sabato 14 agosto 2021
Le logge della giustizia
Il superpoliziotto Renato Cortese, a processo per l’ “abduzione” a maggio del 2013 della bella kazaka Alma Shalabayeva, e della sua figliola Alua, in attesa dell’appello dopo una prima condanna a 5 anni di carcere, è scagionato all’Interpol. Da una lettera dello stesso 2013 del capo dell’Interpol che ora si rinviene.
L’Afghanistan, una rotta - della Nato
Non si dice per carità di patria, ma il ritiro dell’Occidente
dall’Afghanistan è una rotta. Della Nato, nella sua prima guerra, e al di fuori del suo perimetro - la Nato è una alleanza difensiva. L’America deve mandare indietro tre battaglioni,
tremila uomini, per tenere aperto l’aeroporto di Kabul e consentire agli americani
dell’ambasciata e ai collaboratori afghani di partire. Non si dice, perché ci sono stati morti, ma la sostanza è: andarono per suonare e furono suonati. Questa fuga finale è perfino vergognosa - anche se oggi di onore non è più il caso di parlare.
Il presidente Biden, si dice in America, è deluso:
riteneva di avere avuto assicurazioni dai Talebani che il personale americano e
i collaboratori afghani non sarebbero stati toccati. Ma, se così è stato, la
rotta è anche una stupidaggine: che valore ha la promessa dei Talebani,
guerriglieri per statuto senza legge, ammesso che l’abbiano fatta?
È un problema di personalità? Solo un mese fa Biden
diceva “molto improbabile” che i Talebani si prendessero l’Afghanistan. Ora
Robert Gates, un ex direttore della Cia che è stato minisro della Difesa del
secondo Bush e del primo Obama, fino a tutto il 2011, vice-presidente Biden, da
tempo va dicendo che Biden “ha sbagliato su quasi tutte le questioni importanti
di politica estera e di sicurezza nazionale nelle ultime qattro decadi” – da
quando cioè è in politica in primo piano.
Il fondamentalismo islamico, il terrorismo, non è più
il nemico, che ci si affida a esso? Nuovamente, come agli inizi di Al Qaeda? Non c’è più comunque un disegno di contrasto del
fondamentalismo islamico. Dimenticato l’11 settembre. Aveva ragione il mullah
Omar, l’autoproclamato califfo: “Voi avete gli orologi, ma noi abbiamo tempo”.
È peggio di un errore l’enorme spesa inutile per
addestrare e armare le forze armate e di sicurezza afghane. L’Afghanistan non è una scoperta recente, la storia ci bazzica
dai tempi di Alessandro Magno. In un quadro d’ingovernabilità peraltro noto a tutti, anche a lettori di racconti.
Ma poco meno di 900 miliardi di dollari sono stati sprofondati dagli Stati
Uniti nelle sue sabbie.
L’Italia ci ha rimesso
in questa guerra inutile 53 morti e 723 feriti. A un costo di sette miliardi. Soprattutto per l’addestramento delle truppe
governative.
Sarà ora inevitabile il passaggio di Kabul nella sfera di influenza russa - si dice cinese, ma Pechino ha problemi con la sua minoranza islamica. Sarà Mosca a riempire il vuoto strategico in quell area. Con un interessante punto di interrogazione, Mosca essendo anche il riferimento degli ayatollah iraniani, che non amano i Talebani.
La Superlega dei superricchi
Sembrano preistoria i tempi in cui il Napoli si
poteva tenere Maradona – un Messi e un Ronaldo insieme. Per Ronaldo la Juventus, la Exor, la famiglia Agnelli,
si sta dissanguando. Mentre il Paris Saint-Germain ha praticamente due squadre
a livello – pagati come – Maradona e Ronaldo. Il Chelsea spende a cuor leggero
120 milioni per Lukaku, trent’anni, invenzione del maratoneta della palla Conte.
E il Manchester City 117 per Grealish, che non si sa chi sia.
Squadre di ricchi dalle dubbie fortune, arabi e
russi. Ma una colonizzazione che non fa paura. Putin sarà un nemico ma i suoi amici ricchi no. Il
mussulmano povero fa paura, lo sceicco che si compra quello che vuole al prezzo
che vuole no. Ma non è questo il tema. Il tema è che questi club, il parigino e
gli inglesi, si sono fatti di fatto la Superlega. Quella stessa che per
opportunismo politico scartarono, denunciandola perfino, qualche mese fa. L’Europeo
va con le le orecchie abbassate – all’Europeo si può far credere tutto?
Cronache dell’altro mondo - biologiche (135)
La Corte Suprema del Texas ha autorizzato i 52 “mandati
di arresto” che il presidente della Camera del Texas, il repubblicano Dade
Phelan, aveva emesso contro 52 deputati democratici che si erano assentati per far
mancare il numero legale alla Camera dei Rappresentanti. I 52 deputati si erano
recati ai primi di luglio con volo charter a Washington, pretestando impegni
politici nella capitale federale. Vi si sono trattenuti per più di un mese
ormai, anche perché affetti da casi di Covid. Ma la Corte ha ingiunto loro di “tornare
a lavorare”.
L’ “arresto civile” significa che i condannati non
vengono carcerati né multati, e non sono sottoposti a procedimento penale. Solo
autorizza la Polizia a “tentare di portarli alla Camera dei Rappresentanti”.
La Camera era in sessione speciale, richiesta dal
governatore del Texas, il repubblicano Greg Abbott, per discutere alcuni
provvedimenti urgenti. Il boicottaggio Democratico è stato deciso per evitare
il voto, facendo mancare il numero legale, su un “Election Integrity Bill”, una
legge per impedire a maschi biologici di gareggiare negli sport femminili. Una
sorta di “Aventino di genere”.
L’astuzia è donna
Dalla
raccolta “La cappella di famiglia” un’altra tipologia di racconti di Camilleri,
il boccaccesco. Su un fondo di lubricità gli uomini muoiono beati pensando di possedere
la donna, e la donna più si lascia fare per meglio liberarsene. Teresina è solo
un po’ più moderna: come si fa, “a lei, tri anni avanti”, quando ne aveva
quattordici, “glielo aveva ‘nsignato so patre”.
Andrea
Camilleri, Teresina, “la Repubblica”,
pp. 44, gratuito col quotidiano
venerdì 13 agosto 2021
Secondi pensieri - 455
zeulig
Capitalismo – Il Medio Evo lo ha “inventato”
(accettato) insieme con il Purgatorio, l’espiazione della colpa – la
redenzione. Come una colpa quindi. Non specifica: del capitalismo come di ogni
altra relazione sociale, dal signoraggio alla domesticità. Una colpa nel fatto
in sé o nelle possibili applicazioni? Nelle applicazioni. Il modo capitalista è
il modo di vita normale, comune: la compravendita, il prestito, l’investimento,
l’interesse, il salario.
C’entra la religione?
Nel processo del capitalismo non si direbbe – gli studi sulle radici ebraiche o
cristiane restano aperte, inconcludibili se non nei presupposti. Ma nella religione
cristiana ogni trasformazione è legata al pentimento, al concetto di espiazione
– un “mettere le mani avanti”, a scanso di sorprese infernali. Molto prima di Lutero.
L’assunto di Weber,
che lega lo sviluppo del capitale alle sette protestanti, è vero in colonia. Il
Brasile (come l’Angola, di cui il Brasile è etnicamente figlio) ha tutto più
degli Stati Uniti: clima, vegetazione, fiumi e comunicazioni interne, anche i
minerali. Se Al Sud fossero andati i Padri Fondatori invece dei cappuccini…
Ma Weber, più che
le sette protestanti, analizza il pietismo, in rapporto allo sviluppo del
capitalismo. Cioè una forma di protestantesimo ancora vicino al cattolicesimo –
con innesti di Swedenborg e altri esoteristi (si può riscontrare in Goethe”,
“Faust”, al Circolo di Francoforte).
Le “riletture” di
Max Weber in termini di Riforma uguale Libertà, un po’ massoniche un po’
“piciste” (i repubblico-comunisti), non sanno quanti libri di preghiere, inni, prediche, soprattutto
prediche, i cristiani riformati si sono dovuto sorbettare. Il grado di libertà
di un popolo è d’altra parte la sua esperienza storica: dove altro ha
attecchito il militarismo (da Carlo XII di Svezia a Federico II di Prussia e
agli Hohenzollern), o il nazismo, se non
nei paesi riformati?
“Se analizziamo la
genesi e lo sviluppo del capitalismo scopriamo che è questa la vera rivoluzione
permanente, e che tutte le altre «rivoluzioni» non sono state altro che reazioni
all’opera di «distruzione creatrice
compiuta nel
corso dei secoli dal capitalismo. Ma come mai solo in Occidente questa
rivoluzione ha vinto” – Luciano Pellicani, “Che cos’è il capitalismo”.
Perché il
capitalismo è l’Occidente? Ora è anche la Cina, lo stesso paese della
“rivoluzione permanente”. Ma è una Cina che parla americano. E durerà?
Concetti – Non sono, non possono
essere, assoluti, totalitari – definitivi: ogni concetto implica il suo
contrario. In termini concettuali, e reali. Non c’è un idealismo, se non in
confronto con in materialismo – e viceversa: non c’è un materialismo assoluto,
se non in confronto con qualcosa di altro dalla materia. Cìò è tanto più vero
del nichilismo: dire che tutto è un nonsenso è come dire che qualcosa lo ha.
Forza – Improvvisa (istantanea) e
solitaria, la trova Camus vagando estemporaneo nella sue riflessioni su Orano,
che considera la sua città, sotto il segno del Minotauro – “Le Minotaure ou la
Halte d’Oran” (apre la raccolta “L’été”): “La forza e la violenza sono dèi solitari.
Non danno niente al ricordo. Distribuiscono , per contro, i loro miracoli a
mani piene nel presente”.
Divinità della
collera? Ma dèi si può dire ripetitivi, contestabili ma non eliminabili. Si
cancellano una volta perpetrati. Si scrivono anche con l’inchiostro simpatico.
Chi l’ha vissuto (sopportato, ma anche inflitto) non lo racconta, chi lo
racconta può averlo vissuto ma incidentalmente.
.
Nulla di buono può
venire dalla forza? Non nel segno della violenza.
Forza e violenza
sono sinonimi?
Minoranza – Ha sostituto la classe,
come gruppo identitario e affermativo. Protetta dalle Costituzioni e dai
diritti umani, dalle carte Onu, a differenza della classe. Diritti che implicano
la protezione – un accrescimento quindi esponenziale degli stessi diritti.
Minoranza
s’intende, anche nel sentire comune, condizione di maggior favore. Da qui il
pullulare d minoranze di ogni tipo. Tutte con diritto a una “affirmative
action”, a diritti speciali.
Pesantezza – Lo spirito di
pesantezza che denunciava, Nietzsche sapeva
come affrontarlo: con la forza di carattere, il gusto, la mondanità, la
felicità semplice, la dura fierezza, la frugalità del saggio. E quello dei
social? Con i social non c’è confronto, solo la negazione. Lo spirito di
pesantezza al tempo di Nietzsche non era avvolgente – era una partita aperta.
Ritorno –Va con la
nostalgia, è sempre il nostos omerico,
di Ulisse: si ritorna in luoghi, con persone, in situazioni, conosciute, che in
qualche misura s’intende rivivere. Ma il vero ritorno è a più, e diverse,
dimensioni. Un napoletano che vive a Milano e ritorna a Napoli non fa una cosa
speciale: va da una città poco disordinata a una disordinata quasi per
principio, da una meno ghiottona a una più ghiottona, ma con gli stessi
pensieri, aspettative, paure, ansie. Il ritorno dal Nord al Sud, dalla città al
Paese, dalle Alpi all’Aspromonte, è invece – può essere, malgrado tutto,
l’acqua che manca in casa tra le acque che si disperdono della Montagna, o le
cure, o le strade, o la pulizia - un passaggio tra diverse dimensioni di vita.
Per un bisogno di diversità – di differenziazione nell’omogeneizzazione.
Solitudine – Non ci sono
più deserti, si direbbe la tebaide impossibile. Non mentali, spazi occupatissimi da mille social, in immagine,
suoni, parole, da intromissioni, truffaldine per lo più, porno, medicali,
finanziarie, e di ogni genere. Non fisici – se non senso della “poesia”, come
l’industria del turismo vuole. Non c’è più il turismo in solitario, il viaggio,
tutto è organizzato anche quando non lo è, significante secondo formule
prestabilite. E dunque la solitudine si direbbe impraticabile, la solitudine
più certa, quella fisica. Ma una nuova se ne individua, ormai da un paio di
generazioni, quella affollata: la solitudine è nell’affollamento – non c’è
bisogno del deserto, del Sahara, dei Rub-al-Qali, basta aprite il cellulare.
Storia – Maestra di vita
va ora comunemente intese nel senso del Pimandro di Borges (Ermes Trismegisto),
per il quale la storia non è la ricostruzione di ciò che è avvenuto ma “la
fonte stessa della realtà”. La quale non è “ciò che è avvenuto” ma ciò che
pensiamo si avvenuto.
C’è un senso neutro della storia, e uno prevenuto. Quello di Petrarca,
spiega Albert Manguel, del trattato “Della propria e altrui ignoranza”, per cui
la storia, povero Cicerone, era tenebra. Prima di Gesù Cristo, con “la fine di una notte per errori tenebrosissima”, e prima
di Petrarca stesso, “Aurora della vera luce”. Ma è vero, anche senza l’autoapologia
di Petrarca, che così la storia viene
letta.
zeulig@antiit.eu
Camus ritorna sui luoghi del delitto
“Orano,
capitale della noia”. Si comincia sul leggero, con un ritratto ironico della
città di elezione - la citta della
“Peste”, il racconto per cui l’autore è famoso – sul mare al confine col
Marocco. Un ritratto datato, 1939, prima del diluvio, e riproposto appunto perché
scherzoso. Ma già Orano introduce all’abisso, dell’uomo rivoltato, anche se non
sa bene contro che cosa – si dice assurdo, ma “nessuno sa cosa sia”. Sempre ragi
nativo: “La nostra ragione ha fatto il
vuoto”. Nel modo di vivere. Nel pensiero: “Solo la città moderna offre allo
spirito il terreno su cui può prendere coscienza di se stesso” (Hegel). E nella
letteratura: “Si cercano invano i paesaggi nella grande letteratura europea dopo
Dostoevskij” - “mentre i Greci davano
alla volontà i limiti della ragione”.
Un
viaggio in Algeria, Orano, Algeri, Costantina, Tipasa, i mandorli in fiore, in
questa riedizione Gallimard, 1951, di “Nozze seguito da «L’estate»”, tradotto
nel 1969 col titolo “L’estate e altri saggi solari”, a cura di Caterina Pastura
e Silvio Pezzella. Un ritorno, nostalgico già all’epoca, tra guerra e primo
dopoguerra- immaginarsi oggi, dopo l’arabizzazione e la lunghissima,
cruentissima, guerra civile religiosa. Il ritorno a Tipasa, le rovine sul mare,
luogo di elezione. I mandorli o il fiore della vita: sbocciano una notte fredda
di febbraio, di fiori bianchi e spesse foglie che resistono alle piogge e al
vento del mare, quanto basta a far crescere il frutto. Con ritorni, nei pezzi
del 1950 e successivi, sulle sue proprie concezioni filosofiche. Ne “L’enigma”
risponde ai dubbi sul suo concetto di assurdo, interrogandosi a sua volta. A
Tipasa il ritorno è freddo: l’esilio, sia pure volontario, è “la vita secca,
delle anime morte: per rivivere, ci vuole una grazia, l’oblio di sé o una patria”.
I Greci
vivevano nella misura, l’Europa vive (viveva settanta anni fa) nella dismisura – dopo la guerra Camus è
pessimista. I Greci avevano il senso del limite: “Nemesi vigila, divinità della
misura, non della vendetta”. Il senso del limite era greco fin dall’inizio, da
Eraclito: “Il sole non oltrepasserà i suoi limiti, altrimenti le Erinni, che
vigilano sulla giustizia, sapranno scoprirlo”. Noi, che abbiamo “disorbitato
l’universo”, ce la ridiamo di questa minaccia: “Nelle nostre più estreme
demenze, noi sogniamo un equilibrio che abbiamo lasciato dietro di noi e di cui
crediamo ingenuamente che andiamo a ritrovarlo al capo dei nostri errori.
Presunzione infantile e che giustifica che popoli bambini, eredi delle nostre
follie, conducano oggi la nostra storia”. Gli americani, si penserebbe, e i russi – dopo i tedeschi. “Un frammento
attribuito allo stesso Eraclito enuncia semplicemente: “Presunzione, regresso
del progresso”. Una riflessione ambientalista in anticipo sulla scoperta dei “limiti
dello sviluppo”: “La natura è sempre lì, tuttavia” . anche se non nel senso del
bello-e-buono che Camus prospetta.
Marcel
Camus, L’été, Folio, pp. 137 € 2
giovedì 12 agosto 2021
Problemi di base - 653
spock
“Viaggiare è solo un allargamento dell’Heimat”, P. Rumiz?
“La libertà, a guardarci bene, tira alla
schiavitù”, Tommaso Landolfi?
“Un
raziocinio non è mai inutile, lo è sempre”, Tommaso Landolfi?
“La moda deve morire, e morire presto,
affinché il commercio possa sopravvivere”, C.Chanel?
“Più la moda è effimera, e più è
perfetta”, C.Chanel?
“C’è solo sfortuna a non essere amati, è
una disgrazia non amare”. A.Camus?
spock@antiit.eu
La mafia (soggetto) inesauribile
Una
bibliografia stagionata, del 1993, ma già ricca di centinaia di autori e
migliaia di titoli – “oltre settecento” sono i libri, più innumerevoli saggi e
articoli. Una pubblicazione in occasione del Salone del Libro di Torino, in
ricordo dell’assassinio di Giovanni Falcne, avvenuto l’anno precedente mentre
il Salone era in svolgimento. Un omaggio, che però, a riprenderlo in mano, ha
perduto la promessa implicita di risarcimento, di giustizia, delle vittime di mafia,
poiché le mafie sono sempre lì.
Il
proposito è indiscutibile, di questa e altre pubblicazioni analoghe, di
favorire l’impegno culturale e civile contro la mafia (e la corruzione,
aggiungevano i promotori della ricerca). Che però non si affrontano con
l’impegno personale – cioè, l’impegno può poco o nulla: il delitto va
affrontato con la repressione, rispettosa certo, legale, ma quella, sì,
impegnata.
Due
curiosità. La “produzione” è recente: “Si è sviluppata soprattutto negli ultimi
trent’anni”. Di editoria diffusa: coinvolti “un significativo numero di
editori, ben 246, di cui però il 18 per cento, pari a 45 aziende, ha cessato le
attività”. Un’editoria prevalentemente meridionale: l’editoria veniva allora censita
per il 54 per cento al Nord, il 31 per cento al Centro e il 13 per cento al Sud
e nelle isole, mentre “sul tema della mafia gli editori meridionali rappresentano
il segmento più significativo con il 45 per cento delle società” - il 23 per
cento al Centro “e al Nord solo il 32 per cento”. Ma il genere diventa profuso
negli anni 1980, “gli anni dell’uccisione del generale Dalla Chiesa, quando la
mafia è costretta ad aggredire direttamente lo Stato”.
Gian
Roberto Lanfranchini-Bea Marin (a cura di), Per conoscere la mafia. Una bibliografia, Rcs-Associazione Italiana
Biblioteche, pp. 79 s.i.p.
mercoledì 11 agosto 2021
L’illusione dei tecnici – fanno solo confusione
“Certo che i ristoratori non possono chiedere la
carta d’identità”: la ministra Lamorgese, prefetto di lunga carriera, scopre
dopo settimane di discussioni quello che tutti gli italiani sanno, se non altro
per le annose polemiche contro le continue (da qualche tempo desuete) richieste
di “documenda” - ma, poi, alla fine, i ristoratori chiederanno i “documenda”,
anche loro.
Non è la prima sorpresa sgradevole dei tecnici al
governo. Quella del green pass e dei controlli è anzi poca cosa rispetto al
bailamme che i vari enti, specialisti, autorità del ministero della Salute hanno
agitato per un anno e mezzo ormai, e continuano ad agitare, intorno alla
prevenzione del contagio. Invece di dare, come è possibile e come è necessario,
un messaggio unico e chiaro.
Quella dei tecnici risolutivi in politica è una delle
tante illusioni che Scalfari, il maestro dell’antipolitica fin dalle sue prime
uscite nel 1955, ha alimentato, maestro improvvido e forse falso (propose a
lungo come tecnico risolutore Visentini, che in privato chiamava “l’avvocato
dei ricchi”). Si dice: ma Ciampi, ma Draghi. Ma Ciampi e Draghi sono eccezioni,
due tecnici di vasta esperienza politica, poiché le banche centrali sono
organismi politici, e operano in un mondo, le banche centrali, le politiche
monetarie, di finissima sensibilità. Il professor Monti, che certo è un onest’uomo,
non è un politico, e s’è visto.
I tecnici sono per formazione portati al dubbio, non
alla decisioni: ogni questione si presenta al tecnico quale è, cioè complessa.
Il tecnico non è portato a decidere, è un consulente, vede sempre i pro e i
contro. In piccolo: una trasmissione pomeridiana su radio Rai nei primi anni
1980, che aveva lo scopo di familiarizzare gli italiani con i problemi dell’energia,
dopo il secondo shock petrolifero, spiegando anche le opportunità del nucleare,
finì con i consulenti dell’Enel e dell’Enea, l’ente allora di ricerca
dell’energia nucleare, che moltiplicavano le perplessità, perché una centrale
nucleare non è semplice come una raffineria.
Cronache dell’altro mondo - cancellate (134)
La campagna del politicamente corretto, sotto la
specie della cancel culture, si
estende alle pietre. E agli uccelli. L’università di Wisconsin-Madison ha appena
rimosso un grosso masso, estratto nel 1925 e posto su uno zoccolo monumentale
come originale monumento in memoria di un geologo rinomato studioso dei
depositi glaciali, ed ex presidente dell’università, Thomas Crowder Chamberlin.
La Black Student Union e altre organizzazioni hanno chiesto e ottenuto la
rimozione perché, per l’inaugurazione, il “Wisconsin State Journal” usò un
termine razzista, “negro”, per descrivere larghi ammassi di rocce scure –
quello rimosso è bianco.
Il “Washington Post” ha aperto un forum sull’“eredità
razzista” di molti uccelli. Dei loro nomi scientifici, spesso catalogati con
nomi di “schiavisti, suprematisti e ladri di tombe”, o di chi usava termini
razzisti, cioè la “N-word” –la parola “negro”. Il giornale esemplifica col caso
del naturalista inglese Alfred Rissell Wallace, che “usava frequentemente la
parola N” e ha sei differenti specie di uccelli col suo nome. Ci sono anche uccelli
che hanno il nome di gente che lottò per la causa del Sud nella guerra civile,
o depredò le tombe di indiani per studi “scientifici”, o comprava e vendeva
schiavi.
Non ci sono stati all’Olimpiade di Tokyo gli attesi
gesti di protesta politica degli atleti, non di singoli né delle squadre –
nemmeno l’inginocchianento prima delle gare. L’assenza di gesti eclatanti è rilevata
nella stampa americana, e addebitata alle politiche restrittive del Cio, il
Comitato Olimpico.
La mafia al potere
Fa
quasi trent’anni questo non aureo libretto, con cui s’inagurava la stagione
celebrativa della mafia. Un anno dopo le stragi in cui furono assassinati i
giudici Falcone e Borsellino, quindi in tono deprecatorio, ma con esito
accrescitivo del fenomeno, di Riina per intenderci, e altre belve. Un volumetto
che è andato anche in molte scuole, dove Violante animava giornate contro la
mafia.
È
la prima bozza di relazione della Commissione parlamentare Antimafia , per la
parte attinente agli interrogatori di Tommaso Buscetta, Leonardo Messina e
Gaspare Mutolo, tre pentiti illustri, tra novembre 1992 e febbraio 1993,
spiega Violante, in qualità di presidente della Commissione, nella prefazione
alla pubblicazione in supplemento a “l’Unità”.
In
trent’anni, tre generazioni di mafiosi si erano sterminate. Ma questo resta nel
sottofondo: i tre vengono fatti parlare della mafia come di un’organizzazione
inafferrabile, intelligente, e vincente. Formalmente sono interrogati, da
Violante medesimo in qualità di presidente, ma le sue domande sono solo
interpunzioni a lunghi monologhi.
Nel
primo interrogatorio il presidente della Commissiona parlamentare Antimafia si
lascia portare per mano da Buscetta. Buscetta sa anche che “gli americani
sapevano tutto del golpe Borghese” – e lui sapeva tutto degli americani, “gli”
americani? Il caso Calvi, il banchiere trovato appeso sotto un ponte di Londra,
fu gestito da Pippo Calò (chi era Calò, per fortuna non serve più spiegarlo).
Sindona i mafiosi, che lo proteggevano, lo ritenevano pazzo. “Lima serviva a
denigrare Andreotti” – Buscetta-Violante hanno a cuore l’irreprensibilità del
divo Giulio. Lunica cosa che si evita è il coinvolgimento della mafia
nell’affare Moro.
Leonardo
Massina esordisce con i quattro quarti: “Io sono la settima generazione che
appartiene a Cosa Nostra” – che quindi c’era con la Rivoluzione francese,
oppure con Napoleone. E prosegue: “La mafia è un organismo democratico, uno dei
più importanti organismi democratici” – anche se, ingenuamente?, aggiunge: “Si
vota per alzata di mano, niente scrutinio segreto”. Quanto a lui, è mafioso
per passione, per ascendenza o destino familiare: “Io ho sempre lavorato, ho avuto
un lavaggio, una macelleria, ho sempre guadagnato di più col mio lavoro che con
Cosa Nostra”.
Mutolo,
il più inaffidabile dei tre pentiti, specie nei processi in America, è in grado
di prevedere gli attentati di Firenze, Roma e Milano, e questo è inquietante,
molto (era isolato e controllato da due anni): dopo la conferma in Cassazione
delle condanne per il maxiprocesso di Falcone, dopo le stragi Falcone e Borsellino,
“ci saranno altri attentati… Ci sono agganci in diverse città, Napoli, Milano,
Roma, Firenze”. E afferma, su insistenza di Violante, che Contrada - ora in
qualche modo scagionato - era in confidenza con tutti i capimafia.
Luciano
Violante, Mafia&Potere
martedì 10 agosto 2021
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (463)
Giuseppe Leuzzi
La
mafia è la famiglia. La scoperta è di Saviano, facendo il Pasolini sul
“Corriere della sera”: “Quando mi chiedono quando finiranno le mafie rispondo
quando finiranno le famiglie. Quando l’umanità troverà nuove forme
d’organizzazione”, eccetera – Saviano reitera i concetti, come Pasolini. Ma col
conforto di André Gide – che però aveva solo il problema di scopare in libertà:
“Famiglie! Focolari chiusi; porte serrate; geloso possesso della felicità. Vi
detesto”.
Camilleri
segnala l’“idea” della mafia, che era sfuggita, di Manlio Sgalambro. Che a lui
sembra balzana e invece non lo è – è anzi “centrale”, si sarebbe detto un tempo.
Sulla rivista “IdeAzione”, intervistato da Giuseppe Rasiti, il filosofo
catanese distingueva nel 1997 i mafiosi dall’idea di mafia. Questa dicendo una
“astrazione”, alla pari di Stato, di Giustizia, di Polizia. Una “astrazione”
che non si combatte con la Polizia, ma “con una buona logica”. Vero è – Camilleri
è contro, ma non spiega perché.
Il
“Corriere della sera-Milano” celebra l’Olimpiade di Tokyo come un successo
lombardo. Pagine da memoriale, “Lombardia da medaglia”, con foto-ricordo e
statistiche. Tutto speciale:
“Cinquantotto dei 384 azzurri in gara ai
Giochi di Tokyo” titola per l’ultimo giorno, domenica, “vivono e si allenano in
regione”, nelle più diverse discipline.
I 58 in rapporto a 384 sono meno dei dieci milioni di Lombardi in rapporto ai sessanta della popolazione
italiana. Senza contare che “vivono e si allenano in regione molti atleti di
altra provenienza”. Per il clima? No, perché la Lombardia è favorita negli
impianti sportivi.
Ma
l’orgoglio è ancora un peccato? Nel “mercato”, globale?
Il Sud è opera
pubblica
È
lo Stato che allarga il divario Nord-Sud, con prestazioni e infrastrutture
cattive e pessime. Non per una volontà politica, non dichiarata, ma per una
burocrazia errata. Invece di definire i “livelli elementari di prestazione”,
come richiesto dalla Costituzione, art. 117, lo Stato finanzia gli enti locali,
addetti ai servizi e alle infrastrutture, con i Fab, livelli di fabbisogno.
Cioè, in base alla spesa storica – chi più ha avuto più ha. Un fattore di
distorsione talmente abnorme che sarebbe inconcepibile, se non fosse la prassi.
Sul
“Quotidiano del Sud” di sabato 7 agosto Fabrizio Galimberti fa un riesame
comparato dei trasferimenti dello Stato (“settore pubblico allargato”) in euro
pro capite, per regioni e per grandi aree, sui dati disponibili per il 2018,
che parla da solo. Basti il dato medio per grandi aree, Centro Nord e
Mezzogiorno:
Centro-Nord Mezzogiorno
Sanità
2.057 1.790
Amm.
Generale
2.090 1.513
Mobillità
931 586
Reti
infrastrutturali
1.688 1.394
Politiche
sociali
7.180 5.626
Servizi
generali
1.358 1.002
Attività
prod.-Opere pubbliche 1.282 1.097
Acqua
230 146
Ambiente
e gestione territorio
310 72
Conoscenza,
cultura, ricerca 1.488 1.209
Con
alcune curiosità. La Lombardia riceve di meno per l’ambiente e per la cultura e
ricerca – molto meno della media del
Centro-Nord, e meno anche delle regioni del Sud esemplificate in tabella,
Campania, Puglia, Calabria e Sicilia. Ma
la sperequazione resta larga. E regionale: il divario Nord-Sud è ben
pubblico.
Il circolo
vizioso sembra all’apparenza ben fondato: i Comuni del Nord hanno Fab più alti
perché offrono più servizi. Ma il Fab è un meccanismo sperequativo: non
induce i Comuni del Sud a spendere di
più per i servizi, ma li obbliga al contrario, a contrarre la spesa. Mentre la
spesa pubblica ha – deve avere – indirizzo egualitario. Di più nel quadro di
una politica nazionale presuntamente (costituzionalmente) solidaristica.
La Procura di
Palmi
Famosa
per essere stata a suo tempo gestita da Agostino Cordova, il Procuratore Capo di
destra professa (Msi) che scalò i vertici della magistratura portato dall’ex
Pci, la Procura di Palmi si vuole un bastione contro la mafia calabrese,
dovendo controllare tutta la Piana di Gioia Tauro – la “plaga” la chiamava
Cordova, insomma l’area a più alta densità mafiosa del mondo. Ora soppiantata
in questa funzione dalla Procura distrettuale antimafia di Reggio Calabria, ma
pur sempre un bastione.
Trent’anni
fa, nella primavera-estate del 1991, la densità mafiosa fu tale che trabordò
negli uffici giudiziari. Il Procuratore Cordova, nel pieno di un’offensiva
giudiziaria contro due o trecento amministratori di Usl, amministratori comunali,
amministratori di Enel e Fiat, politici socialisti e politici democristiani, massoni
di varia obbedienza, tutti più o meno mafiosi, avanzò su “la Repubblica” il
sospetto, anzi la certezza, che anche gli uffici giudiziari lo fossero. I giudici
del Tribunale e della Corte d’Appello accusavano Cordova, nei corridoi, di
“velenosità e astii personali” per la distribuzione degli spazi al palazzo di
Giustizia. Cordova accusò il presidente del Tribunale, Domenico Grillea, di tenere
ormeggiata la sua barca nella darsena del porto di Gioia Tauro (non quello di
ora, il gigante trans-shipment¸ il
vecchio porticciolo dei pescatori), “notoriamente controllato” dalla cosca
mafiosa Piromalli. E di avere preteso da un ufficiale di Polizia “informazioni sugli
sviluppi dell’inchiesta sulla barca”. Il presidente della Corte d’Appello,
Alfredo Teresi, accusava invece di “irregolarità nel sorteggio dei giudici
popolari” – in senso favorevole agli imputati, sottinteso. Un bell’ambientino.
Il
quotidiano fu costretto a una precisazione. Con accuse rovesciate. Il presidente
del Tribunale diceva “una pura insinuazione “ il controllo della darsena da
parte dei Piromalli, “dato che nessun dato obiettivo e nessuna voce corrente lo
rendeva percepibile”. Quanto alla tentata subornazione, o all’abuso di potere,
nei confronti dell’ufficiale di Polizia, scrisse non contestato, che il procedimento
era invece “di un inquietante caso di indagini fraudolentemente compiute ai
miei danni mediante microspia”. Il presidente della Corte d’Assise spiegò che
il procedimento sui giudici popolari era stato da tempo archiviato dal gip di
Messina in quanto “completamente destituito di fondamento”.
Non
è dato sapere come la controversia sugli spazi a palazzo di Gìustizia di Palmi sia
terminata. La “plaga” era, e resta, ampiamente mafiosa. Erano quelli anche gli
anni dei rapimenti di persona, cui la ”plaga” era interessata.
L’onorevole
meglio del Nord
È
cupio dissolvi, sicuramente, ma dà
un’idea di stupidità. Come la Calabria oggi su De Magistris, uno che ha sempre
disprezzato i calabresi, il Sud ama molto adagiarsi sui “falsi amici”, Grandi
Giornalisti, Grandi Politici, Grandi Giudici. Rinunciando a quell’importante,
decisivo, strumento di costruzione del
futuro che è la politica. Che la stessa Calabria, Napoli, la Sicilia, Bari hanno
sperimentato con Mancini, Bassolino, nei lontani tempi di Alessi e La Loggia la
Sicilia, Bari con Moro, il Salento con D’Alema.
Non
c’è falsa causa per la quale il Sud non si immoli. Da ultimo per i 5 Stelle e
per la Lega – per la Lega. In passato ha votato entusiasta Berlusconi, la Sicilia
per ben due legislature ha solo votato Berlusconi, che non ha speso un euro in Sicilia
e non ha portato un solo provvedimento di legge, uno solo, di beneficio. Salvini è senatore
della Calabria, il leader della Lega. Il plebiscito meridionale per i 5 Stelle, che hanno inventato come
“reddito di cittadinanza” la vecchia pensione di invalidità che non si negava a
nessuno – ed era frse una elemosina necessaria, ma quanti danni non ha
provocato. E hanno voluto e sbandierato
il cashback per i ricchi del Nord.
La
Calabria ora si adopera a far vincere alle Regionali l’ex giudice napoletano De
Magistris, fresco di un fallimento decennale come sindaco di Napoli. I peana si
sprecano ogni giorno sui giornali locali. Uno che della Calabria disprezza anche
l’aria: s’inventò inchieste di ogni genere, perché lo cacciassero per incompatibilità
da Catanzaro, anche solo per Santa Maria Capua Vetere. E come lo rincorre il Pd
locale – in tutte le sue frazioni. Dopo la serie comica di commissari alla
Sanità, ora anche un presidente di Regione commissariale.
Sicilia
Nel 1911, due
anni dopo la pubblicazione di “I vecchi e i giovani”, il romanzo critico dell’unificazione,
Pirandello dettava per la scuola di Porto Empedocle una lapide che sanciva la questione
meridionale: “Due stirpi\ con vicenda ineguale di nascita di vita di morte\ due
Italie\ florida una di comuni\ splendida di signorie\ come da fiumi percorsa\
da vicini alterni destini\ l’altra arida da secoli povera\ feudalmente immota”…
Anche se “sempre accesa nell’ansia\ da generosi ardimenti”.
Riflettendo
sulle difficoltà dei sondaggi elettorali di saggiare gl umori reali dell’elettore
in Sicilia, Camilleri difende così i siciliani: “Da queste parti non solo indulgono
a raffinate beffe, ma amano soprattutto «fare teatro», cioè apparire agli occhi
di un estraneo in modo diametralmente opposto a quello che in realtà sono”. E
così privarsi della politica? Il sondaggio è politica.
Pronunciandosi
per il Ponte sullo Stretto, nel 1997,
Camilleri si pronunciava anche contro la “sicilitudine” – “Ecco perché quel
ponte s’ha da fare”, pubblicato su “la Repubblica-Palermo” (ora in “La Sicilia
secondo Camilleri”): “L’insularità crea quasi sempre….una condizione di
diversità che marcia o nella direzione del compiacimento o nella direzione
dello scoramento. In altri termini, il ponte taglierebbe alla radice la «sicilitudine», non l’essere siciliani”.
Una pagina di
“la Repubblica-Palermo” per celebrare, a dieci anni dalla morte, Lodovico Corrao,
artefice a trent’anni, sessant’anni fa, dell’“esperimento Milazzo”, delle sinistre
che sostenevano un governo regionale Dc “contro la Dc”, e Sergio Troisi non
trova una riga per nominare i cugini Salvo. Ricorda che Corrao ha ricostruito Gibellina,
di cui fu a lungo sindaco, come un paese lunare, inabitabile - “una pianta
urbana disposta per altre realtà e qui catapultata”. Ma non spiega che la
ricostruzione si fece in un’area dei Salvo, gli esattori poi condannati per
mafia e all’epoca molto sospetti. Sostenitori accesi nel 1958, anche loro, dell’“esperimento
Milazzo”.
Sarà vero che
in Sicilia la narrazione è tutto.
“Angilo era
un galantomo”, un personaggio di Camilleri (“L’oro a Vigata”), “ma come tutti i
galantuomini siciliani si scantava a morte dei carrabineri”.
Vero è, per
dirla come Camilleri, ma fra i tanti scrittori siciliani solo Camilleri lo
dice.
È in Sicilia,
a Capo d’Orlando, non al mare della Versilia o della Liguria, che Gino Paoli
concepisce “Sapore di sale”, 1963 – poi arrangiato da Ennio Morricone.
Andrea
Erminia Constand, la cestista che ha accusato tre anni fa il comico Bill Crosby
di stupro, nel 2004, è stata professionista solo nella seria A italiana, per
due stagioni, 1997-98 e 1998-99, in Sicilia: col Messina primo anno, senza mai
scendere in campo, e poi con l’Alcamo.
Con Crosby
era finita male subito: Constand aveva ottenuto già nel 2005 un accordo
extragiudiziale da 3 milioni e mezzo. Un patteggiamento che le impediva di
riutilizzare l’accusa. Cosa che invece ha fatto, portando ora all’assoluzione
di Crosby. Sembra una storia siciliana e invece succede in America, a opera di
una canadese.
Ricordava
Elio Pagliarani, il poeta ora morto, la volta che fu a Palermo, a presentare un
libro sulla mafia edito dalla Cooperativa Scrittori che lui animava, ed avevano
appena ucciso Pio La Torre. Quando si
ritrovò in tasca una cartolina dell’ossario dei Capuccini , con teschio e tibie
incrociate. Che qualcuno gli spiegò essere un “primo avvertimento”. Pagliarani
si vide morto. Mentre era uno scherzo di Nico Garrone, che lo accompagnava –
poi critico del cinema a “Repubblica”.
“C’è stato un
momento, verso al fine degli anni ’80,
in cui Elisabetta Sgarbi ed io siamo partiti alla conquista della
Sicilia,, le terra del Belpaese forse a più alto tasso letterario” – Mario
Andreose, editore, “Domenica” del “Sole 24 Ore” 27 giugno. Semplice – Andreose
e E.Sgarbi lavoravano allora per Bompiani, l’editoria per converso è milanese.
In Sicilia
solo per questioni di ordine pubblico – la famosa intervista col generale Dalla
Chiesa, che presagiva la sua propria morte – Bocca non ha scritto dell’isola,
uno dei pochi. Ma al siciliano Paolo Di Stefano spiega, in un’intervista
ferragostana del 1995, venticinque anni fa, la “differenza” con le lapidi: “Le
due guerre mondiali in Sicilia sono state vissute come qualcosa di fantastico,
tra l’esaltazione e il sogno. In quelle lapidi c’è solo retorica, vuoto,
falsità”. Mentre “nelle lapidi piemontesi c’è il senso profondo della tragedia
e di un sacrificio terribile”.
Bocca prevenuto, a disagio in tutto nel Sud, non dice delle lapidi un segno del
tradimento delle borghesie meridionali. Ma spiega bene il problema, il divario
è tra l’esaltazione e l’avvedutezza.
Ricorda
Camilleri in breve, nel racconto “Lo stivale di Garibaldi”. il raccapricciante esordio
dell’unità d’Italia, in Sicilia, che la storia trascura. Il suo prefetto avventurato
Falconcini è inviato a metà 1862 dal generale Medici (il garibaldino comandante
militare di Palermo, n.d.r.) a Montelusa-Agrigento con questa
premessa - dalle memorie dello stesso Falconcini: “Il traviamento morale di
questi siciliani ha creato in essi tali condizioni che minacciano di portarli
all’ultima rovina. Agisca di conseguenza”.
Il luogotenente
Cordero di Montezemolo, ricorda ancora Camilleri, tre giorni dopo il suo arrivo
a Palermo scriveva al re: “I beduini di quest’isola sono assai più feroci di
quelli delle Cabilie”. Il generale Govone, “tragica macchietta di torturatore e
di fucilatore”, nello stesso 1862 in Parlamento: “La Sicilia non è sortita dal
ciclo che percorrono tutte le nazioni per passare dalla barbarie alla civiltà”.
Il generale
Govone è famoso, tra la tante sue imprese, per avere fatto torturare per ventiquattro
ore senza interruzione un malcapitato che non rispondeva alle sue domande.
Prima di accorgersi che era sordomuto.
leuzzi@antiit.eu
Nerina al Porta Portese delle parole
“Le
pagine ibride di Bassani e Palazzeschi, Pavese e Levi mi hanno fatto amare la
vostra lingua. Ora mi sono messa alla prova con i versi di Nerina, una casalinga-scrittrice
che ha molto di me stessa”. Così confidava Lahiri alla “Stampa” per l’uscita
del “Quaderno”. E anche: “Il girasole impazzito di Montale ha illuminato le mie
poesie”. Un topos usato, non solo da
Manzoni, quello dello scartafaccio ritrovato, ma ben raccontato. Anche con la necessaria
ironia: “l’antica scrivania”, un “mobile imponente col ripiano alto”, si rivelerà
proveniente da Porta Portese, il mercatino domenicale romano, forse, probabilmente,
anzi certo.
Non
è l’unica invenzione. Una “Verne Maggio”, italianista presumibilmente
americana, specialista di Elsa Morante - una vicina di casa, naturalmente ex,
di Lahiri a Trastevere (più probabilmente vicina di umori, non risulta Morante
trasteverina: forse alla nascita, se è nata, come sembra, ma non si sa, nella
clinica di maternità per poveri, la sala Salvetti, allora in via Anicia), si
occupa di annotare il “Quaderno di Nerina”. Che ha bisogno di note, essendo un
genere certamente avulso in italiano, e forse anche nelle altre letterature,
per ragioni molteplici. Nerina che è naturalmente leopardiana, ma anche
morantiana. Dacché, sia per confessione di Lahiri che di “Verne Maggio”, dal
1952 l’autrice della “Isola di Arturo” progettava un romanzo dallo stesso
titolo - di cui esisterebbe lo scartafaccio nel suo lascito. Questa “Nerina” qui
però dev’essere diversa: lavora “in più di una lingua”, proprio come Lahiri, la
sua è “un’esperienza trasformistica”.
Una
cornice, insomma, multistrato. Lahiri si diverte, ma diverte anche, non stanca.
C’è un problema di rimandi, di continue interruzioni, come una conversazione
fra sordi. Ma alla fine il filo si sfila (l’allitterazione però Nerina ce la
risparmia).
Un
quaderno ben trasteverino. Via Dandolo. Il bar di viale Glorioso. Il pescivendolo
di san Cosimato che la interpella “fanciulla”. Le doppie scempie, e viceversa:
coretto per corretto, cappelli per capelli (non rilevati da Verne Maggio….), et al. Trastevere, dove la scrittrice
italianizzata ha scelto di abitare, “vicino alla casa di Elsa Morante”, viene anche al di sopra di tutto, luogo di
elezione e di riconoscimento, un luogo identitario. Nella commedia delle identità,
che è il gioco che Jhumpa Lahiri, indiana di nascita, inglese di formazione,
americana d’istruzione e carriera, italiana di elezione da qualche anno, con
gli ultimi tre libri scritti in italiano, ha scelto di sperimentare. Un
esperimento curioso, anche se al passo dei tempi, delle identità fuggevoli e
promiscue. Che Lahiri vive, in questo momento italiano, come un’apertura di
opportunità: di curiosità, linguistiche, perfino glottologiche, e naturalmente
culturali e ambientali, Trastevere non è Princeton. Che la divertono e
divertono.
Il
tono è elegiaco, quasi luttuoso. Le dimenticanze che da sempre, dall’infanzia
indiana, che non sa altrimenti evocare, perseguitano
Nerina, l’angoscia della perdita, con i ritrovamenti poi inevitabili, gli
oggetti perduti emergendo bene in vista. Di oggetti caduti, chissà come, dalle
mani. Di incidenti banali – manca solo il dito schiacciato nella porta. Con un
Alberto paziente risolutore – uno di due Alberto, l’altro è il professore di
poesia di Nerina all’università, che le ha insegnato ad amare Pessoa, suo
riferimento altrettanto importante che Leopardi.
Ma
il tono è pimpante. Una poesia narrativa, di luoghi e personaggi. Di cose
viste, memorie, impressioni: “romanzesca”.
Sul tema della sparizione, dell’ansia di perdere, e di salvare,
ritrovare.
Con
un tasso di gioco linguistico elevato. “Forsennato” e “Forsemmorto”, “l’ozio
nel mezzo dell’adozione”. la “contraddizione in termini” e la “contraddizione
terminale”. I temi pratici rifatti sul piano linguistico: “Passiamo al participio,\
la pace prolungata,\ la scrivania ignorata!”. Con i problemi in evidenza, opera
di “Nerina” o di “Verne Maggio”, nei commenti, le prolusioni, le note. Di
poetica, di sintassi, di mestiere. Con uso profuso del Battaglia – che Lahiri
sembra possedere (in 17 volumi?), con cui tanto si diverte - e del Devoto-Oli. Specie
con le parole, “sgamare”, “scartabellare”,
“pennacchio” (pernacchio?), “peripezia” – come di bimbo che scopre significati
dietro i suoni. Col genere della parole sempre un po’ misterioso per gli anglofoni.
Il
quaderno si divide in sezioni: Evocazioni, Accezioni, Dimenticanze, Generazioni,
Peregrinazioni, Osservazioni. Quanto a Nerina, “considerato il nome della
figlia, non è da escludersi che sia di madrelingua persiana, o che sia cresciuta
bilingue (forse tra persiano e inglese?)”.
Il nome è Paradiso, “Paradiso che proviene\ dal pairidaeza persiano” (ma il paradiso in farsì non è behestì?).
Con
un omaggio a Primo Levi, a Dolores Prato, e a Domenico Antonio Palumbo (chi era
costui?). Il meglio narrato forse dei tre libri scritti da Lahiri in Italiano.
Benché rapsodico, per istantanee, scorci, lampi di memoria, sogni spezzati.
Della scrittura ricostituente, cioè ricostruttiva per usare il suo metodo di
uso delle parole. Un omaggio a Roma – anche se con un paio di errori di fatto:
non c’è una via Mazzini a Roma, ma un viale con una grande piazza, e non vi
passa il tram n. 3 (il quale, se corre verso Marmorata, passa prima davanti al
Colosseo e poi davanti al Foro). Ma l’imprecisione non toglie alla volontà di
poetare piano, raccontando, raccontandosi. Di luoghi e paesaggi, memorie,
impressioni, avventure verbali. Seppure in una lingua “mai del tutto istintiva”.
Il primo libro di poesie di Lahiri. Il migliore, il più “narrativo”, dei tre
scritti in italiano. Benché il più costruito - costruito all’evidenza, con le
strutture in bella vista: la veduta non disturba in quanto mostra come una
sorpresa per la stessa scrittrice (non
un gioco ricercato ma uno trovato). Contro i “lacci pestiferi del linguaggio”. Con
molte parole portmanteau, o mashup, le parole macedonia, per fusione
di due parole diverse per via di un qualcosa in comune, una fonema, una lettera.
Con, ribadita, “l’inquietudine degli
oggetti smarriti”. “Una saga familiare” anche,
“di inciampi e incidenti”. Un Porta Portese di cose viste, ansie, ricordi,
evocazioni.
Jhumpa
Lahiri, Il quaderno di Nerina,
Guanda, pp. 206 € 14
lunedì 9 agosto 2021
Il matrimonio è maschile
Nota
Camilleri curiosamente, quando commentava i fatti del giorno per “la
Repubblica-Palermo” (“La Sicilia secondo Camilleri”, 1997): “In Italia, secondo
l’Istat, si sono avuti 3.911 casi di suicidio, la causale amorosa occupa il
secondo posto con 340 persone e, di queste, 265 sono uomini e 75 donne” .
I
suicidi sono uomini. Dice l’Istat: “I dati sui suicidi che sono avvenuti sul
territorio nazionale negli ultimi anni mettono in evidenza che sono soprattutto
gli uomini a scegliere di porre fine alla propria vita, rispetto alle donne. In
Italia gli uomini rappresentano il 78 per cento delle morti per suicidio e
le donne il 22 per cento. Per effetto di una maggior riduzione nel
tempo dei suicidi femminili rispetto a quelli maschili, il rapporto
uomini/donne è costantemente aumentato dagli anni Ottanta ad oggi,
passando da 2,4 del 1985 a 4,6 del 2016”.
Una larga percentuale di suicidi sono per amore. Unendo i due dati, se i
suicidi per amore sono maschili, i femminicidi non sono da contemperare - con
questa passione suicida? Del matrimonio indissolubile non solo per il
sacramento?
Non
si tratta di un dato culturale, come si tende a rubricare l’amore possessivo
(latino, italiano, cattolico, “meridionale”), ma di genere. Comune in tutto il
mondo: la forbice maschi-femmine in fatto di sucidi è anch’essa di 4 a 1. E le motivazioni sono ovunque in
percentuali analoghe. In Italia semmai – altra smentita all‘opinione comune
sulla passionalità – il numero dei suicidi in rapporto alla popolazione è fra i
più bassi.
Le cause naturalmente sono le più
diverse: malattie, fallimenti, altri eventi drammatici. Ma tra questi il
fallimento di un rapporto d’amore è statisticamente il fattore preponderante.
Fa
ancora testo uno studio americano del 2014, “Why might men be more at risk of
suicide after a relationship breakdown?” (“American Journal of Men’s Health”,
27 agosto 2014), che elencava sei possibili cause. Oltre al senso maschile di
autosufficienza, al residuo patriarcale di controllo del matrimonio, e alla
ferita nell’onore, prospettava l’ipotesi che il matrimonio è un’esperienza più
costruttiva per l’uomo che per la donna, la difficoltà di compensare gli
scompensi nell’amicizia (la confidenza, lo sfogo), e la crescente importanza
dei figli, del sentimento paterno.
I suicidi sono uomini. Dice l’Istat: “I dati sui suicidi che sono avvenuti sul territorio nazionale negli ultimi anni mettono in evidenza che sono soprattutto gli uomini a scegliere di porre fine alla propria vita, rispetto alle donne. In Italia gli uomini rappresentano il 78 per cento delle morti per suicidio e le donne il 22 per cento. Per effetto di una maggior riduzione nel tempo dei suicidi femminili rispetto a quelli maschili, il rapporto uomini/donne è costantemente aumentato dagli anni Ottanta ad oggi, passando da 2,4 del 1985 a 4,6 del 2016”.
Le cause naturalmente sono le più diverse: malattie, fallimenti, altri eventi drammatici. Ma tra questi il fallimento di un rapporto d’amore è statisticamente il fattore preponderante.
Fa ancora testo uno studio americano del 2014, “Why might men be more at risk of suicide after a relationship breakdown?” (“American Journal of Men’s Health”, 27 agosto 2014), che elencava sei possibili cause. Oltre al senso maschile di autosufficienza, al residuo patriarcale di controllo del matrimonio, e alla ferita nell’onore, prospettava l’ipotesi che il matrimonio è un’esperienza più costruttiva per l’uomo che per la donna, la difficoltà di compensare gli scompensi nell’amicizia (la confidenza, lo sfogo), e la crescente importanza dei figli, del sentimento paterno.
Imparare ad amare in prosa
Un’anticipazione
di “How to start writing (and when to stop”), la raccolta di consigli agli scrittori
che Szymborska dispensò per venti anni, dal 1960 al 1981, in forma anonima, ai
lettori della rivista “Žycie literackie”, vita letteraria. Era un tempo in cui,
dirà dopo, bisognava non distinguersi, appiattirsi. Ma siccome tutti vogliamo
essere diversi, la poesia sembrava un percorso quasi obbligato – tutti poeti.
Pareri
sorridenti, brevi e brevissimi, un esercizio di ironia intinta di
disponibilità. “Sospiro di essere un poeta”, le scrive una signorina A.P. da
Bialogard, “gemo di essere un editor”, risponde Szymborska. Insistente è il
richiamo al “lato prosaico” – a Grazyna da Starachowice: “Lasciamo le ali da parte,
e tentiamo di scrivere a piedi, lo faremo?”. Forse, si può anche “amare in
prosa” – “gli spiriti sono belli e cari, ma perfino la poesia ha i suoi lati
prosaici”: dopo l’ispirazione la correzione, il rifacimento, la cancellazione.
Più
che recensioni dei testi ricevuti o letti, riflessioni. Occasionali, diradate
nel tempo. Le due pubblicazioni sono un estratto del volume che New Directions annuncia
per la ripresa, a inizio ottobre, che si annuncia smilzo, un centinaio di pagine. Con le illustrazioni tratte dai collages di cui Szymborska si
dilettava. “Wit, Wisdom and Warmth”, con le tre “w” la raccolta viene presentata,
spirito, saggezza e simpatia.
Un
esercizio da maestrina, ma partecipato. A Puszka, da Radom: “Anche la noia
dovrebbe essere descritta con piacere. Quante cose stanno succedendo un giorno
in cui niente succede?”.
WisÌawa
Szymborska, “No one thinks in esperanto”,
The New York Review of Books”, $ 1
How to (and How Not To) Write Poetry, poetryfoundation.org,
free online