sabato 18 settembre 2021
Ecobusiness
L’Europa pesa per l’8 per cento sulle emissioni globali di CO2. Ma pro capite inquina più degli asiatici, con 5,9 tonnellate contro 4,2 in media – più di tutti inquinano gli arabi, il Medio Oriente emette ogni anno 9,2 tonnellate di CO2 pro capite, naturalmente gli Stati Uniti, leader incontestati dell’inquinamento, con 15,50 tonnellate pro capite.
Angela la Padrina – 3
Vale la pena ricordare quanto questo sito scriveva, recensendo “Stress
Test. Reflections on financial crises”, il libro che Timothy Geithner, l’ex
ministro del Tesoro americano, pubblicò nella primavera del 2014, su Angela
Merkel e l’Europa nella crisi bancaria e in quella del debito (un libro che curiosamente
si è scelto di non tradurre, benché di interesse per l’Italia):
https://www.blogger.com/blog/post/edit/4308716637477704291/6462015494876381296
E l’Europa? Geithner ha avuto un ruolo anche nella crisi europea. Prende
poche pagine della sua voluminosa memoria, ma è preciso e sconcertante.
Europa sbalorditiva e inspiegabile
A metà settembre 2008, a crisi manifesta,
“la Banca centrale europea aumentò i tassi, il che mi parve sbalorditivo e
inspiegabile”. Se non per “un altro round di paranoia da
inflazione”, per l’aunento dei prezzi del petrolio. Il governo americano invece
lanciava una riduzione delle tasse per 140 miliardi, un’iniziativa bipartisan,
per stimolare i consumi e gli investimenti. Mentre la Fed di New York, che
Geithner presiedeva, negli stessi mesi spingeva le banche d’affari a
ricapitalizzarsi per 40 miliardi di dollari, e a ridure il breve termine e
l’esposizione sui titoli rischiosi. Questo non bastò a salvare una delle
quattro, la Lehman, ma salvò le altre.
Successivamente due eventi fanno “inorridire” il ministro del Tesoro di
Obama, e lo stesso Obama. L’attacco franco-tedesco all’Italia a novembre del
2011 - l’unica parte di questa memoria già nota, riprodotta dalle agenzie di
stampa - e sei-sette mesi dopo l’attacco tedesco alla Grecia. “L’Europa aveva
passato la maggior parte del 2011 nei tormenti”. Il 21 luglio fu ristrutturato
il debito greco. Nello stesso mese la Bce di Trichet accresceva l’acquisto di
titoli pubblici sul mercato secondario “per aiutare a puntellare la Spagna e
l’Italia”. Ma “l’Europa non persuadeva gli investitori con una strategia
credibile”. A ragione il governo tedesco recalcitrava ai salvataggi, perché “i
beneficiari del sostegno europeo – la Spagna e l’Italia come la Grecia – non
mantenevano gli impegni di riforma”. Ma “la linea che Angela Merkel disegnava
sulla sabbia limitava le opzioni” anticrisi. C’era bisogna di un intervento
massiccio subito. Di un piano di intervento, che nei fatti avrebbe consentito
alla Bce uno sforzo gigantesco a sostegno del debito e dell’euro, con una
“leva” di “piccoli aiuti” pubblici. Le banche centrali canadese e svizzera lo
proposero, la Bundesbank lo rigettò.
A un certo punto gli europei presero a rivolgersi ai paesi asiatici per
finanziare il loro fondo di intervento, “uno spettacolo abbastanza
sconcertante”. Giappone e Cina non risposero.
A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, il consiglio
europeo dei ministri del Tesoro. Tentò di non andarci, l’invito fu reiterato e
pressante, e allora parlò “con umiltà”, scusandosi, schermendosi. Ma non poté
non dire: “È più rischioso un intervento a piccole dosi graduale che un
intervento preventivo massiccio”. Gelo, e invito a tornarsene a casa dei
ministri dell’Austria e del Belgio per conto della Germania. “No leadership”,
è il commento interno al Tesoro Usa sull’Ecofin europeo.
Il 26 ottobre fu annunciata una ulteriore revisione della ristrutturazione
del debito greco. Fu annunciato anche “un piano modesto per tentare di fare
leva sul fondo di salvataggio per movimentare il denaro privato, ma era
congegnato male e più che altro sembrò segnalare i limiti di quello che
l’Europa voleva fare”.
Via Berlusconi
Quell’autunno Obama “parlò regolarmente con i leader europei”, e anche
Geithner con le sue controparti. Ne ricevettero spesso richieste di intervenire
sulla Merkel per una maggiore flessibilità, e su Italia e Spagna per un
“impegno responsabile”. Qui viene il complotto: “A un certo punto
quell’autunno alcuni rappresentanti europei ci presentarono un complotto per
tentare di costringere Berlusconi fuori dal governo; volevano che rifiutassimo
di sostenere i prestiti del Fondo monetraio finché non se ne fosse andato.
Informammo il presidente di questo sorprendete invito, ma per quanto potesse
servire ad avere una migliore leadership in Europa non potevamo impegnarci in
un complotto come quello”. Geithner ne riferisce come di un approccio e una
decisione interna al suo ministero, al plurale, abbandonando la prima persona,
afferenti cioè a qualcuno dei suoi collaboratori. E probabilmente per iscritto,
poiché Obama non parla. Poi torna al singolare: “«Non possiamo macchiarci le
mani del suo sangue», dissi”.
Pochi giorni dopo, ai primi di novembre, si tenne a Cannes il G 20. Obama
“passò la più parte del tempo in negoziati riservati, per tentare di aiutare
l’Europa a salvarsi. La maggiore parte della conferenza riguardò le pressioni
su Berlusconi, ma noi continuammo a premere sulla necessità di un robusto firewall,
e ci fu molta pressione anche su Merkel. Merkel si sentì isolata e sotto
attacco; non l’ho mai vista così agitata”.
Poi le cose cambiano. Cambiano i governi in Grecia, Italia e Spagna. E alla
Bce arriva Draghi. “Ai primi di dicembre Draghi annunciò una massiccia
iniezione di liquidità a lungo termine per il sistema bancario europeo”, con
“un istantaneo effetto stabilizzatore… L’Europa aveva mostrato un po’ di forza
e un po’ di volontà”. A febbraio, al G 20 dei ministri del Tesoro a Città
del Messico, il morale era su: “Gli europei erano sollevati, molti dichiararono
che la crisi era finita. Io non lo pensavo. Sembrava più una tregua che una
soluzione”.
L’attacco alla Grecia
A luglio del 2012 Draghi impegna la Bce a fare “qualsiasi cosa” sia
necessario per salvare l’euro nella sua integrità. Geithner ci vede un’identità
di vedute con l’intervento monetario e finanziario americano. Ma è sorpreso –
“terrificante” – da Schaüble, che in un incontro successivo gli prospetta come
“una strategia plausibile - e anche desiderabile”, nelle sue parole, di
Geithner, l’uscita della Grecia dall’euro. Come una lezione agli altri:
l’evento, sempre nelle parole di Geithner, “sarebbe stato abbastanza traumatico
da aiutare a spaventare il resto dell’Europa, inducendola a cedere più
sovranità a un’unione fiscale e monetaria più forte”. E come incentivo
all’opinione tedesca a sostenere l’euro, senza più il pregiudizio antigreco.
Schaüble viene presentato ora come la controfigura di Merkel, quello che si
prende il ruolo del cattivo per coprire politicamente la cancelliera con il
ceto politico più recalcitrante all’idea di eurozona e di Europa. Geithner lo
dice simpatico, “engaging”. Ma ha agitato i mercati, aggravando la situazione,
più del necessario, molto di più, in più occasioni, troppe.
“A giugno dl 2012 la crisi europea bruciava più che mai”, ricorda Geithner.
Ma solo Draghi se ne preoccupava. E la risolverà ripercorrendo – in parte e in
ritardo – la ricetta americana: “L’Europa non era riuscita a convincere il
mondo che non avrebbe consentito una catastrofe”. Geithner ha presente,
ricorda, quello che tutti sapevano ma nessuno in Europa denunciava: “difese
fragili e politiche confuse”. Scrive allora a Draghi per incoraggiarlo: “Temo
che l’Europa e il mondo guarderanno ancora a te per un’altra dose di abile,
creativa manifestazione di forza da banca centrale”. Draghi sa di doverlo fare
ma la Bundesbank non glielo consente. I tedeschi “non avevano un piano per
salvare l’Europa ma sapevano quello che non volevano”, così Geithner sintetizza
le sue conversazioni con Draghi – “quel luglio Draghi e io abbiamo avuto
parecchi conversazioni”: “Davano una lettura limitativa dei poteri legali della
Bce, e si opponevano a qualsiasi cosa sapesse di questione morale”, di
salvataggi con denaro pubblico (quello che la Bundesbank aveva tranquillamente
fatto in casa, va aggiunto).
Qualsiasi cosa
Il consiglio di Geithner è di “lasciare la Bundesbank fuori”. Il 26 luglio
uno studio Citigroup dà la Grecia fuori dall’euro al 90 per cento. Quello
stesso giorno, a un convegno a Londra, al termine di una serie d’incontri con
banchieri e gestori di fondi, Draghi proferisce le parole famose: “Nei termini
del nostro mandato, la Bce farà qualsiasi cosa per preservare l’euro. E credetemi,
sarà abbastanza”. Fa l’annuncio, scrive Geithner, sotto l’impressione del
pessimismo che ha riscontrato negli incontri londinesi, ma non ha un piano.
Geithner va allora a Sylt, dove Schaüble è in vacanza, per tentare di
convincerlo. Ne ricava quanto si è già riferito – “lasciai Sylt più preoccupato
di prima”. Si ferma a Francoforte da Draghi, che lo rassicura, ma sempre
senza un piano.
Di ritorno a Washington, Geithner spiega a Obama che l’Europa può mettere a
repentaglio il programma anticrisi americano. Obama chiede più volte che
l’Europa affronti la crisi con decisione. A settembre Draghi annuncia il
programma di riacquisto di titoli pubblici europei sul mercato. I mercati si
rassicurano, ma per poco. Viene Cipro, altra confusone.
La memoria lascia gli europei in crisi. Tra “impegni sempre confusi e
incompleti”, nei “loro tardivi e spesso inefficaci tentativi di imitarci”.
Sempre divisi su “un robusto programma europeo di ricapitalizzazione diretta
del sistema finanziario, come il nostro”. Incapaci di “un piano effettivo di un
sistema comune di assicurazione sui depositi” (quello oggi in discussione). Con
una disoccupazione a livelli impensabili, “molto peggiore che negli Usa, una
crescita stagnante, … un’austerità mal posta”. La conclusione è triste: “C’era
tanta sofferenza innecessaria dietro questi dati”. E orgogliosa: “Gli errori
degli europei … fornivano un’ottima pubblicità alla nostra risposta alla
crisi”.
(fine)
Contagio a Vigata
C’è
un’epidemia in paese. Anzi al circolo – ex dei nobili, ora dei (pochi)
professionisti. Una “epidemia da duello”: a un certo punto tutti vogliono battersi
in duello con tutti, “il duello era forse contagioso?”.
Un’epidemia
per una causa, come sempre, remota. Il barone Paternò avendo pugnalato a morte
in un albergo malfamato al Pantheon di Roma la sua amante donna Giulia Trigona
di Sant’Elia, grande aristocrazia, nata Mastrogiovanni Tasca di Cutò, maritata
Trigona dei principi di Sant’Elia, perla del salotto Florio a Palermo, dama di
compagnia della regina Elena a Roma, trascurata dal marito per un’attricetta
della compagnia Scarpetta, quella del film di Martone a Venezia, incapricciata
del più giovane aitante barone Paternò di Cugno, tenente di cavalleria, che l’Enciclopedia
delle donne e Tomasi di Lampedusa onorano.
Una
presa in giro, arguta, del codice Gelli, il manuale dei duelli, ora ignoto a
tutti ma di cui si faceva gran parlare ancora nel dopoguerra, prima del Grande
Rinnovamento del Sessantotto – la stupidità è lenta. Camilleri è grande
narratore, in qualsiasi pozzo o ritaglio si cimenti, anche il codice Gelli. Questo racconto gira per di più, a parte il ridicolo dei duelli che da uno arrivano a sette, sulle “palle”.
Di pistola naturalmente, di quelle ad avancarica, non potendosi fare il duello
con l’automatica: ci sono “poche palle”, malgrado l’animosità – la questione sarà
risolta dalle mogli. Niente, insomma. Ma funziona.
Andrea
Camilleri, Il duello è contagioso, “la Repubblica”, pp. 44 gratuito col
quotidiano
venerdì 17 settembre 2021
Problemi di base - 657
spock
Una volta si viveva peggio ma il futuro
era per noi, ora si vive molto meglio ma l’orizzonte è buio?
Il sole non sorge più - non come una volta?
Si può dire che la ladra è rumena, o
bosniaca, ma non che è rom?
Il razzismo è stupido, l’antirazzismo
pure?
Perché l’odore dei cani innervosisce i
cani?
Su Google non si può scrivere negro, ma si
può scrivere merda: che censura è?
Perché delle feste e i galà si pubblicano
abiti e facce raccapriccianti, specie di sconosciuti?
spock@antiit.eu
La Nato minacciata, dagli Usa
Mattarella celebra giustamente la Nato,
settant’anni di libertà in Europa, e di pace. Ma è un’alleanza debole, e non da
ora. Inerte sul fronte Europa Est, trascurata
nella ritirata dall’Afghanistan, dimenticata nell’Indo-Pacifico, la Nato non se
la passa bene: l’Europa è sempre più trascurata dagli Stati Uniti.
Sopravvive burocratica. Con le nomine,
segretario generale, comandanti di settore, e con i piani. Ma non funziona. Nemmeno
come coordinamento.
La politica americana è sempre quella di
Trump. Che però non è di Trump, va sotto il suo nome perché l’ha messa in
evidenza, già con Obama vigeva un tacito neglect
– Obama prima di Trump era personalmente annoiato dagli europei. Gli europei
non spendono abbastanza per la difesa, non si impegnano in guerra, limitandosi
a presenze in clausura (testimonianza), e non collaborano politicamente con
Washington. Non nei problemi atlantici né nei riguardi di Mosca e di Pechino. Un alleato non inutile, ma neghittoso, e forse inaffidabile.
La disattenzione americana in ambito Nato
non è nuova, risale al tempo della Guerra del Golfo, malgrado la partecipazione
dei volenterosi, e poi nella guerra al terrorismo. Scarso coordinamento militare,
poco o nulla nell’intelligence, efficacia
zero, sul campo. Nel mentre che insorgeva l’area del Pacifico come di maggiore impegno
per l’America, per la sfida prima giapponese (commerciale), poi (commerciale,
politica, militare) della Cina.
L’Europa si è peraltro autoesclusa dagli
affari mondiali. Per l’Europa vale da tempo il credo del non-intervento, delle
“guerre pacifiche” e perfino “umanitarie” – cioè dei simulacri. Un’Europa lasciata
di fatto alla Francia e alla Germania: con la Francia belligerante, su
tutti i fronti, non si risparmia nulla, e la Germania pacifista, su
tutti i fronti, unicamente interessata agli affari. Con la Germania prevalente e anzi dominante, il non
fare – a fronte della ammuìna, la Francia è sempre quella del vorrei ma non posso. Ora accusa Biden, e il governo australiano di duplicita e di disonestà, accuse gravi, ma con che esito?
Angela la Padrina - 2
È opportuno riproporre, per una
valutazione del cancellierato Merkel, quanto questo sito poteva scrivere il 18
agosto 2019, “Merkel o della Finis Europae”:
https://www.blogger.com/blog/post/edit/4308716637477704291/1241123455399843259
Si
celebra Angela Merkel al tramonto omettendo il fatto più importante: che ha
imposto all’Europa la stagnazione e la recessione. L’Europa è la sola delle tre macroregioni ricche ancora in
affanno dopo la crisi bancaria del 2007, cioè negli ani di Merkel, mentre Usa,
Cina e Giappone hanno abbondantemente superato la crisi e anzi se la passano
come non mai. E questo per la politica merkeliana, un’ossessione e quasi una
divisa, del “troppo poco, troppo tardi”. Nei casi della Grecia, dell’Italia e
di ogni altra crisi possibile.
È stato solo possibile tirare fuori dal crac
l’Irlanda, per le pressioni delle multinazionali americane, e la Germania. Con
giganteschi esborsi europei in entrambi i casi, della Bce e della Comunità.
Merkel ha usato dire nei giri europei che non poteva
fare di meglio e di più perché l’opinione tedesca è nazionalista o antieuropea.
Ma è con lei, e con le sue politiche del risentimento, antilatine,
antimediterranee, che la destra tedesca è rinata forte, e i nazisti sono
perfino in qualche Parlamento regionale, dopo ottant’anni. Il contrario è più
vero: è la sua politica che ha alimentato la destra tedesca.
Un primo bilancio se ne poteva fare il
31 gennaio 2019, nella minierie “La fine dell’Europa di Angela Merkel”, in
questi termini:
https://www.blogger.com/blog/post/edit/4308716637477704291/3668574503062547193
Sarà difficile
ricordarla, se non per le quattro elezioni vinte. O allora per i danni che ha
fatto, con la lesina e l’indecisione, “troppo tardi troppo poco” la divisa che
le si è incollata. E l’esecuzione cieca degli interessi delle banche e
dell’industria tedesche, con danno probabilmente letale per l’Europa, l’unica
grande area economica che non esce dal precipizio del 2007 - sopravvive
intaccando la rendita.
Ha solo deciso quello
che le banche e l’industria hanno voluto. Il salvataggio multimilionario delle
banche, con fondi europei. L’abbandono del nucleare, per gli interessi
carboniferi. E il famoso milione di immigrati del 2015, con fondi europei,
perché la Germania è in forte crisi demografica e la Confindustria tedesca ha
bisogno di braccia. Creando la questione immigrati in Europa: fra i paesi che
attorniano la Germania, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Croazia, Slovenia, la
stessa Austria e l'Italia – e la Francia, che fa muro ma non lo dice, per la
politica macroniana della ipocrisia.
Non si ricorderà nulla
dei suoi dodici o tredici anni, quanti saranno. Se non la crisi dell’Europa,
che dopo il suo cancellierato potrebbe essere irreversibile. E la Grecia e
l’Italia per i danni che ha loro inflitto. All’Italia con la svendita dei Btp
nella primavera del 2011, e i sorrisetti pubblici con Sarkozy – di cui rideva
in privato. Il suo partito lascia in macerie, avendo stroncato ogni
possibile deuteragonista.
https://www.blogger.com/blog/post/edit/4308716637477704291/6296781913658841102
Pessima è stata la
politica della Germania di Merkel nei riguardi dell’Italia, pure suo partner
economico privilegiato. Specie nella crisi del debito del 2011 – da cui ancora
l’Italia non si è ripresa. Con molteplici tentativi di mettere al centro della
speculazione anche le banche, le banche italiane. Con l’incredibile suo
presidente della Bundesbank, Weidmann, un giovanottone di nessuna esperienza,
eccetto la segreteria di Merkel, che si alternava con il ministro del Finanze
(Tesoro) Schaüble, vecchia volpe democristiana, per puntare i cannoni a
settimane alterne contro l’Italia.
Non ci sono solo i
sorrisetti di Merkel col disprezzato Sarkozy contro l’Italia. Mai visto
nella storia della moneta un ministro del Tesoro e un presidente della banca
centrale che si agitano a creare panico. Al punto da scandalizzare il
governo americano, Obama e il suo ministro del Tesoro Geithener, che lo ha
scritto nelle memorie. Pur essendo l’America, non solo lo speculatore Soros,
pregiudizialmente contraria all’euro - gli Stati Uniti sono sempre stati, fin
dal tempo di Clinton, contrari.
Tutta la Germania
istituzionale fu mobilitata contro l’Italia, e non passava giorno, si può dire,
senza un attacco. Che in un vero ordinamento europeo sarebbero stati materia
penale. La Deutsche Bank di Ackermann, un manager svizzero consigliere di
Merkel, si disfece preliminarmente di tutti i Btp, ricomprandoli a termine, e
lo fece sapere, fece sapere della vendita, al “Financial Times”. “A
ottobre 2011”, scrive G. Leuzzi in “Gentile Germania”, un libro del 2015, “per
riaccendere la crisi che si affievoliva dopo la vendita dei Btp, il capo
economista della Deutsche Bank, Thomas Mayer, pubblicamente aveva ammonito
contro ogni aiuto all’Italia. In una col presidente del Ces-Ifo di Monaco,
rinomato istituto di studi sulla congiuntura, Hans Werner Sinn, che aveva
redatto e pubblicizzato una serie di note contro l’Italia, sul debito e le
banche. Con l’effetto non casuale di mettere nel mirino le banche
italiane, meglio gestite e capitalizzate delle tedesche, elevando una cortina
di fumo su quest’ultime, che erano tutte un colabrodo, Deutsche inclusa.
“Offrire un’assicurazione di prima categoria sui titoli contro il fallimento
dell’Italia ci colpisce come offrire un’assicurazione sulla cristalleria al
padrone di una casa prossima a un impianto nucleare che sta per collassare”,
scrisse Mayer online nel bollettino della banca. Neppure con la garanzia del
Fondo europeo di stabilizzazione: “Né il padrone di casa né il detentore di
titoli italiani si sentirebbero molto sollevati da questa assicurazione”.
È stata questa la
Germania di Merkel, che ha infettato l’Europa.
(continua)
L'aborto clandestino
Ernaux
non è menzionata nel premio di Venezia quest’anno, il Leone doro, al film che
ne è stato tratto, se non da ultimo, nei titoli di coda, come autrice del racconto da cui è stato tratto il film. Ma il racconto dell’aborto
cui si è sottoposta a gennaio del 1964, dunque tra i 23 e i 24 anni, ancora studente
di Lettere a Rouen, impegnata a una tesi sulle donne nella poesia surrealista,
cioè in Éluard, Breton e Aragon, per una gravidanza esito di un rapporto con
uno studente già lontano e mezzo dimenticato, svolge come una sceneggiatura. Volutamente
piatta sulla pagina, senza culmini, drammi, pericoli. Come testimonianza di una pratica
pericolosa e avvilente, quando l’aborto era un reato, non come un damma personale
– questo, per la verità, colpisce il lettore, la mancanza, o quasi, di tensioni
personali.
L’evento
è raccontato passo passo: niente mestruazioni, nausee, i complimenti del ginecologo,
“lei è incinta di un mese e mezzo, i figli dell’amore sono sempe i più belli”,
la decisione di abortire senza mai un dubbio, una inconrgua settimana bianca nel
mezzo, incinta di due mesi e mezzo, con l’amico già lontano, il tentativo con i
ferri da uncinetto, come trovare una mammana, la mammana, un aborto non riuscito,
uno riuscito, intanto siamo a tre mesi e mezzo, il feto penzolante “con una
grossa testa, sotto le palpebre trasparenti gli occhi fanno due macchie blu”,
ha anche un minuscolo sesso, la placenta tagliata male, l’emorragia, l’ospedale.
Un
dramma, si pensa, ma che non avrebbe lasciato traccia – il lettore è portato a
simpatizzare col feto e antipatizzare
con l’autrice sconsiderata, ma non è questo evidentemente lo scopo del
racconto. Ernaux lo ricostruisce tardi nel 2000, uscendo da un consultorio Aids
dove la trovano “negativa”, malgrado le indisposizioni seguite a un rapporto (a
sessant’anni…) senza preservativo con un amico venuto da Roma. Un racconto che
decide di fare per ribadire che l’aborto non può essere illegale, basandosi su
scarsi ricordi e qualche appunto di diario, non più di due o tre righe. Un’esperienza
che non avrebbe lasciato traccia, né morale né fisica. Lo stesso anno dell’aborto
Ernaux si sposa, e avrà due figli. Sei anni
più tardi scrive su “Le Monde” di problemi e cause femministe. Dieci anni più
tardi è già autrice di un primo romanzo, apprezzato - è “Gli
armadi vuoti”: il romanzo d’esordio racconta già questa storia: Ernaux riscrive
molto.
Un
testimonianza, il più possibile “oggettiva”, disincarnata. Di quando l’aborto
era proibito per legge, e materia di levatrici, nei casi migliori, in segreto, a
rischio setticemia e emorragia. “Scrivere
la vita” è la sua scrittura, si dice Annie Ernaux a presentazione del volumone “Quarto”
Gallimard che ne raccoglie le narrazioni. Non un compito che si è dato, ma una
maniera d’essere e di raccontare: il mondo, attraverso la sua esperienza.
Annie
Ernaux, L’evento, L’orma, pp. 128 €
15
giovedì 16 settembre 2021
Angela la padrina
Si celebra ovunque, incondizionatamente, Angela
Merkel, e non si vede perché. Ha governato la Germania, e l’Europa, per
sedici anni, ma che cosa ne ha fatto? Cosa ha dimostrato, a parte la
capacità parlamentare di manovra, a destra, a sinistra, e nello stesso suo
centro, i suoi partiti, che peraltro ha devitalizzato?
Ha cancellato la Germania dalla politica europea, tutta intenta ai privati
affari della Germania stessa, con Putin, con Pechino, e l’Europa dalla politica
mondiale. Scettica sulla Ue, per anni scopertamente (il discorso di Bruges è del 2010), poi ironica, sufficiente - e sempre unilaterale e mercantilista, per la bottega Germania (Bce, Putin, Erdogan, immigrati). Sul fronte atlantico, ci sarà da lavorare per gli storici, tra uovo e gallina, tra Washington e Ue, ma in tutti questi anni le relazioni sono state al minimo, Merkel è stata quasi persona non grata in America, senza alcun beneficio per il Vecchio Continente. La cancelliera ha condotto la Germania in salvo attraverso tre crisi, delle banche,
del debito, del virus, ma – nelle prime due – a danno dei partner europei, e in
tutt’e tre grazie alla riforma del lavoro del suo predecessore Schröder, un
socialista che ha disintegrato il mercato del lavoro.
Le attribuiscono anche il salvataggio dell’euro nella crisi del debito quando
invece l’euro è andato in crisi a causa sua. Tardi e poco per salvare la
Grecia. E accanto al grande statista Sarkozy nello strangolamento tentato
dell’Italia. Merkel rideva di Sarkozy la notte con i suoi collaboratori al
bicchiere della staffa, e con Sarkozy quando bisognava mostrare al mondo che
l’Italia era kaputt. Questo si
tace, e se si dice si fa scandalo, cospirazionismo, complottismo eccetera, il
partito della Cancelliera è in Italia molto forte, il numero delle agiografie in circolazione è impressionante, ma è solo l’evidenza: lei
“non c’era” naturalmente, ma questo se lo dicono i padrini.
La ragazza dell'Est
Una
donna al potere. In Germania – cioè a capo dell’Europa. Per sedici anni, per
quattro legislature. È sicuramente un successo degno di nota. Di una donna, per
giunta, dell’Est tedesco, che in Germania è disprezzato come il Sud in Italia.
Ma il successo va giudicato nei suoi fatti. A partire dagli esordi, anonimi,
molto. Passò nel 1989 a Berlino Ovest per caso, portata dalla folla,
uscendo dalla palestra, col borsone a tracolla. E questo è tutto quello che se
ne sa, anche se alla caduta del Muro aveva 34 anni, e quindi un passato. Con
lei è così: indistinzione e grigiore. Della Ddr, la Repubblica Democratica
Tedesca, avendo preso il realismo del potere, che è mediocre: della sua
resistenza, o incapacità, a impegnarsi sulle questioni di principio e di
prospettiva ha fatto un’arma. Della mediocrità.
Helmut Kohl, il cancelliere di più lunga durata dopo Bismarck, artefice della riunificazione, e della moneta europea, se ne fece bandiera, della “ragazza dell’Est”, da Grande Maneggione
politico, e la ragazza presto lo giubilò – “ha una pietra nel cuore”, dirà di lei
il suo mentore oltraggiato. Allo stesso modo ha anestetizzato l’Europa, che
sempre ha bloccato sulle questioni minime, incapacitandola. Giustificandosi col
dire, con cinismo da casalinga: “Senza di me vedreste…”. La cancelliera del
“troppo tardi, troppo poco”. Per dire che la Germania è inselvatichita, mentre
non sembra proprio, non se ne vedono segnali.
Si dice: ha sostenuto Draghi contro la sua stessa Bundesbank, contraria
al quantitative easing, ma a Draghi
lei è arrivata dopo il fallimento-ritiro dei suoi candidati, Weber e Stark, e
dietro l’impegno a salvare lei e le banche tedesche con quello che i giornali
tedeschi chiameranno la “Grosse Bertha” - il supercannone del 1914-18 che
bombardava Parigi: un intervento spettacolare a salvaguardia delle banche. Un
gigantesco prestito a tre anni a bassissimo costo che ha salvato tutti, ma
soprattutto le banche tedesche, olandesi, belghe e austriache, le peggio messe
- Draghi alla Bce, fautore della politica d’intervento ma anche miglior
guardiano degli interessi della Germania.
Ha chiuso, si farà entro un anno, le centrali nucleari, autorizzando quaranta
nuove centrali a carbone. Ha affidato a Erdogan il trattamento dei rifugiati
siriani e mediorientali, a spese della Ue, senza consultare nessuno – a
Erdogan. Fredda a ogni suggerimento di una politica europea dell’immigrazione,
che è solo necessaria.
La creazione di Afd
Si è presa i profughi della Siria, che sono meglio
degli africani disperati a mare - manodopera pronta, più preparata, meglio
integrabile. Un anno, per la platea – mettendo in difficoltà i paesi limitrofi
e di transito, dalla Croazia alla Polonia. E poi basta: non una mano d’aiuto
all’Italia e agli altri paesi esporti nel Mediterraneo, Spagna e Grecia, e
all’Est, non una politica europea dell’immigrazione. Che sarebbe anche facile,
oltre che meritoria.
Siamo rimasti alla Germania del 2016, quando secondo Angela Merkel poteva
accogliere un milione di immigrati. Ma le cose sono cambiate: già l’anno
successivo, prima ancora quindi del voto a settembre 2018 che ha punito Merkel
e i suoi partiti democristiani, l’“accoglienza” tedesca si era dimezzata. Nel
2016 ben 745 mila richieste di asilo erano state presentate in Germania, nel
2017 solo 223 mila. Mentre in Italia la cifra è rimasta inalterata e anzi è
aumentata: 123 mila richieste nel 2016, 129 mila nel 2017.
Il
“restringimento” è avvenuto in Germania, va aggiunto, come nel resto
dell’Europa. Nel 2017 le richieste di asilo nella Ue sono passate da 1.260.910
del 2016 a meno di 700 mila. Lo
stesso l’accoglienza: si è passati da un’accettazione delle domande
di asilo del 61 per cento nel 2016 al 45,5 nel 2017. Anche qui, il calo è stato
determinato dalla Germania. Che ha ridotto l’accettazione dal 69 al 40 per
cento, da sette su dieci a quattro. In Italia la percentuale è stabile, attorno
ai quattro su dieci - 39,4 per cento nel 2016 e 40, 6 nel 2017.
Nel frattempo il beau geste di Merkel era costato alla Germania la spaventosa
crescita dell’ultra destra, Afd, con il 12 per cento al Bundestag, terzo più grande partito a soli tre o quattro anni dalla fondazione, con la
maggioranza relativa a Est, in Brandeburgo (la regione di Berlino), Sassonia,
Turingia, Sassonia-Anhalt. È costato alla Germania e all’Europa, ma più di
tutti ai due partiti della stessa Merkel, Cdu e Csu: il travaso non è tornato e
non tornerà indietro, la destra non è più proibita in Germania, dopo 70 (settanta) anni. Di dirà di Merkel come di Brüning, il cancelliere che assisteva inoperoso alla ascesa elettorale di Hitler, uno sconosciuto. Un cambiamento
“epocale” dell’elettorato tedesco, rispetto alla tranquilla, rassicurante,
stabile navigazione della Repubblica Federale di Bonn. Che in Italia
bizzarramente passa sotto silenzio: Merkel affascina inviati e corrispondenti -
sarà il richiamo della Mutti¸ della mammina,
l’immagine che di sé ha curato nelle agiografie, anche se di
Merkel tutto si può dire tranne che sia o faccia la “mamma”.
La crisi
italiana
Sulla Crimea e l’Ucraina ha imposto agli
europei le sanzioni all’Urss. Ponendosi anche a mediatrice a Minsk. Dove non ha
mediato nulla, per non dispiacere a Putin - la Crimea resta saldamente russa, e
mezza Ucraina è a rischio. Fregandosene delle sanzioni dove gli interessi
tedeschi sono in ballo. Da ultimo con le importazioni del gas russo a volontà,
per conto di tutta l’Europa - una percentuale su trasporto e approvvigionamento.
Ha assistito indifferente alla crisi del debito italiano – nulla a che vedere
col cancelliere Schmidt nel 1976, che pure era ben
“tedesco”. Avviata peraltro per sua imprudenza, o calcolo. Il 18
ottobre 2010, sul lungomare di Deauville, Angela Merkel aveva imposto a
Sarkozy, quindi all’Ue, il principio che “gli Stati possono fallire” - la
Grecia, ma non solo. Era la ricetta del suo “banchiere” privato Ackermann (il
capo, all’epoca, di Deutsche Bank): non ristrutturare il debito (allungare le
scadenze, tagliare gli interessi) ma farlo pagare con l’austerità, anche
cruenta. A questo fine limitando gli aiuti Ue. Il capo della Banca centrale
europea, Jean-Claude Trichet, francese, reagì furioso: “Non vi rendete conto di
cosa provocate”. Ma il suo presidente, lo statista emerito Sarkozy, lo mise a
tacere.
Al contempo, in una sorta di divisione del lavoro sporco, i consiglieri
monetari di Angela Merkel impedivano alla Bce ogni intervento calmieratore,
Axel Weber, Jürgen Stark, Jens Weidmann. Tre personaggi influenti, accreditati
portavoce della migliore Germania, di saggezza incontestabile e potere
decisivo. Anche se il curriculum di Weidmann si limita a una laurea, e ad
alcuni anni di servizio nella segreteria di Angela Merkel.
(continua)
Ecobusiness
Non è del 40 per cento, come anticipato dal
ministro dell’Innovazione Cingolani, ma del 50 l’aumento delle tariffe
di gas e elettricità l’1 ottobre. Più del doppio dell’aumento del 20 per cento
subito dimenticato ma che doveva scattare a luglio – il governo lo ha
fiscalizzato in parte, limitando gli aumenti al 9 per cento per l’elettricità e
al 15 per cento per il gas (è il prezzo della “materia energia”, che in bolletta
annega in mezzo a una decina di voci diverse, trasporti, oneri di sistema, Iva,
accise, probabilmente pro Calabria…).
È l’effetto dell’aumento del gas nelle
forniture europee, russe e mediorientali di gas. Il cui costo è passato dai 6
euro a megawattora di maggio 2020, in pieno blocco delle attività, a oltre 170 ieri 15 settembre – per l’Italia il
passaggio è stato da 22 a 180 euro.
L’Italia, malgrado la politica preveggente
di Eni-Snam, che ha praticamente imposto i consumi di gas in Italia, e
cinquant’anni fa, in Europa, ha ora la bolletta più cara, bisogna remunerare gli
importatori privati.
I costi della “materia energia” sono normalmente stabili – le variazioni, in più o in meno, sono di pochi punti percentuali.
Ora si sconta il blocco dell’attività un anno e mezzo fa, contro la ripresa in
corso a ritmi pre-covid, in Italia, in Europa e nel mondo.
Un terzo fattore del caro-energia è che
il gas, benché disponibile in grandissime quantità, è diventato scarso come come
per tutte le materie prime. La cui produzione era stata bloccata un anno e mezzo fa, e ora di colpo è in grande richiesta.
Il mondo fa ancora perno sulle miniere, sull’utilizzo dei materiali fossili.
Un peso, che si calcola pari a un quinto
dell’aumento, ha anche il rincaro degli Est, e cioè il costo dell’emissione di
CO2. Del “permesso” per l’immissione di CO2 – per la mancata riduzione dell’emissione
di CO2 in risposta ai regolamenti via via più restrittivi. Un costo che
dovrebbe esplodere ora con con l’obiettivo Ue di ridurre del 55 per cento le
emissioni di CO2 nel 2030. Il prezzo, nel 2020 in media di 25 euro per permesso, era passato ieri a 61 euro.
Incidono sul prezzo del megawattora anche
una serie di restrizioni all’approvvigionamento. La fuoriuscita dal mercato dei
produttori dell’Olanda. L’interruzione delle forniture di gas liquefatto, che gli
esportatori americani trovano più conveniente vendere in Asia. Norvegia e Russia
esportano sempre meno, malgrado abbiano riserve ingenti, per il mancato rinnovo
delle strutture di produzione e di trasporto, vecchie di quaranta e
cinquant’anni. L’Italia, che ne ha riserve enormi, limita fortemente la
produzione per timori ambientali.
Cronache dell’altro mondo – le elezioni rifatte (140)
Il governatore della California Newsom, democratico,
eletto nel 2018, ha dovuto correre di nuovo in una “elezione di richiamo” (recall election) perché i suoi avversari,
repubblicani, ne hanno contestato la vittoria. Ha rivinto come alla prima
elezione, col 60 per cento e qualche voto in più, contro ben 45 concorrenti, e
quindi ha vinto definitivamente.
Si traduce “recall” con revoca, mentre è
essenzialmente un richiamo, un voto da ripetere, senza che l’eletto contestato
sia decaduto. Non prima che la recall
election l’abbia bocciato.
La California e altri 18 Stati hanno tale procedura:
si va a un “richiamo” in California (le procedure sono diverse da Stato a
Stato) se il 12 per cento del numero dei votanti dell’elezione contestata ne fa
richiesta. Contro Newsom erano state raccolte mezzo milione di firme.
Schwarzenegger, che poi governò la California per
otto anni, due mandati, emerse nel 2003 in un voto di “richiamo”, nel quale
vinse contro “oltre cento” candidati.
In California negli ultimi sessanta anni tutti i
governatori hanno dovuto fronteggiare un voto di “richiamo”.
L'alcol triste di F. S. Fitzgerald
Un
testo breve, una pagina della rivista, umoristico, e drammatico. Dal 1929 per
dieci anni l’autore di “Tenera è la notte” – che pubblicherà solo nel 1934 –
scrisse molti “pezzi” per la rivista newyorchese, pezzi brevi in prevalenza leggeri,
o occasionali, di cose viste. Questo è il primo.
Già
autore di quatro romanzi, compresi “”I belli e i dannati” e un piccolo libro
intitolato “Il grande Gatsby”, Fitzgerald fa al debutto una breve storia delle
sue bevute: “1913, i provocanti whisky Canadian Club al Susquehanna di
Hackensack (F.S.F. aveva 17 anni, era minorenne, n.d.r.) – 1914, il Great Western
Champagne alla Trent House in Trenton – 1915, il Borgogna frizzantino, il whisky puro, poi gli Stinger…. Fino al 1929. “La
sensazione che tutto il liquore è stato bevuto e tutto quello che può fare per
qualcuno è stato sperimentato, e tuttavia – «Garçon (in francese, n.d.r..), uno
Chablis Mouton1902, e per cominciare un piccola caraffa di vino rosé. Sì –
grazie»”.
Un
ricordo che appare strano per un autore non ancora quarantenne. Che non
indulgeva nell’autofiction – se non attraverso i modi e vezzi di classe e
sociali. Ma una testimonianza, e come una premonizione: F. S. Fitzgerald già
aveva problemi di alcolismo.
La
lettura è svelta e allegra, ma un sospetto di malinconia è insopprimbile.
F.Scott
Fitzgerald, A Short Autobiography,
“The New Yorker”, free online
mercoledì 15 settembre 2021
A Sud dl Sud - il Sud visto da sotto (467)
Giuseppe Leuzzi
Nel suo libro di memorie, 585 pagine a 66 anni, Oscar Farinetti, il
vulcanico piemontese creatore e patron di Eataly, dice che senza il Sud non
sarebbe riuscito: “Se
anziché pizza e pasta avessi venduto solo polenta, non avrei avuto tanto
successo”. Poi, intervistato da Cazzullo sul “Corriere della sera”, precisa: “Il Mezzogiorno è meraviglioso, e ce la farà. Ma non ne posso più
di sentirmi dire che la colpa dei loro guai è tutta dei piemontesi. Con le
colpe degli altri non si va da nessuna parte. In Sicilia ci sono più di 1600 chilometri
di costa, tra le più belle del mondo. Quella, Garibaldi non l’ha portata via.
In Romagna la costa è lunga meno di cento chilometri e non è la più bella del
mondo. Ebbene, in Sicilia ci sono cinque milioni di turisti, in Romagna venti.
È colpa dei romagnoli?».
“L’idea
di una spedizione al Sud non era nuova”, nota Bianciardi nel “Risorgimento
allegro”, il suo “breviario di italianità”, a proposito di Garibaldi: “Ci si
erano già provati i fratelli Bandiera, e poi Carlo Pisacane”. Già.
Si abusa in
tutto il Sud, non solo in Calabria, dei commissariamenti – a favore di
impiegati e pensionati che tirano solo alla macchina con autista e alla (grossa-grassa)
indennità. Di cui devono farsi carico gli Enti commissariati. Delle indennità e
le spese dei commissari, e dei dipendenti e i collaboratori dei commissari, che
sempre si moltiplicano, per nulla fare. Ci vuole ora la Corte Costituzionale per
stabilire che, giacché il commissariamento è opera dello Stato, è lo Stato a doversene assumere gli oneri: sentenza
168\2021. Verrà applicata? Finalmente si rivedrà questo assurdo istituto?
La religione è
di questo mondo
Lo
scrittore svizzero Kuno Raeber, che viaggiò nel 1961 a Tropea, Crotone e Catanzaro,
in cerca di miti e di ragazzi, non molto attento ai particolari, vi trova una
costante: una religiosità “più complessa e nello steso tempo più terrena, più
semplice, più carnale, più primitiva di quella cristiana”. Quella che i vescovi
ora eliminano, con violenza. Sradicano. Le processioni, con la farsa assurda
degli “inchini” ai mafiosi, le novene, gli ex voto, le offerte, di denaro,
gioielli, ricordi. Tutto ciò che identifica il credente nella divinità, o comunque lo fortifica con la tradizione, è
supposto pagano, fuori e contro il messaggio di Cristo, che si vuole ascetico
– seppure del mondo (i vescovi sono ben del mondo).
Ma
non c’è nella cristianità, nell’idea di cristianità, delle origini e di ampie
esperienze, l’agape, la funzione corale, la partecipazione, perfino il
banchetto in senso proprio, a tavola? I vescovi lo rinnegano? Vogliono la
religione muta, di ognuno chiuso in se stesso? E mutila, senza arti, senza proiezioni, attaches, riferimenti? Non era la chiesa che coltivala la tradizione, la imponeva?
Che
non vogliano la festa si può capire: la chiesa, questa chiesa, pensa di
emendarsi battendosi il petto col collo torto – non una novità. Ma si nasconde,
perfino dietro i Carabinieri.
Il
problema centrale di questa chiesa è che è difficile essere di questo mondo –
per il prete onesto, ovviamente, la santità è facile.
Mario
La Cava lo ricordava ne “I fatti di Casignana”, 22, dei pellegrinaggi-processione
dopo la Grande Guerra, quando era adolescente, scrivendone nel 1970-73: “Si andava a Polsi per chiedere grazie
alla Madonna o per offrire voti, e si ballava, si gridava, si tiravano colpi coi fucili, per dimenticare le pene”.
Una perpetuazione, forse, dei culti dendrici. Ma il senso della festa è
paganesimo?
Pavese
calabrese, più che un caso - 2
Subito
dopo essere arrivato al luogo del confino, remoto, tra “terre aride” e una
“spiaggia desolata”, Stefano trasale intravedendo una certa ragazza, che farà
da traccia poi per il racconto, ma allo stesso tempo si ripropone di
“affrancarsi dal desiderio”. È confinato politico, reduce dal carcere a Regina
Coeli, nell’amarezza e non nella sovversione: “Nessuno si fa casa di una
cella”, per nessun motivo. Ma, se Brancaleone è il carcere, “meglio restarci
per sognare di uscirne, che non uscirne davvero”.
Stefano
trascorre la sua vita nel remoto paese frastornato e come assente, pur
raccontando la sua esperienza in prima persona. Abulico, come assente. E
tuttavia partecipe degli eventi quotidiani, e della comunità. A un certo punto
verso la fine, quando nella frazione superiore, ancora più remota, arriva
confinato un vero politico, un irriducibile, forse anarchico, e cerca un contatto,
che Stefano cerca di evitare, chiamerà
“vigliaccheria la sua gelosa solitudine”.
Il
lettore sa oggi che quella solitudine era risentita per un fatto biografico,
l’abbandono da parte della donna per la quale lo scrittore pensava di essersi
sacrificato, con la prigione e il confino. Ma senza questo riferimento
personale, causale, il racconto è in sé curiosamente “kafkaesco”, di una vita
senza appigli, di un mondo che gira in tondo, di spiegazioni che non spiegano.
I soli uncini sono locali, paesani.
Scritto
tra fine 1938 e i primi tre mesi del 1939, col titolo provvisorio “Memorie da
due stagioni”, Pavese pubblicò “Il carcere” solo dieci anni dopo, nel 1948.
Insieme con “La casa in collina”, un
dittico che intitolò, evangelicamente, apostolicamente (il tradimento), “Prima
che il gallo canti” - che tuttora viene ripubblicato come tale, da ultimo
nell’ottima edizione Garzanti, con ampie annotazioni di Gabriele Pedullà. A
ridosso di Carlo Levi, “Cristo s’è fermato a Eboli”, una delle prime pubblicazioni
postbelliche, 1945, d’inaspettato successo, di pubblico e di critica.
“Il carcere” è - al contrario di
Levi, che fa un reportage - un memoir si direbbe oggi, appena appena
romanzato: una sorta di diario grigio, risentito, lagnoso anche, di un
confinato, senza passioni. Un confinato
che non ha nemmeno la passione politica, anzi quella ha in dispetto. Il diario
di una vita quasi animale. Eccetto che per l’umanità locale: il confinato
mutangolo, quasi arcigno, ne è come impregnato, anche per condividerne la
laconicità, che più spesso si esprime per ellissi – indicazioni, suggerimenti,
mai apodittica. È la prima prova di “Paesi tuoi”. Un “romanzo” minore, non costruito come un romanzo, ma nella
forma del memoir, sceneggiato. Solo
leggermente sfalsato con una narrazione tesa, fotocopia d’autore. È però la
fucina di ambienti, personaggi, e soprattutto linguaggi che “faranno” Pavese. In terza persona ma con molti elementi della soggettiva libera indiretta, indicazioni non dette, scontate, troncamenti,
sbalzi, di scena, di tema, di soggetti. Con dialoghi allusivi più che teatrali,
nella forma della “nuova oggettività” (G. Stein, Hemingway), senza consecutio. Con uso diffuso in lingua
di termini, costrutti, modi di dire e di fare, di pensare, “dialettali”: locali,
tipici, caratteristici. È anche opera di
un momento che Pavese ricorderà felice, nel diario, 3 febbraio 1944. Scritta al caffè - al “caffeuccio sul viale”
sotto casa che dice “la tua camera, la finestra sulle cose”. In felice
disposizione creativa: “«Le memorie di due stagioni» le hai scritte al caffè”, e
il ricordo è, dopo quattro anni, di un momento magico - “Il fatto è che hai perduto
il gusto di vedere, di sentire, di accogliere, e ora ti mangi il cuore”.
Pavese aveva tentato subito di
raccontare il confino, nel 1936 appena libero, nella prosa breve “Terra d’esilio”. “Il carcere” è un’elaborazione
successiva.
Maturando, dopo la guerra
dell’impero e l’Asse, la radicalizzazione del fascismo e quindi una scelta
politica imponendosi, più o meno inconsciamente Pavese s’interroga nel 1939
sulla sua capacità d’impegno, se non di fede politica. Oggi, alla luce poi de
“Il mestiere di vivere” e del “Diario segreto”, “Il carcere” si legge anche
come un rifiuto della politica: la politica è come il carcere, una privazione.
I personaggi che girano attorno a Stefano non sono eroici, hanno tutti più o
meno una loro personalità, ma non soffrono la mancanza della politica. Si vive
senza. Partendo dal maresciallo dei Carabinieri che dovrebbe controllare
Stefano, ed è invece il suo consigliere benevolo.
Il
rifiuto matura per il rifiuto dell’amata, attivista politica per la quale lui
si è sacrificato e che ora lo trascura e anzi lo dimentica. Questo il lettore
lo sa per certo se ha letto il diario, “Il mestiere di vivere”, e la
corrispondenza, ma è detto, senza riferimenti personali, anche nel racconto: il
sacrificio a che fine?
Si
vive nella provvisorietà. La donna che accudisce Stefano, Elena, disponibile
anche a letto e discreta, è senza
rilievo: “Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino e gli entrasse nel
letto come una moglie, ma se ne andasse come un sogno che non chiede parole né
compromessi”. Si fa – ci tenta - un mito
di Concia, la ragazza “caprigna”, selvaggia, che è già madre di un figlio del
padrone, ignota ai paesani se non come una “cosa”, e di suo non parla, non
guarda. Vive il confino tra “pareti invisibili, l’abitudine della cella, che
gli precludeva ogni contatto umano”.
Un
racconto sottovalutato – la costruzione non invita, sembra perfino scritto di
getto, come viene,e non costruito. Per la teorizzazione della “perfetta
solitudine”. Del desiderio di solitudine, o dell’incapacità, con tutti i buoni
sentimenti, di comunicare, fare parte di un mondo, una comunità, un gruppo,
un’amicizia. Il carcere, anche senza ponti levatoi, è l’insignificanza della
politica, come qui spesso si ripete. Se non è viltà, quasi professata, comunque
riconosciuta.
Sottovalutato
anche per la scrittura, a lettura ultimata, che fa giustizia della prima
impressione. Un racconto di situazioni e caratteri fluidi e non ben contornati,
come molti in Pavese, e di eventi per lo più minimi. L’ambiguità si fa leggere
d’un fiato. E la curiosità: è un racconto ben localizzato, conoscendo i luoghi
e i linguaggi, è ben un romanzo (racconto) di Brancaleone che Pavese ha
scritto: il paese remoto dove ha passato i lunghi mesi del confino politico non
è una semplice scena teatrale.
(continua)
Calabria
Michele
Conia, “Rinascita per la Calabria”, sindaco confermato di Cinquefrondi, tiene
fede al suo logo cambiando il nome del parco Matteotti in parco Impastato. È la
politica in Calabria, ghirigori. Incomprensibili. Ma ai calabresi evidentemente
no.
Le scarpe
artigianali che, insieme con la barca, hanno rovinato la carriera politica di
D’Alema, erano un dono, spiega l’ex presidnete del consiglio a Labate su “7”.
“Me le aveva regalate un artigiano calabrese”, Più che un artigiano, un vero e
proprio industriale del lusso, Cosimo De Tommaso, sociologo, dirigente confindustriale,
imprenditore calzaturiero – quello delle scarpe del papa, e delle notti i degli
Oscar a Hollywood. Che però l’azienda
poi l’ha venduta, agli americani.
La moglie di
De Tommaso, Maria Antonietta Ventura, imprenditrice, titolare della Ventura
Costruzioni Ferroviarie, l’azienda fondata dal padre, è stata la prima scelta
del Pd per le Regionali del 3-4 ottobre. Ma era sotto processo a Catanzaro per
associazione a delinquere, nell’appalto della metro leggera di Cosenza, e ha
dovuto lasciare la politica. L’impresa è ballerina in Calabria come i
terremoti.
La politica annaspa, in questa Regione
come nelle tante consultazioni regionali e politiche in Italia da venti o trent’anni
a questa parte. In Calabria l’indigenza politica ha dell’incredibile, chiunque
si sa fare in qualche misura i propri interessi, ma è la realtà. Tutto si muove
in questa votazione attorno a De Magistris, un tipo spregiudiato, per giunta
napoletano, “magistrato figlio di magistrati”, nobiltà del seggio, cioè
infallibile, che tanto disprezzò la Calabria quando vi fu mandato giovane di
prima nomina.
Cutro, nel
crotonese, fu al centro delle polemiche per il famoso viaggio di Pasolini lungo
tutta la costa italiana in due o tre giorni nel 1957 per il mensile “Successo”.
Di Cutro Pasolini avendo scritto: “È il luogo che più m’impressiona di tutto il
viaggio. È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi western” - dopo
aver scritto: “L’Ionio non è mare nostro: spaventa”, forse una licenza poetica,
del mare che fece la Magna Grecia. San Leonardo di Cutro, ora celebrato dalle
cronache perché il suo parroco è
diventato arcivescovo di Reggio, una frazione di Cutro, ha registrato quattro
retate anti-‘ndrangheta negli ultimi due anni, dal 2019.
Anna
Paparatti, musa della migliore arte romana quando ce n’era una, Pascali,
Kounellis, De Dominicis eccetera, ricorda di sé con naturalezza. “Sono sempre
stata molto ribelle. Già da ragazza, in Calabria, d’estate, andavo in spiaggia
con bikini minuscoli. E se i carabinieri m fermavano e mi dicevano: «Cos’è
questo costume scandaloso, se lo levi subito». Io me lo toglievo e restavo nuda”.
È un aneddito
“artistico”. Ma rende l’idea.
Rino Gattuso
e Rocco Commisso, l’ex calciatore e l’imprenditore americano patron
della Fiorentina, si sono legati di indissolubile amicizia. E si sono lasciati
dopo appena due settimane, senza nemmeno cominciare a lavorare, trascorse tra
litigi. È difficile fare società in Calabria, l’anarchismo s’impone – non ci
sono società che durino un anno, nemmeno tra fratelli.
Sabato 7
agosto, ieri l’oro alla entusiasmante 4x100 a Tokyo, la prima pagina del
“Quotidiano del Sud – Calabria”) è: “Morti tra le fiamme per salvare l’uliveto”,
“Schizzano i contagi, 235 nuovi casi e tasso di positività all’8 per cento”, un
record; “In Sila la guerra dell’acqua: il sindaco di Cotronei forza i serbatoi
e lascia senz’acqua San Giovani in Fiore e l’ Alto Crotonese” (almeno 100 mila persone),
“«Inter nos», indagato anche il consigliere regionale Sainato”, “La Questura blocca la «cantante della mala»”,
“Tragedia in mare. Finisce sugli scogli e muore”. “Angela Napoli (in politica
da quarant’anni, o cinquanta, ex socialista. N.d.r.):«Io sto con De
Magistris»”. E la intende una buona notizia.
La “Gazzetta
del Sud”, l’altro quotidiano della
Calabria, è specializzato invece in morti, strane, con titoli grandi: “Nel
torinese. Autista schiacciato dal tir mentre scarica merce”, “Nel Milanese. Un
giro in monopattino. Perde la vita a 13 anni”.
leuzzi@antiit.eu
La scuola del somaro
Il
libro del maestro che a scuola era un somaro. Non un libro sulla scuola: “Tutti
si occupano della scuola, eterna disputa degli antichi e dei moderni… No, un
libro sul somaro! Sulla sofferenza di non
capire, e i suoi danni collaterali”.
Un
manuale garbato del ripetente – quando ancra ce n’erano, il libro è del 2007,
Feltrinelli lo ripropone ora per i ragazzi di scuola, e i genitori. Un sorriso
di ottimismo: se ce l’ha fatta Daniel Pennac(chioni - nome corso di una famiglia
di professionisti), tutto è possibile.
Daniel
Pennac, che scrive dopo venticinque anni d’insegnamento, “duemilacinquecento
allievi, su per giù, di cui un certo numero «gravemente carenti», secondo
l’espressione in uso”, da bambino era caduto, a Gibuti, il posto più caldo
della terra, sessanta gradi, in una discarica, nella quale era rimasto per ore,
con conseguente setticemia, e mesi di iniezioni di penicillina, dolorose. Ed
era come se il cervello gli si fosse liquefatto: noncapiva più nulla, quindi
non memorizzava, non imparava. Malgrado le tante attenzioni e cure della
famiglia, il padre, i fratelli. Poi, “insomma, diventiamo”. Anche se “non cambiamo
granché. Ci arrangiamo con quello che siamo”.
Un
libro sulla “sofferenza condivisa del somaro,
dei genitori e degli insegnanti”. Che Pennac apre con l’immagine della
madre, “quasi centenaria”, cui il fratello Bernard fa vedere un lungo video sui
successi di Daniel, la quale alla fine chiede: “Credi che se la caverà, prima o
poi?”. Lui, Daniel, l’avevano messo infine in convitto. Dove, tra tante
sciocchezze, da una parte e dall’altra, viene “sanato”, letteralmente, da
quattro insegnanti.
Daniel
Pennac, Diario di scuola,
Feltrinelli, pp. 269 ed. f.c. nelle librerie la Feltrinelli
martedì 14 settembre 2021
Letture - 467
letterautore
A Filippi - Marco Giunio
Bruto - poi, dopo l’adozione da parte di uno zio materno, per questione di
eredità, Quinto
Servilio Cepione Bruto – che Cesare morente sotto le
pugnalate apostroferà “tu
quote, fili mi”, per via di una relazione da lui avuta con Servilia, la madre di
Bruto, giovane, bella e potente, di suo oratore, filosofo, senatore della
Repubblica, fu tormentato a lungo dopo la morte di Cesare dalla visione di uno
spirito che lo minacciava di rivedersi a Filippi – Plutarco, “Dione e
Bruto”.
Calvino – “I romanzieri
che antologizzò e commentò sono Cervantes, Defoe, Swift, Manzoni, Nievo, Stevenson;
e si intuisce subito perché non Balzac né Dostoevskij e Mann: il realismo
sociale e morale, politico e introspettivo lo attiravano poco, gli bastava
Manzoni” – Alfonso Berardinelli, “Autori e trame (di)spiegati da Calvino, “Il
Sole 24 Ore Domenica”.
Capra – C’era una via della Capra,
Ziegenstrasse, in ogni abitato della Germania – usava in famiglia (anche in Italia, fino al dopoguerra) il
latte di capra appena munto, dal gregge che passava per strada. Resta famosa la
Ziegenstrasse di Norimberga..
Céline – In italiano
può suonare genovese. Almeno quello tradotto da Caproni, “genovese dì adozione”,
cioè “Morte a credito”. Lo rileva sul “Robinson” un lettore, che, pur genovese,
trova l’uso “singolare”- Roberto Cozzolino ne elenca alcuni: da abbrancare (afferrare) a bacan (padrone), da cancarone (vino pessimo) a lerfie
(labbra), da pescetti (muscoli) a
‘n assidoro e ‘n accidente, “che mia
nonna pronunciava ‘n assidente”.
“Cuore” – “È il libro
meno cattolico della letteratura italiana”, Marcello Fois in dialogo con
A.Yehoshua su “La Lettura”. Si direbbe il contrario, non è libro dei buoni
sentimenti? Yehoshua lo dice un libro “molto italiano”, cioè cattolico.
Per
Fois “Cuore” non è cattolico perché “i preti
non compaiono, non c’è il crocefisso in classe, non si prega”. Cioè, Fois non è
mai stato in una scuola cattolica – o la memoria si perde presto..
Dante – Il segreto di Dante, della
“Commedia”? “Dentro c’è tutto: la poesia, l’avventura, il mistero, l’amore, la
morte, l’ironia. Per essere un testo di 700 anni fa, è davvero moderno”. È la
ricetta semplice di Lorenzo Baglioni, “cantante, divulgatore e conduttore
televisivo”, in conversazione con “Geronimo Stilton”, Elisabetta Dami. “E poi”,
aggiunge Baglioni, “secondo me c’è anche una questione di suono; le terzine
dantesche, scritte in quel meraviglioso toscano del 1300, hanno una musicalità
irresistibile. È come una canzone senza musica”. Una musicalità che il maestro Muti spiega avviando
a Ravenna la chiusura del settimo centenario della morte: gli endecasillabi della
“Divina Commedia” “sono già di per sé musica. Nel paradiso, dove siamo in una
difficile zona metafisica, teologica e rarefatta, l’articolazione dei versi è
musicale. La musica non si deve comprendere, ti rapisce e ti conquista: sanza intender l’inno, dice Dante”.
Anche
“Geronimo Stilton” si cimenta con Dante per ragazzi. Con “Il mio amico Dante”,
una storia per ridere, e ora una sua
“Divina Commedia”. Dante ride, annota pure Aldo Cazzullo, suo fresco biografo, in
dialogo con i lettori sul “Corriere della sera”: “Era capace di ridere, anche
di se stesso; ad esempio si prende in giro quando nel Purgatorio racconta l’incontro
con il vicino di casa, Bevacqua, il più pigro dei fiorentini, tanto quanto lui
era alacre”.
Fascisti – Massimo Raffaeli
fa Moravia antifascista, sul “Venerdì di Repubblica”, odiatissimo dai fascisti: “Non è un caso che l’autore di ‘Gli
Indifferenti’ sia stato sempre detestato, vilipeso, dalla borghesia italiana e
dalla cosiddetta maggioranza silenziosa, cioè dalla classe sociale che nel fascismo
si è riconosciuta”. Moravia vilipeso? Dai borghesi italiani, romani, che
stravedevano per lui? La maggioranza silenziosa fascista – la maggioranza
silenziosa è nozione milanese, anni 1970, contro il sinistrismo filo-terrorista
del “Corriere della sera”? Nel fascismo era rumorosa.
Nello
stesso articolo, lo stesso Raffaeli ascrive al fascismo i giovani degli anni
1930 che poi sono diventati grandi scrittori pilastri della Repubblica:
Bilenchi, Vittorini, Brancati, Berto , e Giose Rimanelli – “il cui ‘Tiro al
piccione’ fu doppiato da un bellissimo film di Giuliano Montaldo”, il comunista
senza tessera. E Spadolini, e Scalfari, e Camilleri, e chiunque scrivesse. Sul
fascismo c’è un po’ di confusione.
Italiano – È lingua
“musicale” in senso proprio. Sia nell’agogica, l’indicazione della velocità di
una composizione musicale, via via nei suoi movimenti, andante, andante con
moto, allegro moderato… Sia nella dalla dinamica, che invece, contrariamente al
senso della parola, dà le variazioni delle intensità sonore, piano,
pianissimo…Agogica e dinamica si danno italiano prevalentemente perché molte
convenzioni musicali tra Cinque e Seicento ebbero origini italiane – altri
termino sono tedeschi (che spesso si sovrappongono e tendono a sostituirsi, in
Germania e Centro Europa – non ché nell’Inghilterra tedescofila – alle
italiane) e francesi, con qualche latino e qualche spagnolo.
Lucciole – Johanniswürmchen in tedesco, vermetti di
san Giovanni, perché si manifesta(va)no numerose la notte di san Giovanni.
Pound – “Un noioso artigiano” per il Vecchio Sporcaccione “Hank”, Charles
Bukowski, “Storie di ordinaria follia”, 141 – di suo in realtà un poeta, di
migliaia di componimenti: “Ezra mi ha sempre annoiato”, confida Hank a una
amica di letto occasionale: “Sul serio. Ci lavora troppo duramente. Troppo serio, troppo istruito, e alla
fine è diventato un noioso artigiano”.
Pseudonimo – D’obbligo
nell’Ottocento per le donne scrittrici inglesi – non per le scrittrici
italiane, né per le francesi. Di romanzi e anche di altre cose. Mary Ann Evans
si firmava George Eliot. Le sorelle Bront
Emily, Charlotte e Anne, si firmavano “Bell”:
Currer, Ellis e Acton Bell.
Risus paschalis – Usavano durante la Quaresima,
in vicinanza della Pasqua, storielle spinte raccontate dal pulpito dai
predicatori. L’uso era specialmente diffuso in Germania. Lichtenberg lo
ricorda nella “Miscellanee”, scandalizzato – la pratica era in uso nelle aree
cattoliche. Per tuto il Settecento fu in uso nel Germania meridionale, Svevia e
Baviera, un repertorio di storielle spinte a uso dei predicatori, in latino e
in tedesco, fu pubblicato nel 1698 da Andreas Stobl, prete cattolico, parroco e
predicatore, “Ovum paschale novum Oder Neugefärbte Oster-Ayr”, sottotitolo:
“quaranta storie spiritose”.
La teologa Maria Caterina Jacobelli ne
analizzava la pratica nel 1990, in uno studio ora ripreso con nuovo titolo, “Il
Risus Paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale”, trovando non
bizzarro che “per secoli, nei paesi di lingua tedesca, durante la messa di Pasqua
il sacerdote suscitava l’ilarità dei fedeli dicendo e facendo vere e proprie
sconcezze dall’altare”. Dio gode.
Scene d’addio – Schiller ne è considerato maestro. Nei “Masnadieri” atto IV, nella “Pulzella d’Orleans” al prologo, nella “Maria Stuarda” all’atto V.
Trattino – Derivato dall’inglese, il segno ortografico è stato introdotto in Italia
da Ugo Foscolo nel 1813, nella traduzione di Sterne, “A Sentimental Journey through
France and Italy”, del1768), che ne fa largo uso.
Il
tedesco distingue due Strich, trattini: il Gedankenstrich,
“trattino di pensiero”, un segno sospensivo, analogo ai punti di sospensione. E
un Bindenstrich, trattino di
collegamento, breve, con valore connettivo. Di entrambi è l’uso in italiano,
senza nome specifico.
Viaggio – Su legge molta letteratura di viaggi, per esempio nella bellissima collana che Rubbettino dedica alla Calabria, come le corrispondenze di molti inviati di giornali – come si leggevano le corrispondenze degli inviati speciali. Molti dei quali viaggiavano per i grandi alberghi, e si limitavano a riscrivere (copiare) quanto era stato già scritto: una moltiplicazione dei luoghi comuni. Cin qualche infiorettatura nuova, ma nella sostanza luoghi comuni.
letterautore@antiit.eu
Il Risorgimento in allegria
Bianciardi,
appassionato garibaldino, spiega che fu tutto un avventura, di giovani e
scapestrati più che di corti e generali (trascura Cavour), il Risorgimento lo celebra
garibaldinamente. Senza rinunciare allo spiritaccio - non risparmia neppure il
Generalissimo. “Non ci sono nella nostra storia episodi più eroicamente
festosi, concitati, coloriti, persino un poco matti”, così l’editore può
sintetizzare in copertina il suo svelto racconto, in una cinquantina di brevi
note, di due pagine (una rubrica giornalistica?).
Con
una conclusione amara, 1969: “La verità è che .. non vi fu concordia ma avversione e odio”, che l’Italia fu fatta
quale ce la troviamo, “lacerata e divisa” - “breviario di italianità” si
sottotitola la raccolta. Senza naturalmente specificare, nemmeno lui, l’anticonformista
per professione, quale Italia ci vorrebbe – c’è, ci può essere, un’Italia
diversa da quella che è, ormai da qualche secolo? E come vorremmo che fosse? Ma
il racconto è festoso. La rivoluzione italiana non comincia con uno “sciopero
del fumo”, a Milano, contro l’Austria?
I
protagonisti sono senza l’aureola. Carlo Alberto, il Re Tentenna, era “una
manna per i caricaturisti”, con un “testone a forma di cipolla”, su “un
corpaccione lungo più di due metri, risultato di un’insolita forma di
rachitismo alla rovescia”. Mazzini che accorre anche lui ad accogliere
Garibaldi sbarcato dal Sud America, volontario portabandiera nella compagnia di
Giacomo Medici, non ci si trovò, “non aveva né la salute né la fibra del
guerriero” e “dopo qualche settimana riparò febbricitante in Svizzera”. C’è
Custoza, la prima, 1848, che fu una vittoria ma passa per una sconfitta: gli
italiani persero “perché alla fine della giornata si convinsero da soli che avevano perso”. C’è “il re di Napoli”,
che “non sapendo a che santo votarsi, si rivolse al papa. In un solo giorno gli
mandò cinque telegrammi, ottenendo in cambio la paterna benedizione”. Ci sono i
suoi generali, che, non sapendo come affrontare la battaglia decisiva al
Volturno, “stanchi di litigare sul piano di operazioni”, decidono “di farsene
confezionare uno per corrispondenza. Scrissero – e il loro Re firmò – una bella
lettera al generale francese Changarier e aspettarono la risposta”.
Soprattuto
c’è Garibaldi: il monumentino è a Garibaldi. Di quando, nel 1867, confinato a
Caprera, guardato a vista da cannoniere e cannocchiali, sparge la voce che è
ammalato, fa passeggiare in terrazza , “zoppicando, il fedelissimo Gusmaroli,
vestito alla sua stessa foggia”, si adagia al fondo di un barchino e remando
con un solo remo raggiunge la Maddalena, da lì la Sardegna, e i trasporti fatti
arrivare dal genero Stefano Canzio. O Garibaldi che comincia chiedendo a
Mazzini da Rio de Janeiro la “patente” di corsaro, come se Mazzini fosse un
(riverito) capo di Stato: “Era uno di quegli uomini di piccola staura, con le
formiche dentro i pantaloni, che senza far niente non ci sanno stare”. Che
nella estancia a Montevideo, con
Anita Duarte, madre di Menotti, “don José”, prende le abitudini di una vita:
poncho, sigaro, caffè “(vino e liquori non li toccò mai)”, la maestria a
cavallo, da giovane marinaio, “il gusto per i cibi semplici come le fave
fresche e il granoturco, che preferiva cotto nel latte, alla sudamericana”, e
la camicia rossa – scrittore poi “assai prolifico, ed anche assai mediocre” (in
navigazione verso Marsala compone alcuni versi, “molto brutti”, come inno della
spedizione, a cui i garibaldini, quando “un ufficiale tentò di farglieli cantare
sul coro della Norma”, oppongono “«La bella Gigogin», che tanto successo aveva
avuto l’ano prima a Milano”).
Garibaldi,
visto sul serio, è un abilissimo tattico, insuperabile. Venne a capo per questo
di mille debolezze. L’attacco “alla garibaldina”, alla baionetta, si faceva
perché non ebbe mai fucili efficienti, sopperì con l’attacco alla persona,
puntando sulla lentezza degli avversari con i fucili ad avancarica. Il racconto
è specialmente vivace dei Mille, dello sbarco al Sud. La conquista di Palermo è
una passeggiata, il popolo è con Garibaldi, i borbonici nulla possono contro il
popolo: “Mille uomini, male in arnese, con l’aiuto determinante della
popolazione, avevano disfatto un’armata. La notizia corse per l’Europa e Garibaldi
fu l’uomo del giorno”. In processione vanno a trovarlo le monache, il vescovo,
Alessandro Dumas vestito di bianco, con Emma Lyona vestita da ammiraglio, e “inglesi,
sardi, russi, spagnoli, prussiani, turchi, americani, francesi”, tutti i
naviganti che affollavano il porto. Ma subito poi, Teano eccetera, il racconto è
molto critico: “L’Italia comincia male”. Anche perché nasce per caso, per
impulso popolare.
Cavour,
liberale pragmatico, “quando gli piovve come dal cielo l’unità dell’intera
penisola, seppe abilmente (e spregiudicatamente) raccogliere nelle sue braccia
l’inatteso dono”. Ma non aveva lavorato all’unità: “Il suo sogno politico era
di ampliare la monarchia dei Savoia su tutta l’alta Italia, dalle Alpi
all’Adriatico e all’Isonzo”. Non vedeva oltre l’Appennino, “a Roma non era mai
stato, Palermo, per lui, confinava con
l’Africa”. E “per esempio era convinto (e lo disse a Daniele Manin) che l’unità
d’Italia fosse «una grossa corbelleria»”.
La storia alla fine non è allegra, non finisce in allegria. Bianciardi non si fa veli: la
“guerra dei briganti” fu “una guerra civile, fratricida, atroce”, i garibaldini
possono raffermarsi, come i borbonici, senza distinzione, La Marmora, Cialdini, Santa
Rosa, Rattazzi, gli uomini di fiducia dei Savoia, e i Savoia stessi, Vittorio
Emanuele II dopo Carlo Alberto, con la loro burocrazia ottusa, sono un fronte
anti-unitario difficilmente contestabile.
Il
fallimento dell’unità è sancito dallo stesso Cavour, quando, subito, all’apertura
del primo Parlamento, l’insoddisfazione popolare è forte - l’unità è stata ridotta
in pochi giorni a tasse, leva obbligatoria (per le famiglie contadine la morte
civile), e niente assistenza, per la privatizzazione dei beni ecclesiastici: “Se
all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato motivo che
Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo rovinati”. I
rapporti dei suoi uomini a Palermo e Napoli, dopo gli sprezzanti inviati della
Corona La Marmora e Cialdini, non erano rassicuranti – “non ci son sette
unitari in sette milioni di abitanti”, aveva scritto il governatore cavourriano
di Napoli, Farini. Cavour non pensò minimamente di andare a Napoli a vedere. Il
re sì, ma per andare a caccia, corteggiare le dame, e aspettare la caduta di
Gaeta, chiamando il popolo “canaglia”.
Subito
dopo Teano, scrive Bianciardi, “la guerra per il Meridione era finita, ma già
ne stava cominciando un’altra, più lunga, più dura, più sanguinosa. Anzi, più
sanguinosa di tutte le guerre risorgimentali messe insieme… Una guerra civile,
fratricida, atroce. I libri di storia ne parlano poco volentieri, e la chiamano
repressione del brigantaggio. E invece fu la «guerra dei briganti»”. Garibaldi
stesso sarà curato solo 83 giorni dopo il doppio ferimento ai Piani di Aspromonte
nella spedizione per liberare Roma, benché a rischio suppurazione e setticemia.
Il Sud fu subito blasfemia per il Piemonte.
Sui
“briganti” la traccia di Bianciardi, per quanto ipotetica, non è mai stata
considerata dagli storici: “La gente di senno cominciava a capire che sarebbe
stato molto meglio lasciare a Garibaldi il governo delle province meridionali:
che forse i garibaldini, e la guardia nazionale eletta sul posto, avrebbero saputo
intendere i bisogni di quelle popolazioni meridionali meglio dei funzionari
piemontesi”. Che è prassi costante elogiare, ma la burocrazia piemontese si
mostrò inadeguata, perniciosa, fin dall’inizio, nella semplice compilazione dei “mille”
di Marsala – Bianciardi ne fa un breve, esilarante, elenco alla p. 70 (tra el
tante scemenze, “leggiamo anche «austriaco» accanto al nome di volontari
trentini, «uruguaiano» accanto al nome di Menotti”, e “francese” accanto a quello
di Garibaldi).
Luciano Bianciardi, Il
Risorgimento allegro, Stampa
Alternativa, remainders, pp. 101 € 6
Bianciardi,
appassionato garibaldino, spiega che fu tutto un avventura, di giovani e
scapestrati più che di corti e generali (trascura Cavour), il Risorgimento lo celebra
garibaldinamente. Senza rinunciare allo spiritaccio - non risparmia neppure il
Generalissimo. “Non ci sono nella nostra storia episodi più eroicamente
festosi, concitati, coloriti, persino un poco matti”, così l’editore può
sintetizzare in copertina il suo svelto racconto, in una cinquantina di brevi
note, di due pagine (una rubrica giornalistica?).
Con
una conclusione amara, 1969: “La verità è che .. non vi fu concordia ma avversione e odio”, che l’Italia fu fatta
quale ce la troviamo, “lacerata e divisa” - “breviario di italianità” si
sottotitola la raccolta. Senza naturalmente specificare, nemmeno lui, l’anticonformista
per professione, quale Italia ci vorrebbe – c’è, ci può essere, un’Italia
diversa da quella che è, ormai da qualche secolo? E come vorremmo che fosse? Ma
il racconto è festoso. La rivoluzione italiana non comincia con uno “sciopero
del fumo”, a Milano, contro l’Austria?
I
protagonisti sono senza l’aureola. Carlo Alberto, il Re Tentenna, era “una
manna per i caricaturisti”, con un “testone a forma di cipolla”, su “un
corpaccione lungo più di due metri, risultato di un’insolita forma di
rachitismo alla rovescia”. Mazzini che accorre anche lui ad accogliere
Garibaldi sbarcato dal Sud America, volontario portabandiera nella compagnia di
Giacomo Medici, non ci si trovò, “non aveva né la salute né la fibra del
guerriero” e “dopo qualche settimana riparò febbricitante in Svizzera”. C’è
Custoza, la prima, 1848, che fu una vittoria ma passa per una sconfitta: gli
italiani persero “perché alla fine della giornata si convinsero da soli che avevano perso”. C’è “il re di Napoli”,
che “non sapendo a che santo votarsi, si rivolse al papa. In un solo giorno gli
mandò cinque telegrammi, ottenendo in cambio la paterna benedizione”. Ci sono i
suoi generali, che, non sapendo come affrontare la battaglia decisiva al
Volturno, “stanchi di litigare sul piano di operazioni”, decidono “di farsene
confezionare uno per corrispondenza. Scrissero – e il loro Re firmò – una bella
lettera al generale francese Changarier e aspettarono la risposta”.
Soprattuto
c’è Garibaldi: il monumentino è a Garibaldi. Di quando, nel 1867, confinato a
Caprera, guardato a vista da cannoniere e cannocchiali, sparge la voce che è
ammalato, fa passeggiare in terrazza , “zoppicando, il fedelissimo Gusmaroli,
vestito alla sua stessa foggia”, si adagia al fondo di un barchino e remando
con un solo remo raggiunge la Maddalena, da lì la Sardegna, e i trasporti fatti
arrivare dal genero Stefano Canzio. O Garibaldi che comincia chiedendo a
Mazzini da Rio de Janeiro la “patente” di corsaro, come se Mazzini fosse un
(riverito) capo di Stato: “Era uno di quegli uomini di piccola staura, con le
formiche dentro i pantaloni, che senza far niente non ci sanno stare”. Che
nella estancia a Montevideo, con
Anita Duarte, madre di Menotti, “don José”, prende le abitudini di una vita:
poncho, sigaro, caffè “(vino e liquori non li toccò mai)”, la maestria a
cavallo, da giovane marinaio, “il gusto per i cibi semplici come le fave
fresche e il granoturco, che preferiva cotto nel latte, alla sudamericana”, e
la camicia rossa – scrittore poi “assai prolifico, ed anche assai mediocre” (in
navigazione verso Marsala compone alcuni versi, “molto brutti”, come inno della
spedizione, a cui i garibaldini, quando “un ufficiale tentò di farglieli cantare
sul coro della Norma”, oppongono “«La bella Gigogin», che tanto successo aveva
avuto l’ano prima a Milano”).
Garibaldi,
visto sul serio, è un abilissimo tattico, insuperabile. Venne a capo per questo
di mille debolezze. L’attacco “alla garibaldina”, alla baionetta, si faceva
perché non ebbe mai fucili efficienti, sopperì con l’attacco alla persona,
puntando sulla lentezza degli avversari con i fucili ad avancarica. Il racconto
è specialmente vivace dei Mille, dello sbarco al Sud. La conquista di Palermo è
una passeggiata, il popolo è con Garibaldi, i borbonici nulla possono contro il
popolo: “Mille uomini, male in arnese, con l’aiuto determinante della
popolazione, avevano disfatto un’armata. La notizia corse per l’Europa e Garibaldi
fu l’uomo del giorno”. In processione vanno a trovarlo le monache, il vescovo,
Alessandro Dumas vestito di bianco, con Emma Lyona vestita da ammiraglio, e “inglesi,
sardi, russi, spagnoli, prussiani, turchi, americani, francesi”, tutti i
naviganti che affollavano il porto. Ma subito poi, Teano eccetera, il racconto è
molto critico: “L’Italia comincia male”. Anche perché nasce per caso, per
impulso popolare.
Cavour,
liberale pragmatico, “quando gli piovve come dal cielo l’unità dell’intera
penisola, seppe abilmente (e spregiudicatamente) raccogliere nelle sue braccia
l’inatteso dono”. Ma non aveva lavorato all’unità: “Il suo sogno politico era
di ampliare la monarchia dei Savoia su tutta l’alta Italia, dalle Alpi
all’Adriatico e all’Isonzo”. Non vedeva oltre l’Appennino, “a Roma non era mai
stato, Palermo, per lui, confinava con
l’Africa”. E “per esempio era convinto (e lo disse a Daniele Manin) che l’unità
d’Italia fosse «una grossa corbelleria»”.
La storia alla fine non è allegra, non finisce in allegria. Bianciardi non si fa veli: la
“guerra dei briganti” fu “una guerra civile, fratricida, atroce”, i garibaldini
possono raffermarsi, come i borbonici, senza distinzione, La Marmora, Cialdini, Santa
Rosa, Rattazzi, gli uomini di fiducia dei Savoia, e i Savoia stessi, Vittorio
Emanuele II dopo Carlo Alberto, con la loro burocrazia ottusa, sono un fronte
anti-unitario difficilmente contestabile.
Il
fallimento dell’unità è sancito dallo stesso Cavour, quando, subito, all’apertura
del primo Parlamento, l’insoddisfazione popolare è forte - l’unità è stata ridotta
in pochi giorni a tasse, leva obbligatoria (per le famiglie contadine la morte
civile), e niente assistenza, per la privatizzazione dei beni ecclesiastici: “Se
all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato motivo che
Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo rovinati”. I
rapporti dei suoi uomini a Palermo e Napoli, dopo gli sprezzanti inviati della
Corona La Marmora e Cialdini, non erano rassicuranti – “non ci son sette
unitari in sette milioni di abitanti”, aveva scritto il governatore cavourriano
di Napoli, Farini. Cavour non pensò minimamente di andare a Napoli a vedere. Il
re sì, ma per andare a caccia, corteggiare le dame, e aspettare la caduta di
Gaeta, chiamando il popolo “canaglia”.
Subito
dopo Teano, scrive Bianciardi, “la guerra per il Meridione era finita, ma già
ne stava cominciando un’altra, più lunga, più dura, più sanguinosa. Anzi, più
sanguinosa di tutte le guerre risorgimentali messe insieme… Una guerra civile,
fratricida, atroce. I libri di storia ne parlano poco volentieri, e la chiamano
repressione del brigantaggio. E invece fu la «guerra dei briganti»”. Garibaldi
stesso sarà curato solo 83 giorni dopo il doppio ferimento ai Piani di Aspromonte
nella spedizione per liberare Roma, benché a rischio suppurazione e setticemia.
Il Sud fu subito blasfemia per il Piemonte.
Sui
“briganti” la traccia di Bianciardi, per quanto ipotetica, non è mai stata
considerata dagli storici: “La gente di senno cominciava a capire che sarebbe
stato molto meglio lasciare a Garibaldi il governo delle province meridionali:
che forse i garibaldini, e la guardia nazionale eletta sul posto, avrebbero saputo
intendere i bisogni di quelle popolazioni meridionali meglio dei funzionari
piemontesi”. Che è prassi costante elogiare, ma la burocrazia piemontese si
mostrò inadeguata, perniciosa, fin dall’inizio, nella semplice compilazione dei “mille”
di Marsala – Bianciardi ne fa un breve, esilarante, elenco alla p. 70 (tra el
tante scemenze, “leggiamo anche «austriaco» accanto al nome di volontari
trentini, «uruguaiano» accanto al nome di Menotti”, e “francese” accanto a quello
di Garibaldi).
Luciano Bianciardi, Il
Risorgimento allegro, Stampa
Alternativa, remainders, pp. 101 € 6
lunedì 13 settembre 2021
Monte dei Paschi come Alitalia
Non si chiude il negoziato per il salvataggio del
Monte dei Paschi di Siena. Da parte di un gruppo, Unicredit, che non ha ancora
digerito il salvataggio di Capitalia – quindici anni fa… (continua a liquidare
npl del gruppo romano). E con la nuova gestione, benché messa su dal Tesoro
proprio per arrivare al matrimonio, diffidente. Una crisi infinita?
Troppe le similitudini. Le fregature gigantesche di tre
aumenti di capitale andati in fumo. L’indecisione: si tratta a oltranza per Mps
con Unicredit anche se l’esclusiva è scaduta la settimana scorsa, ma senza
nuovo termine (impegno). Piani di riduzione dei costi sempre disattesi – del migliaio
che dovevano lasciare il gruppo di Siena quest’anno solo una quarantina hanno aderito
nel primo semestre (44 per l’esattezza). In questi anni di crisi, di
amministrazione praticamente controllata, Mps ha migliorato poco o nulla, come
già Alitalia nelle sue varie reincarnazioni: ha tuttora il margine/dipendente - un buon indice di redditività - più basso fra le banche italiane, la metà di Intesa. Su tutto, il fantasma peggiore, che Mps condivide con Az, le gestione confidata al Tesoro - cioè al governo, cioè ai partiti di governo.
Ecobusiness
Il verde è la nuova frontiera
dell’industria finanziaria. Green bonds e gestioni Esg (investimenti in aziende che
semplicemente si dichiarino “rispettose dell’ambiente”) sono i collocamenti più
redditizi. Dei green bonds, per
finanziare investimenti “verdi”, si attende il raddoppio delle emissioni in due
anni – su una base già cospicua: ne sono stati emessi per 400 miliardi di dollari
nei primi sei mesi del 2021 .
L’Agenzia Internazionale per le
Rinnovabili stima in 420 miliardi il costo, annuo, per l’idrogeno verde nel
2030. E non basta: per produrre l’idrogeno ci vuole una capacità di energia
rinnovabile in eccesso rispetto a quella oggi necessaria a sostituire l’elettricità
prodotta da fonti fossili. Una forte spesa pubblica, una opportunità di
investimento?
Nei dieci anni 2010-2019 gli “oneri di sistema” – tassa - a carico di
famiglie e imprese a vantaggio dei produttori di energie rinnovabili hanno ammontato a 130
miliardi di euro. Per un’emissione di CO2, nel 2019, ridotta di 418 milioni di tonnellate,
il 7 per cento in meno, rispetto al 2010: bisogna fare (imporre) molto di più?
Lo sporcaccione Bukowski tra femminismo e ecologia
Bizzarra
lettura oggi 2021 – rilettura, a cinquant’anni data? – di oscenità, piene anche
di ora proibitissime lettere N, e di scopate, in genere a danno, si dice così,
di donne, oltre che di bevute, di birre a cassette, qualche volta di vino
cattivo – “Erezioni Eiaculazioni Esibizioni” è il sottotitolo. Riproposta da
Feltrinelli, non un editore trumpiano, e ritradotta con gusto (con efficacia)
da Simona Viciani. Senza rimprovero possibile: è una raccolta alla 56ma
edizione, la quarta dopo la riproposta, e il lettore non può essere scorretto (o sì?).
Racconti
di un’epoca in cui tutto si poteva dire, che si gloriava anzi di poter dire
tutto. E Bukowski “vecchio” quarantenne non aveva più voglia di fare il
letterato debuttante, rispettoso – era pure nato in Germania, i genitori aveva
avuto tedeschi, anche se il padre era già un tedesco-americano, sergente delle
truppe americane sul fronte franco-tedesco nel 1918 – in attesa dell’occhio di
un critico. Ha deciso di buttare la professione all’aria, e ha sfondato, anche
con la critica. Piccolo Pantagruele nella grande America.
Racconti
spicciativi per lo più, e ripetitivi. Sia nelle bevute – non ci sono molti modi
di ubriacarsi - che nelle trombate, che Bukowski si limita a descrivere
biblicamente, per numeri. Le storie sono di uno scrittore ubriacone, di donne
che cercano compagnia al bar, con qualche puntata ai cavalli, in perdita oppure
no, e qualche lavoretto da venticinque dollari a settimana, trentacinque, una
miseria. Racconti però d’epoca. C’è la stampa alternativa, con la storia di
“Open City” (qui “Open Pussy”, fica aperta), il settimanale che riuscì a
sopravvivere per due anni a Los Angeles, con 20 mila copie – ce ne volevano 60
mila – quasi tutte tirate dalla rubrica “Taccuino del Vecchio Sporcaccione”
Bukowski. E c’è la politica, con lo “Sporcaccione” Bukowski anticipatore, nel 1966: “La Russia si era
rammollita; poteva darsi che solo i cinesi sapessero le cose, con il loro
sistema di scavare dal fondo” (“nascita, vita e morte di una rivista
underground” – Bukowski non usa la maiuscola come segno ortografico, scrive
discorsivo). C’è perfino il racconto dell’ecologia. Preciso anche sulle armi in America, sulla giustizia come violenza. E sulle letture: un omaggio a Hemingway, il vecchio Ernie, e una critica a Pound, già poeta amato, troppo intellettuale, troppo bravo artigiano - ma anche il vecchio Ernie viene sorpreso, in morte, non glorificato e anzi indispettito dal successo de “Il vecchio e il mare” (“sei tornato al tuo vecchio stile, ma era artefatto”).
L’effetto,
singolare, è di uno dei due o tre racconti non ripetitivi, “quindici
centimetri”: non del maschio trionfante, con le sue scopate a ripetizione, ma
del rimpicciolimento del maschio, da parte della femmina divorante, fino a
ridurlo a un pene neanche grande, un giocattolo masturbatorio. In particolare
questo avviene appunto nell’antifrastico “quindici centimetri”, che è, di
programma, il racconto dell’ecologia – femminismo quindi ed ecologia insieme, un
effettone: “Questa è la Nuova Era”, proclama la Dea castratrice, “l’Era
Atomica, l’Era Spaziale e, più importante di tutte, l’Era del
Sovrappopolamento. Io sono la Salvatrice del Mondo. Ho la risposta
all’Esplosione del Sovrappopolamento”. Che è la stessa dell’Inquinamento: “La
chiave sta nel risolvere il Sovrappopolamento, sistemerebbe l’Inquinamento e molti
altri problemi”. Altra divinità femminile, Carol, salva gli animali dalla fine del mondo - finito il boom post-bellico, è sempre la fine del mondo: la epoca del never had it so good sarà anche quella della crisi perpetua - e anzi conclude al post-umano, ben prima di Rosi Braidotti. Un femminismo ecologista sarebbe il vangelo del Vecchio
Sporcaccione, che del maschio fa polpetta.
Non
grandi racconti. Di un’esistenza “inutile” – “come faceva la gente a fidarsi
così tanto di me?” Non un grande mondo, anche a dirlo degli emarginati – ma non
lo sono. Di solitudini senza storia. Senza gioia anche, si direbbe, malgrado
l’alcol e il sesso. Di figuranti di una bohème
americana, dopo i beat, solitari
fuori scena. Un racconto mette in scena la moglie di un breve periodo per irridere alla bohème hippie: “la signorina Tuttamore, Controlaguerra, la signorina Poetessina, la signorina...”, nume di reading tra amici, sempre in piccolo gruppo, nove, “comunista” per di più, dissipata in una comune, Ma senza nemmeno cattiveria, solo il piacere di dire la compagnia, per poche ore, pochi giorni, della piccola Tina, quattro anni, la figlia in comune.
Letteratura fresca, come si leggeva all’origine, sorprendente, nella
stampa alternativa, a New Orleans al Vieux Carrè o French Quarter, uno degli
ingredienti del turismo, con le ragazze del bar sull’altalena, seminude, la
Preservation Hall del dixieland e le patatine fritte, o al Village a New York, tra
le “canne”, che fricchettoni-e fumati-e distribuivano per pochi centesimi..
Oltraggiosa, spensierata. Ma, appunto, alternativa. In volume stempera nel
bozzettistico, del genere “alternativo”. Con l’effetto contrario, di poca fantasia
invece che di molta, addirittura sfrenata. Da Vechio Sporcaccione professionale,
che ha peraltro – il genere – pochi utensili: anche l’aneddoto “vero” si
stempera nel modulo.
La
narrazione oltraggiosa si dipana peraltro entro una cornice colta, che Bukowski
a tratti, come nervoso, fa emergere: “47 anni ed eccomi ancora qui a giocherellare sull’isola che non c'è”. Con ripetuti riferimenti a poeti, poetiche
e poesia: essenza della poesia, debuttanti alla porta, circoli di lettura,
letture in pubblico, grandi nomi oggi dimenticati (Creeley soprattutto,
dimenticato a torto) eccetto Ginsberg. Letture:
un omaggio a Hemingway, “il vecchio Ernie”, e una critica a Pound, già poeta
amato – troppo intellettuale, troppo bravo artigiano. Ascolti raffinati, di
Brahms, Čajkovski. Non senza saggezza – l’alcolizzato non è fumato: erba libera
o no? “andremo alla deriva, di risposta in risposta”.
Bukowski
sarà sempre uno scrittore di fogli underground,
anche quando, dopo i cinquant’anni, troverà un editore, la Black Sparrow Press
– che il titolare, John Martin, creò praticamente attorno a lui. E diventrà
uno”scrittore per europei”, in Germania, Italia, Francia. Di poesia
principalmente, migliaia di componimenti, e di racconti più o meno di vita
vissuta, alla Henry Miller. Collaboratore eminente di testate passeggere: “Los
Angeles Free Press” dopo “Open City”, “The Outsider”, “NOLA Express” (New
Orleans), “Beloit Poetry Journal”, etc., alcune al ciclostilo – il “Laugh Literary”
dello stesso Bukowski, 1969, due o tre numeri. Racconti non memorabili, ma certo refrigeranti nella
sudata frigidità del Millennio, corroboranti. L’“eterno ubriacone” Bukowski è
in certo senso perfino innocente, di fronte a tanto algore: è l’eterno
adolescente, raccontato con altre parole.
Dunque,
si pubblica ancora Bukowski – anche in America, sbirciando amazo.com (lì
soprattutto il poeta, con molte stelle di apprezzamento, ma anche le “Notes
of a Dirty Old Man”). È un buon segno o
uno cattivo – l’avranno trascurato gli apostoli della cancel culture?
Charles
Bukowski, Storie di ordinaria follia,
Feltrinelli, pp.398 € (promozione “Due libri”) 8,90
Racconti di un’epoca in cui tutto si poteva dire, che si gloriava anzi di poter dire tutto. E Bukowski “vecchio” quarantenne non aveva più voglia di fare il letterato debuttante, rispettoso – era pure nato in Germania, i genitori aveva avuto tedeschi, anche se il padre era già un tedesco-americano, sergente delle truppe americane sul fronte franco-tedesco nel 1918 – in attesa dell’occhio di un critico. Ha deciso di buttare la professione all’aria, e ha sfondato, anche con la critica. Piccolo Pantagruele nella grande America.
Racconti spicciativi per lo più, e ripetitivi. Sia nelle bevute – non ci sono molti modi di ubriacarsi - che nelle trombate, che Bukowski si limita a descrivere biblicamente, per numeri. Le storie sono di uno scrittore ubriacone, di donne che cercano compagnia al bar, con qualche puntata ai cavalli, in perdita oppure no, e qualche lavoretto da venticinque dollari a settimana, trentacinque, una miseria. Racconti però d’epoca. C’è la stampa alternativa, con la storia di “Open City” (qui “Open Pussy”, fica aperta), il settimanale che riuscì a sopravvivere per due anni a Los Angeles, con 20 mila copie – ce ne volevano 60 mila – quasi tutte tirate dalla rubrica “Taccuino del Vecchio Sporcaccione” Bukowski. E c’è la politica, con lo “Sporcaccione” Bukowski anticipatore, nel 1966: “La Russia si era rammollita; poteva darsi che solo i cinesi sapessero le cose, con il loro sistema di scavare dal fondo” (“nascita, vita e morte di una rivista underground” – Bukowski non usa la maiuscola come segno ortografico, scrive discorsivo). C’è perfino il racconto dell’ecologia. Preciso anche sulle armi in America, sulla giustizia come violenza. E sulle letture: un omaggio a Hemingway, il vecchio Ernie, e una critica a Pound, già poeta amato, troppo intellettuale, troppo bravo artigiano - ma anche il vecchio Ernie viene sorpreso, in morte, non glorificato e anzi indispettito dal successo de “Il vecchio e il mare” (“sei tornato al tuo vecchio stile, ma era artefatto”).
L’effetto, singolare, è di uno dei due o tre racconti non ripetitivi, “quindici centimetri”: non del maschio trionfante, con le sue scopate a ripetizione, ma del rimpicciolimento del maschio, da parte della femmina divorante, fino a ridurlo a un pene neanche grande, un giocattolo masturbatorio. In particolare questo avviene appunto nell’antifrastico “quindici centimetri”, che è, di programma, il racconto dell’ecologia – femminismo quindi ed ecologia insieme, un effettone: “Questa è la Nuova Era”, proclama la Dea castratrice, “l’Era Atomica, l’Era Spaziale e, più importante di tutte, l’Era del Sovrappopolamento. Io sono la Salvatrice del Mondo. Ho la risposta all’Esplosione del Sovrappopolamento”. Che è la stessa dell’Inquinamento: “La chiave sta nel risolvere il Sovrappopolamento, sistemerebbe l’Inquinamento e molti altri problemi”. Altra divinità femminile, Carol, salva gli animali dalla fine del mondo - finito il boom post-bellico, è sempre la fine del mondo: la epoca del never had it so good sarà anche quella della crisi perpetua - e anzi conclude al post-umano, ben prima di Rosi Braidotti. Un femminismo ecologista sarebbe il vangelo del Vecchio Sporcaccione, che del maschio fa polpetta.
Non grandi racconti. Di un’esistenza “inutile” – “come faceva la gente a fidarsi così tanto di me?” Non un grande mondo, anche a dirlo degli emarginati – ma non lo sono. Di solitudini senza storia. Senza gioia anche, si direbbe, malgrado l’alcol e il sesso. Di figuranti di una bohème americana, dopo i beat, solitari fuori scena. Un racconto mette in scena la moglie di un breve periodo per irridere alla bohème hippie: “la signorina Tuttamore, Controlaguerra, la signorina Poetessina, la signorina...”, nume di reading tra amici, sempre in piccolo gruppo, nove, “comunista” per di più, dissipata in una comune, Ma senza nemmeno cattiveria, solo il piacere di dire la compagnia, per poche ore, pochi giorni, della piccola Tina, quattro anni, la figlia in comune.
Letteratura fresca, come si leggeva all’origine, sorprendente, nella stampa alternativa, a New Orleans al Vieux Carrè o French Quarter, uno degli ingredienti del turismo, con le ragazze del bar sull’altalena, seminude, la Preservation Hall del dixieland e le patatine fritte, o al Village a New York, tra le “canne”, che fricchettoni-e fumati-e distribuivano per pochi centesimi.. Oltraggiosa, spensierata. Ma, appunto, alternativa. In volume stempera nel bozzettistico, del genere “alternativo”. Con l’effetto contrario, di poca fantasia invece che di molta, addirittura sfrenata. Da Vechio Sporcaccione professionale, che ha peraltro – il genere – pochi utensili: anche l’aneddoto “vero” si stempera nel modulo.
La narrazione oltraggiosa si dipana peraltro entro una cornice colta, che Bukowski a tratti, come nervoso, fa emergere: “47 anni ed eccomi ancora qui a giocherellare sull’isola che non c'è”. Con ripetuti riferimenti a poeti, poetiche e poesia: essenza della poesia, debuttanti alla porta, circoli di lettura, letture in pubblico, grandi nomi oggi dimenticati (Creeley soprattutto, dimenticato a torto) eccetto Ginsberg. Letture: un omaggio a Hemingway, “il vecchio Ernie”, e una critica a Pound, già poeta amato – troppo intellettuale, troppo bravo artigiano. Ascolti raffinati, di Brahms, Čajkovski. Non senza saggezza – l’alcolizzato non è fumato: erba libera o no? “andremo alla deriva, di risposta in risposta”.
Bukowski sarà sempre uno scrittore di fogli underground, anche quando, dopo i cinquant’anni, troverà un editore, la Black Sparrow Press – che il titolare, John Martin, creò praticamente attorno a lui. E diventrà uno”scrittore per europei”, in Germania, Italia, Francia. Di poesia principalmente, migliaia di componimenti, e di racconti più o meno di vita vissuta, alla Henry Miller. Collaboratore eminente di testate passeggere: “Los Angeles Free Press” dopo “Open City”, “The Outsider”, “NOLA Express” (New Orleans), “Beloit Poetry Journal”, etc., alcune al ciclostilo – il “Laugh Literary” dello stesso Bukowski, 1969, due o tre numeri. Racconti non memorabili, ma certo refrigeranti nella sudata frigidità del Millennio, corroboranti. L’“eterno ubriacone” Bukowski è in certo senso perfino innocente, di fronte a tanto algore: è l’eterno adolescente, raccontato con altre parole.
Dunque, si pubblica ancora Bukowski – anche in America, sbirciando amazo.com (lì soprattutto il poeta, con molte stelle di apprezzamento, ma anche le “Notes of a Dirty Old Man”). È un buon segno o uno cattivo – l’avranno trascurato gli apostoli della cancel culture?
Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia, Feltrinelli, pp.398 € (promozione “Due libri”) 8,90
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