sabato 7 agosto 2021
Problemi di base - 652
Morire per l’incapacità di amare
Le
due raccolte poetiche di Pavese presentate tal quali, con una introduzione non invasiva
di Paolo Di Paolo, danno un’immagine particolare di Pavese. Lo scrittore cui si
fa ascendere il neo realismo, la narrazione degli ambienti poveri, con “Paesi
tuoi” - pubblicato nel 1941, a maggio, scritto l’estate del 1939 – resta, perlomeno
come tale si presenta, un onanista, solo incupito dalle sue ombre. Sia nei
componimenti della prima raccolta, “Lavorare stanca”, benché bucolici e quasi
idilliaci, di più in quelli dell’ultima, postuma, “Verrà la morte e avrà i
tuoi occhi”, terribile già nel titolo.
Una condizione doppiata dalle
incertezze politiche, dall’adesione tiepida alle ragioni anche le più
giuste della politica – un’incapacità d’immedesimazione di cui aveva coscienza,
ne tratta spesso nel diario, “Il mestiere di vivere”. Vissuta nella seconda raccolta,
inevitabilmente segnata dal tardo e finale amore per l’attrice americana Constance
Dowling, con violenza. Sia nei giorni felici, pochi, sia, di più, prima e dopo, nei
settenari marcianti di “You, wind of March” (alcuni componimenti sono in
inglese), da marcia funebre: “Il tuo peso leggero\ ha riaperto il dolore”. L’ultimo di una serie di innamoramenti
infelici. In parallelo con l’impegno politico controvoglia.
Cesare
Pavese, Poesie, Newton Compton, pp. 160
€ 7,50
venerdì 6 agosto 2021
Letture - 464
letterautore
Ariosto –Non c’è solo Dante nella poesia di
Mandel’stam, nella Russia degli anni 1910-1920. Ariosto ricorre. Lo evoca in particolare
in uno dei componimenti dispersi, del 4-6 maggio 1933, a lui intitolato, riletto
in raffronto all’Italia del tempo: “In tutta Italia il più saggio, il più
gentile,\ l’amabile Ariosto ha perso un po’ la voce”. È “freddo in Europa, buio
sull’Italia.\ Il potere è ripugnante come le mani di un barbiere”. Ma lui non
demorde, “le racconta grosse” – “incantevole miscuglio di mestizia puškiniana\ e
boria mediterranea in una lingua di cicale”.
Capri – Ma è l’isola delle capre – o dei cinghiali:
a seconda che lo si voglia nome latino oppure greco. Il destino dei nomi.
Dialetto – “Il dialetto è sottostoria”, decide
infine Pavese, che ci ha molto cogitato su (“Il mestiere di vivere”, 11 marzo
1949): “L’ideale dialettale è lo stesso in tutti i tempi. Il dialetto è
sottostoria”. Per entrare nella storia bisogna rischiare e scrivere in lingua.
Ma a volte,
Gadda, un po’ anche Pasolini, la storia si afferra col dialetto. O è una storia
falsa – fantastica, inventata, adulterata?
Europa – Si è forgiata nei rumori, di guerra –
Camus lo rileva ad avvio della novella “Il Minotauro o la fermate di Orano”:
“Vi si sente la vertigine dei secoli, delle rivoluzioni, della gloria. Ci si
ricorda che l’Occidente si è forgiato nei clamori. Non c’è abbastanza
silenzio”.
Federico II – Un re nomade, lo dice Rumiz, “È
Oriente”, visitando Castel Del Monte, dove non trova cucine, stanze per la
servitù, una sala del trono – ma nemmeno suppellettili, arredi: “Dove dormiva
Federico di Hohenstaufen? Non stava dentro il castello, ma fuori. Era un re
nomade e dagli arabi aveva imparato a vivere in tenda”.
Italiano – Nei racconti che ambienta a Orano, o
comunque in Algeria con personaggi a lui “vicini”, Camus interpola parole
italiane. Nel racconto “La pierre qui pousse” usa coq, gallo, nel senso di cuoco. Camus era de resto nato in una città
algerina di nome Mondovì, sul mare, al confine con la Tunisia – con l’arabizzazione ribattezzata
Dréan (Orano è al lato opposto, sul mare al confine col Marocco).
Anche Yasmina
Khadra, lo scrittore franco-algerino, nei racconti che ambiente a Orano usa
parole italiane, “ponte”, “omertà”, “mollo”, “porcherie” solo nell’ultimo
romanzo, “L’oltraggio fatto a Sarah Ikker”.
Ne lamenta il
peso, l’influenza, nella breve ripresa poetica del 1933, dopo il decennio di
divieto di pubblicazione per scarso sovietismo (ma alla soglia dell’internamento
poi fatale), Mandel’stam nel maggio 1933, un dei testi dispersi collazionati dalla
vedova Nadežda (nella traduzione di Serena Vitale): “Che tormento l’amore per
il brusio straniero - \ per gli illeciti entusiasmi una tassa sta in agguato.\
Che fare se Ariosto e Tasso, di cui siamo in malia,\ sono mostri dal cervello
azzurro, dagli umidi occhi squamosi…”.
Non ha prodotto
i grandi romanzi perché si scrive corto, annota Pavesre nel diario il 2 novembre
1943. L’italiano si direbbe un popolo di novellatori, non c’è in altra lingua
scrittura novellistica, in poesia e in prosa, più che in italiano. Ma di breve
respiro, osserva Pavese: “La poiesis
italiana ama le grandi strutture fatte di piccoli capitoletti, di parti brevi e
sugosissimi – i frutti dell’albero. (Dante, i brevi canti; Boccaccio, le novelle;
Machiavelli, i capitoletti delle opere maggiori; Vico, gli aforismi della Scienza nuova; Leopardi, i pensieri
dello Zibaldone, ecc. Per non parlare
del sonetto”, Dovrebbe dunque spopola e sui blog, twitter, i social.
“Per questo”,
insiste Pavese, “la poiesis
italiana poco narrativa (dove si
richiede lunga distensione disgorgante: romanzo russo, romanzo francese) è
molto cerebrale e argomentante. È la negazione del naturalismo, che comincerà
infatti con l’informe distesa della narrativa inglese (Defoe)”.
Joyce – Berberova ha in un racconto (“La
grande città”, in “La resurrezione di Mozart”) “l’immortale seminarista di
Dublino”. In effetti lo fu, seppure solo per fare il ginnasio gratis.
Nerina – Il nome poetico “non ha cognome”,
Jhumpa Lahiri in nota ad avvio del suo “Quaderno di Nerina”, il volume di
composizioni poetiche scritto in italiano. Un nome tratto da greco Nereine, una
Nereide, una ninfa marina. “In Sicilia”, Lahiri, ricorda, “è il diminutivo di
Venerina, associato all’aggettivo «nero» per tradizione popolare”. C’è una
Nerina nell’“Aminta” del Tasso, e naturalmente quella di Leopardi, delle
“Ricordanze”. Lahiri vi associa anche Neera, la scrittrice di storie
sentimentali del tardo Ottocento Anna Maria Zuccari, rivalutandola - “le (sue)
numerose opere hanno affrontato la vita e la posizione speciale delle donne”.
Charles Kenneth Scott Moncrieff –
Traduttore\introduttore di Pirandello in lingua inglese, è celebrato per avere
tradotto Proust, la “Ricerca”, quasi in simultanea, a mano che l’opera appariva
in francese, facendone nello stesso tempo un testo “inglese”, senza tradire
l’originale – il pubblico di lingua inglese ha grazie a Moncrieff una conoscenza
migliore di Proust rispetto a quelli di altre lingue europee. Anche se alimenta
controversie interminabili se il suo Proust è Proust, un quasi Proust, un Proust
anglicizzato, o nient’affatto Proust. A cominciare dal titolo shakespeariano,
“Remembrance of Things Past”, invece che, come avrebbe dovuto, “In Search of
Lost Time”. Ma Conrad poté dire che Moncrieff era un miglior traduttore di Proust
scrittore.
Na Proust non
era il suo genere. Pirandello, che tradusse e impose a Londra e in America,
reputava più di Proust.
Se ne fa una
biografia che lo dice soldato e spia, “The Life of C.K.Scott Moncrieff,
Soldier, Spy, and Translator”. Azzoppato in guerra, spia nell’Italia di
Mussolini, morì a 41 anni, a Roma, alla clinica delle suore del Calvario – convertito
in guerra, era molto devoto (è seppellito al Verano). Un “uranista”, come si diceva attorno alla
Grande Guerra per dire omosessuale, amico intimo del famoso segretario privato
gay di Churchill, Edward Marsh. Per questo motivo dopo la guerra decide di
stabilirsi in Italia, dove l’omosessualità non era penale – salutato al pranzo
d’addio dallo stesso Marsh con Noel Coward, Compton Mackenzie e Reggie Turner
(il politburo di quello che
W.H.Auden, dall’interno, chiamava l’Hominter). Italianato per evitare la polizia, vivrà a Venezia e altrove, e
imporrà Pirandello a Londra e in America.
Dolores Prato – La rilegge Jhumpa Lahiri, “Il
quaderno di Nerina”, a proposito di un “romanzo prolisso\ e meravigliosamente
dispersivo,\ le cui pagine, oltre seicento,\ vanno lette senza scavalcarne
una”.
È il romanzo “Giù
la piazza non c’è nessuno”, che Giorgio Zampa, altro irregolare, nonché
curatore della scrittrice, aveva rimesso a nuovo dieci anni fa? Constava in
origine di 1.500 pagine. Che Natalia Ginzburg aveva ridotto a trecento.
Succedeva nel 1980. L’ottantenne Prato, scontenta del digest, riprese a rivedere da sé il suo originale, preparando
questo testo che Zampa s’incaricò di pubblicare nel 1997.
Rembrandt – “Martire del chiaroscuro” - Osip Mandel’stam (8 febbraio 1937, a
Voronež), “padre del buio neroverde”.
Venezia – La “morte
festiva” ci trova Mandel’stam nel 1920 – “I tuoi paramenti, Venezia, sono gravi,\
specchi in cornici di cipresso.\ La tua aria è molata”.
La
stesa che nel racconto di Th. Mann, “La morte a Venezia”, 1912. Molto diversa
dal contemporaneo Proust – che insegue ancora Ruskin.
letterautore@antiit.eu
La solitudine, nell'impero di Stalin
La
seconda stagione della poesia di Mandel’stam. Dopo quella classicheggiante
dell’acmeismo. Nell’isolamento, cui Mandel’štam si costrinse dileggiando
Stalin, nel 1933 – un isolamento che si concluderà targicamente, nel confino a
Voronež, alla frontiera con l’Ucraina, alla confluenza del fiume omonimo col
Don, in qualche tentato suicidio, e una fine oscura (che resta oscura dopo
molte ricerche). Appena uscito da un decennale divito di pubblicazione per
troppo tiepido sovietismo – con in più una rognosa accusa di plagio nella
traduzione del “Till Eulenspiegel”.
Un
personaggio e un poeta molto classico e molto eversivo. Ebreo di nascita e di
cultura, aveva cominciato col proposito di scavalcare il “caos giudaico”, il
“puzzo di bruciato del non essere veterotestamentario”, per riallacciarsi alla Grecia, a Roma, alla
civiltà governata dalla logica. A Roma, la civiltà latina: “La natura è Roma,
Roma rispecchia la natura.\ Vediamo immagini del suo potere civile\ nell’aria
trasparente come in un circo azzurro”. E, con l’acmeismo, a Dante, Villon,
Shakespeare – Dante soprattutto, e Tasso e Ariosto. Amante delle liste – alla
Eco, “La vertigine della lista” (che però non ne tiene conto): il catalogo
delle navi di Omero. Ma molto agì l’educazione cosmopolita e poliglotta
ricevuta: nato a Varsavia, cresciuto a San Pietroburgo, a 16 anni fu a
Parigi, viaggiò anche in Italia e in
Germania, a 19 studiò a Heidelberg.
Una
poesia, questa tarda, di solitudini, e di luoghi, la passione politica e la
società restando ora estranee, prima ancora che proibite. Le impressioni
d’Armenia, Leningrado,Mosca. Con il linguaggio “scientifico”, preciso e
scattante, della sua migliore saggistica - il “linguaggio della luce e
dell’aria”, degli elementi. Da “disegnatore del deserto,\ geometra delle sabbie
mobili”. La vita di relazione essendo impossibilitata: muri di carta, spie,
l’inaccessibile vicino. Di un solitudine estrema, ma visionaria: “Il tuo repertorio,
infinità,\ leggo da solo, non con gli
uomini -\ il selvatico, spoglio prontuario,\ le tavole delle massime radici”.
Molti
componimenti si suppone dal confino di Voronež. Tra “ancora giovani colline”
che lo riportano alla “chiara nostalgia\ del tutto umano chiarore di Toscana”.
Compreso il testo fatidico contro “il montanaro del Cremlino”, “baffetti da
scarafaggio”, “osseta dalle spalle larghe”, che portò alla condanna
inevitabile.
Curati e introdotti da Pina
Napolitano e Raissa Raskina, i cosiddetti quaderni, a lungo “poesie disperse”,
tenute insieme e in vita dalla moglie Nadežda, vengono con l’originale. Con una
profusa introduzione e un corposo apparato di note. La prima traduzione
integrale del cosiddetto “Codice vaticano”, le poesie che Mandel’stam poscritto
scrisse tra il viaggio in Armenia per cui è famoso, nel 1930, e il confino
politico a Voronez, cominciato nel 1934 e durato fino alla morte, per aver
criticato scopertamente Stalin, anche in un epigramma.
Osip
Mandel’štam, Quaderni di Mosca, Einaudi,
pp. 347 € 16,50
giovedì 5 agosto 2021
Ecobusiness
Il rapporto energia-clima non è una novità del G 20
di Napoli, intitolato appunto “Ambiente, Clima ed Energia”. – e conclusosi con
un nulla di fatto, nessun impegno. Era il tema della conferenza sui cambiamenti
climatici di Toronto, 1988. A Toronto si
quantificò per la prima volta la riduzione delle emissioni di CO2, di un 20 per
cento in dieci anni. Da allora sono invece cresciute del 34 per cento.
Non c’è nessun impegno dei paesi petroliferi o
carboniferi a ridurre la produzione dei combustibili inquinanti. Anzi se ne auspica
in questa congiuntura un amento, per evitare l’inflazione da fonti di energia,
da materie prime.
Malgrado ogni impegno in senso contrario, l’uso del
carbone non diminuisce. In Cina copre il 63 per cento della produzione di elettricità.
In India il 72 per cento – in aumento. In Germania il 25 per cento. In Giappone
il 30 per cento.
Fin dalla conferenza annuale del 2009, e poi dagli
accordi di Parigi sul clima, c’è un impegno dei paesi ricchi a finanziare i
paesi poveri per 100 miliardi di dollari l’anno con l’impegno a ridurre il global warming. Sul presupposto che nei paesi
poveri l’investimento nell’energia pulita sarebbe meno costoso, e di attuazione
ed efficacia più radia. Ma nessun trasferimento o investimento è stato fatto
nei dodici anni.
Il piano europeo del 14 luglio, “Fit for 55”,
ridurrebbe le emissioni globali, se attuato nell’interezza, di una percentuale
simbolica, nell’arco di un decennio: di meno di un miliardo di tonnellate di CO2
al 2030, su un’emissione globale prevista in 36-38 miliardi di tonnellate –
appena il 2 per cento.
La legge dei Procuratori ter
Portare
fuori dei documenti d’indagine riservati e comunicarli a un amico, ancorché
membro del Consiglio Superiore della Magistratura, non è reato, secondo il
Csm. Neanche colpa lieve: il giudice che l’ha fatto, Storari, può restare al
suo posto.
Storari
non è nemmeno colpevole di accuse e maldicenze d’insabbiamnto d’indagini da lui
rivolte, anche pubblicamente, al suo capo Ufficio Greco. Sempre secondo il Csm:
quindi può restare al suo posto, benché ribadisca che di Greco non si fida.
Anche Greco piò restare al suo posto: Storari di lui non s’è mai lamentato, non essendosi querelato.
Un
bell’ambientino. Che il giornale di Milano, il “Corriere della sera”, cui lo
steso ufficio confida i suoi segreti, definisce “l’ufficio giudiziario più
rispettato e temuto”. Temuto senz’altro, gli manca solo di arrestare il papa.
Rispettato da chi? A Milano gli stessi giudici dei Tribunali sputano fuoco
contro.
Il
giudice Storari fa tanta paura al Csm? O il suo complice-non complice Davigo?
Qualcuno pensa che la vicenda sia stata impiantata per dare la successione di Greco a capo della Procura milanese, a un giudice di Davigo, di destra - ma il Csm lo boccerebbe.
Gogol in Sicilia
Un
divertimento della centenaria “Adorno”, ora scomparsa, da giovane debuttante, e
uno spasso per il lettore. Le straordinarie avventure del Prefetto, anche lui
“Adorno” , e della Prefettessa, per duecento dense pagine che non stancano di
stupire. L’immagine è sempre vivace, seppure di trivialità – il parco desinare,
come il toscano di “Adorno” scrittric.e direbbe, la “verduredda”, le correnti
d’aria, la vendemmia, la vendemmia, la vendemmia, nella piccola vigna al paese
sopra Aci Trezza, gli Adorno nonni della prima nipotina che non ne saltano un
sospiro, roba di questo genere, e un pizzico, una spolveratina, di democristiani e comunisti alla Guareschi.
Ne
viene fuori un ritratto d’epoca, siamo negli anni 1950, probabilmente immortale
– il piglio è senz’altro gogoliano. Com’era e lavorava una prefettura. Come
viveva una coppia siciliana in età, col loro unico figlio – il fidanzato poi
marito della Adorno scrittrice – con gli attendenti e la serva di casa. I
trasferimenti. Le grane politiche. E un uso del dialetto infine corporeo,
“siciliano”: vero cioè, dopo tanto Camilleri giocoso. Anche perché usato, come
dal vivo, nella borghesia delle professioni, e per interiezioni, là dove cioè è
significante.
La
scrittrice si chiama Adorno – e si chiamerà poi per tutta la sua carriera
letteraria – con nome presuntamente acquisito per matrimonio: perché ai suoceri, che asserisce ritratti dal vero, ha dato il
nome Adorno. Lei è Mila Curradi, pisana, morta a Roma il 12
luglio, con una lunga serie di narrative di successo, dopo questo “Ultima
provincia”, 1962, subito premio Alpi Apuane, sempre sotto lo pseudonimo
portafortuna.
Luisa
Adorno, L’ultima provincia, Sellerio, pp. 173 € 10
mercoledì 4 agosto 2021
No Monti al Quirinale, e no Draghi
Nessuno si è ricordato di candidare Mario Monti al
Quirinale. E allora oggi l’economista già illustre, commissario di lungo corso
a Bruxelles, senatore a vita di Napolitano, salvatore della patria nella crisi
del debito 2011-2013, mette un paletto
alla candidatura di Mario Draghi. Ne mette tre, ma il senso è: fu Draghi ad
affossare l’Italia dieci anni fa.
Monti non lo dice ma celebra il decennale della
lettera con cui il presidente della anca centrale europea Trichet impose
nell’agosto del 2011 un salasso severissimo ai conti pubblici, che Draghi,
presidente subentrante della Bce (a novembre) volle cofirmare. La Bce si eresse
“a «podestà forestiero», travalicando il proprio mandato”. Per imporre
all’Italia una politica sbagliata, allora e dopo, nonché vessatoria: “In
generale, quando nel dicembre 2011 il presidente Draghi chiese il fiscal compact per una più severa
disciplina sul disavanzo e sul debito pubblico di ogni Paese. Nei confronti
dell’Italia, quando nella lettera di agosto Trichet e il suo successore
imposero, e il governo Berlusconi
accettò, che per il nostro Paese, e solo
per esso, l’impegno ad azzerare il disavanzo venisse anticipato dal 2014 al
2013”.
Qualcosa contro Draghi bolle in pentola anche alla Banca
d’Italia. Se l’ex direttore generale Panetta, oggi lui stesso alla Bce, ha
voluto denunciare una settimana fa questa politica monetaria assassina in una
diffusa intervista, sempre sul “Corriere della sera”, su cui Monti,
collaboratore storico, oggi scrive.
Ma qualcosa anche al “Corriere della sera”, al di là
(al di sotto?) dell’appoggio incondizionato di facciata? Se ogni settimana colpisce
Draghi in testa. Non sbagliate, anzi giuste, queste disamine “a babbo morto”
dell’austerità assassina – che il “Corriere della sera”, “la Repubblica”, “Il
Sole 24 Ore” eccetera, “i media”, all’epoca sostenevano, ma questo è un altro
discorso, dell’indigenza dell’informazione. Ma perché questi “decennali”? E
non si è toccata la questione Monte dei Paschi di Siena, non ancora.
Appalti, fisco, abusi (207)
Dunque,
Orcel, ora Unicredit, è quello che ha rifilato Antonveneta al Monte dei Paschi,
a caro prezzo e in controtendenza nel mercato dei merger and acquisitions, portandolo al fallimento di fatto. Quando
alla Banca d’Italia, vigile, c’era Draghi. Ora il cerchio si chiude, con Orcel
compratore per Unicredit della parte ancora in vita di Mps, senza pagarla,
venditore Draghi. Sembra una favola, ma dell’orrore.
Aumenta la Rca ancora nel 2021, dopo essere
aumentata nel 2020, due anni in cui la circolazione privata si è probabilmente
dimezzata. Cosa è la Rca, una tassa, una condanna? Le assicurazioni non si
reggono su un calcolo attuariale, o sono il vecchio esattore? servono ai
buy-back e ai salti in Borsa.
Le assicurazioni sono da qualche tempo protagoniste
in Borsa, di merger and acquisitions per lo più, il settore finanziario più a
rischio. Sono passate dalla protezione (risparmio, sicurezza) all’avventura? Ma
bisogna saperlo.
Una costosa organizzazione pubblica vigila sulle
assicurazioni, Ivass. Vigila ad arricchirle – ad arricchire i manager, tanto
meglio se disinvolti, tra buy-back, cessioni, acquisizioni?
Si
spende comunque molto, in tempo e in denaro (corrispondenze, consulenze
legali), oltre che in energie nervose, per un verbale stradale sbagliato. Ma
non c’è possibilità di rifarsi, anche su vigili a incapacità\insolenza
reiterata. Lo Stato è di diritto, per gli sbirri.
La contessa scalza e il prezzo di essere una stella
Un
polpettone, lo dovrebbe dire un critico, le tre vite della Grande Attrice, cioè
i tre amori – che però non cancellano l’unico e solo, si sa che l’amore è
immortale. Molto 1954. Che però avvince – il romanzo vuole essere romanzesco.
Con una Ava Gardner statuaria, più formosa che mai, sotto un viso semplice. E
Humphrey Bogart che fa Humphrey Bogart, il regista narratore, l’innamorato di sempre. Con mezza Italia:
Rossano Brazzi, l’inevitabile nobiluomo, marito impotente, Valentina Cortese
(nei titoli di testa – allora si mettevano prima - Cortesa), Portofino, Franco
Interlenghi ragazzo, Alberto Rabagliati, e perfino Enzo Staiola, il bambino di “Ladri
di biciclette”, il capolavoro di De Sica.
Richard
Brody, il barbutissimo critico del “New Yorker”, lo rivede come “uno dei grandi
film sul cinema”, sul fare film. Ma strutturato, molto: “«La contessa scalza» è
forse il film di Hollywood più laboriosamente strutturato dopo «Citizen Kane». Come
nel film di Orson Welles, che comincia con la morte del produttore, la storia della
Grande Attrice è raccontata con una serie di flashbacks – a partire dal suo funerale”,
ed è narrata dai suoi tre uomini più importanti. “Manckiewicz era, dopo Welles,
il cinematografaro di Hollywood più literature-mad”.
Manckiewicz
dovette produrre il film, uno dei più grandi successi di pubblico, perché non
trovava finanziatori, attraverso una sua società ad hoc, che chiamò Figaro Inc.
Girò quasi tutto in Europa, dove i costi erano minori, specie in Spagna e in
Italia, una sola scena ambientata in California.
Joseph
L. Manckiewicz, La contessa scalza,
online
martedì 3 agosto 2021
Cronache dell’altro mondo (132)
“Washington Post” non dà la notizia della
straordinaria vittoria di Jacobs sui 100 metri a Tokyo, davanti all’americano
Fred Kerley – che non si è complimentato. Titola: “Obscure Italian from Texas”.
Cioè, non vale la pena parlarne. E poi dice che troppi vincitori nell’atletica
sono risultati dopati. Ma non dice che
la maggior parte sono americani – come nel ciclismo, con Armstrong che vinceva
i Tour de France in serie. Il giornalone non dice che è un anno ormai che Jacobs corre i 100 sotto o attorno ai 10'', ma questo riguarda la professionalità.
Vanessa Ferrari ha perso l’oro a corpo libero in favore
dell’americana Jade Carey per 0.166 centesimi di punto. Ma si sapeva che non
poteva vincere. Doveva vincere Simone Biles, “la più grande atleta del mondo”
per gli americani. Poi Biles, che arrancava in classifica dietro Ferrari, si è
ritirata, senza dare una spiegazione (“ho i diavoli”), e la delusione sarebbe stata troppa per l’America? Una volta gli americani ne avevano per tutti, prodighi anche, ora sono tirchi.
Quali sono i diavoli di Biles, che gareggia da dieci
anni, di cui sei da primatista, sempre su sfide estreme, non
una novellina? Nessuno se lo chiede.
Susan Sarandon, attivista per il senatore socialista
Sanders, ha viaggiato da Los Angeles a New York per capeggiare un picchetto di protesta
davanti all’ufficio elettorale di Alexandria Ocasio-Cortez, deputata
democratica di sinistra, perché non si è impegnata per Medicare for All, un sistema
sanitario nazionale analogo a quelli in uso in Europa. Ma tutto è organizzato
dall’ex comitato elettorale di Sanders.
Nel documento presentato alla on.le Ocasio-Cortez da
Susan Sarandon e il comitato di cui era rappresentante si fa questo appello, al
punto 3: “Chiediamo che usiate i vostri enormi seguiti social media, le
tecniche di contatti con la stampa, la celebrità, per organizzare impegni diretti
a favore di Medicare for All”.
Vita nuova a Ischia
“Non
so dove vado, ma ci corro con determinazione”. Un Mattia Pascal al femminile,
la gentile comcositrice di musica contemporanea, trascrittrice di antichi
dimenticati testi e autori, decide di scomparire. Tradita dal marito compagno. Si
vive spesso accanto a persone che non ci vedono, “esseri torpidi o assenti per
i quali non abbiamo più esistenza”, e allora meglio sottrarsi - “non li
tradiamo abbandonandoli”.
Un
monumento a Ischia. Che sarà il paradiso tra l’amore finito e la morte
inevitabile, specie degli amici, vicini e lontani, e soprattutto innocenti.
Patria d’elezione e segmento paradisico di un vita plurima. Una di moglie parigina
fino al tradimento. Una di assoluta libertà a Ischia, di mare e di luce, pur
tra temporali e calure. Una tra le maree piatte, acquitrinose, di Bretagna, con
la mamma imperiosamata. Una con l’amico d’infanzia, dei sei anni, altra esistenza
solitaria, recuperata per un reciproco sostegno. In un continua efflorescenza
adolescenziale, nei trasporti, le amicizie, le delusioni - la mamma, rapporto sempre conflittuale.
Un
racconto caleidoscopico, di una vita multipla. Unificato dall’isola,
tonificante, l’aria, gli umori, la speciale saggezza. Amalia è il nome della
vecchia contadina da cui la protagonista in cerca di autore prende in affitto
la casa abbandonata su uno zoccolo di lava, una grande sala in alto che dà
l’idea di vvere nel mare – un mare cristallino, pacifico, benefico.
Una
sorta di spartito anche. Guignard, musicologo fine, l’autore di “Tutte le
mattine del mondo”, intreccia le vicende come un tema musicale. Uno spartito
con più temi, ognuno forse con lo stesso sviluppo, ripetitivo, segnato a
tavolino, ma tutti caratterizzati – l’isola su tutti.
Pascal
Guignard, Villa Amalia, Analogon, pp.316 € 21
lunedì 2 agosto 2021
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (462)
Giuseppe Leuzzi
Nel
grato ricordo del liceo a Sanremo, compagno di banco e di gruppo di Calvino, Scalfari
annota (“Io, Italo Calvino e l’Italia ferita del ‘43”): “Eravamo una dozzina.
Quasi tutti sanremesi. Un paio di Torino, io l’unico del Sud e infatti – prima
che la banda si formasse e io entrassi a farne parte – venivo chiamato
«Napoli»”. Scalfari nato a Civitavecchia, ginnasio al Mamiani, a Roma, di madre
laziale, di una famiglia di armatori, e di padre figlio di un notabile
calabrese, ma vissuto, per studi e lavoro, a Roma e altrove. Bastava il nonno,
paterno.
L’ombra
Viene
l’estate, giornate lunghe, sole caldo tre quarti del giorno, viene difficile spiegare
ai coinquilini del piano di sopra che le finestre del vano scale sono meglio
chiuse di giorno – di notte no, spalancate, ma di giorno chiuse, anche gli
scuri. Lui che è torinese ci starebbe – il meridionale per lui è un altro mondo,
e quindi lo incuriosisce. Lei no, è romana, non l’ha fatto da bambina, chiudere
le finestre, non l’ha fatto da ragazza, non lo farà mai. Ma, del resto, è
difficile anche in casa: a Firenze non c’è il culto dell’ombra, il cipresso
sarà diffuso per questo, l’unico albero che non fa ombra, e quindi l’ombra non
esiste – i meridionali si sa che fanno cose strane, e vanno compatiti, ma non
più di questo: c’è l’ombra nei quadri degli Uffizi, in piazza della Signoria, a
Boboli?
È
difficile questa nozione semplice: che bisogna aprire al sole d’inverno e
chiudere d’estate. Sembrerebbe ovvio, ma non è così. Ma non è questione di Nord
e Sud, anche se nei casi specifici sì: certi mondi non hanno l’ombra. Si viaggi
in Grecia, si troverà a ogni canto un po’ d’ombra per una sosta, una pausa, un
riposo, al guado del ruscello ma anche al tornante in montagna, in piazza,
spesso proprio il salice che ornava anche il Sud, ogni casa sperduta nella
campagna, ed è stato dismesso col boom, cinquant’anni fa, albero
altrimenti inutile - era, insieme col noce, segno che sotto c’era l’acqua,
anche nel posto più secco, e quindi pianta di buon augurio, ma non ci sono più
sorgenti, l’acqua arriva col tubo. Ovunque in
Grecia, anche nell’isola più petrosa, ci sarà sempre un po’ di ombra –
una tettoia, un lenzuolo stesso se non c’è naturale. Si faccia invece la Grecia
asiatica, quella che da un secolo giusto è Turchia, Efeso, Pergamo, Alicarnasso
(Bodrum), non si troverà mai un’ombra, a nessuna ora del giorno. Sono scomparse
anche le sorgenti, insieme con i greci di Turchia. E quindi l’albero frondoso che
si accompagna alla fonte umida, e accompagna il viaggiatore, il salice, il
platano, il frassino, l’olmo, il carrubo, il biancospino, anche, in difetto, un eucalipto. Ma non ci sono nemmeno i parchi
pubblici. E l’edilizia, privata e pubblica, l’urbanistica, i piani regolatori,
i piani paesaggistici, sono evidentemente fatti per escludere l’ombra. Non c’è il
culto degli alberi, e pazienza: i culti dendrici erano greci, e la Grecia va
cancellata, non da ora, anche da prima del presidente Erdogan. Ma anche le
strade, le piazze, i palazzi, sembrano cosruiti in maniera da non aggettare mai
ombra, a nessuna ora del giorno, in nessuna direzione. Che sembra impossibile
ma così è. L’ombra fa ombra, si direbbe in una freddura.
Franco
È
morto Franco Papitto, un amico di vent’anni, non più sentito da vent’anni. Da
quando, mortificato, lamentava problemi alla testa, lascito della commozione
cerebrale di cui era stato vittima, investito a Bruxelles mentre camminava sulle
strisce. Le nostre erano, dopo il cazzeggio d’obbligo fra calabresi, conversazioni
minute sull’Europa di Bruxelles, forse ora impegnative. Ero stato per dieci anni
o quasi il suo interlocutore quotidiano a “la Repubblica”.
Assunto
da Mario Pirani malgrado il suo passato turbolento in gioventù tra i
gruppuscoli, di destra e di destra estrema, come corrispondente da Bruxelles –
Pirani era l’unico europeista a “la Repubblica” in quegli anni e assolutamente
volle che, pur nel bilancio contenuto allora del quotidiano, Bruxelles fosse
sempre “in pagina” – Franco fu a lungo in rapporti freddi col servizio Esteri, ottimi
giornalisti evidentemente ma tutti ex di “Paese Sera” (anche questo sembrerà strano, ma il Pci è arrivato tardi a Bruxelles). Scriveva quindi quasi sempre
per una pagina di Economia Internazionale che curavo. Gradiva anche poter
discutere gli argomenti di Bruxelles, di cui era miglior conoscitore (in
concorrenza ogni giorno con Arturo Guatelli, ma presto senza, Guatelli si fece
senatore Dc nel 1979), con qualcuno che potesse pesarli. Sempre generoso del resto,
di tutto, consigli (anche culinari) e dritte. Si potrebbe portare a esempio,
anche se non gli sarebbe piaciuto, di come l’Europa, l’idea d’Europa e la
stessa quotidianeità di Bruxelles, possa
fare bene agli Europei.
Il Gotha
Si
condannano a Reggio Calabria un Paolo Romeo, avvocato, a venticinque anni di
carcere, e numerosi altri a pene minori, per avere fatto di Reggio Calabria “un
laboratorio criminale a cui tutta la ‘ndrangheta del mondo”, che notoriamente
domina il mondo, fra tutte le organizzazioni mafiose, “è chiamata ad ispirarsi”.
E per aver concepito, con un altro avvocato, Giorgio De Stefano, non della famiglia mafiosa omonima?, già condannato
in rito abbreviato, una “divinità criminale a due teste”, per controllare la
politica, l’economia, la società, “e perfino l’associazionismo”, scrive
Candito, la corrispondente reggina di “la Repubblica”. Una “cupola”, scrive
sempre Candito riassumendo la sentenza, “in grado di mettere in atto un piano eversivo
dell’ordine democratico e colonizzare le istituzioni”. Perbacco. E un piano così va solo in poche righe, nella pagina
giudiziaria?
Dispiace
per don Pino Strangio, il parroco di San Luca, l’unico conoscente tra i condannati.
Ma questo Romeo, che deve avere sui settant’anni, non è nelle cronache da almeno mezzo secolo, già
condannato per “associazione di stampo mafioso” e per “concorso esterno”, poi
imputato in un processo su quattro, o su tre, attentati a Reggio, fascista
facinoroso, legato a Freda, quello delle bombe di piazza Fontana, che lo disse
anche massone in uno dei suoi tanti processi, del quale si è vantato di avere
favorito la latitanza (“addirittura passeggiavamo su corso Garibaldi”, la via
centrale di Reggio, “un giorno gli presentai il capo della Digos locale”), tra
i difensori di Junio Valerio Borghese, il comandante della Decima Mas quando fu
accusato di golpe, nel 1970, poi “pacciardiano”, quando l’ex ministro
repubblicano Pacciardi si proponeva, quale comandante in petto dell’organizzazione Gladio, garante dell’ordine
repubblicano, per un paio d’anni deputato socialdemocratico, con approcci abortiti
a Pannella? Un fregoli. “Era il Dio della ‘ndrangheta e della politica” lo dice
il neo pentito Sebastiano Vecchio, “Seby”, altro avvocato, con un’esperienza in
Polizia, per conto dei mafiosi, assessore comunale a Reggio per Forza Italia,
in disgrazia da quando è stato eliminato il clan milanese-iberico dei Serraìno, coi
ricchissimi proventi della droga, ora attivista Pd? Ma non è una cosa seria?
L’inchiesta
che ha portato Romeo alla condanna s’intitola Gotha. Il gotha degli avvocati.
Meridionali sul
Viso e sul Bianco
“Quintino
Sella scalò il Viso con un collega (politico) calabrese, poi fondò il Cai”,
Paolo Rumiz, “È Oriente”,190. Il rifugio a suo nome sul Monviso, a 2.640 m., lo
ricorda. Nell’agosto 1963 a Torino il caldo era
insopportabile, e Quintino Sella decide con Giovanni Barracco di salire
sul Monviso. Sella ha solo 36 anni, ma è solidamente barbuto, e già ministro
delle Finanze nel governo postunitario di Rattazzi, il “servo di casa Savoia” (Spadolini).
Il Viso è il monte dei piemontesi – si chiama così, abbreviato, familiarmente a
Saluzzo. Ma era stato “violato” (scalato) due anni prima da due inglesi, Jacobs
e Mathews, nemmeno scalatori di professione – ma poi anche, nello stesso anno 1861
dai francesi Jean-Baptiste e Michel Croz di Chamonix, e ancora, l’anno dopo, da
un altro inglese, Francis Fox Tuckett, questi Grande Esploratore, che costituì
per l’impresa una spedizione.
Giovanni
Barracco, che di anni ne ha 34, non era esperto di montagna. Ma non si sottrasse. E con non grande
difficoltà fu il 12 agosto con Sella in cima al Viso. Il barone Barracco, di
Isola Capo Rizzuto, “il più ricco proprietario di tutta Italia” (François
Lenormant, l’assiriologo che viaggiò anche in Magna Grecia) – erediterà anche
per parte della madre, una Falcone Lucifero - aveva 34 anni. Era stato
consigliere comunale nella Napoli di Garibaldi, e nel 1861 deputato al primo
Parlamento italiano. Fu un parlamentare molto attivo, dal 1886 senatore del Regno,
in chiave di protezione e sviluppo del territorio, si direbbe oggi – per questo
(ma non si sa) avrebbe rifiutato nel 1869 la proposta di Giovanni Lanza di fargli
da ministro degli Esteri. Fu all’origine del tributo Pro Calabria. Ma soprattutto
fu un collezionista, di arte antica, per uno sviluppato interesse archeologico.
Le collezioni poi ordinò in casa, nei vasti saloni in via del Corso - oggi
Museo di Scultura Antica Giovanni Barracco.
Quintino
Sella in realtà non era nuovo all’alpinismo. Fu anche il primo italiano a scalare
il Monte Rosa. Fu sua l’idea di imitare gli inglesi con il Club Alpino
Italiano. A lui wikipedia ascrive anche la prima scalata italiana al Monte
Bianco. No, il primo italiano sul Bianco fu il marchese Imperiale di Napoli,
mazziniano fervente, il 29 agosto 1840 – sarà per questo, anche per questo,
senatore del Regno sabaudo.
Milano
Non passa
giorno da quando c’è il virus, un anno e mezzo, senza il supplizio di Burioni,
il virologo di Milano. Che palesemente si diverte a spese nostre, ma ogni
giorno ce n’ha una e non ce la risparmiano. Se Burioni fosse stato virologo a
Napoli? Se fosse stato un normale, che non s’inventa la cazzata?
Ciò non vuole
dire che a Milano contano le cazzate, al contrario. Milano se le inventa per impapocchiare
il prossimo. Ci guadagnerà.
“Gli animi
dei lombardi”, annota il cardinale Federigo Borromeo nel suo diario “La peste
di Milano, “sono coraggiosi e ardenti e ne danno testimonianza i ricordi del passato e le guerre combattute
per tanti anni. D’altra parte sono anche orgogliosi e superbi nei confronti dei
poteri, insofferenti delle offese e vivono molto a fatica lontano dalla loro
città”.
Per la
carestia, che precedette la peste del 1630, molti si dovettero ricoverare in città,
nota il cardinale, “avviliti”: “S’erano nutriti di cortecce d’alberi, e una
porzione di crusca era per loro cibo squisitissimo”. Succederà un secolo fa per
gli abitanti di Africo senza più casa, per alluvione o terremoto, secondo la
testimonianza di Corrado Alvaro nella conferenza sulla Calabria che tenne al
Lyceum di Firenze nel 1929, che furono rinvenuti nelle campagne emiliane nutriti
di paglia e fieno.
Il cardinale
Borromeo s’interroga a un certo punto sulla “propensione a fare affari di questo
popolo”, i milanesi. Che, pur “non avendo né un mare vicino né un fiume
navigabile”, li accrescono in continuazione. E da soli, “tutti originari del
posto, non certo immigrati e stranieri o chiamati da fuori quale è più o meno
la moltitudine che affolla le città italiane”. Il leghismo ha radici, il “crogiolo”
è per stare ala moda.
Il segreto
dei lombardi, insiste il cardinale? La costanza: “Insistono nelle imprese con
costanza e con una certa ostinazione fino alla conclusione e tutto quanto hanno
cominciato lo conducono a fine”. Questo, osserva, richiama “abbastanza i
caratteri dei tedeschi, dei quali è nota la perseveranza nei lavori iniziati”.
Non esclusa
la oneupmanship, continua il cardinale: “Qualunque cosa vedano eseguita,
la imitano sia facilmente sia
avidamente”: E “non vogliono essere superati e vinti da altri in nessuna
attività”.
Fu terribile
con gli “untori”, anche più di quanto aveva saputo Manzoni, non aliena ai
linciaggi. In appendice a “La peste di Milano” del cardinale Borromeo, Armando
Torno pubblica alcune lettere del “residente” di Venezia a Milano. In una si
legge: “Doi huomini che andavano per Milano feriti dalla peste, senza palesarla,
sono stati hieri decapitati ad esempio di altri; stava la sentenza che fossero
archibugiati vivi, ma per grazia hanno ottenuto di morire come predetto”.
leuzzi@antiit.eu
La bellezza vince il lutto
“Tu
non puoi ricordare, io non posso dimenticare”. Sul fondo idilliaco della
Toscana senese, una morte, della mamma, che distrugge due vite, padre e figlio.
Che ricordando, infine, si ritrovano: l’elaborazione del lutto si conclude,
dopo molti anni, sul limite del precipizio, dell’abbandono. “Non si ricomincia”, non del tutto, il piatto
rotto non si ricompone, ma si può vivere, in allegria.
Un
racconto delicato nel primo film di James d’Arcy, “Passione fatale”, “Master
and Commander”, scritto, prodotto e diretto da lui. Un atto d’amore per l’Italia,
per la Toscana. Sul filo della bellezza, ritrovata al cinema dopo Sorrentino. Anche
a rischio bozzetto – un po’ come la Grecia di Meryl Streep, “Mamma mia”. Ma con
nocciolo drammatico, ben tenuto su da un inedito Liam Neeson, barbuto, vissuto.
James
D’Arcy, Made in Italy – Una casa per
ritrovarsi, Sky Cinema
domenica 1 agosto 2021
Ombre - 572
Populismo
Il
cinismo
Del
razzismo
Si
profonde
Nel
buonismo
Non si contano le pagine
sui no vax in pizza. Dove sono pochi e pochissimi. Ma su una pagina campeggia Claudia
Gerini, co n una grade foto e un grande titolo: “Mia figlia si è vaccinata, io
ho una grande paura”. Pochi leggeranno l’articolo, dove l’attrice spiega che ha
avuto più minacce di trombosi.
Curioso
giornalismo, paludato ma tutto tabloid inglesi,
scandalistico. Negli anni 1980 voleva l’Italia razzista. Nei 1990 ladra -
eccetto i giudici di Milano. Poi mezza ladra e mezza fascista nel decennio di
Berlusconi. Quindi, insorgendo con la stanchezza l’anti-antifascismo, populista. Informazione?
C’è una Pas, Parental
Alienation Syndrome, una trovata degli psicologi Usa per incrementare il
business, escludendo il più possibile i genitori a favore dei servizi sociali, che
la Corte di Cassazione ha riconosciuto “dottrina nazista”. Ma Tribunali dei minori,
soci d’affari degli psicologi, non demordono, ameno in Italia: basta una
diagnosi di Pas e la Polizia si precipita in casa. Ci sarebbe materia amia per
una storia complottista. Non fosse semplice materia giudiziaria, cioè di
stupidità – e di piccole consulenze, pochi euro.
Chiara
e devastante l’intervista di Fabio Panetta, ex direttore generale della Banca d’Italia,
ora alla Bce, con Fubini sul “Corriere della sera” martedì: la politica europea
post-crisi 2008 e 2011, di compressione dei consumi interni (austerità) era
sbagliata e l’abbiamo pagata cara. Devastante perché fa capire quanto la Banca
d’Italia non conti più niente, nemmeno come opinionista – mentre conta, eccome,
la Bundesbank, e perfino la Bank of Holland.
È
chiaro Panetta anche sul problema Italia, sulla scia di Draghi - ma l’opinione si
direbbe comune : i problemi nodali sono “una bassa produttività che si traduce
in una bassa crescita, e una distribuzione del reddito e delle opportunità insoddisfacente”.
Ma
le due cose non sono collegate – il lavoro s’impoverisce e impoverisce
l’Italia?
Panetta
era anche quello che, da vice-direttore generale in Banca d’Italia, sapeva e
disse per tempo che il bail-in era a
perdere: non era un programma di prevenzione e salvataggi ma di punizione, per
azionisti, obbligazionisti e correntisti. Che la Germania volle dopo avere
speso 247 miliardi per salvare le sue banche. Che il governo – Monti per l’occasione,
non un governo qualsiasi, ignorante di Bruxelles – aveva recepito nel luglio
2012. Adesione poi interinata dai governi successivi, Letta-Saccomanni (ex
Banca d’Italia) e Renzi-Padoan – in tempo per gravare il “parco buoi” dei gioiosi
miliardari aumenti di capitale Mps.
L’Italia
chiede e ottiene il comando della
missione (Nato? Occidentale?) in Iraq, con lo spiegamento di 1.100 uomini. Ma
senza più la copertura militare americana. Per fare che?
È
in Iraq il primo passo vesso la strategia nuova del Pentagono, che conta di
occuparsi dell’Indo-Pacifico, abbandonando Mediterraneo e Medio Oriente. Dove chiede
una presenza “più vigile” della Nato. Senza passare per l’Europa, la Ue? Non
c’è una politica estera e di difesa europea.
Al
4 con all’Olimpiade la barca italiana poteva andare meglio, al secondo posto se
non al primo, se non fosse stata quasi speronata dalla barca inglese – in corsa
per il terzo posto. Gli inglesi come è noto sono sportivi. Come gli australiani
del basket, per chi ha visto il match, una specie di lotta greco-romana – senza
contatto, è vero.
Il
presidente Xi ha lanciato, attraverso la Cac, Cyberspace Administration of China,
un controllo serrato dei liocorni cinesi nel vasto mercato dei social,
chiudendo Didi, sanzionando Alibaba e Tencent. Il mercato non deve fare opinione:
è il limite della Cina veterocomunista di Xi.
Didi
non si occupa di comunicazioni (è la app per prenotare macchine con autista),
ma voleva quotarsi a Wall Street. E controllava i dati di 380 milioni di
utenti, cinesi.
Nemmeno
Alibaba si occupa di comunicazione. Ma gestisce i dati di un miliardo di
utenti.
Trentaquattro
grandi aziende tecnologiche, che gestiscono i dati di massa sui clienti, sono
sotto controllo della Cac, per un revisione della gestione dei dati – cioè per un
controllo pubblico.
È
singolare la consonanza fra i resti del Pci, ora Articolo Uno, e il “F atto
Quotidiano”, che è senz’altro di destra – compresi i giudici del cappio. Di Articolo
Uno come già lo era “l’Unità” con Travaglio columnist.
Pur facendo il governo con Draghi, Articolo Uno lo ritiene un figlio di papà e
un mezzo cretino, e applaude spanciandosi di risate Travaglio che fa il
populista.
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Il (primo) racconto della Grande Fuga - da Parigi nel 1940
Un
omaggio a Sorrento nel racconto “La grande città”. Che potrebbe essere Napoli:
della vita che trova gusto e senso anche nel labirinto dell’abbandono, anonimo.
Una fantasia commossa in memoria del marito della scrittrice, premorto giovane,
il poeta Chodasevič, evocato anonimo in chiusa: “Tutto era fuso su quel
promontorio e aveva dato forma alla vita cui sto per prendere parte anch’io. Insieme
a te, che non sei con me ma che vivi nell’aria che respiro”.
Il
racconto del titolo, della vita nuova degli immigrati – le domeniche in
campagna infine pacificate. attorno a un bottiglia di vino fantasticando su Mozart
redivivo - spazzata via dalla guerra, dai bombardieri tedeschi a ondate su
Parigi, è il primo racconto apocalittico dell’apocalittico – affollato,
disordinato, incontrollabile – sfollamento di massa dei francesi nell’estate
del ’40. Prodromo delle grandi narrazioni che saranno qualche decennio dopo di
Céline, la trilogia del Nord, “Da un castello all’altro”, “Nord”, “Rigodon”.
Il
terzo racconto è “La scomparsa della biblioteca Turgenev”, la biblioteca russa
di Parigi. Berberova, specialista di Turgenev, e di povesti,
racconti lunghi, racconta con taglio cronachistico la spoliazione della
biblioteca a opera di un giovane tedesco bibliofilo, dapprima per essere entrato,
affascinante e ambiguo, nelle grazie del direttore russo, subito poi da tedesco
occupante. Al comando di un plotone armato di traslocatori, al di sopra del
trattato di amicizia russo-tedesco allora in vigore: Parigi è stata occupata il
14 giugno 1940, a settembre la biblioteca è già vuota.
La malinconia di una scrittrice esule
che pure si fece un programma di non piangersi addosso, di vivere lo sradicamento.
Nina
Berberova, La resurrezione di Mozart, Guanda, pp. 93 € 10
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