Si
scrive molto delle violenze nelle carceri, contro i detenuti. Ogni giorno si
scopre un caso nuovo. Ma non si dice - nessuno lo scrive - che non sono stato
abusi di questa o quella guardia carcerarie, o di gruppi di guardie sadiche, ma
di una risposta politica alle proteste carcerarie due anni fa. Alimentate, anche questo
non si dice, dal mancato indulto dopo le elezioni politiche del 2018.
Una
riposta gestita dal Dap, il dipartimento amministrazione penitenziaria del
ministero della Giustizia. Non all’insaputa del governo Conte-Bonafefe, anzi su
sue direttive.
Non
ci sono stati altri casi prima. Non in occasione di altre rivolte carcerarie,
anche piu disordinate e violente. Non se ne è saputo nulla se non dopo il governo
Conte-Bonafede. E ancora, con difficoltà. Mentre quello che ci fanno vedere,
che era possibile vedere già .da tempo del carcere napoletano, è
raccapricciante.
“L’altro
giorno la Commissione europea ha
comunicato che anche le produzioni di nicchia, Ferrari, Lamborghini. Maserati, McLaren,
dovranno adeguarsi entro il 2030 al full electric” – tra nove anni cioè: “Questo significa
che a tecnologia costante, con l’assetto costante, la Motor Valley la
chiudiamo”. A lamentarsi non è un arcigno difensore dell’inquinamento, né un
patito dei motori rombanti, ma il ministro per la Transizione Ecologica, Cingolani.
Uno scienziato che sa di che si parla. Motor Valley significa un distretto
industriale padano ad alta tecnologia, senza concorrenti al mondo.
Cingolani
si era già segnalato per dire quello che tutti sanno – ma non si scrive: “Se
milioni di italiani continuano a circolare su Euro 0, o 1 o 2, non è è perché
amano le auto inquinanti ma perché non possono permettersi una ibridi o una
full electric”. Ma soprattutto, cosa che solo questo sito sembra dì sapere
prospettare: “Anche ammesso che domani riuscissimo a trasformare il parco auto,
non avremmo energia rinnovabile a sufficienza”. Ricaricheremmo le batterie con
elettricità da combustibili fossili - con
molta elettricità, da molti combustibili fossili.
Si firmano carte belle e
impegnative, e si organizzano G20 per acqua e aria pulite, ma non di dice la
verità: che tre quarti della CO2 è messa in circolo da Cina e India, con la
Russia, l’Australia e gli Stati Uniti di supporto. Gli accordi di Parigi non
sono una questione di buona volontà personale, di chiudere l’interruttore della
luce, o lavorare senza condizionatori, e senza riscaldamento.
Una
prima, una chicca: una recensione grafica del volume di lettere scambiate tra Virginia Woolf
e Vita Sackville-West “per circa venti anni”, con estratti dai diari delle due
scrittrici, e lettere di Vita al marito Harold Nicolson in cui gli parla di
Virginia: “Love Letters: Vita and Virginia”. Divertita e divertente. Ironica,
ma corretta: “Per due scrittori che si appuntavano tutto è strano che ci sia
così poco di scritto sui loro incontri intimi”. Da ex adolescente rapita dalla
storia d’amore tra due scrittrici: “Il fatto che fossero entrambe donne, e
sposate a uomini non faceva che acuire la mia visione romantica del loro rapporto”,
didascalia della vignetta in cui Virginia dice: “Siamo sposate ad altre
per9sone”, e Vita obietta: “Ma tu sei la mia vera
vita”, due fumetti con asterisco: “Citazioni non vere”. Sottinteso: il
rapporto ci fu, ma di amore, di amicizia? È per questo, nota subito Pierre, che
non si è fatto il film del loro amore? O perché Vita non è un “artista” come lo
è Virginia - “la «statura» di Virginia
in quanto artista è riflessa nell’uno novanta dell’attrice Elizabeth Debicky!”
(il film è stato appena fatto, “Vita&Virginia”, ma senza scene calde, e
Debicky sovrasta Gemma Atherton di tutta la testa).
L’attrazione
c’è, al primo incontro Vita scrive di Virginia al marito come di una grande
scrittrice, comunque originale, mentre Virginia annota le “belle gambe” di
Vita, con altre caratteristiche meno lusinghiere, e la nobiltà: “È florida, mostacciuta,
colorata a pappagallo, con tutta la facile naturalezza dell’artistocrazia. … Conosce
tutti. Potrò io mai conoscere lei?”. Vita ha trent’anni, Virginia quaranta, praticamente
zitella. E poi, Virginia annota ancora, “nota saffista” – il “mostacciuta” ritornerà
in altri appunti. Ma era anche ghiotta di uomini: col marito fece due figli, uno lo fece a 22 anni, uno a 25, dopodiché
ognuno andò a letto con chi volle. Nella breve relazione epistolare con Virginia,
Vita ne ebbe una molto carnale con Violette Trefusis.
Il
punto più intimo del rapporto è forse una notte che le due amiche avrebbero
passato insieme, quando Virginia andò a trovare Vita nella sua proprietà sontuosa
di Sissinghurst: una notte che Virginia annota nei diari con un punto esclamativo. O
forse solo “Orlando”, che Virginia dedicò a Vita, su cui (sull’idea che
Virginia aveva di Vita) era modellato il gentiluomo che visse molti secoli,
sempre al centro degli eventi, alcuni secoli da uomo e altri da donna.
Summer
Pierre, cartoonist umorista, ha in cascina un album “Sylvia Plath’s Last Plan”
e un “Great Gals: Inspired Ideas for Living a Kick-Ass Life”.
Summer
Pierre, The Love Letters of Virginia
Woolf and Vita Sackville-West, “The New Yorker”, 16 luglio, free online
astolfo
Afghanistan – Col ritiro delle
truppe americane e della coalizione dei “volenterosi”, Italia compresa, avrà
sconfitto in venti anni anche gli Stati Uniti – se non la Nato. Dopo aver
sconfitto in dieci anni la Russia, nella formazione accresciuta di Unione
Sovietica, piena cioè di soldati asiatici, limitrofi e buoni conoscitori dell’Afghanistan.
E due volte gli inglesi. Gli occupanti vi trovano sempre una sponda, ma
impraticabile. Fin da quando fu “scoperto”, nel Settecento, quale “via di terra
verso le Indie”.
Nella
seconda metà del secolo, con Ahmed Shah, della dinastia Durrani, le forze
afghane si spinsero fino a Delhi, che tennero per alcuni anni anche contro gli
inglesi. Quello creato da Ahmed Shad Abdali, poi Durrani, fu lo Stato islamico
più grande, dopo l’impero ottomano, e si considera l’evento fondatore
dell’Afghanistan.
Tra
il 1839 e il 1842 si svolse il primo conflitto diretto con l’Inghilterra – il
primo del Grande Gioco kiplinghiano, di “Kim”. L’ armata dell’Indo” ebbe
la meglio sui regnanti afghani, ma non
per molto: dopo un anno Kabul insorse (secondo i cronisti britannici per
difendere l’onore delle proprie donne…), la rivolta dilagò in tutto il paese, e
i sedicimila britannici militari e civili del contingente di occupazione finirono
variamente massacrati. La ritirata inglese da Kabul, disastrosa, fece molta
impressione nelle cronache dell’epoca.
Londra
si contentò poi di governare tramite principi afghani. Fino al novembre 1878,
quando tre colonne militari britanniche provarono nuovamente a occupare
l’Afghanistan. In questo caso per prevenire temute ingerenze russe. Questa
seconda guerra afghana, condotta per i britannici con grande energia dal
generale Roberts, fu un seguito di sconfitte per i rivoltosi afghani e i loro
capi – pur facendo la tara del clima jingoista
del tardo vittorianesimo, del colonialismo che si voleva vincitore, oltre che
civilizzatore. Ma non risolse l’ostilità afghana agli inglesi, come a qualsiasi
forma di occupazione. Si affermava con la marcia di Roberts il principio che
solo l’Inghilterra contava nella regione, e non la Russia: Londra lasciò l’Afghanistan
sostanzialmente libero, sotto un forma blanda di protettorato.
Una
terza guerra anglo-afghana si registrò a chiusura del primo conflitto mondiale,
nel 1919. L’Afghanistan attaccò le truppe britanniche in India. Londra negoziò
il ritiro dall’Afghanistan e l’indipendenza fu proclamata.
Teatro
delle ultime due guerre coloniali, quella sovietica, da fine 1979 a inizio
1989, e quella americana, con i “volenterosi” (tra cui l’Italia) dal 2001 al
2021, invasioni che ha respinto, l’Afghanistan è un paese chiuso. A
connotazione fortemente tribale. Cioè diviso all’interno. Tenuto assieme
inizialmente come possedimento regale, nell’ultimo secolo dalla difesa contro
le occupazioni straniere. La sua occupazione da parte delle potenze straniere è
sempre stata agevole, ma non duratura, la resistenza finisce presto per
prevalere. La sua storia registra invasioni da tutte le potenze circostanti:
medi, persiani, greci (Alessandro Magno), unni, arabi, mongoli, turchi, prima
degli inglesi. A due riprese gli inglesi li hanno sconfitti, venendo dall’India:
superato il Khyber Pass, e occupato Kabul. Entrambe le volte sono stati
respinti, la prima con perdite gravi.
Ma
lo stranero non è malvisto. L’Afghanistan è anzi tesoro di accoglienza per viaggiatori
singoli, che tutti non sanno altro che dirne le lodi, Robert Byron, Bouvier,
Chatwin, Peter Levi, Schwarzenbach, Maillart – qualcuno\a anche senza l’oppio.
Meta si direbbe privilegiata dei narratori di viaggi, anche se le comunicazioni
sono difficili e gli alloggi di fortuna.
L’imperatore
indiano Zahar Eddine Babur (la tigre) che a fine ‘400 finì prigioniero a Kabul,
ha lasciato nelle “Memorie”, redatte in “turco djakati” nel 1501 a Kabul, lodi
ripetute e esagerate della città e dellì’Afghanistan: del
clima, i frutti, i commerci, le popolazioni. Anche se vi fa anche “molto freddo”.
E le popolazioni sono”variate”: Turchi, Aïmak, Arabi, Tagiki, Bereki, Afghani.
Che parlano “undici-dodici lingue”, l’arabo, il persiano, il turco, il mongolo,
l’hindi, l’afghano.
“Lawrence
d’Arabia in persona”, secondo al principessa India, “Bibi Jan”, la
novantaduenne figlia dell’ultimo re afghano, Amanullah, stazionato sotto falso
nome tra il 1928 e il 1929 come ufficiale della Raf nella cittadina pakistana
di Miran Shah, nel Waziristan del Nord, a ridosso della frontiera afghana, a
prezzolare i mullah conservatori, contrari all’istruzione delle ragazze e
all’ammissione delle donne negli ospedali. Facendo circolare nei villaggi fotomontaggi
della regina, Soraya, la madre di India “Bibi Jan”, ministro della Pubblica
Istruzione, con la testa della regina in alto e sotto un corpo di donna nudo.
La missione afghana di Lawrence d’Arabia non trova concordi gli storici della
spia. Ma la coppia regale innovatrice, Soraya e Amanullah, dovette lasciare il
Paese. Le aperture del re Amanullah, nel quadro di una politica di affrancamento
dall’Inghilterra (che lo aveva portato ad avere ottimi rapporti anche con
l’Italia, con la famiglia reale), aveva spinto Londra a sostenere i mullah
conservatori. L’emiro Amanullah che si era fatto, avviando dopo la guerra, nel
1919, l’Afghanistan all’indipendenza dopo il protettorato inglese, re costituzionale
dal 1924, per sua stessa decisione, dieci ani dopo era già costretto all’abdicazione,
e all’esilio. A Kandahar, poi in India,
infine a Roma: siccome aveva allacciato buoni rapporti con i Savoia, fini, con
la figlioletta appena nata India, a Roma – dove poi ha passato tuta la sua
vita, in via Orazio 14.
A Giuliano Battiston, per “il Venerdì di
Repubblica”, la principessa India ha raccontato che, durante l’invasione sovietica
dell’Afghanistan, ebbe a litigare col Pci bolognese, il quale non gradiva i
feriti afghani all’ospedale ortopedico Rizzoli “perché avrebbero mostrato l’inciviltà
di Mosca”.
Big Bang – Anticipato, come
si dice, da E.A.Poe nel racconto “Eureka”, la sua individuazione e definizione è
di un prete belga, il fisico Georges Lemaître, che nel 1927 ne formulava l’ipotesi,
“dell’atomo primigenio”, poi nota come Big Bang: il mondo derivato dall’esplosione
di un atomo Big Bang) 10-20 miliardi di anni fa. Ipotesi poi confermata
sperimentalmente dalla “legge di Hubble”.
Lemaître
la correda con la costante cosmologica, già proposta da Einstein ma da questi
poi abbandonata. Un’ipotesi confermata nel 1998, trentadue anni dopo la morte
di Lemaître, con la scoperta dell’accelerazione dell’espansione dell’universo,
opera dei cosmologi Perlmutter-Schmidt-Riess – premi Nobel per la Fisica 2011.
astolfo@antiit.eu
Nel
Novecento era divenuto facile “procurarsi da mangiare” , e “la popolazione
mondiale cresceva a dismisura”. Ma “più uomini c’erano, più vivevano ammassati,
e più vivevano ammassati, più nuove specie di germi diventavano malattie”.
Tante che non si faceva in tempo a diagnosticarle e analizzarle: “Il mondo
microrganico rimase fino all’ultimo un mistero”.
“Fino
all’ultimo”, cioè ci fu una fine: “I batteriologi sapevano dell’esistenza di
un mondo del genere” ma non di più. “Sapevano che di tanto in tanto emergevano
stuoli di nuovi germi intenzionati a uccidere gli uomini”. Tanti da non potersi
contare, anche perché “nuove specie di germi” si generavano in continuo. A un
certo punto muoiono tutti, eccetto il nonno – che ha il compito di raccontarci
l’ultimo atto – perché “immune”.
Non è una storia da pandemia, da
coronavirus, con i batteriologi in batteria sugli schermi a spiegare
l’inspiegabile -ma ci somiglia. È il racconto probabilmente più letto, di London e della peste:
è il racconto che ha più edizioni, dalle Paoline alla Einaudi. Un racconto che
non è un racconto in realtà se non di una umanità ridotta a pochi ragazzi
ignoranti e selvaggi nel 2073, a cui il nonno sopravvissuto alla peste
scarlatta che ha decimato gli esseri umani nel 2013 racconta la sua casuale
sopravvivenza. La California, dove i ragazzi selvaggi vagano fra rottami e
vapori, è una sterpaglia, gli orsi vi s’aggirano, e i lupi. La peste è detta
scarlatta perché le persone diventavano rosse e morivano. Il motivo? Non si sa.
London si è voluto cimentare nel
genere catastrofico, dopo il successo nel 1901 di Matthew Shiel con “La nube
purpurea”, una delle prima narrative post-apocalittiche. Nel 1912, informa Ottavio
Fatica, che ha curato questa riedizione, l’anno della “peste scarlatta”, era l’“anno
della fine del mondo per la setta dei survivalists,
che ricava il dato dalla Bibbia, e per altri che si rifanno invece a profezie
maya”. Il 2012 è passato più o meno indenne – Fatica scriveva nel 2009 – ma non
del tutto, con la peste aviaria, e quella suina. E se poi il 2012 si legge 2021…
Non un racconto appassionante –
se non per la parte scientifica, della batteriologia inerme. Immaginava meglio
London qualche anno prima, nel 1908, col “Tallone di ferro”, scrivendo in
chiave politica, che conosceva meglio: una rivoluzione reazionaria, che avrebbe
preso il potere, nel 1932.
Jack London, La peste scarlatta, Adelphi, pp. 94 € 9
spock
“L’amore non è un sentimento onorevole”,
Colette?
“Non sorridiamo perché qualcosa di buono è
successo, ma qualcosa di buono succederà perché sorridiamo”, detto giapponese?
“Dio allevia molte pene, se non ci fosse
bisognerebbe incontrarlo”, Valérie Perrin?
“La sepoltura più bella è la memoria degli
uomini”, Claire Malraux?
“I re sono scomparsi ma i cortigiani sono
rimasti”, Chanel (Paul Morand)?
“La moda
deve morire e morire presto, affinché il commercio possa vivere”, idd.)?
“La tenerezza suppone l’esclusione del
desiderio”. M. Duras?
spock@antiit.eu
A
cinquant’anni, senza allenamento, con qualche dolorino, Paolo Rumiz parte col
figlio Michele, sedicenne, per un gita in bicicletta da Trieste fino a Vienna.
Farà poi Trieste-Kiev e Berlino-Istanbul in treno, il Danubio su chiatta,
l’Adriatico ex Dalmazia in automobile. Nell’“Oriente”, l’Europa ha ancora un
Oriente. Anche se qualcuno, lamenta Rumiz, lo vuole ridurre a Est, una sigla. Ma
il “viaggio” di questi racconti è fisico, esemplato dalla bici – si conclude
col “profondo Nord-Est” in bici: si fatica, ma si capisce forse di più, comunqne
si assapora, la fatica è una morfina.
Uno
dei primi titoli di Rumiz viaggiatore. Scritti in gran parte per “la
Repubblica” nei tardi anni 1990 – Rumiz sarà stato il grande acquisto di
Scalfari al suo quotidiano, se non l’unico, la promessa che diventa un
campione. Senza dimenticare il gusto e la sensibilità per i Balcani, per la
storia recente e la politica. In Italia purtroppo ancora terra incognita benché limitrofa. Nonché un grande mercato, dalla
Slovenia all’Ungheria, le cui aperture sono dall’Italia ignorate. La miseria
dell’asse ferroviario europeo n.5, Milano-Trieste-Lubiana-Budapest, a fronte del
velocissimo e trafficatissimo Parigi-Monaco-Vienna-Budapest è perfino esilarante,
roba da farsa.
Ma
con Rumiz più di tutto si viaggia nella natura fisica: le carte al 100 mila,
anche al 50, in dettaglio, programmate toponimo per toponimo, poca gastronomia,
il giusto, e Borges, Shakespeare, i geni dei luoghi. Un sacrificio s’immagina,
in bici o anche in treno, fissare dei tanti viaggi, mentalmente e magari su carta, le impressioni
piccole e grandi, faticoso. Ma il racconto scivola senza frizioni, lieve anzi, al
lettore chiedendo solo uno sguardo posato. Per un’invenzione che sa di realismo, di cose – di cose viste,
in tralice.
Magistrale l’analisi delle
Venezie, Friuli compreso, il più leghista di tutti. Investitrice e incerte. Ottimiste
e ansiose. “Il mestiere che tira di più al Nord è lo strizzacervelli” – “in
Veneto gli psicologi crescono al ritmo di 160 unità all’anno” (“tutti ne hanno
bisogno: famiglie, aziende, associazioni, enti pubblici”). Di una scissione
catastrofica. Non si circola, ogni giorno ovunque è “il solito spaventoso
ingorgo di camion”, perché gli stessi comuni che chiedono insistentemente una
viabilità migliore hanno impedito gli espropri per realizzarla”. Una protesta
che si avvita su se stessa: “È come per gli immigrati. In Veneto chi invoca
manodopera straniera e chi grida contro gli extracomunitari non sono affatto due
persone diverse”. I Rumeni, che allora passavano per clandestini, “non ne
possono più. E spesso sono i migliori” – questo “Oriente” è “una sensazione di deriva
e di fuga”.Ma, poil, il “veneto” e “friulano” volentieri cedono il passo al
ladino. A valle a monte tutti ladini da
qualche tempo. Per lucrare sui benefci europei a protezione delle minoranze.
Anche nel Trentino, che è già “la regione più assistita d’Italia”.
L’Ucraina è già divisa nel 1999.
Da un “nazionalismo malato”, contro gli ebrei, contro i russi. Finanziato dalla
“diaspora negli Stati Uniti che passa fondi agli ultras per tenere l’Ucraina
lontana da Mosca”. O l’oblio in agguato nella memoria tedesca, che si è fatta
corta, cortissima. Proiettata com’è solo sull’economia, sul lavoro ben fatto e
redditizio, “anche per la gente di sinistra” – “il cancelliere Schröder considera
la politica un service dell’economia”,
Rumiz si fa dire: “Prende atto che in
Germania l’orgoglio dell’identità si fonda, più che su Goethe, sulla Deutsche
Bank”. Un revanscismo piatto, grigio, non smacchiatore.
Con un ritratto breve ma lungo a affettuosissimo
di Claudio Magris, trovandosi a parlare del suo
“Danubio”, che “suggella una storia completamente finita, la
Mitteleuropa prima della caduta del Muro”, e tuttavia “indispensabile come un
portolano”. Un ritratto di Magris che “ritorna a casa la sera”, è
“invariabilmente frettoloso”, è “burlone e imprendibile, triestinissimo battitore
di bettole e silenzi”.
Paolo
Rumiz, È Oriente, Feltrinelli, pp.
199 € 9,50
Centodieci direttori di istituto hanno scritto
alla presidente del Cnr per lamentare il blocco della ricerca da un anno ormai.
Il presidente uscente Inguscio, in prorogatio, ha disposto un anno fa che ogni
contratto di ricerca, benché procurato autonomamente da ricercatori e istituti
di ricerca, deve passare un esame di congruità al Cnr. Per il quale non ha
creato però un nucleo di valutazione: le “pratiche”, come sono state
derubricate i contratti di ricerca, sono affidate a due segretarie – migliaia
di pratiche a questo punto.
Molti contratti essendo a progressione dei lavori, i
centri di ricerca sono a rischio asfissia, anche quelli che sono riusciti a
ottenere i migliori contratti, con le autorità europee o con le grandi aziende.
Molti contratti essendo a vita breve, mediamente due anni, un gran numero sono
anche a rischio cancellazione.
Il rischio è diventato più concreto dopo l’appello
dei direttori di Dipartimento. La presidente del Cnr, l’ex responsabile Pd per la ricerca, e ministro
del governo Letta, Carrozza, si è rifiutata di prenderlo in esame, non
ritenendo gli appellanti suoi interlocutori.
L’ex
presidente Trump ha avviato la campagna politica in vista delle elezioni di
medio termine fra 14 mesi sul tema centrale che le presidenziali 2020, da lui perdute,
sono state falsificate. I media ridicolzzano questa tesi, ma l’elettorato
repubblicano è con Trump, a larghissima maggioranza. A metà termine o mandato
vengono rinnovate la Camera dei Rappresentanti al Congresso e le assemblee legislative
degli Stati dell’Unione. Si vota anche per un terzo del Senato federale, e per 34
o 36 governatori statali.
Si
da credito nei media alla affermazione dell’ex ministro della Giustizia di Trump,
Wiliam Barr, che “non c’è prova di una frode su larga scala” nelle presidnziali del 2020. Su “piccola scala” sì, e sarebbe tollerabile?
Il
presidente Biden è tornato a mobilitare l’Europa. Ma contro Russia e Cina
insieme? E senza più i diritti umani – con cui l’Urss fu messa in ginocchio, da
qui Gorbaciov. Hong Kong e la minoranza Uiguri sono casi eclatanti di diritti umani e
civili, ma Biden in realtà forse non vuole mettere in difficoltà il presidente
Xi.
Si
può impedire a un presidente eletto di parlare? In America si può: Facebook,
Twitter, Alphabet (Google) hanno silenziato Trump.
Il
ritiro avviene senza condizioni dall’Afghanistan, dopo venti anni di
occupazione militare americana e alleata. Lo stesso è avvenuto in Iraq. L’America
non ha altre soluzioni che l’occupazione militare – o guerra o niente?
In
questo ritiro, come già in Vietnam, gli Stati Unit – e con loro i
“volenterosi”, tra essi l’Itala – non danno assistenza né visti d’ingresso agli
afghani che hanno collaborato con loro nel tentativo di creare un Afghanistan
democratico all’occidentale. I vietnamiti si salvarono allora dalle epurazioni, una parte di essi, come boat-people – mettendosi
in mare. Ma l’Afghanistan non ha il mare.
Di
rara noia, da non credersi – a meno che non sia fatto apposta, una sfida al lettore.
Don
Giovanni viene da Tiflis. Orfano per la perdita di un figlio (sic!). Ha un’
esperienza voyeuristica. E nient’altro.
Peter
Handke, Don Giovanni, Garzanti,
remainders, pp. 107 € 6
Se
Draghi insiste, sarà presto condannato? O la ministra Cartabia? Se insistono
nella rifomna del sistema giudiziario? Non c’è dubbio: chi ci ha provato è
finito male.
La
Cassazione ha appena finito di trasformare la condanna di Craxi per
finanziamento illecito ai partiti in corruzione personale. L’ha fato
indirettamente, riconducendo un conto svizzero del partito Socialista, di cui
Craxi si era portato titolare ma senza movimentarlo a titolo proprio, come suo
conto personale, alimentato con i proventi della corruzione. A quasi trent’anni
dal fatto, con tutte le prescrizioni comunque intercorse, la pronuncia ha un
solo significato: attenti a parlare di riforma della giustizia. Craxi ha
promosso il referendum sulla
responsabilità civile dei giudici, 1988, e da allora è stato un uomo morto.
Lo
stesso è stato fatto per Berlusconi, un altro che voleva riformare la
giustizia, creando per lui un tribunale speciale nella sessione feriale. Con un
giudice non “naturale”, scelto appositamente per irrogare la condanna.
La
Cassazione è trasparente: il sistema giudiziario non si tocca - carriere
doppie, promozioni a cielo aperto, ermellini, sentenze a babbo morto. Ha per
questo perfino protetto il giudice Carnevale, che spiegava agli avvocati come
far assolvere i mafiosi. Un blocco di potere inscalfibile.
Non è stata dunque una bella partita neanche in tribuna. In effetti si vedeva il presidente Mattarella isolato, con il presidente della Figc – solo “dopo” accostato da Evelina Christillin in rappresentanza della Uefa (o perché è una chiacchierona?) Nemmeno un sottosegretario inglese – Mattarella è un capo di Stato, anche in visita privata va comunque ricevuto con qualche ufficialità.
Ma non c’era con Mattarella neppure un ministro o sottosegretario italiano – normalmente il capo dello Stato si sposta col ministro degli Esteri. Sarà il nuovo galateo al ministero degli Esteri.
È pure vero che il duca di Cambridge e la consorte avebbero potuto scambiare qualche frase di circostanza col presidente italiano. Non si vede come la sicurezza o il protocollo glielo abbiano impedito – era una partita di calcio. O è stata la timidezza: William e Kate, come tutti i reali, sono isolati, dalla loro funzione, e dal lusso.
Viene da pensare anche, se tutto il mondo era collegato per la finale, che solo in Europa ci sono le famiglie reali – e in Thailandia (e nella penisola arabica, ma lì a capo di “stati” patrimoniali, di proprietà private elevate a stato). Che spettacolo sono?
E chi sono i Windsor – il duca di Cambridge, suo papà il principe di Galles, la nonna regina Elisabetta? Che guerre hanno combattuto, che battaglie hanno vinto, che credito vantano con i loro sudditi?
Ma sono il collant del paese, William, Carlo, Elisabetta. Forse unico: la Brexit ha introdotto nel Regno Unito un fermento “leghista”, divisivo, con gli scozzesi, i gallesi, perfino gli irlandesi del Nord, insofferenti.
Incontro
con la scrittrice a 76 anni, non sugli amori in realtà, ma sulle sue grandi malattie,
“emersa solo a giugno scorso da nove mesi di ospedale”. Duras le enumera: “La
prima volta, vent’anni fa, fu per una cirrosi del fegato (normalmente incurabile,
n.d.r.); nove anni fa fu per alcolismo; questa volta per le sigarette, ma
fortunatamente non era cancro”.
Di
amorevole c’è però l’accenno al compagno di dieci anni ormai, dedicatario di
tutte le sue ultime opere, Yann Andréa, 38 anni all’epoca, omosessuale, che
vigila paziente, soprattutto sul’alcol. Specialmente incattivita con se stessa
per l’alcolismo: “Tre volte ho chiuso e tre volte ho ricominciato” – “l’alcol
non consola, non riempie i gap psicologici, tutto quello che rimpiazza è la mancanza di
Dio”.
La
sua scrittura mette saggia in quadro: “Non sono cresciuta con molti libri. La
mia ispirazione è quello che ho vissuto”. Scrivere richiede una particolare abilità:
“Scrivere non è solo raccontare storie… è il racconto di una storia, e l’assenza
di una storia. È raccontare una storia attraverso la sua assenza”. L’amore c’è nei suoi racconti ma senza
tenerezza. “Scrivo di amore sì, ma non di tenerezza”. La tenerezza escludendo
come sentimentalismo, nota l’intervistatore: “Non mi piacciono le persone tenere.
Io stessa sono molto hash (dura,
n.d.r.). Quando amo qualcuno lo desidero. La tenerezza suppone l’esclusione del
desiderio” - contraddicendo probabilmente il rapporto con Andréa.
Dura
anche con la recitazione, che pure ha praticato molto, come regista, al cinema
e in teatro: “La recitazione non aggiunge nulla a un testo. Al contrario, lo diminuisce – riduce la sua immediatezza
e profondità, indebolisce i suoi muscoli e diluisce il suo sangue”.
Harsh anche, ma forse autobiografica,
con le sue donne, le donne dei suoi racconti: “Vedono tutte chiaramente e
lucidamente. Ma sono imprudenti, imprevidenti. Tutte rovinano le loro vite.
Sono molto timide; hanno paura delle strade e dei posti pubblici: non si
aspettano di essere felici”.
Alan
Riding, Duras and her thoughts of Love,
“The New York Revievìw of Books”, 26 marzo 1990, free online
Non è stata una bella partita. I migliori, nelle due
squadre, sono stati i portieri – ai rigori, prima disoccupati o quasi. Ma
curiosa nella valutazione dei placcaggi. Quelli inglesi, violentissimi, prima e
anche dopo il pestaggio di Chiesa, proibiti probabilmente anche nel rugby (a
rivederli fanno paura), hanno ricevuto, quando l’hanno ricevuta, ammonizione
verbale. Quelli italiani il cartellino giallo: cinque a uno.
L’arbitro, l’olandese Kujpers, è superpromosso dai
media, Casarin in testa. Ma non è stato equanime. C’è qualcosa di sfuggente in
questo Europeo di calcio, di non atletismo. Compresa l’inchiesta fatta
annunciare con le trombe dal presidente della Uefa Ceferin per Inghilterra-Danimarca,
che invece si sa che non deciderà nulla, giusto una (piccola) multa.
Non sono stati un bello spettacolo i tifosi,
ammassati a Wembley come in una qualsiasi partita pre-virus, anche se Londra e
la Gran Bretagna sono in lockdown
fino a fine settimana.
Si sono distinti un questo Europeo quattro juventini
scartati o in mora nel club - più Kean, che Mancini intende recuperare. Chiesa, che Pirlo ha fatto giocare poco, perché
“non fa il recupero” (terzino). Bernadeschi, oscurato da Sarri – e poi da
Pirlo. Spinazzola, liquidato da Allegri. Berardi, abbandonato da tempo. Un’allegra
gestione di campioni – a perdere.
Si dice che i club ci rimettono, a prestare i loro
calciatori alle Nazionali, ma in questo caso la Juventus ci ha guadagnato.
Ricami,
ghirigori, come un lavoro di aghi inesperti e fili male assortiti, la scrittura
ondivaga di M. Duras si applica un’estate a una decina di “pezzi” estivi per
impegni editorali presi con il quotidiano “Libération”. Di malavoglia, tra
piogge prima e caldo dopo, sulla spiaggia di Trouville, l’orizzonte ingombro
dei supertanker in fila ad Antifer (“strano nome, non ha neanche desinenza”),
il terminale petrolifero dello Havrfe, Duras si racconta la storia di un
bambino “dagli occhi grigi” e della ragazza che lo accudisce alla colonia
marina, nel mentre che scandisce, giornalisticamente, l’attualità. Il regime
duro degli ayatollah in Iran. La fame in Uganda. La fine modesta
dell’“imperatore dell’Iran” al Cairo, solo onorato da Sadat - e da Nixon, non da Carter. L’Olimpiade di
Mosca, celebrazione che assimila a quelle di Hitler e Mussolini. Infine e
soprattutto lo sciopero ai cantieri di Danzica.
Lo
scipero sarà l’inizio della fine dell’impero sovietico, ma non è dato ancora
saperlo. Duras però vive lo sciopero come tale: questa estate e queste
scritture disappetenti la determinano al conto finale col comunismo sovietico, la
brutta chimera di gioventù.
Era
anche - il lettore può saperlo dal dato biografico - un periodo personalmente
difficile: Duras stava per finire in ospedale per alcolismo. Ma incontrava,
proprio in quella estate, un provvidente compagno, cui subito dedica queste
prose, Yann Andréa, omosessuale, che conviverà con le per i suoi ultimi
quindici anni, difficili per alcolismo e tabagismo. Il filo che unisce i dieci
“pezzi”-racconti, la favola del bambino dagli occhi grigi e della ragazza che
lo accudisce, sono chissà una parabola dell’ultimo trasporto della scrittrice.
Marguerite
Duras, Estate ’80, Filema,
remainders, pp. 107 € 4,65
“Sono stato molte volte in Africa”,
dice Lino Banfi festeggiato per i suoi 85 anni, con l’Unicef: “Un giorno ho
visto dei bambini angolani, sotto un temporale, che coprivano dalla pioggia non la testa ma un braccio. Era
il braccio che teneva i quaderni”. La voglia di apprendere in Africa si può
testimoniare. Delle donne etiopi che la sera, rassettate, correvano veloci nel
1974 alla scuola serale, il programma di alfabetizzazione voluto da Menghistù,
il dittatore “comunista” che aveva deposto Hailé Selassiè – che si era lasciato
deporre. Dei bambini cinque anni prima nel Kenya di Tom Mboya, sindacalista e
pedagogo, quando il paese si studiava, nientemeno, di diventare di turismo di
massa, di rendere accessibili i suoi parchi naturali agli europei, di migliorare l’igiene e
abbassare i prezzi del trasbordo aereo, che andavano disciplinati, con le divisine
colorate ancora all’inglese, alla scuola anche lontana nel bush qualche chilometro. O in Costa d’Avorio nel 1984, in classi
disciplinate di 40-50 bambini, “alla francese”, un paese da oltre trent’anni ora distrutto dalle guerre civili, che il padre della patria Houphouët-Boigny aveva
dotato di strade e scuole, e si poneva all’avanguardia della globalizzazione chiedendo
plusvalore aggiunto locale per le produzioni di cacao e caffè.
La stessa Africa che oggi è
governata, senza eccezioni, dalla corruzione e dalle faide, in regime
dittatoriale, anche dove si vota – come questo sito ha documentato:
http://www.antiit.com/2019/02/il-mondo-come-366.html
Haiti, lo Stato africano dei
Caraibi indipendente da oltre due secoli ormai e mai in pace, ogni anno anzi
più povero e scompaginato, sembra testimoniare un’incapacità di governo si direbbe etnica, per
la forza del tribalismo. Ma non è l’Africa. Che ognuno peraltro può vedere
nelle migliaia di migranti, anche ragazzi, anche donne sole, che tentano la
fortuna fuori, con decisione, anche a rischio della vita, oltre che nella determinazione degli scolaretti.
Le indipendenze africane cinquanta-sessant’anni
fa sono state rigeneratrici, ma sono durate poco. È pure vero che l’Africa più
si allontana dall’Europa più si corrompe e impoverisce. E la cosa riguarda l’Africa
ma anche l’Europa. Nella quale il continente non può non riversarsi, per la
geografia e per la demografia.
Di pari passo l’Europa, che per
qualche tempo ha sostenuto le indipendenze (l’Italia ha speso im Somalia, a
titolo di cooperazione allo sviluppo, fino a che il paese non si è dissolto
nelle guerre intestine, più del doppio dei roboanti impegni della conquista
coloniale), se ne è disinteressata. Ne ha perso la voglia, adagiata nella
globalizzazione - nel “comparaggio” cinese, asiatico, degli affari facili. Ha
dimenticato le “politiche” di vicinato, mediterranea, araba, africana. Ma queste
si imporranno, perché il flusso non si interromperà – l’“invasione”. Regolarle
sarà solo necessario. Riscoprire l’Africa non sarebbe difficile. Per esempio
regolare, programmare, l’immigrazione – lo hanno fatto gli Stati Uniti per
oltre un secolo. Investire in Africa, nelle energie rinnovabili, nelle tecnologie
manuali. Aprire all’Africa i mercati.
Dante
era appena morto, forse ancora no, e già Firenze si impadroniva della “Divina
Commedia”, copiando quasi in serie il poema. Per committenti cioè che già
volevano possedere il poema, tanto lo pregiavano, e non averne cognizione, la
copia costava anche molto. Il più delle volte facendola arricchire di miniature
e glosse. Mentre la città stessa, che pure ne aveva confermato la proscrizione,
con condanna a morte, nel 1315, nel 1333, dodici anni dopo la morte di Dante a
Ravenna, ne commissionava la celebrazione nientemeno che a Giotto. Nel palazzo
del Bargello, cioè della rappresentanza ufficiale della città. A celebrazione di
Dante e per la curisoità dei cittadini comuni, che si potevano così documentare
sulle mmmagini della “Commedia”, se non sui versi.
Dante
tentò in tutti i modi di rientrare in Firenze, dopo la condanna e la
proscrizione, del 1302. Dopotutto era una condanna azionata da uno straniero
non amico, Carlo di Valois, per una colpa che non aveva commesso. La città non
aveva risposto, e Dante ne finirà easacerbto, protestandosi nella epistola a
Cangrande fiorentino di nascita ma non per
scelta. Il ripudio di fatto però non c’era – anche da parte, tutto sommato, di
Dante, malgrado gli avvilimenti patiti: non per l’opera di Dante, che a Firenze
continuò a circolare sempre. Anche nella forma poetica, della “Commedia”.
Boccaccio
asserisce che i primi sette canti dell’“Inferno” Danme li aveva composti ancora
a Firenze, quindi prinma dell’espulsione nel 1302. Ma si ebbero presto copie a
Firenze dell’intera cantica, pubblicata a Verona nel 1314-15, e del “Purgatorio”,
pubblicato nel 1316. Trascrizioni e annotazioni di versi dell’“Inferno” e del
“Purgatorio” si ritrovano a partire dal 1317 in testi notarili, toscani. A metà
Trecento Francesco da Barberino organizzò
a Firenze uno studio di copisti da best-seller
per trascrivere la “Divina Commedia”, producendone in poco tempo un centinaio di
copie – i “Danti del Cento”. Di pari passo con le copie della “Commedia”.se ne
commissionavano anche di Boezio e di Orazio, per poter capire i riferimenti
contenuti nel poema. Alla morte di Dante, il proscritto, Firenze diventò una
sorta di fucina dantesca.
Dante
si impone a Firenze, come poeta e come tutto, linguista, scienziato politico,
filosofo, storico: con la “Commedia” tutto Dante venne ripreso e divulgato. Tra
il 1374 e il 1375 la “Commedia” sarà “divina” a opera di Boccaccio, che la
lesse in pubblico, sempre a Firenze, nella chiesa di santo Stefano in Badia. Ma
c’era già stata una celebrazione ufficiale a Firenze di Dante: era stato
dantesco l’ultimo dei capolavori di Giotto – il sommo pittore che Dante stesso
aveva già celebrato – nel canto XI del “Purgatorio”, quindi già vent’anni
prima, 94-96: “Credette Cimabue ne la pittura,\ tener lo campo, e ora ha Giotto
il grido,\ sì che la fama di colui è oscura”. Un’opera commissionata dalla
città, gli affreschi della cappella del Podestà – accanto alla sala oggi detta
di Donatello nella quale era stata pronunciata la condanna a morte dello stesso
Dante. L’opera sarà completata dalla scuola di Giotto, dopo la sua morte, l’8
gennaio 1338, e anche prima vide il maestro raramente impegnato con la sua
mano, distratto da altri impegnativi incarichi, a Bologna, a Milano, e nella
stessa Firenze sotto l’alluvione. Ma d’impronta sicuramente giottesca.
Commissionata già nel 1333, al ritorno di Giotto da Napoli.
Luca
Azzetta-Sonia Chiodo-Teresa De Robertis, Il
Bargello per Dante. “Onorevole e antico cittadino di Firenze, Firenze,
Museo Nazionale del Bargello