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astolfo
Tycho Brahe – L’astronomo e
astrologo danese morì, a 55 anni, “undici giorni dopo lo scoppio della vescica
durante un banchetto”, dice wikipedia: gli sembrava maleducato abbandonare il
banchetto prima che le mense fossero levate, e poi “non fu più in grado di
urinare, se non in quantità molto piccole e con dolori lancinanti”.
Non
manca chi opina che sia stato avvelenato da Keplero, per ereditarne – come poi
avvenne – le carte e gli studi. Su questa ipotesi, e dopo avere rilevato tracce
di mercurio sula barba di Brahe, il cadavere
fu esumato nel 2010 e sottoposto a autopsia. Ma il veleno non fu trovato
– il mercurio nella barba fu spiegato col probabile suo utilizzo da parte di
Brahe per uso medico, oppure alchemico
Brahe
morì nel 1601 – quando Galileo, e la scienza moderna, erano già maggiorenni.
Duello – Fu anche femminile.
Più spesso come fantasia maschile, cioè morbosa – le duellanti a petto nudo, etc.
– ma anche di fatto. Il più celebre è immortalato dalla londinese “Pall Mall
Gazette” del 23 agosto 1892. Tra due nobildonne, entrambe a capo di un’istituzione
culturale di Vienna, il Gran Galà di Musica e Teatro: la contessa Pauline
Clementine Marie Walburga von Metternich, nipote del grande cancelliere dell’impero,
presidente onoraria, e la contessa russa
Anastasia Kielmannsegg, presidente del comitato organizzativo. Motivo della
contesa: a chi toccava scegliere la decorazione floreale della manifestazione.
Sembra
un aneddoto inventato dal giornale londinese, che mescolava pettegolezzi e
questioni serie. Ma la principessa esiste, era molto attiva nelle mondanità di
Parigi oltre che di Vienna, grande promotrice di Wagner, e poi di Smetana.
Nipote del cancelliere per parte di madre – il padre era boemo – e a vent’anni
anche sua nuora, avendo sposato lo zio Richard
von Metternich, figlio tardivo del cancelliere (a 57 anni, dalla seconda
moglie). Anche non bella, in nessun ritratto, anzi.
Esiste
pure la contessa russa – che viene un po’ meglio nei ritratti, ma non molto.
Le
due nobildonne si sfidarono a duello alla spada – appaiono in effetti ambedue
ben piantate. A Vaduz, luogo già allora neutrale? Tutto femminile il contorno:
i padrini erano madrine, una principessa Schwarzenberg e una contessa Kinsky, e
il medico una dona, la baronessa Lubinska, polacca – che non era laureata
medico ma aveva pratica di medicina. Erano presenti anche degli uomini, sulla
scena del duello, ma furono fatti voltare con le spalle alle duellanti.
Un
duello non mortale, anzi “al primo sangue”, ma combattuto a petto nudo. Su
disposizione della baronessa, che invitò le contendenti a denudarsi per evitare
infezioni al sangue, anche se solo il “primo sangue”.
Un
primo e un secondo assalto andarono a vuoto. Al terzo, Pauline fu ferita al naso,
ma senza sangue. Al quarto “l’indomita principessa restituì il colpo ferendo ad un braccio la sua rivale”. Anastasia,
buttò via la spada, mentre le madrine svenivano, e perse il duello.
Pauline
von Metternich aveva 57 anni. Anastasia, nata Lebedev, moglie da otto anni del
conte Erich Kielmansegg, un tedesco entrato in politica a Vienna, amico e
confidente dell’imperatore Francesco Giuseppe, titolare di molti incarichi
governativi, primo e unico ministro protestante a Vienna, ne aveva 32.
Eutanasia – L’ultimo
processo della denazificazione fu, ad Amburgo nel 1960, a carico dei
medici
che si erano prestati alla Aktion T 4 di Hitler, l’eliminazione degli “anormali”.
“Anormale”, secondo la legge del 14 luglio 1933, era una qualifica molto ampia:
si poteva essere sterilizzati per avere un genitore alcolizzato o “asociale”, e
da settembre 1939, dalla direttiva Aktion “, anche assassinati – la direttiva
fu sospesa ufficialmente nell’agosto del 1941, in seguito alle proteste di
gruppi di madri, e di alcuni vescovi cattolici. Ma la pratica che essa
contemplava, di eliminazione dei “subnormali” proseguì fino alla fine del regime.
Erano
medici liberali per lo più, quelli a processo a Amburgo, e ospedalieri di
istituzioni religiose, cattoliche e protestanti. Al processo non sembrarono capire
la colpa di cui erano imputati: l’eliminazione per tare ereditarie era a loro
avviso una funzione benefica, a beneficio degli stessi eliminati. Sulla base di
un calcolo delle opportunità (in sostanza economico, di costi) e anche del “si
è sempre fatto così”. In particolare nell’antichità classica, fecero valere gli
avvocati degli accusati. E la Corte d ‘Assise di Amburgo darà loro ragione,
anzi per questo assolverà i medici. Con questa motivazione: “Il fatto di eliminare
ogni vita indegna di vita appariva all’antichità classica come una pura e
semplice evidenza. Ci si guarderà bene dall’affermare che l’etica di un Platone
o di un Seneca, che hanno, tra i tanti, difeso questo principio, è moralmente
inferiore alle concezini cristiane”.
L’eutanasia
era, la buona morte, ed è, parte integrate dell’eugenetica, la pretesa a una “medicina
sociale”. Insieme con la “buona nascita”, la procreazione selezionata, che fu
anch’essa un programma del governo nazista – e si ritiene resista in piccole
sacche, privatistiche, volontarie, in Scandinavia.
La
valutazione dell’opportunità, in sostanza un calcolo economico, presiede tuttora
alla medicina in Germania: si valutano le risorse da impegnare in rapporto all’aspettativa
di vita e alla qualità della vita del
degente. Non tutti i tumori vengono operati dopo i 75 anni.
L’ordine
dell’Aktion T 4 è uno dei rarissimi documenti firmati da Hitler. Antidatato all’1
settembre 1939, primo giorno della guerra alla Polonia, ordina ai dottori Boulher
e Bradt, membri delle Ss e consiglieri medici della cancelleria, di organizzarsi
in maniera che, “dopo una valutazione umana e un giudizio critico sul loro stato di salute, la morte possa
essere somministrata a malati incurabili”.
Picnic – La parola, di origine inglese,
denotava agli inizi una colletta per una festa all’aperto.
Polonia – Ma è il paese
dei “campi”: polje è campo.
Toro di Falaride – Secondo
Erodoto era la forma di tortura più nota ai Greci. Giovenale la menziona nella
Satira VIII – e Kant nella “Critica della ragione pratica”. La vittima veniva
rinchiusa dentro un toro di rame, sotto il quale veniva accesso un fuoco, con
un sistema di tubi che convertiva le urla del malcapitato in muggiti.
Falaride
è il “tiranno” di Agrigento. Famoso perché fece sua l’invenzione del fonditore Perillo.
In questo modo: commissionò a Perillo il toro di rane, e poi ordinò che il collaudo
fosse fatto dallo stesso Perillo.
Von Blücher – Gerhard von Blücher,
generale e poi feldmaresciallo prussiano, protagonista della Guerra dei Sette Anni,
e poi delle guerre contro la Francia, contro la Francia della rivoluzione e
contro quella di Napoleone, contro Murat, Bernadotte, Gudin, Davout, e contro
lo stesso neo imperatore, fino a Waterloo (a lui si attribuisce la mossa decisiva
della battaglia finale), a Jena-Auerstadt, 14 ottobre 1806, cadde prigioniero
dei francesi, di Bernadotte. Non subito, a conclusione della battaglia: dopo
una ritirata di settecento km., inutile, perché le truppe francesi avevano
occupato anche la Germania del Nord - si arrese a Travemünde, sul Baltico, a
Bernadotte. Restò prigioniero per cinque mesi, fino allo scambio con un generale
francese, Victor.
Vulcanello – Era un’isola. Che
nel 1500, a forza di eruzioni, si congiunse con Vulcano. D a allora non è più
attivo.
astolfo@antiit.eu
“Vaffa…, non dobbiamo preoccuparcene”, del ritiro
dall’Iraq e dall’Afghanistan: “L’abbiamo fatto in Vietnam, e Nixon e Kissinger l’hanno fatta franca!”. La posizione del presidente Biden sull’Afghanistan era nota
almeno dal 2019. Dal libro di George Packer, “Our Man, Richard Holingbrooke and
the End of American Century”, che aveva avuto accesso a confidenze e appunti
del diplomatico americano, deceduto nel 2011, per due anni consigliere speciale
del segretario di Stato Hillary Clinton e del presidente Obama per l’Iraq e
l’Afghanistan. In un incontro nel 2010, Biden, già vice-presidente, respingeva
come bullshit, sciocchezze, le
argomentazioni di Holingbrooke sulla protezione dei diritti civili in Afghanistan,
specie delle donne: “Non sto mandando mio figlio di nuovo lì, a rischiare la
vita, per i diritti delle donne, non funziona così, non è quello per cui sono lì”.
E spiegava che l’Afghanistan avrebbe potuto far perdere ai Democratici la
rielezione presidenziale nel 2012.
“Un
morto si reca all’obitorio\ ma cade strada facendo”. Un titolo al solito
scorretto (affrettato, bizzarro, incomprensibile) di giornale, per un cadavere
che passa di mano in mano.
È l’annuncio
di un plot promettente, che però poi non
c’è. Niente assassino, niente moventi, e nemmeno un cadavere vero e proprio, di
qualcuno. Ma il lettore non resta deluso.
Si
capisce che Camilleri ce l’avesse con Montalbano. Personaggio ricco, per
l’editore e anche per sé, che lo costringeva a crearci sopra periodicamente una
storia consistente come un romanzo. Mentre a lui piaceva raccontare, a ruota
libera – gli piaceva l’aneddoto, perché sapeva raccontarlo. Migliore
raccontatore sul breve, insieme con Pirandello, di tutto il Novecento – Moravia
e Calvino inclusi, e anche Gadda. Inventivo, e divertente.
È strano che entrambi fossero di Agrigento, o
dei dintorni, ma così è.
Andrea
Camilleri, Il morto viaggiatore, “la
Repubblica”, pp. 47 gratuito col quotidiano
E anche questo governo, virtuoso e tutto,
arriva alla solita stretta, di tagli e tasse. Lo schema di quasi due secoli
ormai: si spende in allegria, per sei mesi, un anno, due, e si torna alla
quaresima, tagli e tasse. Senza mai uscire dallo schema perverso
dell’unificazione, del Piemonte tardigrado e retrogrado, potenza piccola e
presuntuosa. e dei punti irrisolti creati dall’Italia unita: la questione meridionale e il debito estero.
Creati da subito, due problemi, poi irrisolti, per centosessant’anni.
Parentesi. Si continua a dare la caccia
al borbonismo, al lazzaronismo, al Sud, e si trascura(no) la-e colpa-e del
Piemonte: la non politica di Vittorio Emanuele II, il suo fisco, suo o dei suoi
famigli, le gesta dei suoi generali, talmente imbecilli che fanno meraviglia
ancora oggi, ma la storia è la giaculatoria: Borboni e e altri Borboni. Non si
dice mai abbastanza delle colpe dell’unificazione. Del re Savoia, dei
Lamarmora, Cialdini, Rattazzi, della burocrazia piemontarda, pidocchiosa,
inerte, che ancora fa legge. Del beghinismo con le massonerie. Della guerra
civile fomentata, al Sud e contro il Sud, contro masse impoverite
a dismisura, e forzate all’emigrazione, fino a mezzo milione di persone,
l’anno. Anzi, non se ne dice niente – l’antistoria d’Italia è ferma a Cusin, quindi
a 73 anni fa. Chiusa parentesi.
L’Italia si finanziò per unificarsi a debito, e continua
a farlo. Tutto il paese chiudendo - per un’avventurata politica di potenza,
maldestra, suicida, ogni guerra puntualmente peraltro perdendo, con danni gravi sotto i Savoia, per scuola, salute e assistenza a chi non paga tasse nella Repubblica - nella morsa del debito. Con una crisi fiscale ogni pochi anni – più tagli
alle spese, che peraltro non si sono fatte, non si sanno fare, e più tasse. Con
disarticolazioni sociali anche gravi, anche se ormai abitudinarie, ed economiche.
Con soluzioni tanto irrisolutive quanto indiscriminate: non c’è governo che non parli di nuovi tagli e nuove tasse - ”la manovra”, “stringere la cinghia”.
Banche e banchieri volentieri prestano,
poi, dopo due-tre anni, dicono il debito insolvibile, e ne rincarano il costo.
Nuovi tagli e nuove tasse. Ogni due-tre
anni. Da oltre un secolo e mezzo –
la cosa faceva arrabbiare Cipolla, lo storico dell’economia, che ne ha rilevato
la cadenza periodica, che però non denunciava. La storia del debito è corposa e
inequivocabile, ma si trascura.
La
cervellotica messinscena di Livermore, tra un bosco di druidi e un salotto chippendale,
nella Gallia occupata dai Romani?, fa uso anche del “canto alla porta chiusa”, paraklausíthyron, il lamento d’amore
dell’elegia greca e romana, per due dei momenti più alti: tra Adalgisa e Pollione a metà del primo tempo, e tra Norma e Pollione nel
secondo. Una scena senza scena, che lascia i cantanti liberi di cantare, duetti
e arie pieni di fascino – e di tecnica vocale. Nei momenti chiave dell’opera, le
due vicende di amore\morte. La produzione si salva così.
Un’occasione
sprecata. Anche perché la compagnia di canto è magnifica. Marina Rebeka (Norma) e
Stefan Pop (Pollione) cantano con una naturalezza sovrumana. E Annalisa Stroppa
(Adalgisa) che ha da cantare più di Norma, e il basso, Dario Russo (Oroveso),
nei suoi due interventi. Rebeka ha una potenza canora ecezionale, canta si può
dire a bocca chiusa, non ha bisogno di fare smorfie. La stessa naturalezza, con
in più la dolcezza del timbro, in Pop.
Il
lamento alla porta chiusa è una trovata buona – almeno non costosa – dentro una
trovata generale faticosa, oltre che stravagante. Livermore, all’improvviso
regista-scenografo di tutta l’opera italiana, da Catania a Firenze (una “Traviata”
fa seminuda – una bella schiena si pubblicizza, di Caterina Piva?) e alla Scala,
fa rivivere “Norma” alla prima al teatro milanese nel 1831, dove non fu
ricevuta bene: con gli spettatori primo Ottocento, e gli interpreti – assommati
in Giuditta Pasta, una sorta di uccello del malaugurio che presiede muta a ogni
scena (eccetto i paraklausíthyron,
per fortuna) – in un tripudio di tricolori, coccarde (che però vennero dopo,
nel 1848) e bandiere.
Una
ricostruzione che si pretende filologica. Gli interpreti non la cantarono bene,
fa sapere Livermore (ma noi che ne sappiamo?). E il pubblico, che si aspettava
un inno contro lo straniero, restò deluso dalla vicenda di amore\morte. Mentre
si sa che l’insuccesso alla prima in realtà fu un infortunio, l’Austria non c’entrava,
“Norma” ebbe ben una trentina di repliche, affollate, e fu subito adottata nei maggiori
teatri europei.
Per
tacere di altre incongruenze della messinscena. Pollione è ben un proconsole
romano, ma viene trattato come uno scemo, gli danno buffetti, anche un sberla. Adalgisa
è ben una vestale, ma viene fatta muovere come in una soap-opera, si sbaciucchia perfino. Per non dire
del coro, tanto capace melodicamente quanto dissennato scenicamente. Ma non è
questione di filologia: è una rappresentazione che fa di tutto, eccetto che
nelle due scene-madri dei paraklausíthyron,
scenicamente ridotte a intermezzo, per distrarre dalla musica e dagli
interpreti. Non è bastato il recupero prezioso delle ragioni dell’opera che la
Rai ha fornito con le presentazioni di Stefano Vizioli, agile e suggestivo. L’opera
ha questo di “strano” – come del resto tutta la musica: che si ripropone, e
quindi che l’ascolto è un fatto di memorie e di sfumature.
E
poi c’è Pollione. Pop, malgrado la bellezza della voce, è del tutto incongruo in
tv. Non ha il fisico del ruolo. Che non sarebbe male, se non che Pop (o il
regista) non se ne cura. Non a torto, se vogliamo, il libretto non gli è
clemente: è l’uomo sciocco che sta tra due sedie. Ma, purtroppo, Pop così si
comporta: sta nel dramma solo attento alle intonazioni e ai tempi, visivamente inespressivo.
E in tv è terribile – il dramma gira attorno alle sue indecisioni, agli innamoramenti,
agli abbandoni, alla superficialità, alle accensioni.
Fuortes,
il nuovo capo della Rai, che dall’Opera di Roma ha fornito almeno tre spettacoli alla reti Rai nazionali, con ottima risposta di audience, dovrebbe prenderne nota. Se l’opera, com’è probabile, è una
miniera di ascolti, conviene far apprestare regie che in tv non siano ridicole,
e facciano risaltare la musica. Coinvolgendo magari la Rai nella produzione –
non lo fa, con tanto utile, per il cinema?
David
Livermore, Norma, Teatro Massimo
Bellini, Catania – Rai 5-Raiplay
Giuseppe Leuzzi
L’unità non
allegra
Cavour, liberale pragmatico nel breve
ritratto che Bianciardi ne fa in “Il Risorgimento allegro”, “quando gli piovve
come dal cielo l’unità dell’intera penisola, seppe abilmente (e
spregiudicatamente) raccogliere nelle sue braccia l’inatteso dono”. Ma non
aveva lavorato all’unità: “Il suo sogno politico era di ampliare la monarchia
dei Savoia su tutta l’alta Italia, dalle Alpi all’Adriatico e all’Isonzo”. Non
vedeva oltre l’Appennino, “a Roma non era mai stato, Palermo, per lui, confinava con l’Africa”. E
“per esempio era convinto (e lo disse a Daniele Manin) che l’unità d’Italia
fosse «una grossa corbelleria»”.
Subito dopo Teano, scrive Bianciardi
alla fine, deluso, “la guerra per il Meridione era finita, ma già ne stava
cominciando un’altra, più lunga, più dura, più sanguinosa. Anzi, più sanguinosa
di tutte le guerre risorgimentali messe insieme… Una guerra civile, fratricida,
atroce. I libri di storia ne parlano poco volentieri, e la chiamano repressione
del brigantaggio. E invece fu la «guerra dei briganti»”.
Alla vigilia dell’apertura del primo
Parlamento unitario, il 18 febbraio 1861, Cavour confida ai suoi, secondo una
fonte affidabile: “Se all’apertura delle Camere si potrà dire con qualche fondato
motivo che Garibaldi governava l’Italia meridionale meglio di noi, siamo
rovinati”. Bianciardi, garibaldino, ne è convinto. Ma lo era lo stesso
Garibaldi: si pentì presto di Teano, della consegna del Regno del Sud senza
condizioni.
Sui
“briganti” la traccia di Bianciardi, per quanto ipotetica, non è mai stata
considerata dagli storici: “La gente di senno cominciava a capire che sarebbe
stato molto meglio lasciare a Garibaldi il governo delle proviince meridionali:
che forse i garibaldini, e la guardia nazionale eletta sul posto, avrebbero saputo
intendere i bisogni di quelle popolazioni meridionali meglio dei funzionari
piemontesi”.
È
uso elogiare la burocrazia piemontese unitaria, quella che “fece” l’Italia. Ma
era era la burocrazia di oggi – la nostra burocrazia, pavida e inetta,
vessatoria, non è “borbonica”, è piemontese, savoiarda. L’aneddotica è
interminabile della sua inadeguatezza. Bianciardi ne ha una esilarante, la
compilazione della lista dei “Mille”. Con i volontari trentini definiti
“austriaci”, Menotti Garibaldi “uruguaiano”, Garibaldi stesso “francese”.
Pavese calabrese
– più che un caso (3)
C’è simpatia, e qualcosa di più, benché Brancaleone sia un borgo di
mare, che Pavese detesta. A Mario Sturani assicura, il 15 dicembre: “Qui, sto
bene, mi trattano con ogni civiltà”. L’antivigilia di Natale scrive alla
sorella: “La gente che mi vede ora, si asciuga col dorso della mano una
lacrima, perché pensano che farò Natale fuori casa, cosa che per loro è peggio
di un pugno sulla testa. Ci sono le pie donne che mandano chi un tortellino,
chi i fichi secchi, chi gli aranci, chi altro”. E per Santo Stefano: “Il clima
e il vitto mi dà al sangue” – aggiungendo, in riferimento obliquo alla
“signorina” che lo ha dimenticato (“alla signorina Tina baciate le unghiette”):
“Non bisogna dimenticare che in questo paese, al tempo dei Borboni, si
ammazzava per un’occhiata”.
Fa la vita di paese, che è modesta, da uomo solo al confino politico, che è
anche peggio, da esule. Ma senza astio e quasi con sollievo: ci saranno stati fascisti in paese, sicuramente il podestà, il federale, qualche camicia nera, ma non agli occhi suoi, non solo nelle lettere, sottoposte a censura, neanche nel diario e nel romanzo. Ad Adolfo Ruata, coetaneo “fresco sposo, stipendiato
e well-to-do”, scrive il 5 novembre: “Esercito il più squallido dei
passatempi: acchiappo mosche, traduco dal greco, mi astengo dal guardare il
mare, giro per i campi, fumo, tengo uno zibaldone, rileggo la corrispondenza
dalla patria, serbo una inutile castità”. Ma non da estraneo. “Ieri è venuta
una zingara incinta”, scrive alla sorella Maria il 23 dicembre, una insistente:
“«Comprateme ‘na paletta, comprateme ‘na paletta»”. Una degli zingari calderari
evidentemente, quali usavano, alle fiere e come ambulanti (con i “cavallari”:
gli zingari avevano funzioni produttive). Che alla fine, a Pavese “puttaneri”,
propone di predire il futuro. Ma prima vuole “fatti e non parole”: «Dateme
‘n’altro segno de moneta e ve dico tutto». Pavese si rifiuta, e “così, per una
lira”, conclude con la sorella, sua interlocutrice quasi quotidiana, “una bella
donna incinta mi ha guastato la giornata” – “ormai ne sapevo abbastanza, non le
ho aggiunto niente e la zingara mi ha predetto gran corna”. Una vita modesta,
di eventi minimi. Quale è quella di paese, cui però lo scrittore si adegua con
gusto – pur essendo stato, ed essendo tuttora, insofferente alla vita del suo
proprio paese, Santo Stefano Balbo. Nella stessa lettera, dell’Avvento,
racconta l’evento principale: “Vengono tutte le sere tre o quattro pastori,
oppure ragazzetti del paese, a fare davanti la porta un concertino di
cornamuse, pifferi, ciaramelle e triangoli, in onore della novena. L’ultimo
giorno bisognerà pagarli”.
Il barbone Ciccio racconta come un alter ego. A Maria, il 25-28
febbraio, si equipara al barbone, avendo da lui “imparato quanto sia romiballe
un uomo cornuto”. Il racconto lampo è cattivissimo: “Un pezzente – certo Ciccio
– un tempo primo cameriere a Reggio”, in “lunghe conferenze” gli ha spiegato
“come lui bello, lui giovane (ha 38 anni ora), lui felice, lui ammogliato sia
stato piantato dalla sposa lubrica”. È costante nella corrispondenza da
Brancaleone la richiesta–delusione-rabbia per il silenzio della “signorina”
(Tina Pizzardo, di cui al ritorno saprà, scendendo dal treno, il giorno di san
Giuseppe 1936, che si era fidanzata – con Henek Rieser, un polacco, comunista
anche lui come Pizzardo, residente a Torino – e che si sarebbe sposata il 19
del mese successivo, e svenirà).
Chiede e riceve molti libri. Molti i classici, gli “scocciatori nati in
Grecia”. L’umore, malgrado l’isolamento, l’asma, l’umidità, il “tradimento”
amoroso, è a Brancaleone stabile.
Non ama il mare. A Sturani, il 27 novembre: “Il mare, già così antipatico
d’estate, d’inverno è poi innominabile: alla riva, tutto giallo di sabbia
smossa, al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello
d’Ulisse: figurarsi gli altri. La grande attrattiva del paese sono i pesci, che
a me non piacciono, e così non mangio pietanza che un giorno o due alla
settimana, quando ammazzano la vitella”.
A Maria, sempre scherzoso, l’11 dicembre: “Non capisco perché voglio tornare a
Torino. Qui – a parte la pelle – sto benissimo. Anzi, penso di sposarmi qui e
comprare un bambino che a due anni dica già «cornutu» e «porcherusu»”. Compita
correttamente, e trascirve esattamente la pronuncia, che nel reggino
(magno-greco) è dolce.
Ad Augusto Monti, poco dopo l’arrivo, ha scritto: “Qui i paesani mi hanno accolto
molto umanamente, spiegandomi che del resto si tratta di una loro tradizione, e
che fanno così con tutti”. Un uso che collegherà alla Grecia, alla tradizione
dell’ospitalità per il forestiero.
La Grecia è la scoperta di Brancaleone – in una con quella del dialetto, non
una scoperta ma un recupero dopo il rifiuto, di un potenziale espressivo
recuperabile ed efficace - e diventa la sua passione. Il 27 dicembre,
rinfrancato evidentemente dalla modesta ma sentita ospitalità, cresciuta con le
Feste (“questa è la lettera della serenità”), si ritrova a Brancaleone come
nell’antica Grecia: “La gente di questo paese è di un tatto e di una cortesia
che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le
donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono «Esti ‘u
confinatu», lo fanno con una tale cadenza ellenica che che io mi immagino di
essere Ibico”.
Fa quindi la presentazione del poeta reggino appena scoperto, traducendone un
lungo frammento, spiega che doveva girare, “come un’anima persa, Magna Grecia e
isole, per amore della pagnotta, che allora si chiamava ospitalità”, e conclude
sempre lusinghiero che, “ancora adesso, questa gente è tale e quale e, se non
il giardino delle ninfe, l’ospitalità è intatta”. Lui stesso ha giocato,
ricorda, a fare il satiro, in tono scherzoso ma non del tutto: “Ricordo che, in
mancanza di meglio, io, valendomi della mia efebica prestanza fisica,
quest’estate mi denudavo – quant’è permesso dai regolamenti – il «candido fiore
del corpo» sulla riva del mare e componevo, così, ellenici quadri, che i geranî
della spiaggia non dimenticheranno tanto presto”.
(continua)
Milano
Pasolini, che aveva fatto esordire Arbasino
poeta su “Officina”, con i versi di “L’apprendista Tebaide”, a un certo punto
gli scrisse un lettera, semi-pubblica, in cui ne rimarcava, del poliglotta e
cosmopolita giovanotto, “un certo
provincialismo”. Il lombardo figura sempre provinciale, quello che “fa” l’inglese
a Londra, l’americano in America e ora, chissà, il cinese in Cina.
È in effetti
molto lombardo, molto “provinciale” nel suo cosmopolitismo, l’Arbasino
poliglotta, viaggiatore, social scientist. Romano per una vita, settanta
dei suoi novant’anni, e per scelta – nel 1957 Scienze Politiche era a Roma solo
un corso di studio, la facoltà, unica nel genere, era a Firenze, il “Cesare Alfieri” (anche se, bisogna dire, arrivava a Roma al seguito di Roberto Ago, insigne giurista internazionalista, suo assistente di fatto) - ma sempre malinconico. Anche nell’arguzia, pensosa e non lieve, non gratuita. Perseguitato
dal bene e dal male, mai realmente superficiale, come si atteggiava (snob) - a
parte i borborigmi alla Camilla Cederna in ambito bayreuthiano-festivaliero-haute
c(o)u(l)ture. Nonché con la rincorsa al capolavoro, con i rifacimenti.
Nelle riunioni
all’Accademia dei Trasformati, almeno a stare alla ricostruzione di Carducci, della
sua brochure “L’Accademia dei Trasformati e Giuseppe Parini”, partecipavano
gli aristocratici, i cicisbei, il cardinale arcivescovo, i monsignori.
Pietro Verri
se ne distaccò, per fondare una Accademia dei Pugni, e “Il Caffè”. Parini fu
ospite di qualche suo membro, specie dei Serbelloni, per bisogno.
L’Accademia,
sorta nel 1546 con ben altra portata, lo studio della lingua, era un’idea di
Alfonso III d’Avalos d’Aquino d’Aragona, marchese del Vasto, nobile napoletano,
governatore per conto di Carlo V.
I Trasformati
furono benefici per Parini, argomenta in un breve-lungo studio Folena, “La
poesia di Giuseppe Parini”, 1994 (una conferenza alla Cooperativa
Cattolico-democratica di Cultura di Brescia): lo sprovincializzò, lo liberò dal
suo piccolo mondo antico di Ripano Eupilino – “paesano, paesano, paesano” lo
dice Carducci.
I Trasformati,
spiega Folena, trasformarono Parini dal 1753 al 1763: “Dieci anni o poco meno
che registrano la nascita di un poeta”, dopo “i ventitré anni di Ripano” e
prima dei “trentaquatro anni dell’anonimo autore del ‘Mattino’”. Parini fu in
vita, a Milano, anonimo.
I cisisbei,
non si pensa, ma erano una istituzione milanese. Non c’erano cisisbei a Napoli,
a Venezia, a Firenze – non a Roma, città di uomini, e nemmeno a Torino,
bigotta.
È ben leghista
il candidato che si oppone al sindaco uscente Sala al voto per il sindaco.
Massiccio, gaffeur, si direbbe sprovveduto a guardarlo. Forse un
non-candidato, partendo Sala vincente. Ma è il meglio della Lega, che lo ha
voluto e lo sostiene.
“La Lettura”,
il settimanale culturale del “Corriere della sera”, dedicava due pagine il 23 giugno 2013 al pensiero di Roberto
Casaleggio. Il fondatore di Rousseau è molto cauto, ma comunque gli fanno dire
che “la democrazia va rifondata”. Da Casaleggio?
“Oggi temo
guerre per l’acqua e il petrolio”, dice Casaleggio – nel 2013. Non c’è mediocrità
di cui Milano non si faccia bandiera – il segreto del successo è la fiducia in
sé, totale e inscalfibile.
leuzzi@antiit.eu
La
mano sinistra di Lucarelli? E dei Manetti Bros.? Un tentativo, ormai all’ottavo
anno, di giallo comico, dove non si ride, e anzi si sbuffa. Che la Rai stessa ha
variamente bocciato, sospeso, posposto, ma che sempre si ripropone, a furia di
social – autogestiti? La “comicità” di Coliandro,
e della sua “squadra”, il soggettista-sceneggiatore e i registi riducono a
piccola goliardia: le due agenti Caterina Silva e Benedetta Cimatti che si esibiscono
alla lap - o pole – dance , insomma a
contorcersi nude al palo (non male peraltro, se il posteriore è il loro),
Coliandro che sente “l’omino” dentro di lui, Aurora De Zan (Chiara
Martegiani?), la figlia del commissario capo, che è una giudice sbalestrata,
sospesa, quasi condannata, e si diverte a tutte le specialità di pornhub al povero
Coliandro, mentre il babbo è in coma.
La
quarta stagione, benché molte promozionata, non smuove gli spettatori. L’idea di
Lucarelli, il giallo comico, doppiato dai Manetti Bros. con quello demenziale alla Blues Brothers, o più probabilmente di
periferia, alla Thomas Milian buonanima casinista, non appassiona: due milioni
gli spettatori, il 10 per cento della audience,
non molto per una produzione originale. Anche se molto al chiuso, in studio. Si
uccide e si fanno attentati, ma in un fiat. Il tempo trascorre tra umori e languori,
di Coliandro e di ogni altro. La suspense
è tutta nell’attesa, paziente, che le
interminabili digressioni si consumino. Perfino le scene di sesso, ce ne sono numerose,
insistite e differenziate, si guardano con la stessa attesa: quando finisce?
Nemmeno
Bologna è in bella vista, pochi e non lusinghieri i fermo-immagini
della location: i romanacci Manetti Bros e lo stesso Lucarelli, ne fanno un fondale
muto, e anonimo – tutto il contrario di Bologna.
Carlo
Lucarelli-Manetti Bors., L’ispettore
Coliandro, Rai 2
spock
No vax no lavoro in presenza?
Quanti no vax sono statali?
Compresi i medici e gli infermieri?
Quanti statali sono no vax?
Ci sarà l’obiezione di coscienza contro i
vaccini?
E le quote rosa?
spock@antiit.eu
La Germania, capofila dell’energia
verde, ha consumato nei primi sei mesi di quest’anno un 40 per cento di carbone
in più, rispetto al 2020, per produrre elettricità.
Le centrali nucleari tedesche, di cui la
cancelliera Merkel ha disposto la chiusura fra un anno, saranno sostituite da
centrali a carbone. Di cui è da tempo già avviata la costruzione.
Il nucleare fornisce circa il 18 per
cento dell’elettricità consumata in Germania, e contribuisce decisivamente al record
tedesco di una produzione elettrica quest’anno da fonti rinnovabili superiore a
quella da fonti fossili – il nucleare non è (ritenuto) una fonte fossile.
La nuova frontiera è il nucleare verde. Prima era
pulito (salvo per le scorie), ora è verde. Colora di verde dove passa?
Will
ragazzino scopre il mondo che gli scorre davanti, sula strada davanti al
mulino, dove cresce adottato, in fondo alla valle, un mondo specialmente di
forestieri, di turisti. Tutto si muove, anche i popoli emigrano. Non per “la
legge della domanda e dell’offerta”, come ci viene insegnato, per la curiosità:
“Le tribù che vennero in massa dal Nord e dall’Est, se anche furono spinte
innanzi da dietro dagli altri, furono attratte allo stesso tempo dall’influenza
magnetica del Sud e dell’Ovest”. E
quando i vecchi mugnai, presto, muoiono, continua a guardare il mondo. Anche il
parroco, che è venuto ad alloggiare per un periodo al mulino. Anche Marjory, al
figlia del parroco, che in un primo momento si propone di sposare. Libero di fantasticare.
L’idea di uscire dal villaggio gli viene, con Marjory, e con un giovane turista
piuttosto grasso che si ferma a conversare – e che lo dissuade: fantasticare la
realtà è più gradevole.
Una chicca, recuperata da Franca
Cavagnoli, pubblicata nel 1878 sul “Cornhill Magazine”, rimasta fuori da ogni
raccolta (in italiano – in originale è a seguire all’incompiuto, postumo,
Penguin “Weir of Hermiston”.
Robert Louis Stevenson, Will del Mulino, Adelphi, pp. 64 €
5
zeulig
Emigrare – Era consigliato
già da Epitteto, “”Manuale”, III, 16: “I filosofi consigliano di ritirarsi
anche dalla propria patria, perché le antiche abitudini distraggono e non permettono
l’inizio di altro costume… Così fanno bene i medici a mandare gli ammalati
cronici in altro territorio, in altre arie”.
Germania – “La Germania è una lunga elevata montagna –
sotto il mare”, è riflessione di Jean Paul confidata a una delle note del
“Viaggio a Flätz”: umoristica?
Per Quinet il concetto di libertà personale ci è venuto dai tedeschi,
per i quali è sempre stato importante. E
un fondamento c’è – che Quinet non menziona: l’anarchia tribale. La Riforma si
sarebbe fondata sul concetto di libertà personale, rafforzandolo. A Quinet si
può dare anche un seguito: l’iniziativa socialista, il ibelismo di Weimar, di
sinistra e di destra, il radicalismo femminista e verde.
In effetti i tedeschi bevono, e guidano l’automobile, in tutta solitudine.
Resta da spiegare il conformismo, che è indiscutibile. Non solo sotto Hitler,
ma anche dopo la guerra. I tedeschi hanno combattuto contro la dittatura sovietizzante
molto meno – in opere e in pensiero – dei polacchi, degli ungheresi, dei cecoslovacchi.
Anche nel 1989 sono venuti dopo la Polonia, l’Ungheria, la Cecoslovacchia. Sono
fuggiti, non i sono ribellati. La fuga
sì, la resistenza no: quella è individuale, questa è collettiva.
I due fatti si conciliano nell’ormai canonico dualismo di libertà personale
e conformismo sociale. È vero, come si è sempre detto (ma meglio di tutti lo
dice a ogni pagina Goethe), che la filosofia tedesca ha solo un concetto interiore,
intimo, della libertà. Non l’ha mai pensata come fatto collettivo, non ha il suo
Hobbes, il suo Montesquieu o Rousseau, il suo Machiavelli. È per questo, va
aggiunto, che non ha una dottrina liberale, perché il liberalismo presuppone
una dottrina politica del corpo sociale, non solo del diritto e dello Stato.
Ma perché si arriva al conformismo sociale, e questo dura ancora
oggi, dopo la lunga “americanizzazione” postbellica? Perché è prevalente il
pietismo della chiesa luterana (v. Max Weber). La libertà della Riforma è
finita in Germania prima di cominciare, con la Guerra dei contadini. E il conformismo
ha messo radici all’evidenza durature con la Guerra dei Trent’ani. La libertà è
mobile – non si acquista per sempre. Mentre in Germania è risorgente l’ “auffa!”
e il “ne abbiamo abbastanza!”. Che dice quanto la parte liberale del
protestantesimo – i dissenters – sia limitata.
Il crollo del Muro e la riunificazione sono arrivati in un momento in
cui la Repubblica Federale, dopo otto anni di “cura del sonno” Kohl, ha perduto
il mordente, la creatività, l’apertura degli anni “socialisti”, tra il ’60 e l’
’80. È una Rft da vecchi staterelli germanici, tutta Volk, Heimat e Spießurger.
In questi anni si è ripittata a perfezione – il decoro soprattutto – ma è
tornata ai sandali, alle calzettine e alle bande in costume.
Globalizzazione – Il libero
scambio, la dottrina economica forse più vituperata di tutte, è il maggiore egualizzatore
della storia, del reddito e della condizione sociale, della potenza politica –
il maggior creatore e distributore di risorse, a tutti. Di reddito e opportunità
per tutti, fatti salvi anche i principi identificativi comuni a una singola
umanità, senza distinzioni di cultura o pelle. Anche nelle are deprivate in Africa
e in Asia. Con un effetto perverso, implicito in ogni egualizzazione, sul reddito
e il benessere delle popolazioni e le classi già più ricche e abbienti, geograficamente
anche localizzate in aree ristrette e ben precise, Europa (soprattutto Europa
occidentale) Senza impoverirle, solo limitandone
la crescita e la ricchezza, e le ragioni di scambio – là dove ancora se ne
possono individuare, fra sistemi economici diversi pur in un’opera mondiale di
libero scambio. I termini di confronto con la altre aree produttive, che
registrano valori di crescita doppi e tripli - in un’area cioè di sviluppo
generale per tutti, beneficiando comunque della globalizzazione – è il problema,
e il nodo, dei tentativi americani da una decina d’anni a questa parte di limitarne
gli automatismi.
Mito – È una funzione
della realtà, altra che una figurazione “classica”, cioè remota, per lo più
inspiegata - se non simbolicamente o per visioni proprie, individuali. Si può
dire quotidiano, la figurazione che fa da filo conduttore alle esistenze che si
vogliono vissute – ci sono esistenze inconsapevoli, che vanno avanti per
inerzia (fino a morte), ed esistenze vissute – pensate, immaginate,
argomentate.
È caratteristica creazione dei “viaggi”, di fantasia ma pure di
persona (che comunque molto sono di fantasia). Caratteristica
l’idealizzazione-immaginazione del ragazzo meridionale nella fantasia
omosessuale, di Pasolini o Wilde o Peyrefitte o ean-Noël Schifano a Napoli, di
Gide e Wilde a Algeri. “Attis, Ganimede, Endimione,. Antinoo”, ci trova nei
“Diari” (“ Tagebücher”, 244 e 320) lo scrittore svizzero Kuno Raeber quando,
divorziato dalla moglie dopo due figli perché omosessuale, passa un mese in
Calabria nel 1862, a Tropea e Crotone. Aperto al mito peraltro non solo su
questo aspetto ma anche, di più, sulla religiosità, sul culto della donna-Madonna,
pure tanto trascurata e sempre “a casa”.
Per una religiosità “più complessa e nello stesso tempo più terrena, più
semplice, più carnale, più primitiva di quella cristiana” – non “come
costruzione dogmatica o regola di vita ma come arca di esperienze mistiche,
fortezza dove rifugiarsi per sfuggire alla steppificazione dell’era glaciale
prossima ventura”.
Natura – “Erbe, fiori, piante
non sono realistici. Sono la prova indubitabile che la natura, come ovvio, è
estremamente innaturale”: lo scrittore Giorgio Manganelli, recensendo, 1979, il
paesaggista Ippolito Pizzetti. Di che natura parliamo?
Non è solo la confusione del parlare comune. Lo scrittore fa un
doppio scivolamento-travisamento di “natura” e di “innaturale”. Per natura
intendendo un mondo (insieme? processo? materia?) sempre e solo anarcoide (e improduttivo?).
Nonché tra reale e …che cosa, irreale? Ma non è solo improprio o confuso, lo
scrittore pone un problema: per questo, per essere “naturale”, la natura è incapace
di produrre alcunché? Ma se è (solo) produzione, e inesauribile.
zeulig@antiit.eu
Sorprendente
riproposta, in piena globalizzazione e malgrado la pandemia, di Marx, seppure
riletto criticamente da Berlin, anche lui un altro classico, ma, a questo
punto, del pensiero liberale. Perché Marx resta, al fondo, un liberale – certo non
borghese: un libertario? Insomma, come
avrebe detto Derrida dopo il Muro, Marx resta “unheimlich”,
perturbante.
La
quarta edizione che si ripropone, pubblicata da Berlin nel 1978, a quarant’anni
dalla prima, 1939, dimezzata per ragioni editoriali, benché ancora pingue, tiene
conto, spiega Berlin, del vasto dibattito sul marxismo che la crescita sovietica
nel dopoguerra ha propiziato. Lo stesso punto di vista di Berlin è cambiato, va
aggiunto: da una posizione “sdraiata”, lukáksiana, “forse troppo profondamente
influenzata dalle interpretazioni classiche di Engels, Plekhanov, Mehring”, a
una più libera. Elaborata con l’accesso e l’anamnesi del personaggio. In un
quadro diverso del mondo, dell’Europa, nel secondo dopoguerra: col sovietismo (“marxismo-leninismo”)
al potere in mezzo continente (e di tutto il dibattito di idee – insomma,
diciamo al 90 per cento), mentre prima della guerra dominante era Hitler.
Berlin
non si lascia prendere la mano dalla guerra fredda - dalla polemica anti-sovietica
- ma la revisione indirizza con chiarezza fin dalla nuova introduzione. L’incipit
dell’opera lascia inalterato: “Nessun
pensatore dell’Ottocento ha avuto un’influenza così diretta, meditata e
profonda sull’umanità quanto quella esercitata da Karl Marx”. Lo svolgimento, a
partire dalla nuova introduzione, è più riflessivo. E molto centrato sul personaggio,
più che sull’opera: il suo “Karl Marx” ultima edizione è una biografia
politica, più che una teoria critica del marxismo.
Di un economista, per cominciare, per caso.
Dopo che nel 1843, alla direzione della “Rheinische Zeitung” nelle ultime
settimane della breve vita del giornale, in una controversia col governo prussiano
su una questione di tasse, capì che non ne capiva nulla. Ma anche
politicamente, “gli mancavano totalmente le qualità di un grande leader o
agitatore politico; non era un pubblicista di genio, come il democratico russo
Alexander Herzen, né possedeva la meravigliosa eloquenza di Bakunin; la maggior
parte dela sua vita lavorativa spese in relativa oscurità a Londra, al suo
tavolo nella sala di lettura del British Museum”. Per temperamento, formazione,
e programma non era un visionario né un profeta: maturò le sue convinzioni
socialiste progressivamente, a partire dal 1847. Sempre contrario ai “metodi
cospirativi, che riteneva obsoleti e inefficaci”.
Molto intellettuale, per nulla sentimentale,
fermo negli odi come nelle amicizie, sospettoso anche, e brusco, Marx è “un dogmatico
e sentenzioso maestro di scuola tedesco”, ma scrive “con lentezza e fatica,
come spesso accade ai pensatori rapidi e fertili”. Lui stesso si è paragonato
una volta all’eroe del “Capolavoro sconosciuto”, il racconto di Balzac – il pittore
che non riusciva a dipingere il quadro che vedeva. “Per tutta la vita isolato
fra i rivoluzionari dei suoi tempi”, gli altri socialisti ritenendo per lo più “stupidi
o sicofanti”. Come tutti i rivouzionari, insomma, presi dall’utopia,
intrattabile. Ma con una differenza: il rivoluzionario, di deriva inevitabilmente
giacobina, presume di sé, ha fiducia cieca nelle possibilità dell’individuo,
Marx invece, assoluta novità, cerca le “leggi”, delle azioni e degli eventi.
Molto lavoro è dedicato alla ricerca delle “fonti
dirette” di “ogni singola dottrina sostenuta da Marx”: Ma con l’avvertenza che “non
c’era carenza di teorie sociali nel Settecento”. Come a dire: le “fonti” non portano
a niente (ma Berlin stesso vi s’immerge).
L’introduzione termina con un quadro sorprendente
dell’Ottocento – Berlin ha mente politica, ma di più è ottimo scrittore: “In un’epoca che distruggeva i suoi avversari con
metodi non meno efficienti per essere composti e lenti, che forzarono Carlyle e
Schopenhauer a cercare rifugio in civiltà remote o in un passato idealizzato, e
condusse il suo arci-nemico Nietzsche all’isteria e alla follia, solo Marx
rimase sicuro e formidabile. Come un antico profeta impegnato in un compito
imposto su di lui dal cielo…” - anche se, opina Berlin, soffriva di “un latente
rifiuto del fatto di essere nato ebreo”: amichevole con gli amici, ma un po’
misantropo, come uno che vive “in un mondo ostile e volgare”.
Isaiah
Berlin, Karl Marx, Adelphi, pp. 400
€ 28
astolfo
Anglisieren – Termine in uso
in Germania per tutto il Settecento, per designare la recisione del muscolo depressore
della coda di un cavalo, lasciando in attività il muscolo elevatore, per avere
cavalli da parata con la coda in elevazione.
Boia – Un mestiere, tramandato spesso
da padre in figlio, come una qualsiasi specializzazione artigianale, ma non
onorevole. Doveva vestire di rosso, nell’esercizio delle sue funzioni, e vivere
altrimenti appartato. In chiesa doveva stare in fondo, e spesso gli era
rifiutata la comunione, i sacramenti.
Un
mestiere esclusivamente maschile. Ma il boia doveva avere un aiutante, detto “tirapiedi”.
E la donna poteva fare da “tirapiedi”. In Francia, dove le pene corporali contro
le donne dovevano essere inflitte da una dona, detta “bougrelle”, le bougrelle potevano fungere da “tirapiedi”.
Canicola – In Germania ha
una data – un periodo di tempo: si intendono “giorni della canicola” quelli che
vano dal 23 luglio al 23 agosto. Canicola è la stella più luminosa della
costellazione del Cane Maggiore, detta Sirio, che sorge e tramonta col sole nel
periodo più caldo dell’anno.
Carta – Si fabbricava dagli stracci. D
a ultimo col procedimento “olandese”, messo a punto in Olanda nel 1600: in una
vasca anulare di forma ovale un cilindro
munito di lame sfilacciava e raffinava gli stracci. Il procedimento olandese
dava una carta più bianca e più resistente., perché gli stracci venivano
sminuzzati invece che schiacciati. Ma
gli stracci erano scarsi – era l’epoca, e lo sarà ancora a lungo, in cui si puntava
sulla durata dei materiali invece che sulla rapida obsolescenza e il continuo
ricambio. Si fecero vari tentativi di
produrre carte da altri materiali. Finché, nel 1748, un tessitore sassone
depositò un brevetto per una pasta preparata d al legno.
Cavalli di Frisia – In tedesco è spanische Reiter-Werke, difesa usata per
la prima volta a fine Cinquecento per difendere la città di Groninga dagli
attacchi della cavalleria spagnola.
Cerauno – Era il
fulmine, secondo il Vocabolario della Crusca del 1728, in greco: “Cerauno si è
quella pietra, così dinominata in lingua Greca, ed in Latino è appellata
fulmine; questa pietra si cade dal cielo, imperciocchè si trova colà, dove gli
uomini sono fedìti dalla saetta folgore”. Lì dove il fulmine aveva colpito, si
rinveniva il cerauno, la pietra che cade dal cielo.
Elettricità – Fu agli inizi
uno strumento di tortura, sia la bottiglia di Leyda (1746) che la pila di Volta
(1799). La tortura era al tempo legale, come mezzo istruttorio a disposizione del
giudice, fino a tutto il Settecento. L’elettricità servì inizialmente come uno
dei “tormenti”, per indurre alla confessione (all’autoaccusa).
Fiera – Era un luogo di libera frequentazione,
un luogo e un tempo di massima libertà, di movimento e di azione. Non si
facevano arresti, né esecuzioni,
Idrofobia – La paura dell’acqua. La vecchia cura, drastica, si trova
nel “De Medicina” di Aulo Cornelio Celso – che collegava l’idrofobia alla rabbia:
buttare il paziente in acqua e lasciarcelo finché berrà, la paura cesserà
quando cesserà la sete.
Napoleone Luigi – Figlio di
Luigi Bonaparte, il fratello dissidente dell’imperatore, spesso in disaccordo
con lui, ha tentato di riprendersi il Regno dell’Etruria partendo da Bologna –
come già Murat da Pizzo? Vi accenna Francis Wey, “Scilla e Cariddi”, p. 75: “Non
è trascorso molto tempo (siamo nel 1840, n.d.r.) da quando il principe Luigi
Bonaparte l’ha emulato a Bologna nel modo più
fedele,
con un uguale numero di soldati e un insuccesso del tutto simile: basta
sostituire i nomi”. Ma Napoleone Luigi non fu giustiziato, non fu nemmeno preso
prigioniero. Partendo da Firenze, non da Bologna, alla volta
dell’Umbria, il 20 febbraio 1830, dopo un abboccamento con Ciro Menotti, accompagnato dal
fratello Luigi (il futuro Napoleone III), a Spoleto tentò una scaramuccia con
le truppe pontificie. Ma presto si accorse di essere isolato, tra i patrioti
repubblicani da un lato, e la Santa Sede e l’Austria dall’altra. Con i
napoleonidi, per giunta, tutti contro, timorosi dell’allarme suscitato nelle
cancellerie europee dall’eventualità di un ritorno della famiglia.
Napoleone
Luigi non desistette, chiese al papa con un proclama la rinuncia al dominio
pontificio. Ma la madre Ortensia, che si era subito mossa rincorrendo i due
figli, si rivolse al comandante della piazza pontificia di Ancona, generale Armandi,
che figurava essere uno dei capi della rivolta. Armandi reagì anch’egli
infastidito dalla presenza dei napoleonidi nella sommossa antipapalina, e allontanò i due fratelli verso Bologna. Da
dove Napoleone Luigi e Luigi partiranno poi per la Romagna, il vero campo della
rivolta. Qui però Napoloene Luigi morirà presto, a Forlì, il 17 marzo, di rosolia.
Morì tra voci di avvelenamento, ma il suo funerale fu l’occasione per una
grande manifestazione di patriottismo antipapale.
Lumini torinesi – Inventati nel
1779 dal medico torinese Luigi Peyla per l’illuminazione, consistevano in un tubetto di vetro contenente fosforo, che
rompendosi incendiava lo stoppino. La scoperta fu celebre per un breve tempo in
Europa. Nel 1784 lo scrittore e scienziato tedesco Georg Ch. Lichtenberg, la
analizzò, spiegandola al pubblico tedesco, con la nota con la nota “Über der
Peylasichen Lichten”.
Peloro – Capo Peloro,
alla punta dello Stretto di Messina venendo da Nord, si vuole così nominato da
Annibale in uno dei tentativi che fece, nei lunghi mesi trascorsi nel
Bruzio-Calabria, di passare in Sicilia. S i dice che, vedendosi come chiuso
dentro in lago - lo Stretto ad attraversarlo sembra un lazo, chiuso a Nord dal
capo Peloro, aggettante dalla Sicilia, e a Sud da Reggio – pensò di essere
stato tradito e fece buttare a mare il timoniere. S alvo accorgersi di avere
fatto un errore, uscendo dallo Stretto dopo qualche tempo, di deriva e di remi,
mentre il cadavere di Peloro galleggiava. E allora alla sua memoria fece erigere
un monumento sulla punta Est della Sicilia, dandole così il nome.
Carlo
Pisacane -
Carlo
Pisacane, il rivoluzionario pro e duro, ha una biografia romanzesca. Duca d San
Giovanni allievo della Nunziatella, l’accademia militare dei Borboni, alfiere
dell’esercito borbonico, supervisore della ferrovia Napoli-Caserta, 1840,
rinchiuso l’anno dopo nella fortezza di Civitella del Tronto per adulterio –
per avere indotto in adulterio Enrichetta Di Lorenzo sua cugina moglie del cugino
Dionisio Lazzari. Lascia il Regno borbonico nel 1847, insieme con Enrichetta,
incinta, dopo che l’anno prima Lazzari ha tentato di farli uccidere in un agguato
teatrale. Inseguiti dalla polizia borbonica, Carlo e Enrichetta finiscono prima
a Marsiglia, poi a Londra, infine a Parigi. Dove furono arrestati su
indicazione dell’ambasciata napoletana.
Fu un ano molto travagliato, il 1847. Enrichetta rifiutò i consigli
dell’ambasciatore napoletano, di ritornare al domicilio domestico, e rimase con
Carlo, I due furono presto scarcerati per un cavillo giuridico: l’adulterio era
punito in Francia su denuncia del coniuge legittimo e Lazzari non aveva
denunciato Enrichetta, per non venire collegato al tentativo di assassinio. I
due non avevano risorse, e Carlo si arruolò nella Legione Straniera, come
sottotenente. Subito inviato in Algeria, dove partecipò alle ultime operazioni
contro la rivolta dell’emiro Abdel Kader. Enrichetta, bloccata a Marsiglia dal
puerperio della figlia Carolina, che morirà dopo la nascita, lo raggiunse ad Algeri.
Pochi mesi dopo, avuta notizia dei moti del ’48, del giugno ‘48 a Parigi, Carlo
ormai convinto democratico.
Subito poi Carlo fu con Cattaneo a Milano, nei
moti contro l’Austria. Capitano della Quinta Compagnia Cacciatori dei Corpi
Volontari Lombardi, fu ferito a un braccio in uno scontro a Monte Nota nel territorio
di Tremosine, Fu quindi volontario, nello
stesso anno, nell’esercito piemontese nella Prima guerra d’Indipendenza, finita
con la sconfitta. Quindi, a marzo del ’49 è a Roma, con Mazzini, Saffi,
Garibaldi, Mameli, commissario di guerra e poi capo di stato maggiore dell’esercito
popolare. Enrichetta era “direttrice delle ambulanze”. Molto attiva nella battaglia
decisiva del Gianicolo, per curare i numerosi feriti – con molte altre dame,
tra cui Cristina Triulzi di Belgioioso. Arrestato a Castel Sant’Angelo, Carlo fu
presto liberato, e con Enrichetta ripresero l’esilio, di nuovo a Londra, via
Marsiglia.
È a Londra, in questo secondo soggiorno che Pisacane
matura l’idea socialista: la rivoluzione nazionale come esito della rivoluzione
sociale. Partendo dalla liberazione delle plebi, dal dominio feudale e postfeudale.
Un’altra ideologia nazionale, in dissidio da quella mazziniana. Anche per il
lato religioso, forte in Mazzini, indifferente in Pisacane, che anzi faceva
professione di ateismo: “L’Italia trionferà quando il contadino cangerà
spontaneamente la marra con il fucile”.
Nel 1853
è, con Enrichetta (che dà ala luce una seconda figlia, sopravvissuta, Silvia),
a Genova. Quindi a Torino. Sorvegliato ora dalla polizia piemontese, per il
socialismo, e per i contatti col rivoluzionario russo Herzen. Riprende i
contati con vecchi mazziniani, ex giovani patrioti come lui, Nicola Fabrizi,
Rosolino Pilo, Giovanni Nicotera e
altri, e progetta con loro l’insurrezione del Sud, in un anticipo dei Mille. In
principio anche il loro lo sbarco era previsto in Sicilia, che non aveva digerito
il ritorno dei Borbone, dopo l’esperienza costituzionale dell’interregno inglese.
Poi si decise per Napoli, sbarcando in un punto non controllato della costa, a
Sapri. Il paino doveva partire il 6 giugno 1857, ma fu rinviato perché Rosolino
Pilo, che aveva compiti di avanguardia, pese il carico di armi in mare. Il 25 giugno Pisacane s’imbarcò per la spedizione fallimentare - nelle settimane
intercorse era stato a Napoli, travestito da prete, per sondare gli umori. Uscendone
deluso.
astolfo@antiit.eu
Scoppi,
fuoco e fiamme in questa terza serie del commissarito napoletano. Ma dentro una
serie soprattutto privata. Di ansie, sensi di colpa, innamoramenti facili e
difficili, madri in pena. Come se il Covid avesse rallentato anche i ritmi del
giallo, come nella vita di ogni giorno. Non c’è più neanche Napoli.
Un
effetto voluto, dopo e con la pandemia, poca azione, malgrado i botti, e molto
sentimento? Tutto lento, mette a rischio antipatia pure il caffettino.
Monica
Vullo, I bastardi di Pizzofalcone –
terza serie, Rai 1
Riprende l’anno scolastico dal vivo, dopo due anni di (presunto)
insegnamento a distanza, con molti buchi, nei licei, di Matematica e Fisica.
Quelli di cui dovrebbero essere titolari le nuove leve dell’insegnamento. Che
in queste materie invece vanno a ruba, non quest’anno, da alcuni anni, da parte
dell’industria Ict, a stipendi due e anche tre volte quelli pagati dalla scuola
– per non dire delle libere professioni, per i neo laureati matematici, fisici,
ingegneri con ardimento.
Si fanno grandi lamenti sui ritardi
della scuola nelle materie scientifiche, come se fosse una debolezza della
scuola italiana, eterna incapace, vecchia, ritardataria, eccetera. Senza dire
questa semplice verità, pure a conoscenza di molte famiglie. La scuola in generale
è indebolita dalla scarsa appetibilità per le nuove leve di laureati, di quelle
meglio formate e con più opportunità. Per gli insegnanti di Lettere e materie umanistiche
è spesso l’unico sbocco, e allora la scuola sopravvive. Ma dove c’è una
concorrenza, un minimo di concorrenza, la scuola è sì indietro. Ma non per
incapacità degli insegnanti, per mancanza.
È tragico e comico vedere Draghi che prende tre miliardi da un bilancio già
dissanguato e in forte debito, per pagare gli intermediari di luce e gas e
risparmiare i poveri utenti. Oggi come a luglio. Lo Stato, povero, che finanzia
i pingui parassiti dell’intermediazione. Finanziandosi a sua volta, con
l’aumento della patrimoniale sulle case, cioè su tutti gli italiani, ricchi e
poveri. Una partita di giro.
Sembrerebbe
impossibile ma avviene. A opera di un governo di “unità nazionale”, destra e
sinistra uniti nella lotta, il più forte della legislatura, col presidente del
consiglio più rispettato.
Giusto
allarme e molte chiacchiere per la moltiplicazione della tariffa del gas, e
quindi delle bollette di gas e luce.
Senza dire che quel mercato è condizionato da una pletora d’intermediari, i
grossisti, che non hanno nessun ruolo se non d’intascare qualche centesimo di
intermediazione, senza fare niente. Non si dice per non dispiacere alle
liberalizzazioni, opera di Draghi, sul solco di Ciampi?
Fa
senso vedere Draghi che paga, oggi come a luglio, due o tre miliardi di euro,
delle casse in bolletta dello Stato, agli intermediari delle bollette di luce e
gas. Ai vecchi parassiti che un tempo si denunciavano e oggi siedono su ampie
poltrone, riveriti dalla legge e dall’Arera.
400
milioni di debiti, 200 milioni di
perdite sul bilancio 2020-20121, un monte ingaggi prodigale, che è più di un
terzo di tutti gli ingaggi della serie A, e l’ultimo o penultimo posto in
classifica: tutto della Juventus Fc parla di fallimento, ma la gestione non
cambia. Il calcio è sempre dei padroni.
Davvero Macron è stato preso alla sprovvista dall’accordo
anglo-americano nell’Indo-Pacifico che esclude la Francia? Ha ritirato gli
ambasciatori: pensa a un ultimatum? a una guerra? con la Germania al suo fianco?
e l’Italia? E quando era la Francia a soffiare i contratti all’Italia, in Libia,
in Egitto, ovunque (a tentarci)?
La
Procura di Milano non si smentisce con la richiesta di perizia psichiatrica
contro Berlusconi. Litiga, si dice indebolita, ma è la stessa di quarant’anni, mascalzona - l’accanimento contro Berlusconi, a partire dalle 4-500 visite della Guardia di Finanza ogni anno, è una mascalzonaggine. Non è giustizia.
Uno spasso, e uno spreco dell’apparato repressivo, forse goliardico, forse politico (ma i
giudici non hanno partito, come si ricorderà dalle mail canzonatorie che si scambiavano),
ma da mascalzoni che fanno i mascalzoni.
Il
processo Ruby.ter è una buffonata, certo, Berlusconi rimandandolo con perizie
mediche a catena. Ma è una buffonata avviata dalla tremenda Boccassini. Che si
vede aveva molto tempo libero dal suo ruolo di Procuratore Antimafia. O
Berlusconi è meglio che indagare la mafia, per esempio quella che rifornisce
Milano di cocaina, il più grande mercato urbano europeo? Di questo non sappiamo
nulla, la Procura di Milano non indaga, neanche per sbaglio.
In
un mese duemila infermieri hanno contratto il Covid. Certamente non sono infermieri
anti-vaccini. I vaccini non funzionano?
Moggi,
l’ex direttore sportivo della Juventus, dice Simona Ventura, ex presentatrice
di programmi sportivi, voleva Cristiano Ronaldo quando aveva 17 anni. È
indubbio che Moggi è stato fatto fuori, dagli Agnelli inclusi, perché troppo
bravo. Dominava senza mai pagare nessuno, nemmeno un biglietto di favore. Lo
hanno condannato non si sa perché, in un processo molto “napoletano”.
Avevano
provato con un pranzo di pesce – il pranzo di pesce per certi giudici e
giornalisti sa di proibito - ma gli è andata buca.
È
incredibile la somma di falsità che si sono dette, e si continuano a ripetere
sotto forma di smentita, somma ipocrisia, a danno di Regina Profeta, l’ex ballerina
brasiliana di Arbore in tv, come “massaggiatrice” di Bertolaso. Che non ha mai
visto – solo frequentava lo stesso Salaria Sport Village. In odio a Berlusconi.
Cioè da sinistra, da giudici e giornalisti di sinistra. Una sinistra
calunniatrice.
“Un
giocatore della Juve guadagna quanto tutta la nostra squadra”, constata sconsolato
Tomasson, allenatore della squadra svedese Malmoe. Che, appunto, deve
confrontarsi con la Juve.
Mourinho,
neo allenatore della Roma, vince sempre: i Var gli danno due gol all’attivo (contro
la Fiorentina), tre punti, e gli tolgono due gol al passivo (Sassuolo), altri
tre punti. I Var come gli dei?
Conviene
comunque tenerselo stretto.
Lorenzo
Cremonesi va a Kandahar, capitale dei pashtun e dei talebani, culla dell’Afghanistan,
e ci trova tribalismo (che non sa nominare) esasperato, siccità e bambini
denutriti. Una città dove, anche con gli americani e inglesi di presidio per le
strade, nessuna donna è mai uscita senza burqa, la mascheratura totale.
Cremonesi
va poi a Herat, alla base italiana: “Appena partiti gli italiani, i militari
afghani organizzarono 16 camion per
trasportare ciò che restava di valore nella base e venderlo al mercato nero”. È
stata l’unica “difesa” afghana.
Usa
dire che la democrazia è una lezione, va imparata. Ma forse la democrazia non è
per tutti – Gobineau non faccia velo.
L’Eroe
è l’Artista Americano Novecento – post hippie
o beat: ubriacone, solo, sporco, squattrinato,
ma geniale. Il fallito asociale che si riscatta con la Buona Causa. Doppia in
questa vicenda: come ogni foto dovrebbe salvare la gente di Minamata,
paralizzata dal mercurio sversato in mare dalla fabbrica che dà da vivere alla
comunità, e introiettato attraverso il pesce pescato, così salverà “Life”, la
rivista che è il paradiso dei fotografi, la loro mangiatoia, il loro
“principato”, dalla chiusura.
C’erano
una volta i (grandi) fotgrafi e, loro, ci sono ancora, anzi sono gli artisti
del momento, gli unici figurativi – testimoni dell’arte transeunte, consumabile. W.
Eugene Smith, fotografo celebre, anche in Giappone per i reportages dal Giappone
nel 1945, dopo la Bomba, viene contattato da un’attivista di Minamata, col pretesto
di fare da testimonial alla Fujicolor, concorrente allora di Kodakolor – lui
che non ha mai fatto una fotografia a colori – in modo da farlo ritornare in
Giappone, e appassionarlo possibilmente alla causa di chi protesta a Minamata. È
il momento sbagliato: Smith è alcolizzato, ha venduto le sue apparecchiature,
lascia la casa, e anche “Life” non se la passa bene, ha problemi a finanziare
il viaggio. Invece, poi tutto va come deve.
Una
storia, si sa, a lieto fine, scontata. Ma raccontata bene, per quasi due ore di
ottimo cinema. Grazia anche a un Johnny Depp irriconoscibile – fose nella sua
pelle quanto ad alcol ma non violento.
Il
regista, che vanta esperienza polifunzionale, di pittore, scultore, regista,
produttore, fotografo, ristoratore e attore, si sbizzarrisce in tutte le sue
specialità, perfino sul cibo, al ristorante e domestico. Pur cimentandsi con un personaggio,
Eugene Smith, cui l’alcol impedisce il gusto e anche l’appetito. Ma la fanfaronata
è semrpe evitata, il dramma si esplicita contenendosi nelle forme mostruose di
giovani e meno giovani vittime del mercurio. Aiutato anche da una recitazione
giapponese, nei ruoli buoni e nei cattivi, forse sopra le righe (il giapponese
si parla brusco, tronco?) ma fisicamente, espressivamente, sempre nel ruolo, quasi
spontanea, di attori che sembrano stare nel personaggio, non rappresentarlo.
Andrew
Levitas, Il caso Minamata, Sky
Cinema