ma, pare, abbia festeggiato il 25
aprile.
Lo stesso allora che il maestro Muti, cacciato dalla Scala perché “di destra”.
Muti pare festeggiasse il 4 novembre – o forse solo il 2 giugno.
La verità è che la città è indifferente, e la politica povera - da ringhiera,
opportunista.
Soffre di black-out elettrici in continuazione, una decina in questa ultima settimana, alcuni anche prolungati, fino a due giorni, per la rete insufficiente che la utility cittadina non rinnova. Con danni ingenti alle attività alimentari e della conservazione che non dispongono di un generatore autonomo. Ma di questo non si parla, non si legge: non fa notizia.
Rumiz ancora nel 2007 (“La leggenda dei monti naviganti”) lega la Lega alle
“valli del Norditalia”. Ma la Lega è da tempo – era stata – Milano, il
quartiere dei più ricchi e intellettuali d’Italia.
“Un grosso proprietario di Milano era Carlo Emilio Gadda”, per l’insegnate di
Lettere del liceo di Marcia Corti, “Il ballo dei sapienti”, “che si prendeva il
fiorfiore, dal politecnico alla Fiera di Sinigaglia, alla Certosa di Garegnano:
qualche volta anche col ghiribizzo di fare quattro passi insieme al
Petrarca «sino a tre miglia milanesi dalle mura»: un passeggio che andava a
sfociare nell’eterno”.
“La gente a Milano non guardava né il cielo né gli alberi”, la milanese Maria
Corti fa riflettere a un suo personaggio del “Ballo dei sapienti”: “Per
guardarli usciva di città, il sabato e la domenica”. Questo negli
anni 1960, quando c’era la nebbia. Ma l’uso è lo stesso oggi.
Milano, anche, sapeva nel romanzo scolastico di Corti, di petrolio: “Molto
odore di petrolio in piazza Sei Febbraio, in via Vincenzo Monti, odore di petrolio
in corso Sempione, odore di petrolio in tutta l’aria”. Di “petrolio e affini”,
fa dire Corti spiritosissima, da riscaldamento, raffreddamento, auto in corsa,
o imbottigliate: “L’odore combinato di petrolio e affini entrava anche negli
appartamenti, sicché la città poteva dirsi, quanto agli odori, una efficiente
superautorimessa”. Questo è vero anche oggi, che “le raffinerie del Pero” non
ci sono più.
leuzzi@antiit.eu
Ironia, raffinatezza, insolenza.
Capace di trasformare il furto in opera d’arte. Una caricatura del giallo: Lupin
è esteta alla D’Annunzio, conquistatore di donne alla Casanova.
Una serie di parodie ironiche. Una lettura a tempo perso - si può sempre riprendere, non lascia insonni. Contiene le storie: “Arsène Lupin ladro gentiluomo”, “Arsène Lupin contro
Sherlock Holmes”, “Le confidenze di Arsène Lupin”.
Ritradotto da Giuseppe Pallavicini
Caffarelli.
Maurice Leblanc, Lupin ladro gentiluomo e altre storie,
Einaudi, pp. 550 € 13,50
Per un po’ il gruppo ballerà
da solo: il nuovo ad di Unicredit, Andrea Orcel, punta in questo suo primo
bilancio alla pulizia radicale dei conti, a partire dagli npl che ancora pesano,
i crediti incagliati, prima di pensare a un diverso perimetro del gruppo, con
fusioni e\o acquisti\cessioni.
Il cambio di gestione nel
gruppo bancario è stato messo in realzione col riconcentramento del settore
bancario, dopo l’allargamento di Intesa con Ubi, e in conseguenza del lockdown
dell’attività economica. Col gruppo Unicredit coinvolto in progetti di fusione,
con Mps o con Bpm.
Nulla di questo Orcel ha
prospettato al suo management. Ma una severa pulizia dei conti: vuole partire
senza pesi morti.
C’è incertezza in Exor sull’aumento
di capitale prospettato dalla Juventus, di 400 milioni entro l’anno. Un apporto
di capitale di poco meno, 300 mililni, si rileva, un anno e mezzo fa, è stato
bruciato senza nessun miglioramento nei conti.
Il bilancio è in peggioramento
grave, verso una perdita a luglio di 150 milioni. Il debito va per i 400
milioni, in forte aumento. A fronte di ricavi in calo: il fatturato si
restringerà a giugno – su un 2020 che già non era cresciuto. A coronamento di
un anno senza più risultati redditizi, né in Champions League né in campionato.
La finanziaria degli Agnelli
sconta l’effetto Covid, che il club fa valere. E resta forte il legame tra i
due cugini, John Elkann, a capo di Exor e stratega del gruppo, e Andrea Agnelli,
un asse che ha consentito una tranquilla e proficua successione dopo la morte di
Gianni e Umberto Agnelli, che invece avevano avuto parecchi contrasti. Ma la
Juventus, che la Famiglia pure considera una sorta di blasone, irrinunciabile, pesa troppo nell’attuale gestione. Che ha
prodotto risultati sportivi di alto livello – anche se manca il trofeo più
agognato, la Champions League. Ma un modello di gestione all’evidenza, per più
anni, fallimentare.
zeulig
Altruismo – “La forma
tipica dell’egoismo che supera se stesso”, è deduzione di Lou Andreas Salomé,
“Riflessioni sul problema dell’amore”. Che si realizza meglio – più compiuto,
più proficuo – espandendosi. Si vede, con esito pratico coerente, nei volontari
delle onlus che assicurano il soccorso in mare alla tratta degli emigranti, E
con esito nullo o avverso nei volontari missionari all’avventura in Africa.
Amore – È ancora al tempo delle amebe? L’amore psichico Lou
Andreas Salomé riscontra (“Riflessioni sul problema dell’amore”) famosamente
sulla congiunzione delle amebe: “Le
amebe si accoppiano e riproducono
premendosi l’una nell’altra, fondendosi in modo assoluto in un unico essere e dividendosi di nuovo in amebe figlie”. Noi
non lo possiamo in ambito fisico: il corpo, avendo raggiunto un alto grado di
differenziazione, concede solo una piccola
parte al processo riproduttivo. Ma nell’ambito psichico, “troviamo stranamente
più degno di noi il punto di vista delle amebe”. Anzi ideale, superiore.
“È come
se la nostra differenziazione psichica fosse rimasta indietro rispetto a quella
fisica”, continua Salomé. O non più avanti? Che sia tornata alla
identificazione dopo essersene allontanata, per lungo tempo e in tutte le
civiltà, nella differenziazione dei
sessi, e delle età della vita, con relative funzioni? Tornata col romanticismo,
e la vita di coppia in appartamento (in ambito ristretto), nell’età dell’umidità
direbbe Virginia Woolf di “Orlando”, quando si misero i vetri alle finestre, e
tendine ai vetri. C’erano uxoricidi, anche sotto forma di suicidi indotti
(tanto poetici tra Sette e Ottocento), questa forma di identificazione prima
che di possesso, in precedenza? Non nei registri.
Corpo – Nelle leggi oltre che nel catechismo è
bestia da museruola. E il solo modo di essere, quello corporale, degno di rilievo in materia di colpa:
l’assassinio, come il peccato, è del corpo più che della mente – anche se si
pratica con minore frequenza, probabilmente, della violenza psichica. Nel rifiuto
cenobitico o eremitico del corpo, il santo si figura protetto e quasi monumentalizzato
dall’isolamento, come se i pensieri che l’isolamento affolla fossero tutti
belli-e-buoni. Può non essere così, anzi è più facile che non lo sia, ma il
pensiero così vuole.
C’è una
distinta funzione – e attività – tra corpo e spirito? Un distinto corso della
storia, tra pensiero e azione, che si ricompatta (razionalizza) ex post? Un modo
di essere fisico autonomo dal pensiero, dalla riflessione? Sì, c’è il mondo che
s chiama istintuale. Che poi normalmente la ragione interviene a correggere
(correzione), a sanare. Con effetto espansivo o riduttivo?
E c’è un
corpo distinto dall’animo, dallo spirito? L’effetto psicosomatico indotto da se
stessi: sicurezza come incertezza, malinconia, delusione, depressione, come
entusiasmo.
“Il
corpo è il potere più conservatore”, Lou Andreas Salomé, “Riflessioni sul
problema dell’amore”, “e molto s’imprime lentamente in esso per poi scomparire,
con altrettanta lentezza”. E superficialmente?
Potere
non sarebbe la parola giusta: il corpo è un recettore.
Dialetto – “Il dialetto è sottostoria”, C. Pavese, “Il
mestiere di vivere”, 11 marzo 1949: “L’ideale dialettale è lo stesso in tutti i
tempi. Il dialetto è sottostoria”. La lingua è “entrare nella storia”: “Nel
dialetto non si sceglie - si è immediati, si parla d’istinto. In lingua si
crea”.
È un più
e un meno nell’analisi di Pavese, che pure visse, volle vivere e scriverne, una
realtà “dialettale”, di provincia, di campagna. Come forma verbale riduttiva,
come forma espressiva ricca: “Beninteso il dialetto usato con fini letterari è
un modo di far storia, è una scelta, un gusto, etc.”.
Linguaggio – “Noi lottiamo
contro il linguaggio”, è tema ricorrente di Wittgenstein (qui nei “Pensieri
diversi”), filosofo che si può dire del linguaggio. Lotta impari, allora, e interminabile,
poiché il linguaggio è flessibile, sfuggente.
Ma, poi, c’è altro linguaggio che il nostro, quello che dall’acciarino in poi
si è venuto accumulando – stratificando certo, quindi un po’ nascosto, un po’ emergente,
e illuminato variamente.
Lo stesso Wittgenstein riflette subito dopo che “la filosofia non fa
mai un vero progresso, che ancora ci occupiamo degli stessi problemi filosofici
di cui si occupavano già i greci”, perché “il nostro linguaggio è rimasto lo stesso,
e ci seduce di continuo verso gli stessi interrogativi”. Il linguaggio evolve
lentamente. La storia, la parabola storica, è breve. Da qui la sensazione del
pensiero in surplace - come si
direbbe nel ciclismo su pista, dove ci si rincorre stando fermi, un istante più
dell’altro.
Orrore-Terrore – L’orrore spaventa, il terrore respinge. L’orrore è mentale, il terrore è corporeo fisico. L’orrore è una relazione e una scena, della riflessione
che interagisce con un ambiente. Il terrore riprende e sconvolge l’immaginazione,
non ne è governato.
I termini sono interscambiabili in letteratura spesso. P.es. parlando
di Poe, i cui racconti sono “capolavori del terrore” o “racconti dell’orrore”
indifferentemente. Mentre lo scrittore li intitolava “Racconti del Grottesco e
dell’Arabesco” – per sfuggire alla maledizione della letteratura di consumo, a
sensazione, fuori già allora, dal mainstream,
ma non senza ragione: ben scritti, i racconti anche dell’orrore sono pur sempre una
forma d’intrattenimento, di evasione – sono “grotteschi”, è la parola giusta.
Platone – “Leggendo i dialoghi socratici si ha
questa sensazione: che terribile spreco di tempo!”, è sfogo di Wittgenstein nel
1931 (“Pensieri diversi”, 38): “A che
servono queste argomentazioni che nulla dimostrano e nulla chiariscono?” Conversation pieces, prolisse?
Tesoro – C’è sempre un bene
segreto e inalienabile, nei miti, le fiabe, i racconti naturalmente di
avventura, ma anche nella storia politica, delle e fra le città greche, pegno
di alleanza, comunitaria (urbana) o fra comunità diverse. Da non cedere (commerciare,
monetizzare), da custodire con estrema cura e decisione. O segreto, se ancora
manca, da ricercare e scoprire. Di cui si sa che è prezioso e anzi indispensabile ma non la natura o la qualità – può essere
anche un foglio di carta. Una sorta di patrimonio esistenziale. Anche solo
virtuale.
Umorismo – Una visione del
mondo, secondo Wittgenstein (“Pensieri diversi”, 1948): “L’umorismo non è una
disposizione dell’animo, bensì una visione del mondo”. Una distinzione che serve
a capire la profondità del baratro in cui la Germania è caduta, spiega Wittgenstein,
quando si dice “che nella Germana nazista l’umorismo era stati estirpato”: la
gente continuava a essere anche di buon umore, ma senza umorismo.
Nella forma dell’ironia, Wittgenstein lo trova in Beethoven, “per la prima
volta” in musica: “Nel primo movimento della nona sinfonia, per esempio”. Non
lieve: “In realtà si tratta di un’ironia tremenda, e cioè dell’ironia del
destino”.
Con Wagner “l’ironia ritorna, ma in versione borghese”.
zeulig@antiit.eu
Con la foto sbagliata (di Henry Miller….)
un racconto molto Arthur Miller, di solitudine, ribellione, e morte. Quattro esistenze
solitarie si intrecciano sulla traccia della morte.
Un’edizione che si segnala per
una traduzione creatrice. Nicola Manuppelli. cinefilo di lungo corso (tutto Sordi, tutto Manfredi), riscrive in pratica il testo che Einaudi
prontamente aveva tradotto all’uscita in America, nel 1961, a ridosso del film. Dosando la traduzione con le
battute del doppiaggio.
Il film di Houston per il quale la storia fu riscritta, si può dire, giorno per giorno, come una sceneggiatura, aveva quattro
grandi protagonisti ed ebbe molto successo: Clark Gable, Marylin Monroe,
Montgomery Clift, e il futuro Cattivo dei western all’italiana Eli Wallach. Che bordeggiavano personalmente, si può dire, la morte. Uno sciancato, Clift. E due
moribondi in proprio, Gable di tumore pochi giorni
dopo l’ultimo ciak, e Marylin un anno dopo, dopo un collasso subito durante le
riprese, che furono per questo sospese per due settimane – distrutta da Miller. Eli Wallach si sarà salvato per essere brutto oltre
che cattivo, e per fare i western di Sergio Leone.
La morte Miller, o gli sceneggiatori
di John Houston, la fanno annunciare agli interpreti. Quattro solitarioni, che
l’amore per gli animali in qualche modo mette in contatto. Marylin: “Tutti
stiamo morendo, mariti e mogli (Miller la stava ripudiando, n.d.r.). Ogni minuto
ci avvicina alla morte”. Gable: “La morte è naturale quanto la vita, chi ha
paura di morire ha paura di vivere”.
Meglio il film, malgrado gli sforzi
di Manuppelli: Miller è parte in causa, troppo poco serio, che la morte assegna
agli altri mentre convolava a nuove nozze - con la fotografa di scena del film.
Arthur
Miller, Gli spostati, Nutrimenti,
pp. 208 € 15
La donna che fa i lavori in camera in albergo si è sposata giovane
con un rappresentante della Necchi. Erano belli nella foto che ancora conserva.
E aspettavano la cicogna guardando dalla finestra. Poi lui ha dato in smanie, e
il parroco le ha fatto avere l’annullamento. Si è risposata tardi con un
vedovo, avanti con l’età, e hanno avuto un figlio. Che è già grande, ogni
tanto la porta o viene a prenderla in macchina. Lei ne è contenta per un motivo
di principio
Non è vero che i figli venuti in età
tarda hanno problemi – ripete. Sua sorella ha sposato un montanaro di città.
Che dopo qualche anno l’ha lasciata poiché non avevano figli. Lei, che fa
anch’essa i lavori, s’è messa con un insegnante scapolo, anziano ma scapolo. Ed
è finita che hanno avuto una figlia. Che è ancora piccola ma molto
intelligente. Adesso andrà alla media, e poi anch’essa a lavorare.
Due “saggi sull’amore”, come da
sottotitolo, già pubblicati quinidici anni fa da Luciana Floris per Stampa Alternativa, “Riflessioni
sul problema dell’amore” e l’ostico, più noto, “Il tipo donna” – noto per il suo peculiare
femminismo, della “differenza”. Nel primo Lou va a passo di carica, speditiva.
Lo “stato erotico è una benedizione”, sia esso felice o infelice, poiché
elettrizza, incrementa, moltiplica, vivacizza. L’innamoramento è un ritorno
allo stato infantile, della scoperta, della sorpresa. E al mondo fiabesco: “Un
mondo di sogni onnipotenti e senza limiti”. In analogia con l’“atto creativo”,
dell’artista: “Amare e creare hanno un’identica radice”.
L’argomentazione del “tipo donna”
è orientata, femminista ma di un certo tipo: non dell’uguaglianza ma della
diversità. La natura vuole incontri erotici tra soggetti
diversi e differenti-antitetici, di sesso e di famiglia. L’incesto effettivamente,
come l’emofilia, è proibito dalla natura
prima che un tabù sociale.
L’introduzione di Nadia Fusini è
in armonia, anch’essa a passo di carica, sul personaggio Lou. Donna “affascinante e crudele, infedele e
devota”. Freud ne ricorderà in morte la lunga lista delle sue vittime – Freud
di cui lei ha detto a Jung che è stata l’amante, ma a cinquant’anni? Fusini la
fa sessuomane, ma le allumeuses non
lo sono, e lei lo è stata con i tanti famosi con cui ha convissuto, eccetto
che col giovanissimo Rilke, da svezzare. Aquila e leone per Nietzsche - che a
lei fece la prima delle sue avventate proposte di matrimonio - come per
Zarathustra, che dice di avere concepito e redatto con la
frequentazione di Lou. Paul Rée, il terzo del menage à rois” romano, non
supererà mai il rifiuto di Lou, finendo per suicidarsi, nel 1901.
Inevitabilmente un libro sulla
stessa Lou, personaggio invadente.
Lou Andreas Salomé, Devota e infedele, Bur, pp. 105 € 5,90
spock
“L’amore è amore di sé”, Lou Andreas
Salomé?
“Ogni tipo di amore rende felici, anche quello
infelice”, id.?
Lo “Stato erotico” è una benedizione, sia
esso felice o infelice, id.?
“L’amore colma l’egoismo di ognuno”, id?
“La passione non si sbaglia mai sulle sue
impressioni fisiche”, id.?
“L’amore è la cosa più fisica, ma anche
apparentemente la più spirituale e superstiziosa che alberga in noi”, id.?
“Ovunque le persone si amano, l’uno sfiora
appena l’altro per poi lasciarlo a se stesso”. id.?
spock@antiit.eu
Annotazioni del 1931 in particolare, e per una buona metà di
dopo la guerra. Ultimate le “Ricerche filosofiche”, 1945, Wittgenstein confina
le riflessioni occasionali ai taccuini. Von Wright spiega i criteri della
scelta - omessi solo i riferimenti personali (quelli forse che avrebbero dato
gusto...). Ronchetti spiega di avere aggiunto qualche frammento, non molti. E
soprattutto di essersi astenuto, come von Wright consiglia, di annotare i
pensieri (circostanze, collegamenti, riferimenti).
Molto, nota dominante in questi pensieri, è su ebraismo\semitismo,
tema non comune nel dopoguerra. Wittgentesin fa a gara, si potrebbe dire, con
Heidegger per stabilire la “differenza ebraica”. A partire da subito, “la
tragedia è qualcosa di non ebraico”, e da se stesso. Con una sorta di rivendicazione
ebraica nell’anno in cui gli appunti sono più diffusi, il 1931. A p. 26: “Quando
Renan parla di «bon sens precoce»
delle ragazze semitiche (un’idea che mi è passata per la testa già da lungo
tempo), si riferisce alla loro mentalità impoetica,
che va direttamente al concreto. È proprio ciò che caratterizza la mia filosofia
“. E poco dopo, 32: “In questo mondo (il mio) non vi è tragicità” – contro ogni
evidenza biografica: suicidi, guerre,
morti, di amici, amanti, sensi di colpa fortissimi. E ancora, 37: “L’ebreo è una
landa desertica dove, sotto un sottile strato roccioso, si trovano però le
fluide masse infuocate dell’elemento
spirituale”. P. 47: “Il ‘genio? Ebreo è solo un santo. Il più grande pensatore
ebreo non è che un talento (io per esempio)”. Sindrome saprofitica? “È tipico
dello spirito ebraico capire l’opera di un altro meglio di quanto la capisca il suo autore”.
Un riflesso ubiquitario: “Nella natura di Rousseau c’è qualcosa di ebraico”. E
a proposito di potere e possesso, che “non sono la stessa cosa: “Se si dice che
gli ebrei non avrebbero alcun senso del possesso, ciò si concilia molto bene
con il fatto che ad essi piace essere ricchi… (Io, per esempio, non vorrei che i
miei cari diventassero poveri, perché auguro loro un certo potere…)”. O a
proposito della dissimulazione: “Si è detto talvolta che la segretezza e il
riserbo proprio degli ebrei sarebbero dovuti alla lunga persecuzione. Questo certamente
non è vero; al contrario, è sicuro che essi esistono ancora malgrado questa persecuzione
appunto perché tendono a questa segretezza”.
Dell’antisemitismo annoterà nel 1948, quindi “dopo”: “Se non puoi
sbrogliare una matassa, la cosa più intelligente che puoi fare è capirlo e la
cosa più onesta ammetterlo”.
Con molte annotazioni più o meno svagate, soprattutto sui musicisti,
Mendelssohn, Brahms, Bruckner, Schubert, Wagner, Mahler (“se è vero, come credo,
che la musica di Mahler non vale niente”…), Beethoven, Mozart. E qualche leggerezza.
Le donne inglesi gli europei non le capiranno mai. Meglio un film americano
ingenuo o stupido che un film europeo scaltrito. Altri da biscotto della fortuna.
“Il volto è l’anima del corpo”.
Molto Shakespeare. Molto Freud, contro Freud - usando cioè lo
stesso Freud, ingegnoso ma pessimo: “Con le sue fantasiose pseudo-spiegazioni
(e proprio perché sono ingegnose), ha reso un pessimo servizio”. Sui sogni, su
tutto. Hitler compare solo nel 1945. E qualche cattiveria: “Leggendo i dialoghi
socratici si ha questa sensazione: che terribile spreco di tempo!”, su
“argomentazioni che nulla dimostrano e nulla chiariscono”.
È la ripsoposta dell’edizione
1980.
Ludwig Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, pp.180 € 12