sabato 18 settembre 2021

Ecobusiness

L’Europa pesa per l’8 per cento sulle emissioni globali di CO2. Ma pro capite inquina più degli asiatici, con 5,9 tonnellate contro 4,2 in media – più di tutti inquinano gli arabi, il Medio Oriente emette ogni anno 9,2 tonnellate di CO2 pro capite,  naturalmente gli Stati Uniti, leader incontestati dell’inquinamento, con 15,50 tonnellate pro capite.
L’Asia ha però situazioni molto diversificate. La Cina emette ogni anno 8 tonnellate di CO2 per abitante – molto più di ogni europeo. Per una popolazione di 1,3 miliardi.
La Cina emette in totale più gas serra di tutti gli altri paesi dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi industrializzati, messi assieme.
Il Gde, Green Deal Ue, per un net zero al 2050, è smentito in partenza dai mega-accordi di importazione del gas, le grandi infrastrutture del Nord Stream in Germania e del Tap in Italia, che hanno una durata programmata oltre il 2050. E, per es., dalle grandi navi di trasporto container – che hanno una vita utile di almeno 25 anni, e di cui quindi si può già ipotizzare il tipo di combustibile in  uso nel 2050. Nel 2050 la metà del trasporto marittimo si farà ancora con combustibili fossili, gas e prodotti petroliferi – l’altra metà andrà a metanolo, ammoniaca, biocarburanti. Maersk, la più grande flotta porta-container del mondo, utilizzerà il metanolo su otto delle nove navi ora ordinate.

Angela la Padrina – 3

Vale la pena ricordare quanto questo sito scriveva, recensendo “Stress Test. Reflections on financial crises”, il libro che Timothy Geithner, l’ex ministro del Tesoro americano, pubblicò nella primavera del 2014, su Angela Merkel e l’Europa nella crisi bancaria e in quella del debito (un libro che curiosamente si è scelto di non tradurre, benché di interesse per l’Italia):
https://www.blogger.com/blog/post/edit/4308716637477704291/6462015494876381296
E l’Europa? Geithner ha avuto un ruolo anche nella crisi europea. Prende poche pagine della sua voluminosa memoria, ma è preciso e sconcertante.
Europa sbalorditiva e inspiegabile
A metà settembre 2008, a crisi manifesta, “la Banca centrale europea aumentò i tassi, il che mi parve sbalorditivo e inspiegabile”. Se non per “un altro round di paranoia da inflazione”, per l’aunento dei prezzi del petrolio. Il governo americano invece lanciava una riduzione delle tasse per 140 miliardi, un’iniziativa bipartisan, per stimolare i consumi e gli investimenti. Mentre la Fed di New York, che Geithner presiedeva, negli stessi mesi spingeva le banche d’affari a ricapitalizzarsi per 40 miliardi di dollari, e a ridure il breve termine e l’esposizione sui titoli rischiosi. Questo non bastò a salvare una delle quattro, la Lehman, ma salvò le altre.
Successivamente due eventi fanno “inorridire” il ministro del Tesoro di Obama, e lo stesso Obama. L’attacco franco-tedesco all’Italia a novembre del 2011 - l’unica parte di questa memoria già nota, riprodotta dalle agenzie di stampa - e sei-sette mesi dopo l’attacco tedesco alla Grecia. “L’Europa aveva passato la maggior parte del 2011 nei tormenti”. Il 21 luglio fu ristrutturato il debito greco. Nello stesso mese la Bce di Trichet accresceva l’acquisto di titoli pubblici sul mercato secondario “per aiutare a puntellare la Spagna e l’Italia”. Ma “l’Europa non persuadeva gli investitori con una strategia credibile”. A ragione il governo tedesco recalcitrava ai salvataggi, perché “i beneficiari del sostegno europeo – la Spagna e l’Italia come la Grecia – non mantenevano gli impegni di riforma”. Ma “la linea che Angela Merkel disegnava sulla sabbia limitava le opzioni” anticrisi. C’era bisogna di un intervento massiccio subito. Di un piano di intervento, che nei fatti avrebbe consentito alla Bce uno sforzo gigantesco a sostegno del debito e dell’euro, con una “leva” di “piccoli aiuti” pubblici. Le banche centrali canadese e svizzera lo proposero, la Bundesbank lo rigettò.
A un certo punto gli europei presero a rivolgersi ai paesi asiatici per finanziare il loro fondo di intervento, “uno spettacolo abbastanza sconcertante”. Giappone e Cina non risposero.
A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, il consiglio europeo dei ministri del Tesoro. Tentò di non andarci, l’invito fu reiterato e pressante, e allora parlò “con umiltà”, scusandosi, schermendosi. Ma non poté non dire: “È più rischioso un intervento a piccole dosi graduale che un intervento preventivo massiccio”. Gelo, e invito a tornarsene a casa dei ministri dell’Austria e del Belgio per conto della Germania. “No leadership”, è il commento interno al Tesoro Usa sull’Ecofin europeo.
Il 26 ottobre fu annunciata una ulteriore revisione della ristrutturazione del debito greco. Fu annunciato anche “un piano modesto per tentare di fare leva sul fondo di salvataggio per movimentare il denaro privato, ma era congegnato male e più che altro sembrò segnalare i limiti di quello che l’Europa voleva fare”.
Via Berlusconi
Quell’autunno Obama “parlò regolarmente con i leader europei”, e anche Geithner con le sue controparti. Ne ricevettero spesso richieste di intervenire sulla Merkel per una maggiore flessibilità, e su Italia e Spagna per un “impegno responsabile”. Qui viene il complotto: “A un certo punto quell’autunno alcuni rappresentanti europei ci presentarono un complotto per tentare di costringere Berlusconi fuori dal governo; volevano che rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fondo monetraio finché non se ne fosse andato. Informammo il presidente di questo sorprendete invito, ma per quanto potesse servire ad avere una migliore leadership in Europa non potevamo impegnarci in un complotto come quello”. Geithner ne riferisce come di un approccio e una decisione interna al suo ministero, al plurale, abbandonando la prima persona, afferenti cioè a qualcuno dei suoi collaboratori. E probabilmente per iscritto, poiché Obama non parla. Poi torna al singolare: “«Non possiamo macchiarci le mani del suo sangue», dissi”.
Pochi giorni dopo, ai primi di novembre, si tenne a Cannes il G 20. Obama “passò la più parte del tempo in negoziati riservati, per tentare di aiutare l’Europa a salvarsi. La maggiore parte della conferenza riguardò le pressioni su Berlusconi, ma noi continuammo a premere sulla necessità di un robusto firewall, e ci fu molta pressione anche su Merkel. Merkel si sentì isolata e sotto attacco; non l’ho mai vista così agitata”.
Poi le cose cambiano. Cambiano i governi in Grecia, Italia e Spagna. E alla Bce arriva Draghi. “Ai primi di dicembre Draghi annunciò una massiccia iniezione di liquidità a lungo termine per il sistema bancario europeo”, con “un istantaneo effetto stabilizzatore… L’Europa aveva mostrato un po’ di forza e un po’ di volontà”.  A febbraio, al G 20 dei ministri del Tesoro a Città del Messico, il morale era su: “Gli europei erano sollevati, molti dichiararono che la crisi era finita. Io non lo pensavo. Sembrava più una tregua che una soluzione”.
L’attacco alla Grecia
A luglio del 2012 Draghi impegna la Bce a fare “qualsiasi cosa” sia necessario per salvare l’euro nella sua integrità. Geithner ci vede un’identità di vedute con l’intervento monetario e finanziario americano. Ma è sorpreso – “terrificante” – da Schaüble, che in un incontro successivo gli prospetta come “una strategia plausibile - e anche desiderabile”, nelle sue parole, di Geithner, l’uscita della Grecia dall’euro. Come una lezione agli altri: l’evento, sempre nelle parole di Geithner, “sarebbe stato abbastanza traumatico da aiutare a spaventare il resto dell’Europa, inducendola a cedere più sovranità a un’unione fiscale e monetaria più forte”. E come incentivo all’opinione tedesca a sostenere l’euro, senza più il pregiudizio antigreco.
Schaüble viene presentato ora come la controfigura di Merkel, quello che si prende il ruolo del cattivo per coprire politicamente la cancelliera con il ceto politico più recalcitrante all’idea di eurozona e di Europa. Geithner lo dice simpatico, “engaging”. Ma ha agitato i mercati, aggravando la situazione, più del necessario, molto di più, in più occasioni, troppe.
“A giugno dl 2012 la crisi europea bruciava più che mai”, ricorda Geithner. Ma solo Draghi se ne preoccupava. E la risolverà ripercorrendo – in parte e in ritardo – la ricetta americana: “L’Europa non era riuscita a convincere il mondo che non avrebbe consentito una catastrofe”. Geithner ha presente, ricorda, quello che tutti sapevano ma nessuno in Europa denunciava: “difese fragili e politiche confuse”. Scrive allora a Draghi per incoraggiarlo: “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno ancora a te per un’altra dose di abile, creativa manifestazione di forza da banca centrale”. Draghi sa di doverlo fare ma la Bundesbank non glielo consente. I tedeschi “non avevano un piano per salvare l’Europa ma sapevano quello che non volevano”, così Geithner sintetizza le sue conversazioni con Draghi – “quel luglio Draghi e io abbiamo avuto parecchi conversazioni”: “Davano una lettura limitativa dei poteri legali della Bce, e si opponevano a qualsiasi cosa sapesse di questione morale”, di salvataggi con denaro pubblico (quello che la Bundesbank aveva tranquillamente fatto in casa, va aggiunto).
Qualsiasi cosa
Il consiglio di Geithner è di “lasciare la Bundesbank fuori”. Il 26 luglio uno studio Citigroup dà la Grecia fuori dall’euro al 90 per cento. Quello stesso giorno, a un convegno a Londra, al termine di una serie d’incontri con banchieri e gestori di fondi, Draghi proferisce le parole famose: “Nei termini del nostro mandato, la Bce farà qualsiasi cosa per preservare l’euro. E credetemi, sarà abbastanza”. Fa l’annuncio, scrive Geithner, sotto l’impressione del pessimismo che ha riscontrato negli incontri londinesi, ma non ha un piano. Geithner va allora a Sylt, dove Schaüble è in vacanza, per tentare di convincerlo. Ne ricava quanto si è già riferito – “lasciai Sylt più preoccupato di prima”. Si ferma a Francoforte da Draghi, che  lo rassicura, ma sempre senza un piano.
Di ritorno a Washington, Geithner spiega a Obama che l’Europa può mettere a repentaglio il programma anticrisi americano. Obama chiede più volte che l’Europa affronti la crisi con decisione. A settembre Draghi annuncia il programma di riacquisto di titoli pubblici europei sul mercato. I mercati si rassicurano, ma per poco. Viene Cipro, altra confusone.
La memoria lascia gli europei in crisi. Tra “impegni sempre confusi e incompleti”, nei “loro tardivi e spesso inefficaci tentativi di imitarci”. Sempre divisi su “un robusto programma europeo di ricapitalizzazione diretta del sistema finanziario, come il nostro”. Incapaci di “un piano effettivo di un sistema comune di assicurazione sui depositi” (quello oggi in discussione). Con una disoccupazione a livelli impensabili, “molto peggiore che negli Usa, una crescita stagnante, … un’austerità mal posta”. La conclusione è triste: “C’era tanta sofferenza innecessaria dietro questi dati”. E orgogliosa: “Gli errori degli europei … fornivano un’ottima pubblicità alla nostra risposta alla crisi”.

(fine)

Contagio a Vigata

C’è un’epidemia in paese. Anzi al circolo – ex dei nobili, ora dei (pochi) professionisti. Una “epidemia da duello”: a un certo punto tutti vogliono battersi in duello con tutti, “il duello era forse contagioso?”.
Un’epidemia per una causa, come sempre, remota. Il barone Paternò avendo pugnalato a morte in un albergo malfamato al Pantheon di Roma la sua amante donna Giulia Trigona di Sant’Elia, grande aristocrazia, nata Mastrogiovanni Tasca di Cutò, maritata Trigona dei principi di Sant’Elia, perla del salotto Florio a Palermo, dama di compagnia della regina Elena a Roma, trascurata dal marito per un’attricetta della compagnia Scarpetta, quella del film di Martone a Venezia, incapricciata del più giovane aitante barone Paternò di Cugno, tenente di cavalleria, che l’Enciclopedia delle donne e Tomasi di Lampedusa onorano.
Una presa in giro, arguta, del codice Gelli, il manuale dei duelli, ora ignoto a tutti ma di cui si faceva gran parlare ancora nel dopoguerra, prima del Grande Rinnovamento del Sessantotto – la stupidità è lenta. Camilleri è grande narratore, in qualsiasi pozzo o ritaglio si cimenti, anche il codice Gelli. Questo racconto gira per di più, a parte il ridicolo dei duelli che da uno arrivano a sette, sulle “palle”. Di pistola naturalmente, di quelle ad avancarica, non potendosi fare il duello con l’automatica: ci sono “poche palle”, malgrado l’animosità – la questione sarà risolta dalle mogli. Niente, insomma. Ma funziona.
Andrea Camilleri, Il duello è contagioso,  “la Repubblica”, pp. 44 gratuito col quotidiano

venerdì 17 settembre 2021

Problemi di base - 657

spock

Una volta si viveva peggio ma il futuro era per noi, ora si vive molto meglio ma l’orizzonte è buio?
 
Il sole non sorge più  - non come una volta?
 
Si può dire che la ladra è rumena, o bosniaca, ma non che è rom?
 
Il razzismo è stupido, l’antirazzismo pure?
 
Perché l’odore dei cani innervosisce i cani?
 
Su Google non si può scrivere negro, ma si può scrivere merda: che censura è?

Perché delle feste e i galà si pubblicano abiti e facce raccapriccianti, specie di sconosciuti?

spock@antiit.eu

La Nato minacciata, dagli Usa

Mattarella celebra giustamente la Nato, settant’anni di libertà in Europa, e di pace. Ma è un’alleanza debole, e non da ora.  Inerte sul fronte Europa Est, trascurata nella ritirata dall’Afghanistan, dimenticata nell’Indo-Pacifico, la Nato non se la passa bene: l’Europa è sempre più trascurata dagli Stati Uniti.
Sopravvive burocratica. Con le nomine, segretario generale, comandanti di settore, e con i piani. Ma non funziona. Nemmeno come coordinamento.
La politica americana è sempre quella di Trump. Che però non è di Trump, va sotto il suo nome perché l’ha messa in evidenza, già con Obama vigeva un tacito neglect – Obama prima di Trump era personalmente annoiato dagli europei. Gli europei non spendono abbastanza per la difesa, non si impegnano in guerra, limitandosi a presenze in clausura (testimonianza), e non collaborano politicamente con Washington. Non nei problemi atlantici né nei riguardi di Mosca e di Pechino.  Un alleato non inutile, ma neghittoso, e forse inaffidabile.
La disattenzione americana in ambito Nato non è nuova, risale al tempo della Guerra del Golfo, malgrado la partecipazione dei volenterosi, e poi nella guerra al terrorismo. Scarso coordinamento militare, poco o nulla nell’intelligence, efficacia zero, sul campo. Nel mentre che insorgeva l’area del Pacifico come di maggiore impegno per l’America, per la sfida prima giapponese (commerciale), poi (commerciale, politica, militare) della Cina.
L’Europa si è peraltro autoesclusa dagli affari mondiali. Per l’Europa vale da tempo il credo del non-intervento, delle “guerre pacifiche” e perfino “umanitarie” – cioè dei simulacri. Un’Europa lasciata di fatto alla Francia e alla Germania: con la Francia belligerante, su tutti i  fronti, non si risparmia nulla, e la Germania pacifista, su tutti i fronti, unicamente interessata agli affari. Con la Germania prevalente e anzi dominante, il non fare – a fronte della ammuìna, la Francia è sempre quella del vorrei ma non posso. Ora accusa Biden, e il governo australiano  di duplicita e di disonestà, accuse gravi, ma con che esito?

Angela la Padrina - 2

È opportuno riproporre, per una valutazione del cancellierato Merkel, quanto questo sito poteva scrivere il 18 agosto 2019, “Merkel o della Finis Europae”:
https://www.blogger.com/blog/post/edit/4308716637477704291/1241123455399843259
Si celebra Angela Merkel al tramonto omettendo il fatto più importante: che ha imposto all’Europa la stagnazione e la recessione. L’Europa  è la sola delle tre macroregioni ricche ancora in affanno dopo la crisi bancaria del 2007, cioè negli ani di Merkel, mentre Usa, Cina e Giappone hanno abbondantemente superato la crisi e anzi se la passano come non mai. E questo per la politica merkeliana, un’ossessione e quasi una divisa, del “troppo poco, troppo tardi”. Nei casi della Grecia, dell’Italia e di ogni altra crisi possibile.
È stato solo possibile tirare fuori dal crac l’Irlanda, per le pressioni delle multinazionali americane, e la Germania. Con giganteschi esborsi europei in entrambi i casi, della Bce e della Comunità.
Merkel ha usato dire nei giri europei che non poteva fare di meglio e di più perché l’opinione tedesca è nazionalista o antieuropea. Ma è con lei, e con le sue politiche del risentimento, antilatine, antimediterranee, che la destra tedesca è rinata forte, e i nazisti sono perfino in qualche Parlamento regionale, dopo ottant’anni. Il contrario è più vero: è la sua politica che ha alimentato la destra tedesca.
Un primo bilancio se ne poteva fare il 31 gennaio 2019, nella minierie “La fine dell’Europa di Angela Merkel”, in questi termini:
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 Sarà difficile ricordarla, se non per le quattro elezioni vinte. O allora per i danni che ha fatto, con la lesina e l’indecisione, “troppo tardi troppo poco” la divisa che le si è incollata. E l’esecuzione cieca degli interessi delle banche e dell’industria tedesche, con danno probabilmente letale per l’Europa, l’unica grande area economica che non esce dal precipizio del 2007 - sopravvive intaccando la rendita.
Ha solo deciso quello che le banche e l’industria hanno voluto. Il salvataggio multimilionario delle banche, con fondi europei. L’abbandono del nucleare, per gli interessi carboniferi. E il famoso milione di immigrati del 2015, con fondi europei, perché la Germania è in forte crisi demografica e la Confindustria tedesca ha bisogno di braccia. Creando la questione immigrati in Europa: fra i paesi che attorniano la Germania, Polonia, Ungheria, Slovacchia, Croazia, Slovenia, la stessa Austria e l'Italia – e la Francia, che fa muro ma non lo dice, per la politica macroniana della ipocrisia.
Non si ricorderà nulla dei suoi dodici o tredici anni, quanti saranno. Se non la crisi dell’Europa, che dopo il suo cancellierato potrebbe essere irreversibile. E la Grecia e l’Italia per i danni che ha loro inflitto. All’Italia con la svendita dei Btp nella primavera del 2011, e i sorrisetti pubblici con Sarkozy – di cui rideva in privato.  Il suo partito lascia in macerie, avendo stroncato ogni possibile deuteragonista.
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Pessima è stata la politica della Germania di Merkel nei riguardi dell’Italia, pure suo partner economico privilegiato. Specie nella crisi del debito del 2011 – da cui ancora l’Italia non si è ripresa. Con molteplici tentativi di mettere al centro della speculazione anche le banche, le banche italiane.  Con l’incredibile suo presidente della Bundesbank, Weidmann, un giovanottone di nessuna esperienza, eccetto la segreteria di Merkel, che si alternava con il ministro del Finanze (Tesoro) Schaüble, vecchia volpe democristiana, per puntare i cannoni a settimane alterne contro l’Italia.
Non ci sono solo i sorrisetti di Merkel col disprezzato Sarkozy contro l’Italia. Mai visto nella storia della moneta un ministro del Tesoro e un presidente della banca centrale che si agitano a creare panico. Al punto da scandalizzare il governo americano, Obama e il suo ministro del Tesoro Geithener, che lo ha scritto nelle memorie. Pur essendo l’America, non solo lo speculatore Soros, pregiudizialmente contraria all’euro - gli Stati Uniti sono sempre stati, fin dal tempo di Clinton,  contrari.
Tutta la Germania istituzionale fu mobilitata contro l’Italia, e non passava giorno, si può dire, senza un attacco. Che in un vero ordinamento europeo sarebbero stati materia penale. La Deutsche Bank di Ackermann, un manager svizzero consigliere di Merkel, si disfece preliminarmente di tutti i Btp, ricomprandoli a termine, e lo fece sapere, fece sapere della vendita, al “Financial Times”. “A ottobre 2011”, scrive G. Leuzzi in “Gentile Germania”, un libro del 2015, “per riaccendere la crisi che si affievoliva dopo la vendita dei Btp, il capo economista della Deutsche Bank, Thomas Mayer, pubblicamente aveva ammonito contro ogni aiuto all’Italia. In una col presidente del Ces-Ifo di Monaco, rinomato istituto di studi sulla congiuntura, Hans Werner Sinn, che aveva redatto e pubblicizzato una serie di note contro l’Italia, sul debito e le banche. Con l’effetto non casuale di mettere nel mirino le banche italiane, meglio gestite e capitalizzate delle tedesche, elevando una cortina di fumo su quest’ultime, che erano tutte un colabrodo, Deutsche inclusa. “Offrire un’assicurazione di prima categoria sui titoli contro il fallimento dell’Italia ci colpisce come offrire un’assicurazione sulla cristalleria al padrone di una casa prossima a un impianto nucleare che sta per collassare”, scrisse Mayer online nel bollettino della banca. Neppure con la garanzia del Fondo europeo di stabilizzazione: “Né il padrone di casa né il detentore di titoli italiani si sentirebbero molto sollevati da questa assicurazione”. 
È stata questa la Germania di Merkel, che ha infettato l’Europa.
(continua)

L'aborto clandestino

Ernaux non è menzionata nel premio di Venezia quest’anno, il Leone doro, al film che ne è stato tratto, se non da ultimo, nei titoli di coda, come autrice del racconto da cui è stato tratto il film. Ma il racconto dell’aborto cui si è sottoposta a gennaio del 1964, dunque tra i 23 e i 24 anni, ancora studente di Lettere a Rouen, impegnata a una tesi sulle donne nella poesia surrealista, cioè in Éluard, Breton e Aragon, per una gravidanza esito di un rapporto con uno studente già lontano e mezzo dimenticato, svolge come una sceneggiatura. Volutamente piatta sulla pagina, senza culmini, drammi, pericoli. Come testimonianza di una pratica pericolosa e avvilente, quando l’aborto era un reato, non come un damma personale – questo, per la verità, colpisce il lettore, la mancanza, o quasi, di tensioni personali.  
L’evento è raccontato passo passo: niente mestruazioni, nausee, i complimenti del ginecologo, “lei è incinta di un mese e mezzo, i figli dell’amore sono sempe i più belli”, la decisione di abortire senza mai un dubbio, una inconrgua settimana bianca nel mezzo, incinta di due mesi e mezzo, con l’amico già lontano, il tentativo con i ferri da uncinetto, come trovare una mammana, la mammana, un aborto non riuscito, uno riuscito, intanto siamo a tre mesi e mezzo, il feto penzolante “con una grossa testa, sotto le palpebre trasparenti gli occhi fanno due macchie blu”, ha anche un minuscolo sesso, la placenta tagliata male, l’emorragia, l’ospedale.
Un dramma, si pensa, ma che non avrebbe lasciato traccia – il lettore è portato a simpatizzare col feto e antipatizzare con l’autrice sconsiderata, ma non è questo evidentemente lo scopo del racconto. Ernaux lo ricostruisce tardi nel 2000, uscendo da un consultorio Aids dove la trovano “negativa”, malgrado le indisposizioni seguite a un rapporto (a sessant’anni…) senza preservativo con un amico venuto da Roma. Un racconto che decide di fare per ribadire che l’aborto non può essere illegale, basandosi su scarsi ricordi e qualche appunto di diario, non più di due o tre righe. Un’esperienza che non avrebbe lasciato traccia, né morale né fisica. Lo stesso anno dell’aborto Ernaux si sposa, e avrà due figli. Sei anni più tardi scrive su “Le Monde” di problemi e cause femministe. Dieci anni più tardi è già autrice di un primo romanzo, apprezzato - è “Gli armadi vuoti”: il romanzo d’esordio racconta già questa storia: Ernaux riscrive molto.
Un testimonianza, il più possibile “oggettiva”, disincarnata. Di quando l’aborto era proibito per legge, e materia di levatrici, nei casi migliori, in segreto, a rischio setticemia e emorragia. “Scrivere la vita” è la sua scrittura, si dice Annie Ernaux a presentazione del volumone “Quarto” Gallimard che ne raccoglie le narrazioni. Non un compito che si è dato, ma una maniera d’essere e di raccontare: il mondo, attraverso la sua esperienza.
Annie Ernaux, L’evento, L’orma, pp. 128 € 15

giovedì 16 settembre 2021

Angela la padrina

Si celebra ovunque, incondizionatamente, Angela Merkel, e non si vede perché. Ha governato la Germania, e l’Europa, per  sedici anni, ma che cosa ne ha fatto? Cosa ha dimostrato, a parte la  capacità parlamentare di manovra, a destra, a sinistra, e nello stesso suo centro, i suoi partiti, che peraltro ha devitalizzato?
Ha cancellato la Germania dalla politica europea, tutta intenta ai privati affari della Germania stessa, con Putin, con Pechino, e l’Europa dalla politica mondiale. Scettica sulla Ue, per anni scopertamente (il discorso di Bruges è  del 2010), poi ironica, sufficiente - e sempre unilaterale e mercantilista, per la bottega Germania (Bce, Putin, Erdogan, immigrati). Sul fronte atlantico, ci sarà da lavorare per gli storici, tra uovo e gallina, tra Washington e Ue, ma in tutti questi anni le relazioni sono state al minimo, Merkel è stata quasi persona non grata in America, senza alcun beneficio per il Vecchio Continente. La cancelliera ha condotto la Germania in salvo attraverso tre crisi, delle banche, del debito, del virus, ma – nelle prime due – a danno dei partner europei, e in tutt’e tre grazie alla riforma del lavoro del suo predecessore Schröder, un socialista che ha disintegrato il mercato del lavoro.
Le attribuiscono anche il salvataggio dell’euro nella crisi del debito quando invece l’euro è andato in crisi a causa sua. Tardi e poco per salvare la Grecia. E accanto al grande statista Sarkozy nello strangolamento tentato dell’Italia. Merkel rideva di Sarkozy la notte con i suoi collaboratori al bicchiere della staffa, e con Sarkozy quando bisognava mostrare al mondo che l’Italia era kaputt. Questo si tace, e se si dice si fa scandalo, cospirazionismo, complottismo eccetera, il partito della Cancelliera è in Italia molto forte, il numero delle agiografie in circolazione è impressionante, ma è solo l’evidenza: lei “non c’era” naturalmente, ma questo se lo dicono i padrini.
La ragazza dell'Est
Una donna al potere. In Germania – cioè a capo dell’Europa. Per sedici anni, per quattro legislature. È sicuramente un successo degno di nota. Di una donna, per giunta, dell’Est tedesco, che in Germania è disprezzato come il Sud in Italia. Ma il successo va giudicato nei suoi fatti. A partire dagli esordi, anonimi, molto. Passò nel 1989 a Berlino Ovest per caso, portata dalla folla, uscendo dalla palestra, col borsone a tracolla. E questo è tutto quello che se ne sa, anche se alla caduta del Muro aveva 34 anni, e quindi un passato. Con lei è così: indistinzione e grigiore. Della Ddr, la Repubblica Democratica Tedesca, avendo preso il realismo del potere, che è mediocre: della sua resistenza, o incapacità, a impegnarsi sulle questioni di principio e di prospettiva ha fatto  un’arma. Della mediocrità.
Helmut Kohl, il cancelliere di più lunga durata dopo Bismarck, artefice della riunificazione, e della moneta europea, se ne fece bandiera, della “ragazza dell’Est”, da Grande Maneggione politico, e la ragazza presto lo giubilò – “ha una pietra nel cuore”, dirà di lei il suo mentore oltraggiato. Allo stesso modo ha anestetizzato l’Europa, che sempre ha bloccato sulle questioni minime, incapacitandola. Giustificandosi col dire, con cinismo da casalinga: “Senza di me vedreste…”. La cancelliera del “troppo tardi, troppo poco”. Per dire che la Germania è inselvatichita, mentre non sembra proprio, non se ne vedono segnali.
Si dice: ha sostenuto Draghi contro la sua stessa Bundesbank, contraria al quantitative easingma a Draghi lei è arrivata dopo il fallimento-ritiro dei suoi candidati, Weber e Stark, e dietro l’impegno a salvare lei e le banche tedesche con quello che i giornali tedeschi chiameranno la “Grosse Bertha” - il supercannone del 1914-18 che bombardava Parigi: un intervento spettacolare a salvaguardia delle banche. Un gigantesco prestito a tre anni a bassissimo costo che ha salvato tutti, ma soprattutto le banche tedesche, olandesi, belghe e austriache, le peggio messe - Draghi alla Bce, fautore della politica d’intervento ma anche miglior guardiano degli interessi della Germania.
Ha chiuso, si farà entro un anno, le centrali nucleari, autorizzando quaranta nuove centrali a carbone. Ha affidato a Erdogan il trattamento dei rifugiati siriani e mediorientali, a spese della Ue, senza consultare nessuno – a Erdogan. Fredda a ogni suggerimento di una politica europea dell’immigrazione, che è solo necessaria.
La creazione di Afd
Si è presa i profughi della Siria, che sono meglio degli africani disperati a mare - manodopera pronta, più preparata, meglio integrabile. Un anno, per la platea – mettendo in difficoltà i paesi limitrofi e di transito, dalla Croazia alla Polonia. E poi basta: non una mano d’aiuto all’Italia e agli altri paesi esporti nel Mediterraneo, Spagna e Grecia, e all’Est, non una politica europea dell’immigrazione. Che sarebbe anche facile, oltre che meritoria.
Siamo rimasti alla Germania del 2016, quando secondo Angela Merkel poteva accogliere un milione di immigrati. Ma le cose sono cambiate: già l’anno successivo, prima ancora quindi del voto a settembre 2018 che ha punito Merkel e i suoi partiti democristiani, l’“accoglienza” tedesca si era dimezzata. Nel 2016 ben 745 mila richieste di asilo erano state presentate in Germania, nel 2017 solo 223 mila. Mentre in Italia la cifra è rimasta inalterata e anzi è aumentata: 123 mila richieste nel 2016, 129 mila nel 2017. 
Il “restringimento” è avvenuto in Germania, va aggiunto, come nel resto dell’Europa. Nel 2017 le richieste di asilo nella Ue sono passate da 1.260.910 del 2016 a meno di 700 mila. Lo stesso l’accoglienza: si è passati da un’accettazione delle domande di asilo del 61 per cento nel 2016 al 45,5 nel 2017. Anche qui, il calo è stato determinato dalla Germania. Che ha ridotto l’accettazione dal 69 al 40 per cento, da sette su dieci a quattro. In Italia la percentuale è stabile, attorno ai quattro su dieci - 39,4 per cento nel 2016 e 40, 6 nel 2017.
Nel frattempo il beau geste di Merkel era costato alla Germania la spaventosa crescita dell’ultra destra, Afd, con il 12 per cento al Bundestag, terzo più grande partito a soli tre o quattro anni dalla fondazione, con la maggioranza relativa a Est, in Brandeburgo (la regione di Berlino), Sassonia, Turingia, Sassonia-Anhalt. È costato alla Germania e all’Europa, ma più di tutti ai due partiti della stessa Merkel, Cdu e Csu: il travaso non è tornato e non tornerà indietro, la destra non è più proibita in Germania, dopo 70 (settanta) anni. Di dirà di Merkel come di Brüning, il cancelliere che assisteva inoperoso alla ascesa elettorale di Hitler, uno sconosciuto. Un cambiamento “epocale” dell’elettorato tedesco, rispetto alla tranquilla, rassicurante, stabile navigazione della Repubblica Federale di Bonn. Che in Italia bizzarramente passa sotto silenzio: Merkel affascina inviati e corrispondenti - sarà il richiamo della Mutti¸ della mammina, l’immagine che di sé ha curato nelle agiografie, anche se di Merkel tutto si può dire tranne che sia o faccia la “mamma”.

La crisi italiana
Sulla Crimea e l’Ucraina ha imposto agli europei le sanzioni all’Urss. Ponendosi anche a mediatrice a Minsk. Dove non ha mediato nulla, per non dispiacere a Putin - la Crimea resta saldamente russa, e mezza Ucraina è a rischio. Fregandosene delle sanzioni dove gli interessi tedeschi sono in ballo. Da ultimo con le importazioni del gas russo a volontà, per conto di tutta l’Europa - una percentuale su trasporto e approvvigionamento.  
Ha assistito indifferente alla crisi del debito italiano – nulla a che vedere col cancelliere Schmidt nel 1976, che pure era ben “tedesco”.  Avviata peraltro per sua imprudenza, o calcolo. Il 18 ottobre 2010, sul lungomare di Deauville, Angela Merkel aveva imposto a Sarkozy, quindi all’Ue, il principio che “gli Stati possono fallire” - la Grecia, ma non solo. Era la ricetta del suo “banchiere” privato Ackermann (il capo, all’epoca, di Deutsche Bank): non ristrutturare il debito (allungare le scadenze, tagliare gli interessi) ma farlo pagare con l’austerità, anche cruenta. A questo fine limitando gli aiuti Ue. Il capo della Banca centrale europea, Jean-Claude Trichet, francese, reagì furioso: “Non vi rendete conto di cosa provocate”. Ma il suo presidente, lo statista emerito Sarkozy, lo mise a tacere.
Al contempo, in una sorta di divisione del lavoro sporco, i consiglieri monetari di Angela Merkel impedivano alla Bce ogni intervento calmieratore, Axel Weber, Jürgen Stark, Jens Weidmann. Tre personaggi influenti, accreditati portavoce della migliore Germania, di saggezza incontestabile e potere decisivo. Anche se il curriculum di Weidmann si limita a una laurea, e ad alcuni anni di servizio nella segreteria di Angela Merkel.
(continua)




Ecobusiness

Non è del 40 per cento, come anticipato dal ministro dell’Innovazione Cingolani, ma del 50 l’aumento delle tariffe di gas e elettricità l’1 ottobre. Più del doppio dell’aumento del 20 per cento subito dimenticato ma che doveva scattare a luglio – il governo lo ha fiscalizzato in parte, limitando gli aumenti al 9 per cento per l’elettricità e al 15 per cento per il gas (è il prezzo della “materia energia”, che in bolletta annega in mezzo a una decina di voci diverse, trasporti, oneri di sistema, Iva, accise, probabilmente pro Calabria…).
È l’effetto dell’aumento del gas nelle forniture europee, russe e mediorientali di gas. Il cui costo è passato dai 6 euro a megawattora di maggio 2020, in pieno blocco delle attività, a  oltre 170 ieri 15 settembre – per l’Italia il passaggio è stato da 22 a 180 euro.
L’Italia, malgrado la politica preveggente di Eni-Snam, che ha praticamente imposto i consumi di gas in Italia, e cinquant’anni fa, in Europa, ha ora la bolletta più cara, bisogna remunerare gli importatori privati.
I costi della “materia energia” sono normalmente stabili – le variazioni, in più o in meno, sono di pochi punti percentuali. Ora si sconta il blocco dell’attività un anno e mezzo fa, contro la ripresa in corso a ritmi pre-covid, in Italia, in Europa e nel mondo.
Un terzo fattore del caro-energia è che il gas, benché disponibile in grandissime quantità, è diventato scarso come come per tutte le materie prime. La cui produzione era stata bloccata un anno e  mezzo fa, e ora di colpo è in grande richiesta. Il mondo fa ancora perno sulle miniere, sull’utilizzo dei materiali fossili.
Un peso, che si calcola pari a un quinto dell’aumento, ha anche il rincaro degli Est, e cioè il costo dell’emissione di CO2. Del “permesso” per l’immissione di CO2 – per la mancata riduzione dell’emissione di CO2 in risposta ai regolamenti via via più restrittivi. Un costo che dovrebbe esplodere ora con con l’obiettivo Ue di ridurre del 55 per cento le emissioni di CO2 nel 2030. Il prezzo, nel 2020 in media di 25 euro per permesso, era passato ieri a 61 euro.
Incidono sul prezzo del megawattora anche una serie di restrizioni all’approvvigionamento. La fuoriuscita dal mercato dei produttori dell’Olanda. L’interruzione delle forniture di gas liquefatto, che gli esportatori americani trovano più conveniente vendere in Asia. Norvegia e Russia esportano sempre meno, malgrado abbiano riserve ingenti, per il mancato rinnovo delle strutture di produzione e di trasporto, vecchie di quaranta e cinquant’anni. L’Italia, che ne ha riserve enormi, limita fortemente la produzione per timori ambientali.

Cronache dell’altro mondo – le elezioni rifatte (140)

Il governatore della California Newsom, democratico, eletto nel 2018, ha dovuto correre di nuovo in una “elezione di richiamo” (recall election) perché i suoi avversari, repubblicani, ne hanno contestato la vittoria. Ha rivinto come alla prima elezione, col 60 per cento e qualche voto in più, contro ben 45 concorrenti, e quindi ha vinto definitivamente.
Si traduce “recall” con revoca, mentre è essenzialmente un richiamo, un voto da ripetere, senza che l’eletto contestato sia decaduto. Non prima che la recall election l’abbia bocciato.
La California e altri 18 Stati hanno tale procedura: si va a un “richiamo” in California (le procedure sono diverse da Stato a Stato) se il 12 per cento del numero dei votanti dell’elezione contestata ne fa richiesta. Contro Newsom erano state raccolte mezzo milione di firme.
Schwarzenegger, che poi governò la California per otto anni, due mandati, emerse nel 2003 in un voto di “richiamo”, nel quale vinse contro “oltre cento” candidati.
In California negli ultimi sessanta anni tutti i governatori hanno dovuto fronteggiare un voto di “richiamo”.

L'alcol triste di F. S. Fitzgerald

Un testo breve, una pagina della rivista, umoristico, e drammatico. Dal 1929 per dieci anni l’autore di “Tenera è la notte” – che pubblicherà solo nel 1934 – scrisse molti “pezzi” per la rivista newyorchese, pezzi brevi in prevalenza leggeri, o occasionali, di cose viste. Questo è il primo.
Già autore di quatro romanzi, compresi “”I belli e i dannati” e un piccolo libro intitolato “Il grande Gatsby”, Fitzgerald fa al debutto una breve storia delle sue bevute: “1913, i provocanti whisky Canadian Club al Susquehanna di Hackensack (F.S.F. aveva 17 anni, era minorenne, n.d.r.) – 1914, il Great Western Champagne alla Trent House in Trenton – 1915, il Borgogna frizzantino, il  whisky puro, poi gli Stinger…. Fino al 1929. “La sensazione che tutto il liquore è stato bevuto e tutto quello che può fare per qualcuno è stato sperimentato, e tuttavia – «Garçon (in francese, n.d.r..), uno Chablis Mouton1902, e per cominciare un piccola caraffa di vino rosé. Sì – grazie»”.
Un ricordo che appare strano per un autore non ancora quarantenne. Che non indulgeva nell’autofiction – se non attraverso i modi e vezzi di classe e sociali. Ma una testimonianza, e come una premonizione: F. S. Fitzgerald già aveva problemi di alcolismo.
La lettura è svelta e allegra, ma un sospetto di malinconia è insopprimbile.
F.Scott Fitzgerald,
A Short Autobiography, “The New Yorker”, free online 

mercoledì 15 settembre 2021

A Sud dl Sud - il Sud visto da sotto (467)

Giuseppe Leuzzi

Nel suo libro di memorie, 585 pagine a 66 anni, Oscar Farinetti, il vulcanico piemontese creatore e patron di Eataly, dice che senza il Sud non sarebbe riuscito: “Se anziché pizza e pasta avessi venduto solo polenta, non avrei avuto tanto successo”. Poi, intervistato da Cazzullo sul “Corriere della sera”, precisa: “Il Mezzogiorno è meraviglioso, e ce la farà. Ma non ne posso più di sentirmi dire che la colpa dei loro guai è tutta dei piemontesi. Con le colpe degli altri non si va da nessuna parte. In Sicilia ci sono più di 1600 chilometri di costa, tra le più belle del mondo. Quella, Garibaldi non l’ha portata via. In Romagna la costa è lunga meno di cento chilometri e non è la più bella del mondo. Ebbene, in Sicilia ci sono cinque milioni di turisti, in Romagna venti. È colpa dei romagnoli?».
 
“L’idea di una spedizione al Sud non era nuova”, nota Bianciardi nel “Risorgimento allegro”, il suo “breviario di italianità”, a proposito di Garibaldi: “Ci si erano già provati i fratelli Bandiera, e poi Carlo Pisacane”. Già.
 
Si abusa in tutto il Sud, non solo in Calabria, dei commissariamenti – a favore di impiegati e pensionati che tirano solo alla macchina con autista e alla (grossa-grassa) indennità. Di cui devono farsi carico gli Enti commissariati. Delle indennità e le spese dei commissari, e dei dipendenti e i collaboratori dei commissari, che sempre si moltiplicano, per nulla fare. Ci vuole ora la Corte Costituzionale per stabilire che, giacché il commissariamento è opera dello Stato, è lo Stato  a doversene assumere gli oneri: sentenza 168\2021. Verrà applicata? Finalmente si rivedrà questo assurdo istituto?
 
La religione è di questo mondo
Lo scrittore svizzero Kuno Raeber, che viaggiò nel 1961 a Tropea, Crotone e Catanzaro, in cerca di miti e di ragazzi, non molto attento ai particolari, vi trova una costante: una religiosità “più complessa e nello steso tempo più terrena, più semplice, più carnale, più primitiva di quella cristiana”. Quella che i vescovi ora eliminano, con violenza. Sradicano. Le processioni, con la farsa assurda degli “inchini” ai mafiosi, le novene, gli ex voto, le offerte, di denaro, gioielli, ricordi. Tutto ciò che identifica il credente nella divinità, o comunque lo fortifica con la tradizione, è supposto pagano, fuori e contro il messaggio di Cristo, che si vuole ascetico – seppure del mondo (i vescovi sono ben del mondo).
Ma non c’è nella cristianità, nell’idea di cristianità, delle origini e di ampie esperienze, l’agape, la funzione corale, la partecipazione, perfino il banchetto in senso proprio, a tavola? I vescovi lo rinnegano? Vogliono la religione muta, di ognuno chiuso in se stesso? E mutila, senza arti, senza proiezioni, attaches, riferimenti? Non era la chiesa che coltivala la tradizione, la imponeva?
Che non vogliano la festa si può capire: la chiesa, questa chiesa, pensa di emendarsi battendosi il petto col collo torto – non una novità. Ma si nasconde, perfino dietro i Carabinieri. 
Il problema centrale di questa chiesa è che è difficile essere di questo mondo – per il prete onesto, ovviamente, la santità è facile.

Mario La Cava lo ricordava ne “I fatti di Casignana”, 22, dei pellegrinaggi-processione dopo la Grande Guerra, quando era adolescente, scrivendone nel 1970-73: “Si andava a Polsi per chiedere grazie alla Madonna o per offrire voti, e si ballava, si gridava, si tiravano  colpi coi fucili, per dimenticare le pene”. Una perpetuazione, forse, dei culti dendrici. Ma il senso della festa è paganesimo?

Pavese calabrese, più che un caso - 2

Subito dopo essere arrivato al luogo del confino, remoto, tra “terre aride” e una “spiaggia desolata”, Stefano trasale intravedendo una certa ragazza, che farà da traccia poi per il racconto, ma allo stesso tempo si ripropone di “affrancarsi dal desiderio”. È confinato politico, reduce dal carcere a Regina Coeli, nell’amarezza e non nella sovversione: “Nessuno si fa casa di una cella”, per nessun motivo. Ma, se Brancaleone è il carcere, “meglio restarci per sognare di uscirne, che non uscirne davvero”.
Stefano trascorre la sua vita nel remoto paese frastornato e come assente, pur raccontando la sua esperienza in prima persona. Abulico, come assente. E tuttavia partecipe degli eventi quotidiani, e della comunità. A un certo punto verso la fine, quando nella frazione superiore, ancora più remota, arriva confinato un vero politico, un irriducibile, forse anarchico, e cerca un contatto, che Stefano cerca di evitare, chiamerà  “vigliaccheria la sua gelosa solitudine”.
Il lettore sa oggi che quella solitudine era risentita per un fatto biografico, l’abbandono da parte della donna per la quale lo scrittore pensava di essersi sacrificato, con la prigione e il confino. Ma senza questo riferimento personale, causale, il racconto è in sé curiosamente “kafkaesco”, di una vita senza appigli, di un mondo che gira in tondo, di spiegazioni che non spiegano. I soli uncini sono locali, paesani.
Scritto tra fine 1938 e i primi tre mesi del 1939, col titolo provvisorio “Memorie da due stagioni”, Pavese pubblicò “Il carcere” solo dieci anni dopo, nel 1948. Insieme con  “La casa in collina”, un dittico che intitolò, evangelicamente, apostolicamente (il tradimento), “Prima che il gallo canti” - che tuttora viene ripubblicato come tale, da ultimo nell’ottima edizione Garzanti, con ampie annotazioni di Gabriele Pedullà. A ridosso di Carlo Levi, “Cristo s’è fermato a Eboli”, una delle prime pubblicazioni postbelliche, 1945, d’inaspettato successo, di pubblico e di critica.
“Il carcere” è - al contrario di Levi, che fa un reportage - un memoir si direbbe oggi, appena appena romanzato: una sorta di diario grigio, risentito, lagnoso anche, di un confinato, senza passioni. Un  confinato che non ha nemmeno la passione politica, anzi quella ha in dispetto. Il diario di una vita quasi animale. Eccetto che per l’umanità locale: il confinato mutangolo, quasi arcigno, ne è come impregnato, anche per condividerne la laconicità, che più spesso si esprime per ellissi – indicazioni, suggerimenti, mai apodittica. È la prima prova di “Paesi tuoi”. Un “romanzo” minore, non costruito come un romanzo, ma nella forma del memoir, sceneggiato. Solo leggermente sfalsato con una narrazione tesa, fotocopia d’autore. 
È però la fucina di ambienti, personaggi, e soprattutto linguaggi che “faranno” Pavese. In terza persona ma con molti elementi della soggettiva libera indiretta,  indicazioni non dette, scontate, troncamenti, sbalzi, di scena, di tema, di soggetti. Con dialoghi allusivi più che teatrali, nella forma della “nuova oggettività” (G. Stein, Hemingway), senza consecutio. Con uso diffuso in lingua di termini, costrutti, modi di dire e di fare, di pensare, “dialettali”: locali, tipici, caratteristici. È anche opera di un momento che Pavese ricorderà felice, nel diario, 3 febbraio 1944. Scritta al caffè - al “caffeuccio sul viale” sotto casa che dice “la tua camera, la finestra sulle cose”. In felice disposizione creativa: “«Le memorie di due stagioni» le hai scritte al caffè”, e il ricordo è, dopo quattro anni, di un momento magico - “Il fatto è che hai perduto il gusto di vedere, di sentire, di accogliere, e ora ti mangi il cuore”.

Pavese aveva tentato subito di raccontare il confino, nel 1936 appena libero, nella prosa breve  “Terra d’esilio”. “Il carcere” è un’elaborazione successiva.
Maturando, dopo la guerra dell’impero e l’Asse, la radicalizzazione del fascismo e quindi una scelta politica imponendosi, più o meno inconsciamente Pavese s’interroga nel 1939 sulla sua capacità d’impegno, se non di fede politica. Oggi, alla luce poi de “Il mestiere di vivere” e del “Diario segreto”, “Il carcere” si legge anche come un rifiuto della politica: la politica è come il carcere, una privazione. I personaggi che girano attorno a Stefano non sono eroici, hanno tutti più o meno una loro personalità, ma non soffrono la mancanza della politica. Si vive senza. Partendo dal maresciallo dei Carabinieri che dovrebbe controllare Stefano, ed è invece il suo consigliere benevolo.
Il rifiuto matura per il rifiuto dell’amata, attivista politica per la quale lui si è sacrificato e che ora lo trascura e anzi lo dimentica. Questo il lettore lo sa per certo se ha letto il diario, “Il mestiere di vivere”, e la corrispondenza, ma è detto, senza riferimenti personali, anche nel racconto: il sacrificio a che fine?
Si vive nella provvisorietà. La donna che accudisce Stefano, Elena, disponibile anche a letto e discreta, è  senza rilievo: “Stefano avrebbe voluto che venisse al mattino e gli entrasse nel letto come una moglie, ma se ne andasse come un sogno che non chiede parole né compromessi”. Si fa – ci tenta -  un mito di Concia, la ragazza “caprigna”, selvaggia, che è già madre di un figlio del padrone, ignota ai paesani se non come una “cosa”, e di suo non parla, non guarda. Vive il confino tra “pareti invisibili, l’abitudine della cella, che gli precludeva ogni contatto umano”.
Un racconto sottovalutato – la costruzione non invita, sembra perfino scritto di getto, come viene,e non costruito. Per la teorizzazione della “perfetta solitudine”. Del desiderio di solitudine, o dell’incapacità, con tutti i buoni sentimenti, di comunicare, fare parte di un mondo, una comunità, un gruppo, un’amicizia. Il carcere, anche senza ponti levatoi, è l’insignificanza della politica, come qui spesso si ripete. Se non è viltà, quasi professata, comunque riconosciuta.
Sottovalutato anche per la scrittura, a lettura ultimata, che fa giustizia della prima impressione. Un racconto di situazioni e caratteri fluidi e non ben contornati, come molti in Pavese, e di eventi per lo più minimi. L’ambiguità si fa leggere d’un fiato. E la curiosità: è un racconto ben localizzato, conoscendo i luoghi e i linguaggi, è ben un romanzo (racconto) di Brancaleone che Pavese ha scritto: il paese remoto dove ha passato i lunghi mesi del confino politico non è una semplice scena teatrale.
(continua)

Calabria
Michele Conia, “Rinascita per la Calabria”, sindaco confermato di Cinquefrondi, tiene fede al suo logo cambiando il nome del parco Matteotti in parco Impastato. È la politica in Calabria, ghirigori. Incomprensibili. Ma ai calabresi evidentemente no.
 
Le scarpe artigianali che, insieme con la barca, hanno rovinato la carriera politica di D’Alema, erano un dono, spiega l’ex presidnete del consiglio a Labate su “7”. “Me le aveva regalate un artigiano calabrese”, Più che un artigiano, un vero e proprio industriale del lusso, Cosimo De Tommaso, sociologo, dirigente confindustriale, imprenditore calzaturiero – quello delle scarpe del papa, e delle notti i degli Oscar a Hollywood. Che  però l’azienda poi l’ha venduta, agli americani.
 
La moglie di De Tommaso, Maria Antonietta Ventura, imprenditrice, titolare della Ventura Costruzioni Ferroviarie, l’azienda fondata dal padre, è stata la prima scelta del Pd per le Regionali del 3-4 ottobre. Ma era sotto processo a Catanzaro per associazione a delinquere, nell’appalto della metro leggera di Cosenza, e ha dovuto lasciare la politica. L’impresa è ballerina in Calabria come i terremoti.  
 
La politica annaspa, in questa Regione come nelle tante consultazioni regionali e politiche in Italia da venti o trent’anni a questa parte. In Calabria l’indigenza politica ha dell’incredibile, chiunque si sa fare in qualche misura i propri interessi, ma è la realtà. Tutto si muove in questa votazione attorno a De Magistris, un tipo spregiudiato, per giunta napoletano, “magistrato figlio di magistrati”, nobiltà del seggio, cioè infallibile, che tanto disprezzò la Calabria quando vi fu mandato giovane di prima nomina.
 
Cutro, nel crotonese, fu al centro delle polemiche per il famoso viaggio di Pasolini lungo tutta la costa italiana in due o tre giorni nel 1957 per il mensile “Successo”. Di Cutro Pasolini avendo scritto: “È il luogo che più m’impressiona di tutto il viaggio. È, veramente, il paese dei banditi come si vede in certi western” - dopo aver scritto: “L’Ionio non è mare nostro: spaventa”, forse una licenza poetica, del mare che fece la Magna Grecia. San Leonardo di Cutro, ora celebrato dalle cronache  perché il suo parroco è diventato arcivescovo di Reggio, una frazione di Cutro, ha registrato quattro retate anti-‘ndrangheta negli ultimi due anni, dal 2019.
 
Anna Paparatti, musa della migliore arte romana quando ce n’era una, Pascali, Kounellis, De Dominicis eccetera, ricorda di sé con naturalezza. “Sono sempre stata molto ribelle. Già da ragazza, in Calabria, d’estate, andavo in spiaggia con bikini minuscoli. E se i carabinieri m fermavano e mi dicevano: «Cos’è questo costume scandaloso, se lo levi subito». Io me lo toglievo e restavo nuda”.
È un aneddito “artistico”. Ma rende l’idea.
 
Rino Gattuso e Rocco Commisso, l’ex calciatore e l’imprenditore americano patron della Fiorentina, si sono legati di indissolubile amicizia. E si sono lasciati dopo appena due settimane, senza nemmeno cominciare a lavorare, trascorse tra litigi. È difficile fare società in Calabria, l’anarchismo s’impone – non ci sono società che durino un anno, nemmeno tra fratelli.
 
Sabato 7 agosto, ieri l’oro alla entusiasmante 4x100 a Tokyo, la prima pagina del “Quotidiano del Sud – Calabria”) è: “Morti tra le fiamme per salvare l’uliveto”, “Schizzano i contagi, 235 nuovi casi e tasso di positività all’8 per cento”, un record; “In Sila la guerra dell’acqua: il sindaco di Cotronei forza i serbatoi e lascia senz’acqua San Giovani in Fiore e l’ Alto Crotonese” (almeno 100 mila persone), “«Inter nos», indagato anche il consigliere regionale Sainato”, “La  Questura blocca la «cantante della mala»”, “Tragedia in mare. Finisce sugli scogli e muore”. “Angela Napoli (in politica da quarant’anni, o cinquanta, ex socialista. N.d.r.):«Io sto con De Magistris»”. E la intende una buona notizia.
 
La “Gazzetta del Sud”, l’altro  quotidiano della Calabria, è specializzato invece in morti, strane, con titoli grandi: “Nel torinese. Autista schiacciato dal tir mentre scarica merce”, “Nel Milanese. Un giro in monopattino. Perde la vita a 13 anni”.

leuzzi@antiit.eu

La scuola del somaro

Il libro del maestro che a scuola era un somaro. Non un libro sulla scuola: “Tutti si occupano della scuola, eterna disputa degli antichi e dei moderni… No, un libro sul somaro! Sulla sofferenza di non capire, e i suoi danni collaterali”.
Un manuale garbato del ripetente – quando ancra ce n’erano, il libro è del 2007, Feltrinelli lo ripropone ora per i ragazzi di scuola, e i genitori. Un sorriso di ottimismo: se ce l’ha fatta Daniel Pennac(chioni - nome corso di una famiglia di professionisti), tutto è possibile.
Daniel Pennac, che scrive dopo venticinque anni d’insegnamento, “duemilacinquecento allievi, su per giù, di cui un certo numero «gravemente carenti», secondo l’espressione in uso”, da bambino era caduto, a Gibuti, il posto più caldo della terra, sessanta gradi, in una discarica, nella quale era rimasto per ore, con conseguente setticemia, e mesi di iniezioni di penicillina, dolorose. Ed era come se il cervello gli si fosse liquefatto: noncapiva più nulla, quindi non memorizzava, non imparava. Malgrado le tante attenzioni e cure della famiglia, il padre, i fratelli. Poi, “insomma, diventiamo”. Anche se “non cambiamo granché. Ci arrangiamo con quello che siamo”.
Un libro sulla “sofferenza condivisa del somaro, dei genitori e degli insegnanti”. Che Pennac apre con l’immagine della madre, “quasi centenaria”, cui il fratello Bernard fa vedere un lungo video sui successi di Daniel, la quale alla fine chiede: “Credi che se la caverà, prima o poi?”. Lui, Daniel, l’avevano messo infine in convitto. Dove, tra tante sciocchezze, da una parte e dall’altra, viene “sanato”, letteralmente, da quattro insegnanti.
Daniel Pennac, Diario di scuola, Feltrinelli, pp. 269 ed. f.c. nelle librerie la Feltrinelli

martedì 14 settembre 2021

Letture - 467

letterautore 

A Filippi - Marco Giunio Bruto - poi, dopo l’adozione da parte di uno zio materno, per questione di eredità, Quinto Servilio Cepione Bruto – che Cesare morente sotto le pugnalate apostroferà “tu quote, fili mi”, per via di una relazione da lui avuta con Servilia, la madre di Bruto, giovane, bella e potente, di suo oratore, filosofo, senatore della Repubblica, fu tormentato a lungo dopo la morte di Cesare dalla visione di uno spirito che lo minacciava di rivedersi a Filippi – Plutarco, “Dione e Bruto”. 
 
Calvino
– “I romanzieri che antologizzò e commentò sono Cervantes, Defoe, Swift, Manzoni, Nievo, Stevenson; e si intuisce subito perché non Balzac né Dostoevskij e Mann: il realismo sociale e morale, politico e introspettivo lo attiravano poco, gli bastava Manzoni” – Alfonso Berardinelli, “Autori e trame (di)spiegati da Calvino, “Il Sole 24 Ore Domenica”.
 
Capra
– C’era una via della Capra, Ziegenstrasse, in ogni abitato della Germania – usava in famiglia  (anche in Italia, fino al dopoguerra) il latte di capra appena munto, dal gregge che passava per strada. Resta famosa la Ziegenstrasse di Norimberga..   
 
Céline
– In italiano può suonare genovese. Almeno quello tradotto da Caproni, “genovese dì adozione”, cioè “Morte a credito”. Lo rileva sul “Robinson” un lettore, che, pur genovese, trova l’uso “singolare”- Roberto Cozzolino ne elenca alcuni: da abbrancare (afferrare) a bacan (padrone), da cancarone (vino pessimo) a lerfie (labbra), da pescetti (muscoli) a ‘n assidoro e ‘n accidente, “che mia nonna pronunciava ‘n assidente”.
 
“Cuore”
– “È il libro meno cattolico della letteratura italiana”, Marcello Fois in dialogo con A.Yehoshua su “La Lettura”. Si direbbe il contrario, non è libro dei buoni sentimenti? Yehoshua lo dice un libro “molto italiano”, cioè cattolico.
Per Fois “Cuore”  non è cattolico perché “i preti non compaiono, non c’è il crocefisso in classe, non si prega”. Cioè, Fois non è mai stato in una scuola cattolica – o la memoria si perde presto.. 
 
Dante
– Il segreto di Dante, della “Commedia”? “Dentro c’è tutto: la poesia, l’avventura, il mistero, l’amore, la morte, l’ironia. Per essere un testo di 700 anni fa, è davvero moderno”. È la ricetta semplice di Lorenzo Baglioni, “cantante, divulgatore e conduttore televisivo”, in conversazione con “Geronimo Stilton”, Elisabetta Dami. “E poi”, aggiunge Baglioni, “secondo me c’è anche una questione di suono; le terzine dantesche, scritte in quel meraviglioso toscano del 1300, hanno una musicalità irresistibile. È come una canzone senza musica”.  Una musicalità che il maestro Muti spiega avviando a Ravenna la chiusura del settimo centenario della morte: gli endecasillabi della “Divina Commedia” “sono già di per sé musica. Nel paradiso, dove siamo in una difficile zona metafisica, teologica e rarefatta, l’articolazione dei versi è musicale. La musica non si deve comprendere, ti rapisce e ti conquista: sanza intender l’inno, dice Dante”.
 
Anche “Geronimo Stilton” si cimenta con Dante per ragazzi. Con “Il mio amico Dante”, una storia  per ridere, e ora una sua “Divina Commedia”. Dante ride, annota pure Aldo Cazzullo, suo fresco biografo, in dialogo con i lettori sul “Corriere della sera”: “Era capace di ridere, anche di se stesso; ad esempio si prende in giro quando nel Purgatorio racconta l’incontro con il vicino di casa, Bevacqua, il più pigro dei fiorentini, tanto quanto lui era alacre”.  
 
Fascisti
– Massimo Raffaeli fa Moravia antifascista, sul “Venerdì di Repubblica”, odiatissimo dai  fascisti: “Non è un caso che l’autore di ‘Gli Indifferenti’ sia stato sempre detestato, vilipeso, dalla borghesia italiana e dalla cosiddetta maggioranza silenziosa, cioè dalla classe sociale che nel fascismo si è riconosciuta”. Moravia vilipeso? Dai borghesi italiani, romani, che stravedevano per lui? La maggioranza silenziosa fascista – la maggioranza silenziosa è nozione milanese, anni 1970, contro il sinistrismo filo-terrorista del “Corriere della sera”? Nel fascismo era rumorosa.
Nello stesso articolo, lo stesso Raffaeli ascrive al fascismo i giovani degli anni 1930 che poi sono diventati grandi scrittori pilastri della Repubblica: Bilenchi, Vittorini, Brancati, Berto , e Giose Rimanelli – “il cui ‘Tiro al piccione’ fu doppiato da un bellissimo film di Giuliano Montaldo”, il comunista senza tessera. E Spadolini, e Scalfari, e Camilleri, e chiunque scrivesse. Sul fascismo c’è un po’ di confusione.  
 
Italiano
– È lingua “musicale” in senso proprio. Sia nell’agogica, l’indicazione della velocità di una composizione musicale, via via nei suoi movimenti, andante, andante con moto, allegro moderato… Sia nella dalla dinamica, che invece, contrariamente al senso della parola, dà le variazioni delle intensità sonore, piano, pianissimo…Agogica e dinamica si danno italiano prevalentemente perché molte convenzioni musicali tra Cinque e Seicento ebbero origini italiane – altri termino sono tedeschi (che spesso si sovrappongono e tendono a sostituirsi, in Germania e Centro Europa – non ché nell’Inghilterra tedescofila – alle italiane) e francesi, con qualche latino e qualche spagnolo.
 
Lucciole
Johanniswürmchen in tedesco, vermetti di san Giovanni, perché si manifesta(va)no numerose la notte di san Giovanni.
 
Pound – “Un noioso artigiano”  per il Vecchio Sporcaccione “Hank”, Charles Bukowski, “Storie di ordinaria follia”, 141 – di suo in realtà un poeta, di migliaia di componimenti: “Ezra mi ha sempre annoiato”, confida Hank a una amica di letto occasionale: “Sul serio. Ci lavora troppo  duramente. Troppo serio, troppo istruito, e alla fine è diventato un noioso artigiano”.
 
Pseudonimo – D’obbligo nell’Ottocento per le donne scrittrici inglesi – non per le scrittrici italiane, né per le francesi. Di romanzi e anche di altre cose. Mary Ann Evans si firmava George Eliot. Le sorelle Bront  Emily, Charlotte e Anne, si firmavano “Bell”: Currer, Ellis e Acton Bell.

Risus paschalis – Usavano durante la Quaresima, in vicinanza della Pasqua, storielle spinte raccontate dal pulpito dai predicatori. L’uso era specialmente diffuso in Germania. Lichtenberg lo ricorda nella “Miscellanee”, scandalizzato – la pratica era in uso nelle aree cattoliche. Per tuto il Settecento fu in uso nel Germania meridionale, Svevia e Baviera, un repertorio di storielle spinte a uso dei predicatori, in latino e in tedesco, fu pubblicato nel 1698 da Andreas Stobl, prete cattolico, parroco e predicatore, “Ovum paschale novum Oder Neugefärbte Oster-Ayr”, sottotitolo: “quaranta storie spiritose”.
La teologa Maria Caterina Jacobelli ne analizzava la pratica nel 1990, in uno studio ora ripreso con nuovo titolo, “Il Risus Paschalis e il fondamento teologico del piacere sessuale”, trovando non bizzarro che “per secoli, nei paesi di lingua tedesca, durante la messa di Pasqua il sacerdote suscitava l’ilarità dei fedeli dicendo e facendo vere e proprie sconcezze dall’altare”. Dio gode.  

Scene d’addio – Schiller ne è considerato maestro. Nei “Masnadieri” atto IV, nella “Pulzella d’Orleans” al prologo, nella “Maria Stuarda” all’atto V.

Trattino – Derivato dall’inglese, il segno ortografico è stato introdotto in Italia da Ugo Foscolo nel 1813, nella traduzione di Sterne, “A Sentimental Journey through France and Italy”, del1768), che ne fa largo uso.
Il tedesco distingue due Strich, trattini: il Gedankenstrich, “trattino di pensiero”, un segno sospensivo, analogo ai punti di sospensione. E un Bindenstrich, trattino di collegamento, breve, con valore connettivo. Di entrambi è l’uso in italiano, senza nome specifico.

Viaggio – Su legge molta letteratura di viaggi, per esempio nella bellissima collana che Rubbettino dedica alla Calabria, come le corrispondenze di molti inviati di giornali – come si leggevano le corrispondenze degli inviati speciali. Molti dei quali viaggiavano per i grandi alberghi, e si limitavano a riscrivere (copiare) quanto era stato già scritto: una moltiplicazione dei luoghi comuni. Cin qualche infiorettatura nuova, ma nella sostanza luoghi comuni.

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Il Risorgimento in allegria

Bianciardi, appassionato garibaldino, spiega che fu tutto un avventura, di giovani e scapestrati più che di corti e generali (trascura  Cavour), il Risorgimento lo celebra garibaldinamente. Senza rinunciare allo spiritaccio - non risparmia neppure il Generalissimo. “Non ci sono nella nostra storia episodi più eroicamente festosi, concitati, coloriti, persino un poco matti”, così l’editore può sintetizzare in copertina il suo svelto racconto, in una cinquantina di brevi note, di due pagine (una rubrica giornalistica?).
Con una conclusione amara, 1969: “La verità è che .. non vi fu concordia ma  avversione e odio”, che l’Italia fu fatta quale ce la troviamo, “lacerata e divisa” - “breviario di italianità” si sottotitola la raccolta. Senza naturalmente specificare, nemmeno lui, l’anticonformista per professione, quale Italia ci vorrebbe – c’è, ci può essere, un’Italia diversa da quella che è, ormai da qualche secolo? E come vorremmo che fosse? Ma il racconto è festoso. La rivoluzione italiana non comincia con uno “sciopero del fumo”, a Milano, contro l’Austria?
I protagonisti sono senza l’aureola. Carlo Alberto, il Re Tentenna, era “una manna per i caricaturisti”, con un “testone a forma di cipolla”, su “un corpaccione lungo più di due metri, risultato di un’insolita forma di rachitismo alla rovescia”. Mazzini che accorre anche lui ad accogliere Garibaldi sbarcato dal Sud America, volontario portabandiera nella compagnia di Giacomo Medici, non ci si trovò, “non aveva né la salute né la fibra del guerriero” e “dopo qualche settimana riparò febbricitante in Svizzera”. C’è Custoza, la prima, 1848, che fu una vittoria ma passa per una sconfitta: gli italiani persero “perché alla fine della giornata si convinsero da soli  che avevano perso”. C’è “il re di Napoli”, che “non sapendo a che santo votarsi, si rivolse al papa. In un solo giorno gli mandò cinque telegrammi, ottenendo in cambio la paterna benedizione”. Ci sono i suoi generali, che, non sapendo come affrontare la battaglia decisiva al Volturno, “stanchi di litigare sul piano di operazioni”, decidono “di farsene confezionare uno per corrispondenza. Scrissero – e il loro Re firmò – una bella lettera al generale francese Changarier e aspettarono la risposta”.
Soprattuto c’è Garibaldi: il monumentino è a Garibaldi. Di quando, nel 1867, confinato a Caprera, guardato a vista da cannoniere e cannocchiali, sparge la voce che è ammalato, fa passeggiare in terrazza , “zoppicando, il fedelissimo Gusmaroli, vestito alla sua stessa foggia”, si adagia al fondo di un barchino e remando con un solo remo raggiunge la Maddalena, da lì la Sardegna, e i trasporti fatti arrivare dal genero Stefano Canzio. O Garibaldi che comincia chiedendo a Mazzini da Rio de Janeiro la “patente” di corsaro, come se Mazzini fosse un (riverito) capo di Stato: “Era uno di quegli uomini di piccola staura, con le formiche dentro i pantaloni, che senza far niente non ci sanno stare”. Che nella estancia a Montevideo, con Anita Duarte, madre di Menotti, “don José”, prende le abitudini di una vita: poncho, sigaro, caffè “(vino e liquori non li toccò mai)”, la maestria a cavallo, da giovane marinaio, “il gusto per i cibi semplici come le fave fresche e il granoturco, che preferiva cotto nel latte, alla sudamericana”, e la camicia rossa – scrittore poi “assai prolifico, ed anche assai mediocre” (in navigazione verso Marsala compone alcuni versi, “molto brutti”, come inno della spedizione, a cui i garibaldini, quando “un ufficiale tentò di farglieli cantare sul coro della Norma”, oppongono “«La bella Gigogin», che tanto successo aveva avuto l’ano prima a Milano”).
Garibaldi, visto sul serio, è un abilissimo tattico, insuperabile. Venne a capo per questo di mille debolezze. L’attacco “alla garibaldina”, alla baionetta, si faceva perché non ebbe mai fucili efficienti, sopperì con l’attacco alla persona, puntando sulla lentezza degli avversari con i fucili ad avancarica. Il racconto è specialmente vivace dei Mille, dello sbarco al Sud. La conquista di Palermo è una passeggiata, il popolo è con Garibaldi, i borbonici nulla possono contro il popolo: “Mille uomini, male in arnese, con l’aiuto determinante della popolazione, avevano disfatto un’armata. La notizia corse per l’Europa e Garibaldi fu l’uomo del giorno”. In processione vanno a trovarlo le monache, il vescovo, Alessandro Dumas vestito di bianco, con Emma Lyona vestita da ammiraglio, e “inglesi, sardi, russi, spagnoli, prussiani, turchi, americani, francesi”, tutti i naviganti che affollavano il porto. Ma subito poi, Teano eccetera, il racconto è molto critico: “L’Italia comincia male”. Anche perché nasce per caso, per impulso popolare.
Cavour, liberale pragmatico, “quando gli piovve come dal cielo l’unità dell’intera penisola, seppe abilmente (e spregiudicatamente) raccogliere nelle sue braccia l’inatteso dono”. Ma non aveva lavorato all’unità: “Il suo sogno politico era di ampliare la monarchia dei Savoia su tutta l’alta Italia, dalle Alpi all’Adriatico e all’Isonzo”. Non vedeva oltre l’Appennino, “a Roma non era mai stato,  Palermo, per lui, confinava con l’Africa”. E “per esempio era convinto (e lo disse a Daniele Manin) che l’unità d’Italia fosse «una grossa corbelleria»”.
La storia alla fine non è allegra, non finisce in allegria. Bianciardi non si fa veli: la “guerra dei briganti” fu “una guerra civile, fratricida, atroce”, i garibaldini possono raffermarsi, come i borbonici, senza distinzione, La Marmora, Cialdini, Santa Rosa, Rattazzi, gli uomini di fiducia dei Savoia, e i Savoia stessi, Vittorio Emanuele II dopo Carlo Alberto, con la loro burocrazia ottusa, sono un fronte anti-unitario difficilmente contestabile.
Il fallimento dell’unità è sancito dallo stesso Cavour, quando, subito, all’apertura del primo Parlamento, l’insoddisfazione popolare è forte - l’unità è stata ridotta in pochi giorni a tasse, leva obbligatoria (per le famiglie contadine la morte civile), e niente assistenza, per la privatizzazione dei beni ecclesiastici: “Se all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato motivo che Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo rovinati”. I rapporti dei suoi uomini a Palermo e Napoli, dopo gli sprezzanti inviati della Corona La Marmora e Cialdini, non erano rassicuranti – “non ci son sette unitari in sette milioni di abitanti”, aveva scritto il governatore cavourriano di Napoli, Farini. Cavour non pensò minimamente di andare a Napoli a vedere. Il re sì, ma per andare a caccia, corteggiare le dame, e aspettare la caduta di Gaeta, chiamando il popolo “canaglia”.
Subito dopo Teano, scrive Bianciardi, “la guerra per il Meridione era finita, ma già ne stava cominciando un’altra, più lunga, più dura, più sanguinosa. Anzi, più sanguinosa di tutte le guerre risorgimentali messe insieme… Una guerra civile, fratricida, atroce. I libri di storia ne parlano poco volentieri, e la chiamano repressione del brigantaggio. E invece fu la «guerra dei briganti»”. Garibaldi stesso sarà curato solo 83 giorni dopo il doppio ferimento ai Piani di Aspromonte nella spedizione per liberare Roma, benché a rischio suppurazione e setticemia. Il Sud fu subito blasfemia per il Piemonte.
Sui “briganti” la traccia di Bianciardi, per quanto ipotetica, non è mai stata considerata dagli storici: “La gente di senno cominciava a capire che sarebbe stato molto meglio lasciare a Garibaldi il governo delle province meridionali: che forse i garibaldini, e la guardia nazionale eletta sul posto, avrebbero saputo intendere i bisogni di quelle popolazioni meridionali meglio dei funzionari piemontesi”. Che è prassi costante elogiare, ma la burocrazia piemontese si mostrò inadeguata, perniciosa, fin dall’inizio, nella semplice compilazione dei “mille” di Marsala – Bianciardi ne fa un breve, esilarante, elenco alla p. 70 (tra el tante scemenze, “leggiamo anche «austriaco» accanto al nome di volontari trentini, «uruguaiano» accanto al nome di Menotti”, e “francese” accanto a quello di Garibaldi).   
Luciano Bianciardi, Il Risorgimento allegro, Stampa Alternativa, remainders, pp. 101 € 6




lunedì 13 settembre 2021

Monte dei Paschi come Alitalia

Non si chiude il negoziato per il salvataggio del Monte dei Paschi di Siena. Da parte di un gruppo, Unicredit, che non ha ancora digerito il salvataggio di Capitalia – quindici anni fa… (continua a liquidare npl del gruppo romano). E con la nuova gestione, benché messa su dal Tesoro proprio per arrivare al matrimonio, diffidente. Una crisi infinita?
Troppe le similitudini. Le fregature gigantesche di tre aumenti di capitale andati in fumo. L’indecisione: si tratta a oltranza per Mps con Unicredit anche se l’esclusiva è scaduta la settimana scorsa, ma senza nuovo termine (impegno). Piani di riduzione dei costi sempre disattesi – del migliaio che dovevano lasciare il gruppo di Siena quest’anno solo una quarantina hanno aderito nel primo semestre (44 per l’esattezza). In questi anni di crisi, di amministrazione praticamente controllata, Mps ha migliorato poco o nulla, come già Alitalia nelle sue varie reincarnazioni: ha tuttora il margine/dipendente - un buon indice di redditività - più basso fra le banche italiane, la metà di Intesa. Su tutto, il fantasma peggiore, che Mps condivide con Az, le gestione confidata al Tesoro - cioè al governo, cioè ai partiti di governo.

Ecobusiness

Il verde è la nuova frontiera dell’industria finanziaria. Green bonds  e gestioni Esg (investimenti in aziende che semplicemente si dichiarino “rispettose dell’ambiente”) sono i collocamenti più redditizi. Dei green bonds, per finanziare investimenti “verdi”, si attende il raddoppio delle emissioni in due anni – su una base già cospicua: ne sono stati emessi per 400 miliardi di dollari nei primi sei mesi del 2021  .
L’Agenzia Internazionale per le Rinnovabili stima in 420 miliardi il costo, annuo, per l’idrogeno verde nel 2030. E non basta: per produrre l’idrogeno ci vuole una capacità di energia rinnovabile in eccesso rispetto a quella oggi necessaria a sostituire l’elettricità prodotta da fonti fossili. Una forte spesa pubblica, una opportunità di investimento?
Nei dieci anni 2010-2019  gli “oneri di sistema” – tassa - a carico di famiglie e imprese a vantaggio dei produttori di energie rinnovabili hanno ammontato a 130 miliardi di euro. Per un’emissione di CO2, nel 2019, ridotta di 418 milioni di tonnellate, il 7 per cento in meno, rispetto al 2010: bisogna fare (imporre) molto di più?

Lo sporcaccione Bukowski tra femminismo e ecologia

Bizzarra lettura oggi 2021 – rilettura, a cinquant’anni data? – di oscenità, piene anche di ora proibitissime lettere N, e di scopate, in genere a danno, si dice così, di donne, oltre che di bevute, di birre a cassette, qualche volta di vino cattivo – “Erezioni Eiaculazioni Esibizioni” è il sottotitolo. Riproposta da Feltrinelli, non un editore trumpiano, e ritradotta con gusto (con efficacia) da Simona Viciani. Senza rimprovero possibile: è una raccolta alla 56ma edizione, la quarta dopo la riproposta, e il lettore non può essere scorretto (o sì?).
Racconti di un’epoca in cui tutto si poteva dire, che si gloriava anzi di poter dire tutto. E Bukowski “vecchio” quarantenne non aveva più voglia di fare il letterato debuttante, rispettoso – era pure nato in Germania, i genitori aveva avuto tedeschi, anche se il padre era già un tedesco-americano, sergente delle truppe americane sul fronte franco-tedesco nel 1918 – in attesa dell’occhio di un critico. Ha deciso di buttare la professione all’aria, e ha sfondato, anche con la critica. Piccolo Pantagruele nella grande America.
Racconti spicciativi per lo più, e ripetitivi. Sia nelle bevute – non ci sono molti modi di ubriacarsi - che nelle trombate, che Bukowski si limita a descrivere biblicamente, per numeri. Le storie sono di uno scrittore ubriacone, di donne che cercano compagnia al bar, con qualche puntata ai cavalli, in perdita oppure no, e qualche lavoretto da venticinque dollari a settimana, trentacinque, una miseria. Racconti però d’epoca. C’è la stampa alternativa, con la storia di “Open City” (qui “Open Pussy”, fica aperta), il settimanale che riuscì a sopravvivere per due anni a Los Angeles, con 20 mila copie – ce ne volevano 60 mila – quasi tutte tirate dalla rubrica “Taccuino del Vecchio Sporcaccione” Bukowski. E c’è la politica, con lo  “Sporcaccione” Bukowski anticipatore, nel 1966: “La Russia si era rammollita; poteva darsi che solo i cinesi sapessero le cose, con il loro sistema di scavare dal fondo” (“nascita, vita e morte di una rivista underground” – Bukowski non usa la maiuscola come segno ortografico, scrive discorsivo). C’è perfino il racconto dell’ecologia. Preciso anche sulle armi in America, sulla giustizia come violenza. E sulle letture: un omaggio a Hemingway, il vecchio Ernie, e una critica a Pound, già poeta amato, troppo intellettuale, troppo bravo artigiano - ma anche il vecchio Ernie viene sorpreso, in morte, non glorificato e anzi indispettito dal successo de “Il vecchio e il mare” (“sei tornato al tuo vecchio stile, ma era artefatto”).
L’effetto, singolare, è di uno dei due o tre racconti non ripetitivi, “quindici centimetri”: non del maschio trionfante, con le sue scopate a ripetizione, ma del rimpicciolimento del maschio, da parte della femmina divorante, fino a ridurlo a un pene neanche grande, un giocattolo masturbatorio. In particolare questo avviene appunto nell’antifrastico “quindici centimetri”, che è, di programma, il racconto dell’ecologia – femminismo quindi ed ecologia insieme, un effettone: “Questa è la Nuova Era”, proclama la Dea castratrice, “l’Era Atomica, l’Era Spaziale e, più importante di tutte, l’Era del Sovrappopolamento. Io sono la Salvatrice del Mondo. Ho la risposta all’Esplosione del Sovrappopolamento”. Che è la stessa dell’Inquinamento: “La chiave sta nel risolvere il Sovrappopolamento, sistemerebbe l’Inquinamento e molti altri problemi”. Altra divinità femminile, Carol, salva gli animali dalla fine del mondo - finito il boom post-bellico, è sempre la fine del mondo: la epoca del never had it so good sarà anche quella della crisi perpetua -  e anzi conclude al post-umano, ben prima di Rosi Braidotti. Un femminismo ecologista sarebbe il vangelo del Vecchio Sporcaccione, che del maschio fa polpetta.
Non grandi racconti. Di un’esistenza “inutile” – “come faceva la gente a fidarsi così tanto di me?” Non un grande mondo, anche a dirlo degli emarginati – ma non lo sono. Di solitudini senza storia. Senza gioia anche, si direbbe, malgrado l’alcol e il sesso. Di figuranti di una bohème americana, dopo i beat, solitari fuori scena. Un racconto mette in scena la moglie di un breve periodo per irridere alla bohème hippie: la signorina Tuttamore, Controlaguerra, la signorina Poetessina, la signorina...”, nume di reading tra amici, sempre in piccolo gruppo, nove, “comunista” per di più, dissipata in una comune, Ma senza nemmeno cattiveria, solo il piacere di dire la compagnia, per poche ore, pochi giorni, della piccola Tina, quattro anni, la figlia in comune. 
Letteratura fresca, come si leggeva all’origine, sorprendente, nella stampa alternativa, a New Orleans al Vieux Carrè o French Quarter, uno degli ingredienti del turismo, con le ragazze del bar sull’altalena, seminude, la Preservation Hall del dixieland e le patatine fritte, o al Village a New York, tra le “canne”, che fricchettoni-e fumati-e distribuivano per pochi centesimi.. Oltraggiosa, spensierata. Ma, appunto, alternativa. In volume stempera nel bozzettistico, del genere “alternativo”. Con l’effetto contrario, di poca fantasia invece che di molta, addirittura sfrenata. Da Vechio Sporcaccione professionale, che ha peraltro – il genere – pochi utensili: anche l’aneddoto “vero” si stempera nel modulo.
La narrazione oltraggiosa si dipana peraltro entro una cornice colta, che Bukowski a tratti, come nervoso, fa emergere: “47 anni ed eccomi ancora qui a giocherellare sull’isola che non c'è”. Con ripetuti riferimenti a poeti, poetiche e poesia: essenza della poesia, debuttanti alla porta, circoli di lettura, letture in pubblico, grandi nomi oggi dimenticati (Creeley soprattutto, dimenticato a torto) eccetto Ginsberg. Letture: un omaggio a Hemingway, “il vecchio Ernie”, e una critica a Pound, già poeta amato – troppo intellettuale, troppo bravo artigiano. Ascolti raffinati, di Brahms, Čajkovski. Non senza saggezza – l’alcolizzato non è fumato: erba libera o no? “andremo alla deriva, di risposta in risposta”.  
Bukowski sarà sempre uno scrittore di fogli underground, anche quando, dopo i cinquant’anni, troverà un editore, la Black Sparrow Press – che il titolare, John Martin, creò praticamente attorno a lui. E diventrà uno”scrittore per europei”, in Germania, Italia, Francia. Di poesia principalmente, migliaia di componimenti, e di racconti più o meno di vita vissuta, alla Henry Miller. Collaboratore eminente di testate passeggere: “Los Angeles Free Press” dopo “Open City”, “The Outsider”, “NOLA Express” (New Orleans), “Beloit Poetry Journal”, etc.,  alcune al ciclostilo – il “Laugh Literary” dello stesso Bukowski, 1969, due o tre numeri. Racconti non  memorabili, ma certo refrigeranti nella sudata frigidità del Millennio, corroboranti. L’“eterno ubriacone” Bukowski è in certo senso perfino innocente, di fronte a tanto algore: è l’eterno adolescente, raccontato con altre parole.
Dunque, si pubblica ancora Bukowski – anche in America, sbirciando amazo.com (lì soprattutto il poeta, con molte stelle di apprezzamento, ma anche le “Notes of  a Dirty Old Man”). È un buon segno o uno cattivo – l’avranno trascurato gli apostoli della cancel culture?
Charles Bukowski, Storie di ordinaria follia, Feltrinelli, pp.398 € (promozione “Due libri”) 8,90