sabato 23 ottobre 2021
Ombre - 584
Il leader dei no vax al porto di Trieste, Buzzer, si fa sconfessare dai portuali perché la butta in politica: è 5 Stelle e punta alla carriera politica. Non è solo, il caso è anzi comune – si vede a Roma, p.es., nei licei in agitazione stagionale, dove capetti e ducetti in petto fanno le “dichiarazioni” come da copione su Instagram e tv. Si direbbe che la politica abbia un grande potere di attrazione. Mentre è miseranda, non da ora. Le due cose si collegano, è la politica ridotta al “ducismo”, alla gloriola.
Combattenti tedeschi per l'Italia
Anche
nelle guerre tedesche c’è un aspetto umano. Nella prima, 1914-18, non dissimile da quello dei milioni di altri
fanti, italiani o francesi, impantanati nelle trincee. Nella seconda alla Linea
Gotica, per esempio. Che fu teatro di guerra, oltre che di rappresaglie – al passo
della Futa il cimitero tedesco ospita 30.683 salme.
Nella
Resistenza tedesca al nazismo, che fu forse numericamente la più ampia in tutta
Europa, dal 1933 al 1945, anche se la meno efficace, c’era pure la Wehrmacht.
Non l’istituzione Esercito, ma numerosi soldati. Che nel 1943 in Italia, e
prima ancora in Francia, in Belgio e in Olanda, anche in Polonia, avevano scelto
di disertare. “Disertori tedeschi nella Resistenza italiana” è il sottotitolo di questa
raccolta.
Al conteggio, per
quanto di malavoglia, circa 300 mila tedeschi hanno disertato sui vari fronti tra
il 1939 e il 1945. Non era una scelta di furbizia: rischiavano la pena
capitale. Un decimo sono stati processati per Fahnenflug , fuga dalla bandiera, reato punibile in guerra con la fucilazione,
e successivamente con pene comunque rilevanti. In Italia, tra fine 19543 e primi
1945, un migliaio di soldati tedeschi della Wehrmacht, qualcheduno
della Kriegsmarine o della Luftwaffe, scelsero di disertare. Nascondendosi
oppure, in maggioranza, unendosi ai partigiani italiani. Erano slavi per lo più, ma
anche tedeschi e austriaci. Il capitano di vascello Rudolf Jacobs guidò
numerose azioni di Resistenza, finendo morto in combattimento in Lunigiana. Un
gruppo di marconisti, “i cinque di Albinea”,
operarono per la Resistenza nella zona di Reggio Emilia – catturati nell’agosto
del 1944, furono fucilati. Sulle Alpi, in Carnia e in Val Passiria, si
formarono distaccamenti di disertori, nell’ambito della Resistenza. Coinvolti
nella Liberazione furono anche alcuni civili tedeschi in Italia – fra tutti si
ricorda il futuro traduttore di Primo Levi, Heinz Riedt.
Qualcuno è poi rimasto in Italia, integrandosi
nella comunità locale dove aveva disertato. Molti sono morti. Altri hanno affrontato un
difficile dopoguerra in patria: la diserzione, quale che sia il motivo, è causa
di disonore, nella psicosi della “pugnalata alla schiena”, il teorema
complottistico tedesco – la Germania non perde le guerre, se non perché è tradita,
da generali, comunisti, disfattisti, da chiunque. Ed è punita di diritto,
anche a distanza di tempo: le pene per i disertori sono state ridotte solo una
ventina d’anni fa, il processo di riabilitazione per i disertori politici si è
concluso solo ne 1917, quando tutti erano morti, o quasi.
Resta questa così, dopo tre quarti di secolo, “una
storia insolita” per Luz Klinkhammer, lo storico italianista che
dirige a Roma l’Istituto storico germanico, pioniere anche di questi studi (“L’occupazione
tedesca in Italia” e “Stragi naziste. La guerra contro i civili 1943-1944”). Carrattieri e Meloni, storici
contemporaneisti a Bologna, raggruppano e presentano una dozzina di ricerche
locali, di personaggi e situazioni particolari, a Sarzana, Cuneo,
Genova, in Maremma, Carnia, Alto Friuli, Parmense, Oltrepò pavese. Con un paio di saggi fuor tema, sulla
diserzione “intellettuale”, dello scrittore Alfred Andersch e del pittore
Walter Fischer. Una serie di microstorie, perché ogni situazione, si può dire,
fu diversa, specifica, È una storia difficile da recuperare, per lunghi anni
non è stata semplice anche per la diffidenza verso “il tedesco”: molta
Resistenza non era organizzata politicamente, si faceva per reazione, d’istinto,
contro l’occupazione – e contro “il tedesco” - anche prima dell’8 settembre.
Manca
il caso più celebre, anche più significativo: quello del figlio primogenito di
Ernst Jünger, Ernstel, confinato in una compagnia di disciplina, con i
delinquenti cioè, a 18 anni, dopo un processo per disfattismo e una condanna a
sei mesi, per non aver professato il nazismo, trovato morto sempre diciottenne
durante un rastrellamento partigiano sulle alture di Codena, sopra Carrara. I
partigiani, che cercavano chi aveva dato il colpo di grazia a uno dei loro,
dentro un cespuglio trovarono due morti tedeschi. Uno era Ernstel Jünger. Un
oppositore del nazismo combattente per
una guerra di occupazione, quella tedesca in Italia dopo l’8 settembre. Ma
ucciso da un colpo alle spalle: erano stati i partigiani, nel precedente
scontro a fuoco, o un “fuoco amico”?
Mirco
Carrattieri-Iara Meloni (a cura di), Partigiani della Wehrmacht, Le Piccole Pagine, pp. 359, ill. €
20
venerdì 22 ottobre 2021
Secondi pensieri - 460
zeulig
Amore - È bellezza. Cioè una proiezione
felice di se stessi. Ci innamoriamo di, ammiriamo, onoriamo la bellezza. Di una
persona, un elemento, una veduta. Cioè di un’immagine, che è nostra – la persona
può non rispondere ai canoni, peraltro mutevoli, della bellezza, di persone
giovani e di persone mature, dei luoghi c’è l’amore del semplice, del
geometrico (il palazzo, il giardino all’italiana), del pittoresco, dell’orrido.
Ammiriamo, onoriamo, ci
innamoriamo - o disamoriamo quando non proiettiamo più sull’oggetto dell’amore
l’immagine della bellezza – per motivi soggettivi, anche quando li vogliamo
oggettivi (un niente può rompere l’incanto, una frase, un suono, uno sguardo).
Autenticità – Eigentlichkeit , autenticità, è in
tedesco ciò che si possiede in proprio, in primo luogo se stessi. È all’origine
liberarsi dal “cane da maiale” interno.
Il “gergo dell’autenticità”, dileggiato da Adorno nell’opera omonima
(“Il gergo dell’autenticità”) è fatto risalire da Johann Chapoutot, “La norme
nazie à l’école de l’antiquité”, a una pratica e a un’espressione di caccia
antica, “liberarsi del cane da maiale interiore” – espressione “utilizzata dai nazisti
e ancora molto corrente in Germania”. Liberarsi da tutto ciò che indebolisce il
carattere: “L’espressione (liberarsi dal cane da maiale interiore, n.d.r.) è
derivata da una pratica cinegetica antica, che consiste a stancare il cinghiale
(maiale selvatico) con i cani da caccia, fino a che sia troppo stanco per
fuggire o per caricare. Lo Schweine-Hund,
il cane da maiale, così utilizzato è l’animale che consegna il combattente al
suo boia. Metaforicamente, il «cane da maiale interno» è ciò che indebolisce il
carattere. Corrente nelle SS, l’espressione è oggi in voga nei centri sportivi
urbani…”
Automobile – L’oggetto
epocale. La “cosa”, il feticcio. Che ha dominato il Novecento e ora si tenta di
domare - derubricare dal piedistallo e quasi dalla beatificazione (la velocità,
il viaggio, l’annullamento dello spazio). Richiama il mito d Fetonte, il figlio
del dio Elio, il sole, che chiese al padre e ottenne di poter guidare il carro
del Sole, ma, perduto il controllo dei cavalli, incendiò mare e terra – finché
Giove non lo uccide con un fulmine.
Beatitudine – Può essere –
è in Rilke – Seeligkeit, piuttosto
che Seligkeit: cioè qualcosa che ha
da fare con l’anima, e quindi col “divino in noi” (Rilke è di religiosità profonda
e vasta, perfino invadente, anche nei concetti che si penserebbero più remoti,
eros, polemos, natura). Un approccio – un legame – che è della stessa parola nel
corrispondente italiano.
Darwinismo – La Bibbia si
può dirne la base, nel “Genesi” e dopo: l’uomo viene dopo gli altri animali, ed
è fatto di fango. Viene a capo di una evoluzione, ed è prodotto della terra.
Denaro – Ha potere
assoluto, in senso metaforico e metafisico prima che politico o di forza? Così
Marx lo tratteggia nei “Manoscritti economico-filosofici del 1844”, commentando
come soleva, da filologo mancato, il “Faust” di Goethe. Là dove Faust si
consola: “Ah, diavolo! Certamente mani e piedi,
testa e sedere sono tuoi! Ma tutto quello che io posso godermi allegramente
non è forse mio?” In particolare il denaro,
grazie al denaro: “Se posso pagarmi sei stalloni, la loro forza non è
forse la mia?”. Col commento: “Le caratteristiche del denaro sono le mie stesse
caratteristiche e le mie forze essenziali, cioè sono le caratteristiche e le
forze essenziali del suo possessore. Ciò che io sono e posso non è quindi
determinato dalla mia individualità. Io sono brutto ma posso comperarmi la più bella
tra le donne. E quindi io non sono brutto,
perché l’effetto della bruttezza, la
sua forza repulsiva, è annullata dal denaro”.
Ermeneutica – Non c’è
niente come l’insensato per produrre interpretazione”, U. Eco (“Non sperate di
sbarazzarvi dei libri”), l’autore del trattato sull’interpretazione.
Erotismo – Si autocelebra,
è autoerotismo in Platone come in Rilke. Nella riflessione (argomentazione,
lirismo, Accensione-invasamento), cioè nell’autosuggestione. Ciò ne spiega la
brevità, connessa all’intensità, l’occasionalità (abruptness, amour fou),
l’intercambiabilità (di fisico, viso, sguardo, voce, allure). L’Altro è una sorta di pietra focaia, su cui accendersi di
scintille, colorate, calorose e labili - qualcosa più di un botto, ma di meccanismo
analogo: riempito e sigillato alla stessa maniera, per esplodere e finire.
Europa – Tra Stalin e
Hitler, 1933-1953, venti anni appena del secolo XX, cento milioni di morti per
violenza sono state censiti. Più, forse, che in tute le guerre della storia, la
Prima cruentissima guerra mondiale compresa. La civiltà europea è - è stata - l’anticristo
all’opera? La religione statale, statalista?
Fine del mondo – È
fantasia occidentale? È biblica – dal diluvio. E ricorrente. È sintomatico che
ricorra, come oggi, in periodi di massima affluenza storica – di affluenza
(ricchezza, sicurezza, benessere) maggiore che in precedenza, nuovo record. È
una forma di scongiuro, apotropaica? C’è un bisogno di sentirsi-essere insicuri
per garantire il futuro?
L’ideologia della crisi non è un’ideologia, è un dato, un modo di
essere. Un sedimento utilitaristico: prepara e consente il futuro, in un percorso
elicoidale di progresso-soddisfazione-crisi-progresso.
Gioconda - L’equivoco
del dipinto è nel nome. “Mona Lisa” non è propriamente gioconda. Ha la posa e
l’espressione della Sfinge del Cairo. Come Leonardo non la conosceva ma come l’ha
vista, vissuta e descritta Rilke, e di fatto per ogni osservatore.
La stessa sensazione di Rilke si può presumere che Leonardo abbia vissuto
altrimenti. A nche non nella situazione di Rilke – viaggio (spaesamento),
tramonto, notturno lunare, spazio vuoto di turisti, che l’espressione della
Sfinge traducono in luce incerta, in suono inarticolato.
Ideologia – Si può dirla
radicata, antropologicamente. La Russia, che sembrerebbe essere stata patria
del sovietismo (la rivoluzione marxista-leninista) per caso, a trent’anni di
distanza dal sovietismo continua a considerarsi, oltre che a essere
considerata, inassimilabile – al mercato, al liberalismo, all’Occidente. Il Vietnam
invece, che ha combattuto una guerra lunga e cruenta contro il capitalismo e il
liberalismo, vi si è subito adattato. La Cina, pur essendo controllata d a un
partito Comunista molto intromettente, non ha visto l’ora di adeguarsi al
mercato più liberista.
Immagine – È soggettiva,
direttamente, senza infingimenti: il nocciolo nudo della conoscenza – la
conoscenza in immagine invece che in parole. In disegno, pittura, scultura,
anche in pellicole, è come nella scrittura: una proiezione. Una creazione,
l’immagine è interiore. Anche quella della vista, di una persona, un ambiente,
un evento. È la “immagine del cor” di Michelangelo, come nota Hillman, lo
psicagogo dell’immagine, dell’immaginazione al comando (James Hillman-Silvia
Rochey, “L’ultima immagine”) – “Amor, la tua beltà non è mortale:\ nessun volto
fra noi è che pareggi\ l’immagine del cor, che ‘nfiammi e reggi\ con altro foco
e muovi con altr’ale”.
Infanzia - E d’uso evocarla, in
letteratura, al cinema, in analisi. Non una qualsiasi, osservabile, la propria.
Aguzzando la memoria – la memoria aguzzina? Deducendo, da ogni sia pur vago
indizio. Contestualizzando, “realtà” storiche, familiari, amicali, memorialistiche.
Il ritorno all'infanzia, con qualche fondo di verità, esplorando il più
possibile con consapevolezza, oltre che determinazione, non è il ricordo di un
sogno. È un ritorno sempre vigile. Specie quando è sottoposto a un controllo
rigoroso, il più possibile.
Riso – È sociale, una
forma di condivisione? Umberto Eco: “Si veda un film comico da soli. Non si
ride” (J.-C.-Carrière-U.Eco, “Non sperate di liberarvi dei libri”). Ma un libro
comico – ce n’è, anche di Eco –si legge quasi necessariamente da soli. E si
ride.
zeulig@antiit.eu
Annie erotica
Una
riscrittura. Di un incanto, una possessione, una stregoneria. L’incapricciamento
di un anno per un uomo più giovane, semisconosciuto. O l’amore carnale, di
desiderio pieno. Con un corpo, più che con una persona. Una malia, una magia. La libertà sessualità infine guadagnata dalle donne, da una donna - non la promiscuità, il piacere. Una
storia vera, o forse no, è un esercizio di scrittura, “stai a vedere come ti
sdogano il porno”, ma il lettore ne è a sua volta incantato - la verità della
cosa, sia pure un commerciale succès
de scandale, passa in secondo piano.
Annie Ernaux prova a raccontare l’erotismo come lo si vive, riempiendo le attese
e gli incontri dei gesti e gli atti del sesso, e ci riesce: il sesso scritto qui funziona,
in questo che è probabilmente l’unico suo racconto non tradotto.
Nel
1989, mentre l’Urss crollava, ma il lettore può non saperlo, non se ne dice niente, sapiente
anti-climax, il racconto lungo, dettagliato, del desiderio-bisogno di un rapporto sessuale che la narratrice-autrice,
trattandosi di un diario, avrebbe vissuto
con un russo non identificato, di cui sappiamo solo l’iniziale, S., alto, glabro, e quindi magico a toccare, la pelle e le
voglie di un ragazzo, l’interprete-spia, come allora usava, incontrato in un
viaggio in Urss a fine 1988, che poco dopo emerge a Parigi, all’ambasciata, a non
precisate attività culturali. Lei cinquantenne, lui di una dozzina d’anni più
giovane. Hanno fatto l’amore con trasporto, con violenza, senza una parola, l’ultima
notte che la narratrice ha passato a Leningrado, ne riprendono la pratica a
Parigi. A scadenze non fisse, il giorno e l’ora all’umore di lui, ma ogni volta
con trasporto pieno, di lui e di lei, senza soste, pure in piedi per la fretta,
sul pavimento, sul divano, nello studio, di lei o di uno dei suoi due figli. E
non si ride, si partecipa.
Ogni
minuto lei vive, anche nella vita ordinaria, sulla metro, a passeggio, al
supermercato, nel pensiero di lui, un’ossessione, dolce. Anche quando, cioè sempre,
lui si fa desiderare – non c’è modo per lei di attivare il rapporto, le cose
succedono quando decide lui. Un rapporto allora di dipendenza? No, nemmeno
questo: è l’assoluto del desiderio, ingovernabile. Forse troppo ben scritto per
essere un racconto diaristico come pretende, dal vivo. Ma il lettore non lo sa.
Questo
“Se perdre”, perdersi, titolaccio alla Yvonne Samson, è il rifacimento, dieci
anni dopo, nel 2000, di “Passione semplice”, la storia breve della stessa
avventura scritta nel 1990, a ridosso dei fatti (ma il film di Daniele Arbid
sulla vicenda “L’amante russo”, “Passion simple” nell’originale francese, è
sceneggiato su “Se perdre”, nei limiti del visibile). Molto più lungo della
prima versione, cinque-sei volte, con molti dettagli e con molte riflessioni. E
più nella cifra di Ernaux, della storia vera, raccontata sui diari.
L’artificio
è qui manifesto: non c’è diario così esteso, per quanto la passione possa volersi
ingombrante, eccessiva. Ma l’effetto è sorprendente: è il solo racconto
erotico, di potenza a sua volta eccitante, che si possa probabilmente leggere in
letteratura. Ed è scritto da una donna – le “Sfumature” di mano femminile di qualche
decennio dopo, pur collocandosi per programma nel pornosoft, sono acqua
fresca.
Con
S. (A. nella prima redazione) ha superato ogni limite, la narratrice confessa
nella prima redazione della vicenda, “Passione semplice”: “Grazie a lui mi sono
avvicinata al limite che mi separa dall’altro, al punto d’immaginare talvolta
di oltrepassarlo. Ho misurato il tempo altrimenti, con tutto il mio corpo. Ho
scoperto che si può essere capaci come dire di tutto”.
Chi
è S., “addetto culturale” senza cultura? Ma lui, che non parla mai, mezza frase
la dice: “Lavoro nela sicurezza. Cose importanti, di uomini importanti. È
complicato”. Comunque non interessa: è un corpo, agile, alto, muscoloso e a pelle,
col quale lei fa l’amore senza riguardi, anche se non è bello, usa slip russi
ridicoli, che si sfilacciano, e non si toglie i calzini, notazione rituale (ma
in “Passione semplice” al rito della rivestizione dice che se li era tolti –
“Lo guardavo abbottonare la camicia, infilare i calzini…”). E non ha nome. Un
destino più che un uomo. O il sogno di un desiderio: la narrazione degli incontri,
delle attese, del contatto fisico immediato, degli amplessi concitati è inframezzata,
sottolineata, prolungata dai sogni – la narratrice na fa due e tre per notte.
“Questa derealizzzione conferita dall’iniziale”, S., avverte l’autrice nella
nota che precede la pubblicazione del “diario”, “mi sembra corrispondere a ciò
che quell’uomo è stato per me: una figura dell’assoluto, di ciò che suscita il terrore senza nome”.
Ernaux
ha insegnato per molti anni le letterature, e si sente. Ma la lettura è possessiva
anch’essa, ipnotizzante.
Annie
Ernaux, Se perdre, Folio, pp. 377 €
8,60
giovedì 21 ottobre 2021
Problemi di base femminili di dizione - 665
spock
Perché le attrici italiane, anche le
doppiatrici, non vanno a scuola di dizione?
Perché bofonchiano, pensano che parlare
indistinto sia imitare la vita reale?
Perché i registi, produttori, dirigenti Rai, Mediaset, Sky,
Netflix, Amazon, Disney non le correggono?
Siamo in tempi di #metoo, cosa ci sperano –
i produttori, registi e dirigenti?
Anche le registe, produttrici e dirigenti
donna?
E dunque, cosa aspettano, la scuola non è
ricominciata, dal vivo?
spock@antiit.eu
Andare all'inferno con Dante - ma viene meglio scritto
Dalle
figurazioni dell’“Inferno” di Dante, dipinti, incisioni, disegni, miniature,
sculture, con due film muti dei primi anni 1920, a quelle del diavolo, fino
alla guerra, il carcere, la fabbrica, il manicomio. Per ultimo le stelle, in qualche
dipinto o incisione, nei versi di Leopardi e di Rilke, e nelle immagini in movimento del firmamento con il
telescopio spaziale Hubble.
Un
viaggio figurativo del Male, in età moderna e contemporanea. Dal Beato Angelico
alle incisioni di Goya e di contemporanei spagnoli e catalani. Clair, storico dell’arte
(“Critica della modernità”), Accademico di Francia e curatore di mostre, ha voluto ricordare in questo
modo il centenario di Dante, di cui si sono concluse le celebrazioni.
Una
mostra che fa epoca. E per più aspetti sorprendente, con la “Caduta degli angeli ribelli” di
Andrea Commodi, primo Seicento, un dipinto e un pittore tenuti nelle segrete
degli Uffizi, che la mostra squaderna anche in rilievo 3D, o col “Diavolo”
frontale monumentale di sir Thomas Lawrence, tardo Settecento: un tripudio di
corpi maschili in ogni posizione. Ma, indirettamente, è un omaggio alla
parola di Dante, rispetto alle immagini che pure tanti artisti di nome hanno
provato a ricavarne – la lista dei nomi che le Scuderie e gli organizzatori possono
vantare è lunga, ci sono anche Rodin, con grandi progetti, Bosch, Breughel il
Vecchio, i napoletani Salvator Rosa e Monsù Desiderio, Delacroix, Bouguereau,
Manet, Balla, Otto Di, et al. - ma
forse poco ispirati.
Jean
Clair, Inferno, Scuderie del
Quirinale
mercoledì 20 ottobre 2021
Letture - 470
letterautore
Classico – È l’arte della
fanciullezza, della fanciullezza dell’umanità, argomenta Marx nei cosiddetti Grundrisse, l’“Introduzione alla critica
dell’economia politica” del 1857: l’arte greca nacque nell’epoca della fanciullezza
dell’umanità, in uno stadio insieme poco evoluto e sorpassato, che non può più
tornare, ed è per questo che continua a suscitare in noi un godimento estetico,
e insieme anche un canone e un modello.
Contestabile, la “fanciullezza dell’umanità”,
ma rende l’idea.
Dante – È anche erotico. Un’icona gay, occulta, almeno nella prima camntica? La mostra “Inferno”, in corso alle Scuderie del Quirinale, di dipinti e incisioni, montata da Jean Clair, il “critico della modernità”, esibisce una serie formidabile di nudi maschili, rappresentati liberamente, lubricamente, in ogni posizione. A partire dal dipinto subito all’ingresso, la “Caduta degli angeli ribelli” di un Andrea Commodi, che gli Uffizi hanno tenuto in cantina fino a oggi, una sarabanda lubricissima di nudi maschili – che Clair ha fatto scolpire a tutto tondo, la tela svolgendo in un cilindro animato. O al finale, gigantesco, “Satana schiera le sue legioni”, un frontale monumentale che sfida il miglior regista porno, di Thomas Lawrence, sir per il re Giorgio III.
Non
c’è stato sempre. Il Seicento figura “secolo senza Dante – solo tre edizioni
della “Divina Commedia” e niente di altro. Per quasi due secoli, da fine Cinquecento
fino a quasi tutto il Settecento: riscoprono Dante il tardo illuminismo e il
primo romanticismo.
Dante è peraltro la “Divina Commedia”. Che
anch’essa era nata in sordina, benché subito notata, come “Comedia”. Divina poi
nel commento di Boccaccio. L’aggettivo entra nel titolo, in copertina, nell’edizione
a stampa di Ludovico Dolce per l’editore Giolito a Venezia, nel 1555. Per
subito poi cadere nell’oblio.
Dorian Gray – È un capostipite, di molti ritratti analoghi – ogni grande autore di Fine Secolo, tra Fine Ottocento e primo Novecento, ne avrà uno, ma della letteratura germanica: Malte Laurids Brigge (Rilke), Törless (Lusil), Tonio Kröger (Th.Mann – ma anche Tadzio, per aggiungere ambiguità al mito dell’Autore, già robusto ma grave, bloccato sui “Buddenbrook”), il “figlio” di tanto Thomas Bernhard. Sulla traccia del “Wilhelm Meister” – anche il Bernhard anti-Goethe. Un racconto di formazione, ma più in forma di ritratto che di eventi. E un po’ morboso, come voleva Fine Secolo – il prototipo Oscar Wilde avendo costruito sulle fantasie paraestetiche, o paramistiche, di Huysmans, “À rebours” – “Controcorrente”.
Germania – È la “Sassonia” di Gadda, di molti suoi borborigmi.
Giro di posta – Si diceva della lettera che arrivava il giorno dopo e veniva risposta con la stessa velocità, subito – “a giro di posta”, “a stretto giro di posta”. Da tempo desueto, almeno nel sistema postale italiano, dove le lettere, anche raccomandate, arrivano quando capita, dopo un giorno, una settimana, un mese. La mail ha sostituito il “giro di posta”, ma non è la stessa cosa: di utilità impensabile per la comunicazione istantanea, ma non più per quella scritta – si può scrivere anche elettronicamente riflettendo, ma il mezzo non si presta, con whatsapp si va sintetici, con la mail veloci, poco riflessivi.
Intellettuale – In francese il Petit Robert lo attesta nel 1265, come derivato dal basso latino intellectualis, nel senso di spirituale e morale, e anche di mentale. Come l’italiano. In entrambe le lingua come aggettivo. Come sostantivo è del tardo Ottocento. In tedesco la parola nasce prima, con gli Intelligentzblätter, giornali locali, quasi tutti ufficiosi, di proprietà del principe, che nel Settecento e nella prima metà dell’Ottocento ebbero l’esclusiva della pubblicazione degli annunci economici.
Italiano – Cent’anni fa,
nell’ottobre del 1921, dal 17 al 28 ottobre, Einstein tenne a Firenze una serie
di lezioni e seminari, invitato dal matematico Federigo Enriques, in italiano.
L’italiano aveva parlato da ragazzo, vivendo con la famiglia a Pavia, dove gli
Einstein erano comproprietari e gestori della fabbrica elettromeccanica
Einstein&Garrone. La famiglia di Albert si era trasferita da pochi mesi a
Milano, e successivamente a Pavia. Dove abitò palazzo Cornazzani, un fabbricato
con giardino, di origine medievale, già residenza per un periodo di Foscolo. Albert, quindicenne, era stato lasciato a Monaco
a proseguire gli studi, in preparazione all’ammissione al Politecnico di Zurigo.
Ma entrò in urto con gli insegnanti del Luitpold Gymnasium, che non lo
appezzavano, simulò un esaurimento nervoso, e lasciò la scuola per Pavia. Dove
arrivò, pare, all’insaputa dei genitori, e vi trascorse l’estate dei suoi
sedici anni. Una lunga estate, preparando da solo l’ammissione al Politecnico,
dove fu accettato, ma abbastanza evidentemente per imparare l’italiano. Di una
compagna di svaghi estivi, Ernestina Marangoni, della vicina Casteggio, amica
della sorella Maja, rimase amico tuta la vita.
Nomi
-
Si scrivono i nomi degli immigrati africani e asiatici, anche di seconda
generazione, con la grafia francese o inglese del colonialismo. Assurdo, anche
se sono così segnati nei passaporti di origine - nei paesi ex-colonie dove
ancora si pratica il bilinguismo.
Assurdo anche perché il politicamente
corretto emerge come ipocrita. Dovrebbe essere interesse degli immigrati farsi
correggere la grafia del nome, invece di esibirla come una sorta di patente di
nobiltà – io sto in Italia ma vengo da un paese “inglese” (inesauribile “invenzione
della tradizione”, un altro capitolo).
Poe – Si può dire
creazione o scoperta francese. Dopo Baudelaire, Mallarmé e Valéry, che lo hanno
proclamato scrittore eccelso. Mallarmé è autore di un celebre sonetto “La tomba
di Edgar Poe”. Dopo averlo detto il primo e il migliore dei contemporanei. “Il
poeta americano ha, da vent’anni, suggerito una parte delle impressioni di cui vivono
gli uomini della generazione contemporanea”, scriveva a Swinburne il 6 giugno
1876. E, nelle “Scolies” a commento della traduzione delle poesie di Poe: “Tutta
la generazione, dall’istante in cui il grande Baudelaire produsse i ‘Racconti’
indimenticabili, fin a ora che leggerà i suoi ‘Poemi’, ha sognato Poe”. Il sonetto fu scritto in occasione
dell’erezione a Baltimore di un momento in onore di Poe, il 16 novembre 1875,
su un libro d’immagini pubblicato subito dopo nella stessa città per quell’occasione
- fu pubblicato in Francia sette anni dopo, nel 1883, a cura di Verlaine, nello
studio su Mallarmé che fa parte dei “Poeti maledetti”.
Per Valéry è lo scrittore senza peccato,
e il più ammirato, dopo Baudelaire e Mallarmé. Presentandosi a Mallarmé con una
lettera il 21 ottobre1890, quindi a 23 anni, lo proclama suo maestro insieme con
Poe. In una lettera successiva, il 18
aprile 1891, ribadisce la sua “devozione particolare” a Poe, che l’ha condotto
a “a dare per pegno al poeta l’analogia”. Più entusiasta ne scrive a Gide il 13
giugno 1892: “Poe… è il solo scrittore senza nessun peccato. Mai si è ingannato
– non istintivamente guidato – ma con lucidità e felice riuscita fece la sintesi
delle vertigini…”. Un altro se stesso.
Poesia araba – È la poesia dei sensi per Rilke. In “Ur-Geräusch”, il primo rumore, il primo suono, una prosa breve del 1919, Rilke vede nella poesia araba l’iniziazione all’uso dei cinque sensi, il suono, l’odorato, il tatto eccetera. A differenza di quella, occidentale, che invece è solo visiva. Nella poesia araba i cinque sensi hanno ciascuno sempre “simultanea e armonica presenza”, mentre nella poesia “occidentale” i sensi sono scarsamente considerati, a eccezione della vista, e quando emergono sono tenuti lontani, chiusi in precostituiti “territori”.
leterautore@antiit.eu
Il lieto fine lo perdona il paesaggio
E
vissero felici e contenti, il vizio dichiarato della serie Rai, “Purché finisca
bene”, una storia dall’esito scontato, una sfida?, si perdona qui con gli sfondi
delle rocce di Scila e delle spiagge di sabbia di Pizzo e lo Zambrone - di
fronte, vicino, a portata di mano (da qui il titolo, il fenomeno ottico Fata Morgana)
la Sicilia. Il friulano Oleotto trova
anche la misura giusta, senza sottolineature, né della calabresità della
protagonista né della milanesità dell’antagonista-poi-si-sa-come-va-a–finire ambrosiano
– peraltro oriundo. Supportato da Nicole Grimaudo che sembra intagliata nel
ruolo, di madre single tanto attiva quanto
confusa e confusionaria. E da Davide Iacopini incredibilmente sobrio, in tutte
le sfaccettature del personaggio.
Su
un pretesto banale (due donne di Scilla vogliono diventare armatrici, di una
“spadara” – le barche con l’altissimo pennone, che stanno lì per le foto, i
giapponesi con i pescherecci d’altura da mezzo secolo ormai avendole messe
fuori corso) e una localizzazione turistica (malocchio, magia, superstizioni, giaculatorie
– san Cipriano a Scilla?), la storia di buoni sentimenti riesce comunque a
decollare. La sceneggiatura si riscatta con i dialoghi, la regia con i ritmi,
il racconto non mostra mai la sua inconsistenza.
Matteo
Oleotto, Tutta colpa della Fata Morgana,
Rai 1
martedì 19 ottobre 2021
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (471)
Giuseppe Leuzzi
“Due settimane
fa sono venuti in 400 al Cimitero Monumentale di Milano”, ricorda Giacomo
Poretti di Aldo, Giovani e Giacomo, con Elvira Serra sul “Corriere della sera”
a proposito dell’ape-teatro, teatro
ambulante e poco “teatrale”: “C’erano 5 fiati, io declamavo una cosa su
sant’Ambrogio e sant’Agostino, un tedesco e un terrone africano”. Beh, è vero:
il milanese si sposta anche al Cimitero, per “una cosa” tra due santi. Ed è
pure vero che il tedesco e il terrone convivevano (insomma, si vedevano) a
Milano.
“C’è una
probabilità di mortalità infantile del 47 per cento superiore al Sud rispetto
al Nord-Est dell’Italia”, Giorgio Parisi, Nobel per la Fisica. Una probabilità,
cioè la proiezione del dato odierno in futuro. Cosa di cui il Sud non si è
accorto? La sanità non è regionale?
Mafia.
Un’altra etimologia è da aggiungere alle tante avanzate? Dal nome dell’isola di
Mafia, in Tanzania, che deriva dall’arabo “morphyeeh”, gruppo.
Il risveglio del ghiro
All’improvviso
un paese familiare, una comunità ignara, si scopre luogo di vertici di mafia, con
banchetti di ghiri (banchetti di ghiri?), all’ombra della marijuana. Un mese o due fa tre individui
sono stati scoperti coltivare marijuana su un terreno comunale, vecchio uso
civico, 730 piante sono state censite. La giustizia segue il suo corso, e dopo
un mese, o due, in casa degli stessi, o di uno dei tre, 235 ghiri sono
rinvenuti congelati, in una cinquantina di sacchetti, più qualcuno vivo in
gabbia. Di che bollare la comunità sui siti mondiali, le corrispondenze locali,
i commenti affranti, con la teoria che i ghiri servono ai banchetti dei mafiosi,
alle “mangiate” come si sognano a Reggio Calabria: “Ghiri, ‘ndrangheta e tradizione”,
“la caccia ai ghiri e il potere della ‘ndrangheta”, “‘ndrangheta e caccia ai
ghiri, il significato di un rito ancestrale”, “sequestrati ghiri congelati,
piatto preferito dei boss della ‘ndrangheta”, ”è il cibo preferito dei boss di ‘ndrangheta”…
L’enumerazione è inutile, videomaker, cronisti, notisti, ritualisti ripetono a
pappagallo l’imbeccata. In due versioni: il banchetto era dei capimafia, oppure
delle cosche di mafia quando devono siglare un patto scellerato, o una pace
dopo le faide – “i ghiri sono considerati segni di potere”. Con scandalo naturalmente
degli animalisti. Ma facendo un torto agli uomini di potere ‘ndranghetisti,
considerati scemi.
Il ghiro è
simpatico, ed è specie protetta. In Calabria è anche cibo apprezzato, molto.
Lo era prima, quando la caccia era libera, e lo è rimasto anche ora che non è
più cacciabile. Si capisce che dei bracconieri ne tenessero grandi quantità in
freezer (ma 200? anche 100 è difficile da credere, non ce ne sono molti in giro, e la cattura è complicata). Ma anche questa non è una novità, la novità è solo che la pratica si
facesse nella loro comunità, che è nell’Aspromonte. E soprattutto quello che si
fa sapere ai siti mondiali, ai corrispondenti e alle gazzette locali: che il ghiro
è cibo di mafia. O non sarà il ghiro matière de Calabre, come gli inchini
delle Madonne ai mafiosi? Una saga locale alla maniera dei Reali di Francia.
Che magari sostituisce la quotidiana “dichiarazione di esistenza” dei
Cacciatori di Calabria, l’unità speciale eliportata a caccia delle sue ore di
volo mensili? O di un giudice di Reggio a beneficio dei giornalisti, sempre
utili – una dichiarazione è sempre meglio che lavorare? I mafiosi considerando
stupidi o folklorici. La verità della cosa è che l’animaletto si vende a 5 euro
l’unità. Una cifra da Christie’s.
Questo si sa. Nella celebrazione post-freezer
un sito lo ricorda, indirettamente: “L’uso di cibarsene, bollito nel sugo o
arrosto, risale ai legionari romani, che si portavano dietro contenitori in
cui allevavano i roditori per avere
a disposizione cibo per i momenti di bisogno”. I mafiosi elevando a antichi
romani?
Il ghiro è cibo pregiato
in Calabria, dove ogni esemplare si vende a un prezzo medio che la Lav, lega
anti-vivisezione, documenta in cinque euro per esemplare. La caccia ne è
diffusa, a fini commerciali, specialmente nel Cosentino e nelle Serre. Nel
Cosentino nelle regioni montuose, Sila (San Giovanni in Fiore, Rossano,
Castelsilano) e Pollino (Orsomarso). Nelle Serre in una vasta zona, tra le
province di Vibo, Catanzaro e Reggio. La caccia, dacché il ghiro è diventato specie protetta, è risultata ai controlli specialmente diffusa a Guardavalle, Santa
Cristina dello Ionio, Nardodipace, Serra San Bruno, Stilo e Bivongi. Nelle
stime della Lav, nel solo territorio di Guardavalle vengono catturati 20 mila ghiri
l'anno. Che sembra un numero norme, ma chissà.
L’America ne sa di più
Della
Calabria. Al secondo o terzo film, Jonas Carpignano, sceneggiatore-regista
giovane di New York, con produzione, direzione della fotografia, montaggio e
colonna sonora americani, sa raccontare in
“A Chiara” la Calabria come nessuno dei registi italiani, che pure vi si
cimentano ultimamente numerosi. Dall’eloquio, una dizione accuratissima dei
modi di dire, ai comportamenti, a partire dagli sguardi, con l’ironia, la
bontà, il rispetto, lo scherzo, il
malinconico. Non maca il delitto – il furto, la droga: il racconto è dell’amore
filiale, di una figlia che scopre nel padre amato un trafficante di droga. Ma
niente western, niente gangster movie, come il cinema italiano
vuole – anche quello che si ambienta per qualche scena in Calabria per i fondi
della Film Commission regionale. Storia e, soprattutto, caratteri Carpignano crea
che sembrano solo naturali. Corpi e visi non omogeneizzati, alla fine sempre belli
della loro verità, modi di essere, di parlare (quanti troncamenti, polisemici
ma non ambighi), di guardare, di ridere, sorridere, di abbracciarsi, litigare. Anche
nell’omogeneizzazione, dell’abbigliamento, le barbe, i tatuaggi, il fumo
elettronico, le canzoni, le cuffie, comuni a questi speciali ragazzi come a
tutti i loro coetanei. Nonché un forte, intenso, racconto, un lavoro filologico,
etnologico di prim’ordine, sottotraccia come dev’essere, e fedele.
Tutto questo naturalmente
è merito dell’autore, della sua capacità di raccontare: Carpignano anche delle
buone cose (buoni sentimenti,) sa fare un dramma, sa farle rivivere. La
Calabria non ha merito. Ma è in Calabria, tra Rosarno e Gioia Tauro, che questo
regista newyorchese, di famiglia altoborghese lombarda, che ha scelto e sa
raccontare. Dire “A Chiara” un capolavoro non
è eccessivo, Un capolavoro questo, come prima “A Ciambra”, il quartiere sul
Petrace ora degradato delle case popolari costruite negli anni 1950 per
sedentarizzare gli zingari a Gioia Tauro (come Arghillà, altrettanto degradato,
a Reggio, e a Catanzaro quasi in centro, dove invece mantiene un qualche
decoro): un Kusturica girato con pochi mezzi ma altrettanto memorabile. E prima
ancora “Mediterranea”, di un Carpignano nel 2014 trentenne, sui due esiti dell’immigrazione,
girato nella bidonville di Rosarno-San Ferdinando: un fratello accetta l’integrazione,
per quanto povera, un fratello la
rifiuta. Ma è comunque un racconto onesto, oltre che di sorprendente
attrazione, a fronte dello scontato fondale di brutti, sporchi e cattivi, da western
senza luce, che fanno l’immagine di tutto ciò che si lega alla Calabria.
Un film fatto
recitare alle famiglie Rotolo, Amato e Furno. Con una buona dose quindi di rom
integrati, anche qui. E a un africano immigrato, lo stesso attore di “Mediterranea”,
al lavoro, vigile e distaccato, come unico sensato.
Con un omaggio,
pur senza inalberare buonismi, anzi perplesso, al programma “Liberi di scegliere”,
dell’avvocatessa docente G.M. (Giuseppina Maria) Patrizia Surace, reggina, una
lunga carriera di studi, consulenze e applicazioni per indirizzare la pena
(carcere) e la sofferenza (familiari di delinquenti) a fini pedagogici, di formazione
e indirizzo. Un capolavoro civile.
Aspromonte
Garibaldi ferito ai Piani d’Aspromonte
fu un evento mondiale - Cialdini lo aveva anche arrestato. Commosse e mobilitò
l’opinione pubblica dappertutto in Europa, e perfino in America – dove Lincoln
aveva pensato a Garibaldi per la guerra di secessione. In Inghilterra furono raccolte
in pochi giorni per i feriti dell’Aspromonte ben quarantamila lire. A Hyde Park
una manifestazione di protesta raccolse quarantamila persone. Da Lipsia una
corona in forma di allora in oro fu offerta a Garibaldi. Da Magonza mandarono
una cassetta di vini pregiati (ma Garibaldi era astemio…) Lettere e attestazioni
di conforto giunsero dalla Svezia, dalla Russia, dalla Francia. Lincoln rinnovò
a Garibaldi l’offerta di un alto comando nell’esercito nordista.
Arrivando ai Piani d’Aspromonte dopo una
marcia di due giorni da Reggio, estenuati dalla calura di agosto su per le
balze allora desertiche della Montagna, i giovanissimi garibaldini volontari
trovarono finalmente rifugio nelle vaste pinete. E soprattutto di che mangiare:
le patate “arrostite”. Che si mangiano oggi come allora, cotte, con la buccia,
nella cenere. Ricorderà Garibaldi a
distanza di tempi i viveri “che la popolazione dei paesi circostanti ci offriva
spontaneamente”, Sant’Eufemia, Solano, Cosoleto, e le patate: “Un campo di
patate sfamò i primi giunti che avevano avuto pure la previdenza di portare
seco alcune fascine secche, atte ad arrostire le patate, ciò che fu eseguito in
un momento. Per parte mia mangiai quelle patate arrostite deliziosamente”-
Le trote
fario, argentee col punto d’oro sulla guancia, illuminano i torrenti. Antonio si
fa un vanto di pescarle con una semplice esca in punta a un bastone – per poi rimetterle
in acqua. Antonio è camminatore e torrentista. Specialista delle acque interne
– probabilmente il solo che ne sa qualcosa nel Parco, hanno bisogno di lui per
discuterne in convegni e assemblee. Ma ne parla a memoria, ora non gira più.
Troppe volte ha visto la calce viva nelle acque – con cui le Guardie Forestali
si fanno la cena.
Concetta, la
serva di casa Adorno nell’“Ultima provincia”, il racconto di debutto (1962) e
il capolavoro di “Luisa Adorno”, ha “viso terreo, largo ed adunco ad un tempo,
involgarito da capelli per natura troppo neri”. Probabile: è “quarantenne, non
era avvenente”, e faceva la serva, devota, lontana da casa (seguiva Prefetto e
Prefettessa nelle varie sedi). Ma ha anche “la rigidezza del corpo, piccolo,
tutto d’un pezzo, di montanara calabrese”. Quante montanare calabresi avrà
conosciute la simpatica scrittrice pisana Mila Curradi, maritata “Adorno”, che
il 2 agosto è morta centenaria, al suo esordio?
Rumia è un
laghetto, nel comune di San Roberto, ma vicino a Gambarie. Di etimologia incerta,
nulla comunque a che vedere col quasi omonimo Urmia, oggi in Iran, nella parte
settentrionale alla frontiera con la Turchia, vecchia patria degli Ittiti,
attorno al quale si sono consumate molte battaglie russe per l’espansione verso
Sud. Un po’ più grande di una pozza a fronte di un quasi mare. Se non che si
respira la stessa aria. Scherzi della memoria? No, l’altezza sul livello del
mare è la stessa, 1.270 m.
“Emilio Santillo
fumava sigari avana, enormi e profumati” è l’incipit di un fulminante racconto
di Franco Calabro trent’anni fa sulla “Gazzetta del Sud”, per i quarant’anni
del quotidiano – “Su quella montagna dove abitano i diavoli” è il titolo di una
serie di suoi racconti in tema. “Sulla sua scrivania teneva una pistola col calcio
di madreperla con la quale amava gingillarsi, mentre intratteneva – la cosa era
ormai un rito – l’inviato del giornale del Nord spedito di corsa «laggiù» per
sentire cosa veramente questo gentiluomo campano (per noi tutti era «lo
sceriffo») avesse scoperto dopo l’Appalachin della ‘ndrangheta, dopo la
sorpresa della radura di Montalto, uno spiazzo tra enormi faggi nel quale, la
prima domenica d’ottobre del 1969, i notabili della mafia della provincia di
Reggio Calabria stavano tenendo una riunione.
I nomi delle
persone incappucciate?
«Ve li daremo
ma non adesso. Aspettate e vedrete».
Così il
questore Santillo rassicurava gli inviati, offrendo sigari e whisky, centellinando
a sua volta le notizie, una al giorno. «Così – diceva – li teniamo qui».
Per anni la
favola degli incappucciati di Montalto, degli insospettabili, grosse personalità
del mondo politico, si diceva, fatte fuggire nel momento dell’irruzione della
polizia, è stata ripetuta, condita in tutte le salse. Siamo stati in pochi («gli
altri vanno via, voi restate – diceva Santillo – perciò state attenti!») a
saperlo dall’inizio: gli incappucciati di Montalto non sono mai esistiti”.
Erano “la
brillante e un po’ cinica trovata di Santillo”, concludeva Franco, “il quale,
così facendo, era riuscito a far tenere i riflettori accesi su di lui per mesi,
anni addirittura”.
“Fuggire nel
momento dell’irruzione della polizia” al Montalto è impossibile: è una radura aperta
e scoperta, e non vi si arriva di sorpresa. E seppure gli incappucciati fossero
stati sordi, non avevano dove scappare, non ci sono e non c’erano - al tempo
degli incappucciati avevamo un’esperienza quindicennale della Montagna -
rifugi. Ma tutto si può credere.
leuzzi@antiit.eu