sabato 16 ottobre 2021
Problemi di base pavesiani bis - 664
spock
Dai boomer agli zoomer, le generazioni servono al commercio
Si
fa presto a dire generazione – baby
boomers, Generazione Y, Generazione X: la maggior parte dei giovani negli
anni 1960 non praticava il libero
amore, prendeva droghe, o protestava la guerra in Vietnam. “A un sondaggio del
1967, richiesti se bisognava aspettare il matrimonio per fare sesso, il 63 per cento
dei ventenni disse sì, praticamente nella stessa percentuale della popolazione
in generale. Nel 1969, quando fu chiesto ai ventenni (21-29) se avevano mai
consumato marijuana, l’88 per cento disse no. Quando allo stesso gruppo fu chiesto
se gli Stati Uniti dovevano ritirarsi immediatamente dal Vietnam, tre quarti dissero
di no, più o meno come la popolazione in generale. E la maggior parte dei
giovani negli anni 1960 non erano nemmeno specialmente progressisti”: ai sondaggi
politici tra il 1966 e il 1968 il 53 per cento dei giovani risultava pro Nixon
o George Wallace” – la percentuale era più alta per chi veniva dall’università,
fresco di studi tra il 1962 e il 1965: il 57 per cento.
“È
tempo di smetterla di parlare di generazioni”: Louis Menand, professore di
Inglese a Harvard,, storico delle idee
(“The Metaphysical Club”, Pulitzer 2001, la storia intellettuale e culturale
dell’America Fine Secolo), e del rinnovamento della lingua inglese col primo
Novecento (“Discovering Modernism. T.S.Eliot and His Context”), nonché,
recentemente, del mercato delle idee (“The marketplace of ideas”), sgonfia il
concetto di generazione come si sta imponendo, una sorta di bolla
intellettuale. A fini solo commerciali, di creazione, cinquant’anni fa,
sull’onda del Sessantotto, e poi di sfruttamento intensificato di linee di
prodotti, per teen-ager.
Recensendo
gli ultimi libri in tema, spiega sia la “generazione” sia il “fenomeno teen
ager”. “La scoperta che si possono fare soldi vendendo merci ai teen-agers”, merci
dedicate, distintivo generazionale, “data dai primi anni 1940, che fu anche
quando il termine «cultura giovanile» apparve per la prima volta a stampa”. Erano
anni di guerra, ma la cosa partiva da lontano: più gente era andata al liceo
negli anni 1930. Nel 1910 solo il 14 per cento degli adolescenti, 14-17 anni,
era ancora a scuola. Trent’anni più tardi, nel 1940, quella proporzione era
passata al 73 per cento. E poi è sempre aumentata: nel 1955 l’84 per cento
degli americani in età da scuola secondaria la frequentava (in Europa Occidentale
al percentuale era del 16 per cento). Poi, tra il 1956 e il 1969, le iscrizioni
all’università negli Stati Uniti sono più che raddoppiate, e il segmento
demografico «gioventù» è passato da quattro a otto anni. Nel 1969 era sensato
che ognuno parlasse di stili e valori e gusti dei giovani: quasi la metà della
popolazione era sotto i venticinque”.
Oggi
la proporzione è rovesciata: “Oggi un po’ meno di un terzo della popolazione è
sotto i venticinque, ma la giovinezza rimane una grande base di consumo per
piattaforme social, servizi streaming, giochi elettronici, musica, moda,
cellulari, apps, e molte altre merci, dai pattini motorizzati ai contenitori
ecologici per acqua”. Nasce da qui il concetto di “cultura giovanile” mobile,
con l’esigenza di “ridefinirlo periodicamente”: per mantenere questo mercato in
ebollizione, e per dare al business delle consulenze qualcosa da insegnare alle
aziende che consigliano”.
Questa
è la parte hard del saggio. Che è altrimenti
godibile per documentazione storica e argomentazione. Naturalmente, “non c’è
niente in natura che corrisponda a una decade, o a un secolo, o a un millennio”.
Le differenze sono storiche o sociali, caratterizzazioni, quelle che nell’Ottocento
erano chiamate “entelechie” generazionali. Ma qui la “differenza tra un baby boomer e un Gen-X è significativa
tanto quanto la differenza tra un Leone e un Vergine”.
Louis
Menand, It’s Time to Stop talking about
Generations, “The New Yorker”, free online
venerdì 15 ottobre 2021
Ombre - 583
Nelle
manifestazioni no vax-no green pass a Roma stamani c’erano poche persone, sei o
sette alla Bocca della Verità, una dozzina, ma sparsa, di fronte al Vittoriano.
I tg dell’ora di pranzo, Rai, Mediaset, Sky, ne fanno un grande protesta. Per
incitare alla rivolta? Per stupidità – non c’è la notizia se non c’è la
protesta?
Draghi
porta la solidarietà del governo, nella vignetta di Giannelli, a Landini. Che
dice : “Non avevamo mai avuto così tanta solidarietà e così tante manifestazioni
sull’importanza del sindacato. C’è voluta Forza Nuova”. Una “dichiarazione di esistenza”, più che di
importanza.
Il
Columbus Day è stato ribattezzato da Biden Indigenous People’s Day, festa del
popolo indigeno. Ma non è offensivo? Quando gli indiani usciranno dalle riserve
alcoliche dove gli angloamericani, non Colombo, li hanno confinati, quelli che
non hanno ucciso, vorranno giustamente una qualche festa di liberazione, non
dell’indigenato. Com’è possibile tanta ipocrisia, spacciata per onestà?
Curioso
– ma non molto. Protestano i lettori al “Corriere della sera” perché,
promuovendo le memorie di Ilda Boccassini, ha corredato la recensione
iperbolica di Saviano con un estratto sul suo tentato flirt con Falcone.
Rispondendo
a uno di questi lettori, il direttore Fontana fustiga il doppiopesismo: “Per i
nemici… si può squadernare ogni particolare, anche il più intimo, mentre per le
persone che ammiriamo dovremmo nascondere atti che gli stessi protagonisti
vogliono far conoscere”. Omette di dire che questo succede a sinistra, che la
“buona coscienza” è ora di sinistra, che
prima ne era critica.
“Erdogan sta usando l’Europa: Come? Sfruttando
i migranti, con ogni mezzo”, Battistini e Gabanelli in prima pagine sul “Corriere della sera”. Sembra
una cosa grave, ma come non detto.
È
curioso – ma perché? – che l’immigrazione selvaggia sia fomentata e sfruttata
da islamici, in Turchia, Libia, Tunisia, Marocco. A danno prevalentemente di
islamici.
Tutto
può succedere al voto ma Michetti parte battuto al ballottaggio con Gualtieri
per il sindaco di Roma, da concorrente che partiva con un vantaggio. Parte invece
con l’handicap dei no-vax, i fascisti e fascistoidi dell’assalto allo shopping,
nel primo giorno della (quasi totale) riapertura. Intimorendo negozianti e
moderati, il cuore dell’elettorato di Michetti. Sarà proprio vero che la destra
è stupida.
Il
superportiere Donnarumma si fa scappare la palla dalle mani e infilare sotto le
gambe, al resto ci pensano tre pali, e l’Italia fa 2-1 col Belgio. Non si
riflette abbastanza sullo stellone d’Italia, in questo anno di grazia per lo
sport, Nobel compreso. Sulla congiunzione astrale – eppure, gli astri esistono,
direbbe Galileo.
“Vincere
con i debiti è corretto?”, di domanda e domanda Arrigo Sacchi. E lascia
implicita l’altra metà del discorso: il suo Milan non può spendere da qualche
anno, il fair play finanziario si applica
al Milan senza eccezioni, mentre all’Inter è concesso di tutto. Sarà questa l’egemonia
cinese. A gratis?
In
effetti, si può dire l’Italia, se non il mondo, già nel secolo cinese.
Immaginarsi una proprietà americana dell’Inter, o di qualsiasi Pellegrini o
Cellino, quante Procure non si sarebbe tirate addosso. Sono le Procure sempre
“compagne”, del partito Comunista Cinese? E che c’entrano gli Zhang col Pcc? O
non starà Pcc per partito della Corruzione Continua?
La
signora Jurida Kukaleshi, origini albanesi, da 23 anni in Italia, dove è
sposata e imprenditrice, non può avere la cittadinanza, statuisce l’Interno,
per non aver “raggiunto un grado sufficiente di integrazione nella comunità
nazionale”, avendo preso una multa stradale. L’Italia dei prefetti è al di
sopra di ogni immaginazione, purtroppo.
Non
avere la cittadinanza complica molto la vita di chi è nato all’estero, o pure in Italia da genitori ancora stranieri, soprattutto per chi vuole
lavorare. E per chi ha bisogno di lavoratori, imprenditori o capi famiglia. Non
si calcolano i danni che fanno i prefetti, unicamente interessati all’esercizio
di un potere loro – la legge si può sempre interpretare – ai fini della
carriera: un passaggio di categoria, di ruolo, di mansioni, di titoli.
La
Ferrari perde il podio, e forse la vittoria, al Gran Premio di Turchia per “un
inghippo al pit stop, un mancato input del sistema che indica di
ripartire”. La Formula 1 (come ormai un
po’ tutte le auto) si vince con l’elettronica: ogni bolide è gestito da
centinaia di Ecu, electronic control
units, unità di controllo elettronico, con al centro una Secu, Ecu
standard. Ogni vettura parte con oltre
300 sensori, una Secu che controlla oltre 4 mila parametri di input e trasmette
più di tre Gigabyte di dati in tempo reale ai box, durante un Gran Premio di
300 km. Al pilota compete solo lo sterzo.
Non
si dice la parte più significativa del voto in Germania: che il 76,6 per cento
è andato a votare. E che – ora che si dispone già del flusso dei voti – la Dc tedesca,
la coalizione Cdu-Csu, non ha avuto astenuti, o quasi (50 mila sono calcolati),
ma delusi, che hanno votato Socialdemocrazia (un milione e mezzo), Verdi (poco
meno di un milione), Liberali (mezzo milione). Non c’è più in Germania la polemica
anti-latina di dieci anni fa, ma questa volta sarebbe stata giustificata: il
voto resta partecipato e politico, la Germania non si gingilla con i comici di
piazza, come nel mondo latino, Italia, Francia, Spagna.
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Giallo filosofico, sotto osservazione
Un
guazzabuglio. Una mezza pagina folgorante avvia un racconto balordo, di
balordi, con la scusa che tutti osserviamo e siamo osservati – c’è dispendio di
fotografi, registi, operatori, spie e satelliti spia. Aggravato dall’ortografia
alla Bernhard - quella ridotta alla virgola, di cui il tedesco non può fare a meno,
altrimenti non si capisce. Caricatura in terza persona del monologo interiore oflusso di coscienza, joyciano e bloomberghiano - ma in Bernhard il periodare incessante è dell’io, come il flusso di coscienza, e di maestria musicale, qui si pretende in terza persona - e senza ritmo: un guazzabuglio.
Il
quinto o il sesto dei “gialli filosofici” di Dürrenmatt, da cui tenersi alla
larga.
La
vecchia traduzione Marcos y Marcos di Giovanna Agabio, rivista da Roberto Cazzola,
probabilmente non peggiora il risultato (potrebbe?) ma non lo migliora – sono
da compiangere due traduttori invece di uno.
Friedrich
Dürrenmatt, L’incarico, Adelphi, pp.
107, € 15
giovedì 14 ottobre 2021
Teheran a Beirut, come nello Yemen
Gran
viavai di ministri occidentali a Beirut, di Stati Uniti, Francia, Gran
Bretagna, Germania, questa estate, dopo che gli ayatollah iraniani sono entrati
a piedi uniti dentro gli affari libanesi. L’intervento diretto di Teheran a
Beirut data ormai da oltre un anno, da quando la polveriera-porto è saltata, con
centinaia di morti e la rovina di mezza città, svelando l’ammasso di armi e
munizioni di Hezbollah e Amal, i movimenti sciiti libanesi su cui Teheran aveva
fatto fino ad allora conto.
Alla
visite niente è seguito, Teheran ha anzi mano libera. La manifestazione di oggi
contro il giudice Tareq Bitar, che ha incriminato alcuni ex ministri di Amal,
ne è un segno. La manifestazione, organizzata da Amal e Hezbollah per chiedere
la rimozione del giudice incaricato delle indagini sull’esplosione al porto, ne
è la conferma. Amal asserisce che i manifestanti morti sono suoi militanti, e
sono vittime di “cecchini” cristiani, in quanto appostato nel quartiere
cristiano prossimo all’ufficio del giudice. Ma non è così: ci sono stati morti
ma non si sa a opera di chi. La manifestazione è chiaramente intesa a rompere
il fronte nazionale al governo con i cristiani in atto da qualche anno.
Il
giudice Bitar era stato già ricusato da due ministri di Amal, di cui aveva
chiesto il rinvio a giudizio, dopo che erano stati espulsi dal governo per
corruzione, ma senza successo. Per appoggiare le domanda di ricusazione di
altri due ministri convocati da Bitar, Amal e Hezbollah hanno organizzato la
manifestazione di oggi, con l’inento dichiarato di rompere le tregua istituzionale,
in una guera civile mascherata.
Il
giudice Tareq Bitar ha il torto di essere cattolico, benché in fama di
morigerato e inflessibile. È subentrarato a febbraio al primo titolare dell’inchiesta
sull’esplosione al porto, Fadi Sawan, ricusato con successo dai ministri di Amal
che aveva rinviato a giudizio. Colpevole anche lui, benché procuratore militare
in fama di inflessibile, di essere cristiano maronita, cioè cattolico.
Nelle
gite diplomatiche a Beirut, benché a nessun effetto, si sono segnalati per l’assenza
l’Italia e il Vaticano.
Il mondo com'è (433)
astolfo
San Cromazio – Il vescovo di
Aquileia fra 300 e 400, forse originario di Spagna, amico di san Gerolamo,
impegnato contro l’arianesimo, è all’origine di riti “asiatici” (ebrei, egiziani)
entrati nel cerimoniale della chiesa di Roma. Il rito pre-battesimale della
lavanda dei piedi, ora rito del Giovedì Santo. La Pasqua come rito di Passione
e di Liberazione, come nella Pesah ebraica. Il simbolismo animale dei quattro
evangelisti. La croce di san Cromazio, adottata come logo di Cristo, era il simbolo
egiziano della vita: è l’ “albero della vita” di cui in san Giovanni nell’“Apocalisse”:
“Da una parte e dall’altra del fiume si trova l’albero della vita che dà dodici
frutti per ogni mese, e le foglie dell’albero per la guarigione delle nazioni”.
Egeo - La Turchia che vuole le acque
territoriali fin dentro la Grecia ripete la vecchia politica dell’impero persiano,
che portò a un’ostilità di secoli con Atene, Sparta e gli altri potentati ellenici.
Longitudine – È stata a lungo
discussa come problema dirimente delle sfere di influenza coloniale. Il
problema che sarà detto, dopo che a metà Ottocento verrà adottato come
riferimento orario nel mondo il meridiano di Greenwich, dell’antimeridiano di
Greenwich.
Wikipedia lo sintetizza
credibilmente: “In passato la latitudine in
mare poteva essere calcolata abbastanza facilmente; ma la longitudine sembrava
impraticabile. Il problema era assai grave per la navigazione d’altura, allora
del tutto incerta e rischiosa e, come è facile aspettarsi, questa situazione di
incertezza e di pericolosità era particolarmente sofferta dagli inglesi che
allora dominavano i mari. Nel 1714 il Parlamento inglese con il Longitude
Act diede vita ad un’apposita Commissione per la Longitudine con il compito di assegnare
un enorme premio a chiunque fosse stato in grado di inventare un metodo sicuro
ed affidabile per calcolare la misura della longitudine”.
In precedenza, tra i tanti metodi
tentati ci fu quello della “polvere di simpatia”: “Il metodo per la misurazione
che si rifaceva alle proprietà della polvere di simpatia consisteva nel
prendere un cane, procurargli una piaga in modo che rimanesse sempre aperta e
imbarcarlo su una nave. Ad un’ora concordata, per esempio a mezzanotte, nel
porto da dove era salpata la nave si spargeva una sostanza irritante sulla lama
insanguinata che aveva ferito l’animale con l’effetto di provocare dolore al
cane che avrebbe guaito segnalando in questo modo che in quel momento era
mezzanotte sul meridiano di partenza e, conoscendo lora locale, si poteva
dedurre la longitudine”.
Sulla
questione, “polvere di simpatia” o “unguentm
armarium” (v. sotto) Umberto Eco ha impiantato il lungo romanzo “L’isola
che non c’è”. Il protagonista Roberto de la Rive, naufragato su … una nave abbandonata,
riacquistando la memoria ricorda a sprazzi un suo precedente viaggio su una
nave, “Amarilli”, probabilmente in missione per cercare il punto fijo, per ragioni di spartizione delle sfere d’influenza
coloniale, e di questo viaggio ricorda di avere trovato sulla nave un cane, nascosto
ai passeggeri, un cane ferito, ferito in Inghilterra, e ora torturato: qualcuno
sulla nave aveva cura che rimanesse sempre piagato. Ci riusciva con la “polvere
di simpatia”: qualcuno a Londra, ogni giorno, a un’ora fissa, potava alla luce
l’arma della ferita, o il panno imbevuto del sangue del cane, e la ferita si
riapriva.
Occupazione italiana – In vacanza sulla
“costa anatolica”, la Turchia ex greca, il Mephisto della “Domenica” del “Sole
24 Ore” dell’altra domenica rivede “nelle vie del Dodecaneso, lì di fronte, a
Rodi, strade magnifiche e palazzi costruiti quando era il «Possedimento»
(1912-1943), vanto del Bel Paese. Qui oggi gli anziani parlano la lingua di Dante”.
Elenca poi i misfatti dell’occupazione italiana, in Grecia e in Albania, che
sono rimossi – si studia l’imperialismo italiano solo in Africa, e quello
tardo, di Graziani e Badoglio. Un’occupazione che così sintetizza: “L’odio
selvaggio di militari regi contro gli albanesi delle colonie del Protettorato
italiano (19339-1943), passato alla storia per stragi analoghe a quello del
Vietnam. Poco importa la reggia di Tirana per Vittorio Emanuele III (che mai vi
pernottò), capolavoro di Gio Ponti, boiserie strepitose tuttora intatte, a
fronte della storia infamante di giustizia sommaria contro civili greci,
comunità ebraiche (Darmytha e Igoumenitsa) e slave (Kosovo e Macedonia). Il
tentativo scellerato di conquistare la Grecia si risolse con villaggi messi a
fuoco, impiccagioni pubbliche (1942), torture di prigionieri catturati da fascisti
italo-albanesi. A Mallakasha fu una Marzabotto (1944), col seguito di
ritorsioni dei partigiani albanesi contro soldati e carabinieri dopo l’8
settembre”.
Stregoni – Ce ne sono, ce
ne sono stati fino a recente, in Toscana. Lo stregone di Poppi nel Casentino, che pretendeva di sollevarsi
nottetempo su un carro di fuoco e di volare per il cielo, riuscendo nella sessa
notte ad assistere contemporaneamente a tre messe, a Costantinopoli, a
Gerusalemme e a Roma. Uomo pio e non venale, benvoluto dalla popolazione, e dal
parroco. C’era del resto nell’aretino, così si dice, una chiesa della Madonna
delle streghe.
Presso
un altro castello, in Valdarno, tra Valdarno e Valdarno e Valdambra, a
Galatrona, hanno alloggiato per secoli generazioni di maghi e stregoni.
Capostipite, quello di cui si sa dagli annali, Nepo da Galatrona, medico
personale a Firenze di Giovanni dei Medici e poi mago al servizio di Lorenzo il
Magnifico, noto per curare anche gli animali e per praticare incantesimi. La sua
farmacopea era segreta, ma si sapeva di un “unguento armario”, composto da ingredienti esotici: polvere di
mummia, muschio prelevato dal teschio di un morto assassinato, grasso di orsa,
lombrichi. Descritto di statura grande, capelli neri, barba tagliata a
spazzola, carnagione bruna, vestito all’orientale o alla turca, con pantaloni
larghi, cappello a punta, mantello.
Unguento
armario – Quella propriamente detto è
una polvere miracolosa in grado di risanare una ferita se applicata non sulla
ferita stessa ma sull’arma o oggetto che l’ha provocata. L’inventore, negli
anni 1620, ne fu l’inglese Kenelm Digby, cortigiano, “filosofo”, corsaro,
diplomatico, cattolico, viaggiatore e residente anche in Italia, a Firenze, dai
Medici scientisti, e a Roma, che lo chiamò Unguentum
armarium vel Weapon Salve, salvezza dalle armi, e ne pubblicò la
composizione in una pubblicazione che intitolava “Discours sur la poudre de la
simpathie”, sulla polvere di simpatia. Un composto di vetriolo polverizzato e
gomma. Da applicare su un panno insanguinato dalla ferita, oppure sull’arma che
l’aveva provocata.
Il principio era che il composto, se applicato sulla
ferita l’avrebbe naturalmente ustionata. Ma applicato sul panno insanguinato o
sull’arma avrebbe risanato (seccato) la ferita, per un procedimento di
“simpatia”, favorito dai raggi del sole: la luce del sole, trasportando gli
atomi, avrebbe catturato quelli della ferita e quelli del sangue sul panno o
sull’arma, combinandoli per simpatia nella forma della guarigione. Per questo
Digby divenne baronetto, oltre che famoso – ufficialmente Giacomo I lo insignì
del titolo in ricompensa per i servizi da Digby offerti al figlio Carlo a
Madrid, dove l’erede al trono inglese cercava moglie.
Ne
“L’isola che non c’è” Eco fa rientrare anche l’unguentum armarium.
Yiddish - L’adattamento del tedesco parlato, semplificato nella
pronuncia, nella sintassi e nella trascrizione, si è sviluppato a partire attorno al Mille nella
Germani centrale come tedesco più semplice, anzi elementare, a uso delle donne,
come meno alfabetizzate. Specie le donne ebree - gli ebrei figuravano ai tempi
come più ignoranti, poveri e quindi ignoranti.
Questa etimologia
è ritenuta di fantasia, ma non ce n’è una migliore. Le altre sono presuntive, di
una comunità ebraica rispetto a un’altra.
Derivata dal gotico, che dal IV al XVII secolo sopravvisse in Crimea, e quindi
sarebbe la parlata dei cazari convertiti all’ebraismo. La parlata degli slavi e
baltici in area polacca, che si dicevano ebrei per non venire rapiti e venduti
come schiavi.
astolfo@antiit.eu
Fanciulle in fiore, a Torino, nel 1940
“Il
tempo passava adagio” per Ginia, la ragazza di cui il racconto segue il
passaggio alla vita adulta. Ma dopo un attacco promettente. Folgorante, fa
storia a sé: “A quei tempi era sempre festa. Bastava uscire di casa e traversare
la strada…”. Ai tempi della beata incertezza. Il racconto della maturazione,
senza adulti, senza maestri. Una maturazione come scoperta, e come perdita dell’innocenza.
“La
storia di una verginità che si difende”, così è registrata da Pavese nel
diario. Anche “una storia di ragazze lesbiche”, cosa che non è – forse riferito
a una prima redazione, “La tenda”, la tenda nella camera-studio del pittore
dietro cui si sta in intimità. O più giusto, “storia di artisti e di modelle”.
Un
racconto di Pavese femminista, benché misogino: molto dialogato tra ragazze,
cioè agito da ragazze. Di un autore anzi al femminile, di quella che si diceva “scrittura
al femminile”: amicizie, dubbi, ansie, conversazioni spinte e incerte, della e
sulla vita delle “fanciulle in fiore”. Vita pratica, non poetica. Scritto curiosamente con molto toscano,
ma ancora misurato, scorrevole. Nella forma sempre della “nuova oggettività” o
pavesiana, realista, del linguaggio che dice, senza sottolineare, commentare,
spiegare, giudicare (a meno che la lingua non sia, qui come altrove in Pavese, la trascrizione di modi di dire dialettali, spontanei) - racconto “naturalista”, così Pavese lo classifica nel
diario il 26 novembre 1949.
La
“bella estate” sono i mesi dell’amicizia e delle avventure di una
sedici-diciasettenne, Ginia, modista la mattina dalla signora Bice, grande sarta,
cuoca la sera per il fratello che lavora di notte, con amiche navigate, dapprima
Rosa, operaia, poi Amelia, “modella” di pittori. Nei luoghi quotidiani, gli
alloggi modesti, i portici, il caffè, il cinema, il parco, il ballo. L’uscita
dall’adolescenza, e lo scontro con la “dura realtà”, di artisti, giovani e
vecchi, fino alla malattia, al rifiuto.
Bizzarra
lettura, sembra di oggi: con le ninfette, l’adolescenza sola, malgrado tanta, perfino eccessiva, solerzia
Bizzarra
lettura, sembra di oggi: con le ninfette, l’adolescenza sola, malgrado tanta, perfino eccessiva, solerzia genitoriale, il girovagare fra i luoghi, il bar e la balera-discoteca, il rapporto
sessuale e l’atto stesso indifferente, benché sempre decisivo. In ambiente
anch’esso si direbbe contemporaneo, anche senza gli auricolari, i tatuaggi, gli
sneakers. Di una persistente vecchia bohème,
poiché si tratta di pittori marginali, falliti o incerti, a fronte delle belle
speranze, dell’improntitudine o superficialità.
Una
riedizione corredata da una introduzione di Claudia Durastanti, dall’introduzione
concettosa di Furio Diaz all’edizione 1966 del racconto, e dalla nota editoriale
di Laura Nay e Giuseppe Zaccaria a “Tutti i romanzi” nell’edizione della Pléiade
Einaudi, 2000. Che riporta un tratto significativo della presentazione dei tre racconti della silloge “La bella
estate” (“La bella estate”, “Il diavolo sulle colline”, “Tra donne sole”) fatta
dallo stesso Pavese: “Si tratta di un clima morale, di una presentazione di temi,
una temperie ricorrente in un libero gioo di fantasia…Tema ricorrente… è quello
della tentazione, dell’ascendente che i giovani sono tutti condannati a
subire. Un altro è la ricerca affannata del vizio, il bisogno baldanzoso di
violare la norma, di toccare il limite. Un altro, l’abbattersi della naturale sanzione sul più colpevole e
inerme, sul più «giovane»”.
Cesare
Pavese, La bella estate, Einaudi,
pp. 119 € 10
mercoledì 13 ottobre 2021
Problemi di base - 663
spock
Ma Darwin non è la prova di Dio?
I Rolling Stones hanno in media quindici
anni più della Corte Suprema degli Stati Uniti?
Si può – si deve – aver paura della paura?
Davvero il traffico di esseri umani passa
attraverso gli islamici, in Turchia, Libia, Tunisia, Marocco?
Perché i credenti sono crudeli?
Come mai la poliomielite è finita col vaccino?
spock@antiit.eu
Popolare Sondrio contro Cimbri
Sondrio
ha paura, Cimbri è troppo potente. Ci sono molti valtellinesi a Roma, erano
panettieri e pizzicagnoli, e ci sono nella capitale molte, prospere, filiali
della Banca popolare di Sondrio. Ma romani in Valtellina evidentemente no, e il
romanissimo invadente Cimbri che si è comprato il nove e mezzo per cento della
Popolare, in previsione del passaggio entro l’anno dalla popolare alla Spa, resta sempre fuori dalla porta. I 150
mila soci hanno paura, il consiglio d’amministrazione e la direzione generale fanno
finta di nulla. Solo provano a rimandare la definitiva trasformazione in Spa
entro l’anno. Non sapendo in realtà quanto Cimbri può mettere sul piatto, oltre
al 9,5 per cento dichiarato a norma Consob.
Del
tentativo di rinvio, ora comprovato dalla pubblicazione degli scambi epistolari “privati”
col presidente della Consob Savona, già questo sito aveva dato conto. La
pubblicazione delle lettere ha aggravato l’allarme a Sondrio: si ritiene opera
di Cimbri, che a questo punto sarebbe molto potente in sede Consob, o all’interno
della stessa Popolare. Il proposito è - non c’è alternativa se la Spa è
indilazionabile - di stemperare Cimbri, ritenuto solo un raider, un invasore, con un’altra minicorazzata della stessa temperie
culturale e territoriale della Sondrio, Bpm, il Banco popolare di Milano, che ha
saputo venire a capo del traumatico passaggio a Spa.
Nello
scambio con Savona non ce n’è traccia, ma il parere era stato chiesto per poter
organizzare la fusione in contemporanea col nuovo statuto giuridico.
Il gioco guarisce l’avarizia
Della
serie Rai “Purché finisca bene”, cioè tutti felici e contenti. Un racconto
quindi scontato. Ma non senza attrattiva. Il Professore Importante Autore Celebre
di un manuale sull’avarizia alla ennemillesima copia venduta è un avaro. Da
Psicoterapeuta Principe si esorcizzerà all’incontro con l’esatto opposto, della
prodigalità sotto forma di ludopatia, di annullamento del valore del denaro
fino all’annullamento di sé. Il Professore Autorevole si impegnerà a curare la
ludopatia, non può fallire, non ha mai fallito, e se non altro guarirà dell’avarizia.
Appesantito
dall’estetica Rai, di comici che “fanno” i comici, etc., di macchiettisti
invece di caratterizzazioni, la storia si segue perché narrata secondo un
manuale di Psicologia, o psicoterapia, naturalmente l’ultima Grande Fatica del
Professore Autorevole: ogni personaggio o ogni svolta della narrazione è un
capitolo del manuale. Il racconto prende così un minimo di spessore – sorpresa,
interesse. Con un curioso scivolamento: centrato sul Professore, che domina
ogni inquadratura, purtroppo afflitto da un Watson-Sancho Panza invadente, il
film si anima con la co-protagonista (inutile dire quale ne sarà il ruolo)
Valeria Bilello, che vi introduce vivacità e (un minimo di) suspense.
Fabrizio
Costa, Digitare il codice segreto,
Rai 1
martedì 12 ottobre 2021
Letture - 469
letterautore
Arte – In logica è falsificazione. Anche in arte? “Un quadro è qualcosa che richiede tanta scaltrezza e depravazione quanto un delitto – falsificazione, e aggiungetevi un pizzico di natura”, Degas.
Crisi - L’inquietudine, il disagio, il mal di vivere, l’inadeguatezza come oggi si dice, ha una lunga storia, a partire dalla Grande Guerra. In coincidenza quindi col tramonto dell’Europa, ma invasiva, di ogni angolo o interstizio di mondo. Tabucchi ne fa il quadro con moltissimi nomi in un pagina breve del saggio “Controtempo” (ora in “Di tutto resta un poco”): Gadda, Ungaretti, Comisso, e poi Montale, T.-S.Eliot, Céline, Orwell, Auden, Camus, Beckett, e più in qua Calvino, Pasolini, Manganelli, Sciascia.
Greci – Sono latini, si sa – così chiamati
a Roma e dopo. Secondo Aristotele, nome di una tribù achea dei Beozi a Nord
dell’Attica. Storicamente, il nome è registrato la prima volta nel cosiddetto
“Catalogo delle donne”, attribuito a Esiodo, in cui si menziona un eroe eponimo
di nome Graikòs. Loro erano e sono romioi, come preferiscono chiamarsi, romani
d’Oriente, dell’impero bizantino, o Elleni, da Elleno, l’antenato delle tre tribù
che tra il 2000 e il 1000 a.C. invasero dal Nord la Grecia, Eoli, Ioni, Dori –
sottomettendo i Pelasgi, per dire le popolazioni che già abitavano la Grecia e
furono da loro scacciate o sottomesse (usava: lo stesso per i Siculi, in epoca
storica “omerica”, schiacciati tra fenici e greci). In Omero – e ancora in
Erodoto - sono spesso Achei o Argivi, nome della tribù dominante, insediata nella
città di Argo. O anche Danai, in quanto figli di Danao, cioè “occidentali” –
mentre i Troiani erano “orientali”. Omeo usa Elleni solo per i greci del Nord.
Età – Chiedendosi quando si diventa
vecchi, Gottfried Benn fa (“Invecchiare come problema per gli artisti”) un
elenco di artisti produttivi e di fama, in vita e dopo, morti presto. “Di
malattie acute, di tifo: Schubert, Büchner. Raffaelo, se si presta fede al racconto
del Vasari, di 37 anni”. Morti “per incidente o causa di guerra: Shelley,
Byron, Franz Marc, Macke, Apollinaire, Heym, Lautréamont, Puškin. Per sucidio:
Kleist, Schumann, Van Gogh”.
Altri
se ne possono aggiungere: Mozart (35), Chopin (39), Novalis (29), Leopardi (39).
O anche di età maggiore, ma di attività prodigiosa per il numero di anni
produttivi vissuti: Marx è morto di 64 anni, Pavese di 42, Pasolini di 53. Il
caso più eccezionale è però probabilmente quello di Stevenson, che Graham Greene
evidenzia in nota alla prima parte della sua autobiografia, “Una specie di vita”:
“Ci si rende raramente conto di quanto breve è stata la carriera di Stevenson:
cominciò il suo primo romanzo (poi abbandonato) quando aveva 25 anni, ed è
morto a 44.
Benn
è del parere che “la consapevolezza di una fine imminente”, per salute debole o
minata, rende gli artisti più produttivi, e fa il caso di Schiller, Novalis, Chopin, Mozart.
Lunghissima
la lista di artisti in piena produttività a ottanta e anche novanta anni.
Guerra tedesca – Era la prima
guerra mondiale in Inghilterra, nei colloquialismi e nei giornali. Graham
Greene ha ancora “la seconda guerra Tedesca”, per la seconda guerra mondiale,
nel primo libro di memorie, “Una specie di vita”.
Interlingua – Il latino sine flexione del matematico Giuseppe
Peano – senza la declinazione. Un lessico latino liberato dalla flessione e
dalla sintassi – dai nodi sintattici. L’interlingua propriamente detta non ha
avuto fortuna, il nome sì. Interlingua è in glottologia la lingua che si sta imparando
– la seconda lingua – ma ancora non si padroneggia.
E una lingua internazionale ausiliaria, messa a punto nel 1951 dopo quindici
anni di studi linguistici dalla International Auxiliary Language Association.
Mette insieme l’interlingua di Peano, il vocabolario delle porti lingue
romanze, con apporti inglesi, tedeschi e russi – una lingua artificiale, che si
ritiene però di accesso facile, alle lingue romanze mescolando in larga misura
l’inglese.
Levante – Dal mercante libanese – o barese – a Samarcanda un mondo è stato cancellato, diverso ma attraente. Una rappresentazione diminutiva, tra la furberia e l’imbroglio, ma non malevola del Vicino Oriente. Dalle “Mille e una notte” a Loti in francese, e Flecker in inglese – con propaggini nei gialli, in Eric Ambler in inglese, e Yasmina Khadra in francese. Resiste solo, dopo il fondamentalismo islamico, nell’omonimo racconto di avventure del rumeno Mircea Čartārescu.
Marx
–
Si può dire autore postumo. Più noto in vita – poco - come capopartito. Meno
come scrittore. Il “Manifesto” sparì dalla circolazione subito dopo la
pubblicazione nel 1848. “Il capitale” fu ignorato all’uscita del primo volume
nel 1867: dopo quattro anni aveva venduto un migliaio di copie, scarso, a
compagni soprattutto di lingua tedesca. Fu tradotto in italiano – e in inglese -
solo nel 1886 (una traduzione preceduta dieci anni prima da un compendio di un centinaio
di pagine a opera di Carlo Cafiero, anarchico). Il secondo e il terzo libro
uscirono postumi, a opera di Engels, che assemblò e riordino centinaia di pagine
di appunti – il cosiddetto Quarto Libro sarà assemblato nel 1905-1910 da
Kautsky, col titolo “Teorie del plusvalore”. Le “Tesi su Feuerbach”, 1845,
furono scoperte alla pubblicazione (Engels) nel 1888. Altri testi importanti per
la lettura di Marx restarono ignorati fino agli anni 1920 - pubblicati e commentati
nella Mosca sovietica: “L’ideologia tedesca”, i “Grundrisse”. “I manoscritti economico-filosofici
del 1844”, di Parigi nel 1844, il testo che esaurì tutto il marxismo degli anni
1960, furono pubblicati solo nel 1959. L’unico scritto di Marx che ebbe qualche
eco in vita fu “La guerra civile in Francia”, il saggio storico-politico sulla
Comune di Parigi dopo la sconfitta con la Germania. .
Prefazioni
–
Scadendo i diritti d’autore di Pavese e quindi con la ripubblicazione libera di
poesie e racconti fra tutte le case editrici, l’editore storico Einaudi innalza
la dignità delle sue riedizioni facendole precedere dalla lettura di uno
scrittore contemporaneo. I presentatori di due opere di nuova edizione che è
capito di rileggere, però, Claudia Durastanti , “La bella estate”, e Domenico Starnone,
“Il mestiere di vivere”, non sembrano avere letto le cose che spiegano, forse
solo sfogliato. Ci scrivono sopra un racconto, anche attraente (Durastanti), ma
poco attinente.
Roulette russa – Graham Greene, che nell’autobiografia dice di averci “giocato” nell’autunno del 1923, quindi a 19 anni, nella pause in cui non si ubriacava, a Oxford, ne fa la storia in questi termini, avendola letta in un libro, “credo che l’autore fosse Ossendovski”: “Gli ufficiali Russi Bianchi condannati all’inazione nella Russia meridionale alla fine della guerra contro-rivoluzionaria, si inventavano sfide con cui sfuggire alla noia. Uno infilava un proiettile in un revolver e girava il tamburo a caso, un compagno puntava il revolver alla sua testa e tirava il grilletto. La possibilità, naturalmente, era di cinque a uno in favore della vita”.
Schwa – Dall’ebraico medievale, una mezza vocale, un suono cioè indistinto, graficamente una e girata di 180 gradi, che dovrebbe prendere posto alla fine delle parole per evitarne il genere, maschile o femminile. Adottato fra i linguisti in inglese, che già abolisce il genere negli articolo, i sostantivi e gli aggettivi, lasciandolo ai pronomi e agli aggettivi possessivi, va al posto, nelle lingue che declinano differentemente maschile e femminile, dell’ultima vocale. Un’applicazione del puritanesimo anglo-americano, che non declina il genere, che mette i difficoltà le lingue neo-latine, il tedesco, il russo, anche l’arabo. E altre.
Tigre – È contro Dio,
o ne è la prova? Viene in poesia con Wiliam Blake, quindi a fine Settecento, come
prova, volendolo, di Dio. E poi in Borges, “L’oro delle tigri”, 1972, come testimonianza
di bellezza, divina – l’oro è la luce che resta al poeta cieco. Ma si portava
anche a segno del contrario, secondo nota Gottfried Benn, che invece si vuole
schierare a favore, come già Blake e come f arà poi Borges, nella conferenza “Invecchiare
come problema per gli artisti”: “Esiste dunque qualche cosa che non sia
l’immagine di Dio? Questa per me sarebbe una novità, non escludo neanche la
tigre”.
letterautore@antiit.eu
Ecobusiness
Il metano, l’energia pulita che ci
liberava dal carbone e dall’olio combustibile, produce gas serra molto più
climalterante della CO2. Circa 80 volte peggiore. La protezione ambientale
andrebbe studiata e applicata non per interessi industriali, sia pure in
buona fede, o indotti dai finanziamenti pubblici, ma in un quadro complessivo delle fonti inquinanti, e dei rimedi.
Il metano è tra i maggiori colpevoli, per
un po’ di più di un quarto del totale, del riscaldamento del pianeta. Il secondo in totale, dietro la CO2, ma il primo
per concentrazione.
Pesano le esmissioni di merano nell’atmosfera
ai pozzi di estrazione e lungo le condotte, vecchie (è il caso della Russia, il maggior
produttore di metano) o mal tenute, nei rifiuti, p.es. in Indonesia, nell’agricoltura,
p.es. in Pakistan. L’agricoltura e l’allevamento emettono il maggiore quantitativo
di metano che si fissa nel gas serra. Dopo il settore energia: produzione,
trasporto, consumo.
Foscolo resuscitato
Foscolo
resuscita a sorpresa. Un editore molto impegnato sul nuovo e l’innovazione, nel
pensiero e nella scrittura, recupera Foscolo. Fra tutti, il poeta delle Grazie
e dei Sepolcri, e di Bonaparte Liberatore. Un editore milanese: sfidando i
fulmini di Gadda, Milano si ricorda di Foscolo. Lo scrittore che il secondo
Novecento ha buttato nel cestino, toltalmente, come opera, atti e persona, con
tutta la Dalmazia e le isole ioniche – Foscolo veniva da Zante, era “veneziano”.
Nemmeno le rituali celebrazioni risorgimentali lo menzionano più. Per ultimo se
n’è occupato Bigongiari, “Alle origini dello stile foscoliano”, una sessantina
abbondante di anni fa. O per penultimo, poi se ne è occupato Carlo Emilio
Gadda, per distruggerlo per i più diversi motivi, in un radiodramma Rai a metà
1958 – ma è una farsa, linguistica, e uno dei testi dell’ingegnere ammazzateste:
“Il guerriero, l’amazzone,
lo spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo”.
Nel
deserto del Millennio una strana fioritura. Un’edizione regalo, anche per sé
stessi, rileggere questi versi dimenticati è un piacere. Rilegata, bene
impaginata, impreziosita dalle illustrazioni di Marco Cazzato
Si
riprende il discorso dove si era lasciato? “Il Foscolo mi fa imbestialire”,
scriveva Gadda al cugino Piero mentre il radiodramma andava in onda. Un
radiodramma che è uno sfogo. Una delle bizze dell’Ingegnere, particolareggiata,
insistita - di “generosa bile”, dicono i suoi curatori. Contro la “lindura
faraonizzata” del poeta dei “Sepolcri”, e contro “la poesia dei Vati”, che si
fa il dovere in ogni epoca, sottolineava, di mascherare sopraffazioni e
violenze dei potenti. Detto di uno che se la cavava peggio di Gadda per non
voler essere suddito di nessuno?
Si può capirlo, Gadda era un collerico, e ne ha per molti. Per Napoleone il Nano, per il Kuce, Somaro, Mascellone, per i suoi
piccoli borghesi lombardi, nonché – a livello più alto – per le madri e le
ville in Brianza. Era spesso di
malumore, che invano tentava di stemperare con l’humour. Ma per Ma per il “Basetta” Foscolo, “il capobanda”, “il labbrone”, in modo particolare.
Scrivendone
a Bigongiari, al suo solito cerimonioso, per non scriverne – per non scrivere
dello stesso Bigongiari, “Alle origini dello stile foscoliano” – Gadda mostra
una unga dimestichezza con l’autore che rifiuta. E forse lo azzanna come cibo
attraente, compromettente. Foscolo gli era antipatico, diceva Gadda in una
finta intervista con il “Radiocorriere Tv” per presentare il radiodramma,
perché è “un campione del distillato spirito” dell’autore, di se stesso, “delle
sue ragioni e dei suoi umori”. La letura di Foscolo invece, dei “Sepolcri”, è
una sorta di scoperta: è aggraziata, piena di umori e, volendolo, di speranza.
Ugo
Foscolo, I sepolcri, Il Saggiatore,
pp. 56, ill. € 16
lunedì 11 ottobre 2021
Secondi pensieri - 459
zeulig
Arte - Ha diverso peso specifico, e
capacità di vincolo, la parola (poesia, filosofia, narrazione) rispetto al
segno (figurativo)? È più Limitata e limitante? La parola obbliga – chiusa,
completa, coerente. Lo scrittore forse non invidia il pittore, oggi il regista,
perché non ne ha le costrizioni materiali. Può volteggiare anche senza un
foglio di carta, mentre l’artista figurativo ha bisogno di moti elementi, e di
una luce frivola – incostante, inafferrabile, incontrollabile. Ma è, certo, se
non più libero nello strumento, sì nelle figurazioni e nei significati – la parola
è anch’essa come la luce, mutevole, in sé e nei costrutti.
Autofiction – Il genere
letterario nasce di fatto con Freud: il racconto di se stessi in analisi è ben
romanzato – tale lo vuole anzi il terapeuta: un racconto, il racconto in prima persona,
dal proprio punto di vista, per quanto inteso a rimuovere la rimozione, e tanto
più fantastico o fantasioso (sogni, visioni, effetti a sorpresa) tanto meglio.
Catastrofe ambientale – È sempre
dietro l’angolo, per il principio base della selezione naturale: la “lotta per
l’esistenza” è derivata dall’osservazione che gli organismi sempre si
moltiplicano a un ritmo “troppo” elevato, tale cioè da riprodursi in misura
superiore a quella che le risorse naturali possono sostenere – le risorse
naturali intendendosi “per natura” limitate.
Dio - È umano,
naturalmente, non c’è in natura. Sì, la selezione naturale, Lamarck, Darwin, ma
è anche essa a misura d’uomo, cioè di Dio – Darwin è la prova di Dio. Che ne
sappiamo noi dei miliardi (miliardi) di galassie, a distanze incommensurabili,
squarciate di continuo da esplosioni che poi si ricondensano? Nel vasto mondo,
insensato, Dio è impensabile – insensato. La fisica della complessità che oggi
si premia con Parisi ne ha la controprova.
Fotografia – È diventata
la “prova di esistenza in vita” che una volta le Poste pretendevano per pagarci
la rendita: fotografare, fotografarsi, meglio se con testimoni, i “selfie” con
chi capita, per ogni occasione. E anche storia, una sorta di monumento, per quanto
di luce, quindi variabile.
La pratica, ritenuta fino a pochi decenni fa esotica, quando era
esclusiva dei turisti giapponesi, intesa a eternizzare una realtà per loro
remota a cui però ambivano (occidentalizzarsi), è ora comune e universale. Fotografie
che quasi sempre non si rivedono: una pratica automatica. Come darsi corpo. Un tempo molte persone
di varia civiltà rifiutavano di farsi fotografare per non farsi rubare l’anima.
L’immagine è tuttora proibita nelle rappresentazioni sacre dell’islam. Ora si
direbbe il contrario: l’immagine – un’immagine qualsiasi – come prova di esistenza.
Non ce n’è altra evidentemente, la memoria (narrazione), la storia, anche
familiare, la pietra, tanto più che al cimitero si viene incinerati. Un mondo
di immagini è più o meno reale? Si direbbe derealizzato, considerato l’uso e il
senso che si legano alle immagini.
Memoria – È labile, per
definizione, per costituzione, e variabile. In un mood è una, in un altro mood
è un’atra – ma è variabile con tutti i possibili fattori, stato d’animo,
stagione, temperatura, compagnia, solitudine, euforia, tristezza. Il fondamento
più solido della più solida scienza umanistica, la storia. I ricordi non emergono,
galleggiano. Sono forme ibride e scomposte, frattaliche, a cui noi diamo grammatica
e sintassi, rigore grafico euclideo. Li organizziamo, diamo loro una forma e un
senso. Anche nella forma del visto e sentito – della testimonianza.
Mito – In uno degli ultimi appunti de “Il mestiere di vivere”, il
9 gennaio 1950, l’anno cominciato con i pensieri di morte (ben prima dunque
dell’innamoramento con Constance Dowling), Cesare Pavese si rimprovera “la
passione smodata per la magia naturale, per il selvaggio, per la verità
demonica di piante, acque, rocce e paesi è segno di timidezza, di fuga davanti
ai poveri e gli impegni del mondo umano”. Perché farsene una colpa? Del mito,
parlato (svuotato) o curioso (vissuto), del sogno a occhi aperti, della
(parvenza di) conoscenza ultima seppure non definitiva, e condivisa, popolare.
Il mito si direbbe realtà aumentata, e dunque il suicidio? Nel caso può essere
l’ossessione dell’impotenza sessuale, fisica o mentale, alla quale si riduce
per i tanti rifiuti – alla maniera di Nietzsche, e come per il filosofo non per
improntitudine o goffaggine ma per incapacità. Vedi il rifiuto sofferto da
parte di Constance, e subito dopo di Romilda Bollati, e prima, a cadenza
quinquennale, di Bianca Garufi, di Fernanda Pivano, di Tina Pizzardo.
Natura – È per definizione
(Malthus, Darwin) limitata. Come se fosse un dato di fatto inerte, non
estensibile. Oppure di capacità evolutiva limitata, inferiore a quella della
stessa selezione “naturale”, della capacità evolutiva cioè sua propria.
La natura Dürrenmatt, “L’incarico”, la immagina osservata, aggredita,
in una sintesi del quadro naturistico: “Mai l’uomo aveva osservato tanto la
natura che gli sta dinnanzi quasi nuda, priva di segreti, ed è sfruttata, le
sue risorse bistrattate”. Che per questo si difende. O si vendica? L’impressione
è c ertamente che si faccia “aggressiva, sotto forma di aria inquinata, terreno
contaminato, acqua freatica infetta,
foreste morenti, si tratta di uno sciopero, di un rifiuto consapevole di
rendere innocui i veleni, mentre i nuovi virus, i terremoti, le siccità, le
inondazioni, gli uragani, le esplosioni vulcaniche, eccetera sono atti di
difesa”. Di “difesa”? Il vulcano, e da
che? O il maremoto oggi tsunami? Il fulmine, la tromba d’aria, l’uragano? Che
“naturalmente” non c’erano quando l’uomo era inerme, e anzi piuttosto
naturalistico, adoratore della natura? La natura è sempre stata aggressiva – e
materna – anche quando l’uomo, pur avendo occhi e mani come oggi, la osservava
ma in adorazione, non pensava di aggredirla.
E consapevole? Una forma di razionalità c’è in natura in senso
quantitativo (calore, umidità, umori o veleni…), ma accidentale, nessuna teoria
del caos può configurarla, non teoricamente, se non appunto come accidentale:
la forma della nuvola come la tromba d’aria o il terremoto, o il tumore.
Idealizzare la natura è necessario, alla sopravvivenza – il pensiero
dell’essere che ne prescinde sarà per questo scivoloso, l’arrampicata sugli
specchi. Volendo, si può anche farne anche un dio, ma con juicio.
Probabilità – Il calcolo
delle probabilità è la constatazione (certificazione) dell’improbabilità.
Psicoanalisi – Si
autoalimenta. È una narrazione di sé, sotto forma di ricostituzione della
memoria, con la rimozione della rimozione, di ogni eventuale cancellazione. Una
storia – “vissuto”, sogni, preterizioni, perturbante o paura – che si costituisce
(si dice emerge, ma nasce, lo psicoterapeuta è una levatrice) con la memoria. Cioè
occasionalmente. A ogni stagione diversa, anche a ogni seduta, per
temperamento, meteoropatia, insonnie, buona o cattiva digestione, emicranie, perfino
raffreddori.
È la prima forma di autofiction.
La prima in assoluto no, perché ci sono sant’Agostino e Rousseau. Ma la prima
come genere. Genere letterario sotto la forma (entro la cornice) terapeutica. La
prima disinvolta, “liberata”, non più sottoposta a redattori editoriali, e anzi
a pagamento per essere più libera, per nulla costretta (rimaneggiata, rivista,
riscritta).
zeulig@antiit.eu
Globalizzazione – La lingua vi è irriducibile, secondo
Gottfried Benn. Come “coalizione globale” il poeta la anticipa in una conferenza
del 1954, “Invecchiare come problema per artisti” – già allora la comunicazione
si voleva globale, se non ancora istantanea. Eccetto che per la lingua, che è
irriducibile.
“La tecnica è l’argomento del giorno, e la gente
dice che bisogna integrarla, tutto deve stare in armonia: la lirica col
contatore Geiger, i vaccini con i Padri della Chiesa, guai a lasciar fuori
alcunché, altrimenti la coalizione globale è in pericolo. Anche la lingua le si
deve adeguare”. A questo il poeta non crede: “Quella che porta, cresce e opera
è una lingua che vive di se stessa, genera da se stessa; essa accoglie, ma
integra secondo la sua legge immanente”, i linguaggi scientifici, matematici,
motoristici, commerciali.
Infanzia – E d’uso evocarla, in letteratura,
al cinema, in analisi. Non una qualsiasi, osservabile. La propria. Editori e
terapeuti insistono. Si aguzzi la memoria. Deducendo, da ogni sia pur vago
indizio. Contestualizzando, in realtà storiche, familiari, amicali, memorialistiche
(di nonni, bisnonni, personaggi eponimi, tradizioni) il ritorno all’infanzia,
con qualche fondo di verità. Un’esplorazione da condurre secondo un disegno, con
la consapevolezza e la determinazione, non un ricordo, o un sogno. Un ritorno
sempre vigile. E sottoposto a un controllo rigoroso, il più possibile. Ma
partendo dalla, coda: per un fine (teraeutico, narrativo, suggestivo) non per
la verità – che probabilmente è piana e non fa storia.
L’autore è un cannibale
L’amicizia
come cannibalismo. Anche la scrittura. Reciproco, fra personaggi e autore. Non
materiale, mentale, ma con lo stesso effetto: qualcuno scompare.
Sceneggiato,
parlato e ambientato come un film di
Woody Allen (un altro, dopo il tedesco
“Divine”). Un cinema da camera. Sul filo non nuovo dell’autore come cannibale. Un
film teatrale, come molti di questo anno e mezzo di clausura: in ambienti
ristretti, con pochi personaggi, quindi parlato, molto, e tuttavia vivace. Un
palcoscenico per le protagoniste, soprattutto Meryl Streep, diminutiva, soave
mattatrice, Candice Bergen, gonfia e cattivissima (fu modella e fotografa, attrice bionda fidanzata a Kissinger nel 1973, per fugarne i sospetti di omosessualità, e la
moglie di Louis Malle), Dianne West.
Alice
Hughes, scrittrice celebre e ora afasica, deve andare in Europa. In
pellegrinaggio alla tomba di Blodwyn Pugh, che Facebook dice scrittrice gallese
di fine Ottocento-primo Novecento, come dire della scrittura fine a se stessa,
senza audience. E per ritirare un premio
– un progetto-disegno dell’editore per tentare di “muovere” i suoi libri, in classifica e al banco. È una
scrittrice piuttosto attenta, non l’artista tra le nuvole – si occupa di un nipote,
che ha tirato su come un figlio. Ma con strane lentezze. In Europa non può
andare perché non può prendere l’aereo. L’editore opta allora per la nave. Lei acconsente
ma vuole poter fare il viaggio con due amiche di gioventù. È l’avvio di una
vicendevole scoperta di funzioni cannibaliche. Che il finale rivela, rivelando
la vera ragione del viaggio sulla “Queen Mary”.
Steven
Soderbegh, Lasciali parlare, Sky
Cinema
domenica 10 ottobre 2021
Problemi di base postali bis - 662
spock
Perché le Poste ce l’hanno con gli
italiani?
È il governo che dà alle Poste questo
compito, in convenzione?
Perché le Poste consegnano regolari i
bollettini di Sant’Antonio, e le lettere quando capita?
Dove vanno a finire le lettere non
consegnate?
Il-la postino-a passava una volta a
settimana, ora non più: troppi secondi-terzi lavori?
È necessario – è possibile – un movimento
di liberazione dalle Poste?
Si dice Poste nel senso di impostare, cioè
mandare, e per ricevere?
spock@antiit.eu
Ecobusiness – si fa presto a dire elettrico
L’auto elettrica è capital intensive, ha bisogno di molto capitale, e non più labour intensive. L’investimento richiesto
a ogni fabbricante di auto è nell’ordine dei miliardi di dollari. E lo stesso
per tutta l’industria automotive, dovendosi
spostare la componentistica dalle produzioni metalmeccaniche a quelle di
semiconduttori, sensori, sistemi informatici. Con una diversa qualificazione
del personale, ovviamente, e con numeri di occupati mediamente dimezzati, per unità
di prodotto. Due distinte previsioni tedesche concludono a un dimezzamento dell’occupazione
entro il 2030. Su 830 mila occupati nell’automotive
tedesca oggi, 400 mila potrebbero aver perduto il posto nel 2030, secondo
l’agenzia di consulenza del governo di Berlino, National Platform Future of
Mobility. Analogamente il centro di ricerca privato Car, sempre in Germania: la
mobilità elettrica porterà 109 mila nuovi posti di lavoro entro il 2030, e ne
cancellerà 234 mila.
Il passaggio dell’automobile dal
segmento metalmeccanico a quello elettronico procede a ritmo accelerato: l’incidenza
dell’elettronica sul costo totale dell’auto, che è oggi del 35 per cento (era
il 20 per cento nel Duemila), sarà a fine decennio del 50 per cento.
Le applicazioni elettroniche di cui
necessita un’auto elettrica vanno coordinate da software molto più complessi di
un cacciabombardiere di ultima generazione, l’F-35, o di un Boeing 727: un’auto
segmento premium necessita di 100 milioni di linee di codice d’informazione, l’F-35
di 24 milioni, il Boeing di 6 milioni e mezzo.
L’amore è nelle mani di Dio
In
una Roma ambiguamente bella, alla Sorrentino della serie “The Young Pope”, nelle ore di un conclave, quindi con sfoggio di
rosso cardinale, il racconto di un amore e di un Dio biblico. L’amore è semplice,
diretto, a prima vista, tra due giovani – l’inviato al conclave di una tv
americana e la ragazza che abita nell’appartamento con terrazza che la sua
produttrice ha scelto come sfondo per alcune corrispondenze. La produttrice ha
scelto varie location per le corrispondenze:
un carcere, un laboratorio, la terrazza con vista gloriosa sui tetti e il comignolo
del conclave fumante. Ma Dio sembra rovinare tutto. Imperscrutabile, e
probabilmente geloso, prima toglie tutto ai due amanti, perfino la salute a
lui, oltre al passaporto, il cellulare, il portafoglio, la camera d’albergo –
mentre lei rinuncia all’amore per farsi suora. Poi restituisce tutto. Non c’è morale
– la morale è che non c’è morale: Dio è capriccioso.
Una
lezione, se si vuole, anche alla miscredenza che il giovane giornalista
professa. Un tema serio - il titolo originale è “Der göttliche Andere”, l’Altro
divino - con piglio giocoso: del destino biblico, geloso, anche cattivo, e
remunerativo. Impermeabile. E della felicità che arriva quando vuole,
improvvisa, e improvvisa se ne va, o ritorna. Morale anche ambigua, poiché dal
male nasce il bene sotto forma di un suicidio.
Sempre
come Sorrentino, il regista tedesco ha scelto come caratteristi attori di teatro,
Anna Bonaiuto, Bonacelli, Maurizio Marchetti, Pino Ammendola, Tommaso Ragno. E la
storia, per quanto girata in fretta a basso budget, si erge ad apologo
memorabile – un po’.
Jan
Schomburg, Divine, la fidanzata
dell’altro, Sky Cinema
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