sabato 30 ottobre 2021
Più fisco, meno fusioni bancarie
È bastata la riduzione dei vantaggi fiscali sulle fusioni bancarie, che Draghi e Franco, migliori conoscitori delle banche, introducono col progetto di Bilancio 2022, per far crollare in Borsa Bpm (meno 7,30 per cento) e Bper (- 6,45). Le fusioni si fanno meno convenienti, col plafonamento del beneficio fiscale a 500 milioni, e quindi più difficili.
Un po’ di Fazio (Antonio) a palazzo Chigi
Paola
Ansuini, neo portavoce di Draghi a palazzo Chigi, ex Banca d’Italia, alla quale si deve la idea mevigliosa (Merkel) della foto-ricordo del G20 con i sanitari, è anche ex
collaboratrice di Antonio Fazio. Un ripescaggio importante da parte del
presidente del consiglio, successore di Fazio alla Banca d’Italia, una
continuità che non si sottolinea abbastanza. Potrebbe infatti indicare come
Draghi, col fido ministro del Tesoro Franco, intende muoversi nei confronti del
mondo bancario: con la severità del paterfamilias,
del maestro di scuola, come già Fazio? La riduzione dei benefici fiscali al
gioco delle fusioni ne è probabilmente un altro segno.
Fazio
governò la Banca d’Italia nella trasformazione delle banche di credito ordinario
in banche universali, e organizzò il salvataggio dei grandi banchi pubblici
attraverso provvide fusioni. Il suo governatorato delineò, dopo Menichella, il
mondo bancario italiano. Con risentimento di Milano, specie del patron del gruppo Intesa, Giovanni
Bazoli, che ne avversò la pratica, ben più di una moral suasion, come intromissione indebita. Tra polemiche aperte, e
coperte – Fazio impedì a Bazoli di prendere il controllo di Generali.
Ansuini
seppe difendere Fazio. Ma non contro la Procura di Milano. Che intercettò Fazio
a tutto spiano, anche nei corridoi di casa, finché non trovò di che farlo condannare,
in uno dei tanti salvataggi da lui predisposti, di Antonveneta con la Popolare
di Lodi. Dopodiché la piazza fu libera per il gioco degli M&A, merger-and-acquisitions.
Una
storia interessante, piena di trabocchetti, e di soldi a fiumi, che però non si
racconta. Antonveneta finirà nel calderone Monte dei Paschi di Siena, il più
grosso scandalo bancario dopo quello della Banca Romana 130 anni fa. Nella stessa
area politica di Bazoli, della Procura di Milano, dei Tribunali milanesi compiacenti.
La stessa che ha propiziato e favorito il gioco degli M&A, con provvigioni
per tutti, di centinaia di milioni, di euro – prima e con più determinazione di
Berlusconi, di Tremonti con Berlusconi.
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Letture - 471
letterautore
Balzac – Non era un buon scrittore per Flaubert: “Che uomo sarebbe stato Balzac, se avesse saputo scrivere”.
Biblioteche - Emmanuel Le
Roy Ladurie, l’ultimo animatore della Êcole des Annales, promotore della
microstoria, nel periodo in cui fu direttore della Bibliothèque Nationale a
Parigi, fece fare una ricerca statistica sull’utilizzo dei libri in dotazione.
È risultato che dal post-Rivoluzione a fine Novecento, in due secoli, oltre due
milioni di titoli non erano stati mai consultati.
Borges – Filosofo? È
l’idea di Tabucchi (“Di tutto resta un poco”):”Non so se Borges sia un ‘vero’
scrittore o non piuttosto un filosofo che ha usato la letteratura”.
Dialetto – Nessun
linguista conosce questa differenza”, tra la lingua e il dialetto – Umberto
Eco, “Non sperate di sbarazzarvi dei libri”: “Pertanto potremmo illustrarla
dicendo che il dialetto è una lingua senza esercito e senza flotta. È il motivo
per cui consideriamo che il veneziano è una lingua, per esempio, perché il
veneziano era utilizzato negli atti diplomatici e commerciali. Ciò che non è
stato mai il caso, al contrario, del dialetto piemontese”.
Gadda – Lo scrittore più “scritto”, simpateticamente, da conoscenti, amici e critici: Arbasino, Citati, Parise, Lucia Morpurgo Rodocanachi (“Lettere
a una gentile signora”), da ultimo il carteggio con Bonsanti (“Sono il pero e
la zucca di me stesso”), Ugo Betti (“L’ingegner fantasia”), Bonaventura Tecchi
(“A un amico fraterno”, “Ritratto di Gadda, prigioniero a Cellelager”), Leone Piccoli (“Identikit per Carlo Emilio”), Andrea
Marcenaro (“Un’amica di Gadda”, ancora Lucia Rodocanachi), e prima di tutti
Giulio Cattaneo (“Il gran lombardo”). Un “personaggio”, di gran mole, benché si protestasse e fosse di abitudini riservate (le lettere
alla sorella Clara sono qualche migliaio), e volentieri ipocondriache.
Citati,
che ha pubblicato le 44 lettere a lui indirizzata da Gadda in quanto suo editor, con adeguata presentazione, le
cose più succose le ha dette a Cinzia Romani su “Il Giornale”,
https://www.ilgiornale.it/news/cultura/paure-mio-gadda-tasse-matrimonio-sinistra-949258.html
“Non
era misogino, né omosessuale. Ma temeva sempre che qualche dona lo volesse
intrappolare e prenderlo come marito. Temeva soprattutto Gianna Manzini e Maria
Luisa Spaziani, quest’ultima gande cacciatrice di vecchi come Ungaretti e
Cecchi (Citati dimentica Montale). Per le donne nutrì grande affetto, ma temeva
la famiglia come istituzione”. Per l’omosessualità aveva “un interesse psicologico”.
Se ne “faceva raccontare da Goffredo Parise, sposato ma con un lato
omosessuale”. Con Pasolini, invece, “non parlava di tali questioni: con lui si
seccava, perché era un suo imitatore. E
lui detestava gli imitatori. Aveva più simpatia per Arbasino, omosessuale
elegante che non cacciava proletari, ma signori”.
Sospettoso
e spesso a disagio con gli intellettuali, “aveva un’inclinazione per i giovani”,
continua Citati; peraltro “furono loro, i poco meno che trentenni Arbasino,
Parise, Testori, a decretare il successo del Pasticciaccio”.
Letteratura – È morta nel
Millennio? Il “New Yorker” può così sintetizzare lo stato dell’arte: “Nel nuovo
panorama letterario, i lettori sono clienti, gli scrittori fornitori di
servizi, e i libri si aspetta che diano gratificazione immediata”, che siano
commestibili.
Nostalgia – La parola, se non il senso, che più caratterizza la contemporaneità secondo i sociologi? Tabucchi,
analista della saudade, ne traccia
una genealogia precisa (in “L’araba fenice”, ora “in “Di tutto resta un poco”):
“Com’ noto la parola ‘nostalgia’ fu coniata a fine Seicento da Johannes Hofer.
Alsaziano, completando gli studi di medicina all’università di Strasburgo, si
può leggere in wikipedia, dedicò al fenomeno la sua tesi, discussa nel 1688,
presentandola col titolo “Dissertazione medica sulla nostalgia”. Nello
specifico, la nostalgia era la malattia di cui soffrivano i mercenari svizzeri
al servizio del re di Francia Luigi XIV, costretti per lunghi periodi lontano
da case, e dall’ambiente svizzero. Il termine e il suo significato non si
riscontrano nel mondo greco. Hofer lo coniò come equivalente dell’espressione
francese “mal du pays” e del tedesco “Heimweh”, dolore per la casa, tuttora in
uso. Si affermerà in letteratura con Baudelaire, senza più riferimenti alla
casa di origine, all’infanzia, al paese, dopo una lenta macerazione nel
romanticismo - il rimpianto, vago e acuto insieme, di un eden perduto.
Pavese – Ancora, a
proposito del “Diario segreto”, dei tentennamenti, nel 1943, tra Salò e la
Resistenza, Domenico Scarpa ricorda, nella prefazione a Berto, “Guerra in camicia
nera”, che nella primavera del 1950, l’anno ferale, era per la pubblicazione di
Giose Rimanelli, “Tiro al piccione”, un racconto autobiografico sui “ragazzi di
Salò”, scrivendone in questi termini, l’11 maggio 1950, a Carlo Muscetta a
Roma, che assisteva Rimanelli nell’editing
del racconto: “Non è un libro politico – non vi è il caso del politico che si
disgusta o converte; bensì il giovane traviato, preso nel gorgo del sangue,
senza un’idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre
voci. È una tesi notevole”. Il libro non sarà pubblicato da Einaudi, nel 1953
uscirà da Mondadori - “e sulla sovraccoperta
sarà riprodotto il giudizio di Pavese”.
Rilke - “Certi
scrittori sono meglio nelle lettere che nei romanzi. Come Rilke, per dire”:
Rosellina Archinto, editrice degli epistolari, a Roberta Scorranese, “Corriere
della sera”, 25 luglio 2021
Roma – Soldati, romano di adozione ma
di necessità?, la vede confusa, informe. Al confronto con Parigi, che ha un
disegno urbanistico, geometrico: “Nessuna è così informe, disordinata, casual, … nata e crescita sviluppandosi
continuamente a macchia d’olio”. Non
cresciuta sempre su se stessa? Non la sola, Istanbul è cresciuta alla stessa
maniera. Così vede Roma “dall’alto, mostruosa come un’eruzione patologica su
una pelle umana”.
Ma
dice anche vero che “tutte le grandi città, viste da un aereo, fano questa
impressione: che cosa sono, infatti, le città, se non particolari eruzioni
prodotte dal genere umano sulla pelle della terra?”.
Sbarchi – Dalla Tunisia si tentava negli ultimi mesi della guerra, con mezzi di fortuna, da parte di soldati tedeschi e italiani, la traversata da Capo Bon sotto Tunisi a Pantelleria. Lo racconta Berto in “Guerra in camicia nera”, scritto nel 1954. A Kélibia, l’estremità del Capo Bon, “il punto più vicino all’Italia”, dove “col tempo buono si scorge l’isola di Pantelleria”, lo scrittore trova “dappertutto, sulla spiaggia, gruppi di militari, in maggioranza tedeschi”, che si costruiscono “zattere di fortuna per tentare la traversata. Adoperano bidoni vuoti di benzina e motori recuperati”. Con poche prospettive di successo, anche allora: “Ogni giorno partono, in media, una decina di zattere. Si dice che qualcuna sia giunta a Pantelleria, addirittura in Sicilia, ma è una voce che ha molte probabilità di essere fantastica”.
Ulisse – Tabucchi (“Di tutto resta un poco”) lo vuole “un artefice, nel senso etimologico del termine”, e un “artista, o la sua metafora”. Di pensiero “anfibio”: “Sta nel qui ma già anche in avanti, (e) sta anche indietro, in una atemporalità che coniuga futuro e passato. Il suo multiforme ‘ingegno’ è soprattutto questo”.
Umorismo – “L’unica via
per sfuggire alla paralisi della nevrosi”, Giuseppe Berto (“Domande a Giuseppe
Berto”, in “L’Europa letteraria”, marzo 1964)..
letterautore@antiit.eu
Woody Allen dice addio, divertito
Woody Allen prende in contropiede la disgrazia
del #metoo, che lo bandisce, e torna a divertirsi, divertendo. Battute in
serie, scorrette. Si parte con la scollata bionda in abito rosso fuoco, che il
regista lascivo dice pronta a fare Hannah Arendt nel suo prossimo film sul
processo a Eichmann. Ma più di tutti su Dio, e sulle sue nevrosi – di Dio e di
Woody Allen. Con molti inserti “al modo di”: Fellini, Truffaut, Bergman,
Godard. Sullo sfondo di una città di vacanza, San Sebastián la settimana del suo
festival.
Woody Allen si diverte al modo disinvolto di
sempre, ma con un più di mestizia. Si fa un alter ego che parla lento e
ripetitivo, da vecchietto. E s’illumina ma come per un addio.
Woody Allen, Rifkin’s Festival, Sky Cinema
venerdì 29 ottobre 2021
Ombre - 585
Il
G 20 che si apre a Roma, venti capi di Stato e di governo, viene su “la
Repubblica” a p. 14 – pagina pari, non di riguardo. Prima è pieno di cosa hanno
detto o da dire Conte, Simona Malpezzi, Letta, Salvini, Fuortes – Fuortes assicura
che i partiti non interferiscono alla Rai. Nonché John Podesta e Patrick
Gaspard, Democratici americani, schierati per il nuovo Ulivo. Si erano
dimenticati di fare il giornale, giusto il compitino?
Il
papa che oggi vede Biden per l’aborto, il presidente indiano per abbattere l’ostilità
indù, e il presidente coreano per aprire una mediazione con la Corea del Nord,
viene su “la Repubblica” a pagina 15, giusto un titolo, poche righe. Biden che a Roma oggi vede Macron, per ricucire la rottura
diplomatica, non viene affatto. Provincialismo? Il G 26 che si aprirà
dopodomani a Glasgow, e (non) deciderà sull’emergenza clima per la quale si
riunisce, prende invece due pagine. Gli inglesi hanno migliori uffici stampa?
Hanno la Regina?
Roma
ospita da oggi venti delegazioni di capi di Stato e di governo, da Biden in
giù, un migliaio di personalità in movimento fra centro storico e Eur per tre
giorni. Nei quali si giocherà la partita Roma-Milan, tutto esaurito, e si terranno
due manifestazioni, a San Giovanni e
alla Piramide, le due aree fra il centro storico e l’Eur. Imprevidenza?
Tolleranza? No, menfreghismo, a Roma niente è più prevedibile – organizzabile,
controllabile.
Sindaco
di Roma da dodici giorni ormai, Gualtieri non dice cosa intende fare, e non nomina
il suo governo, collaboratori, assessori, dirigenti. Non fa neanche circolare
qualche nome. C’è o non c’è? Il Pd romano, che non lo voleva candidato, non
glielo consente? I giornali non ne sanno nulla, neanche s’interrogano.
Fernando
Gentilini avvia una serie “Finis Terrae” su “la Repubblica” spiegando la Libia
con Erodoto. Andare a vedere la Libia no, a un’ora di aereo?
Gentilini è il diplomatico-scrittore? È stato ad Addis Abeba, poteva scendere una volta a Tripoli, o Bengasi. O a Giarabub, dove il “re” Idris se ne stava
rintanato, non senza motivo – re, forse, della sola Cirenaica. Sarà l’effetto
dell’abbandono della geografia a scuola, ma com’è possibile che la Libia resti
sconosciuta all’Italia?
O
è l’effetto dell’obliterazione delle tribù nella storiografia – in una sorta di
politicamente corretto della storia? Ma, anche se fosse, ai giornali non è permesso. È comunque bizzarro che l’Italia, che è stata in Libia per un secolo
abbondante, fatichi a capire che il paese è tribale, irrimediabilmente – come del
resto l’Iraq e l’Afghanistan, altri campi di esercizio della democrazia
occidentale, di partiti, elezioni e altri simulacri.
Il
prof. Gualtieri neo sindaco di Roma scopre che il patrimonio edilizio del Comune,
almeno 40 mila case e appartamenti, non rende nulla e anzi costa. Affitti irrisori,
in gran parte nemmeno pagati, per una burocrazia gestionale da pagare comunque.
Si è fatta una crisi comunale, nel 1993, la seconda giunta Carraro, perché rea
di avere commissionato un censimento del patrimonio a una ditta affidabile. Il primo
provvedimento del commissario fu di disdire l’appalto. È cambiato il Pd di
Gualtieri rispetto al Pci, il Pd romano, di vecchi-giovani maneggioni?
“Ripensare l’illusione del mercato” è titolo del “Sole 24 Ore”, seppure nel supplemento domenicale: “Come affrontare inefficienze e disuguaglianze prodotte da un modello che non un funziona?” Inefficienze? Disuguaglianze? Modello erroneo? È solo una recensione, di due libri molto critici, Boitani e Block, ma si aprono le dighe? La verità è agli occhi di tutti.
Imperversano
al cinema, mediati dai festival, film asiatici e americani - del Sud America inizialmente
ora del Nord - da commedia all’italiana. Ma in salsa neo realista e non
bonariamente trasgressiva, di critica borghese: film di poveri contro ricchi. A
effetto però rovesciato, soprattutto quelli coreani e nordamericani (ma di
registi-e asiatici-che): di quanto sono brutti e sporchi i poveri. Ma film osannati
come progressisti.
L’avversativa
al terzo grado (di un’avversativa di un’avversativa) fa un’asserzione positiva
- sono film buoni con i poveri, i senza diritti? O è una doppia, tripla,
confusione? Sono tempi di disincanto, acutamente anzi classisti, ma
assolutamente vogliamo evitare di dircelo.
I
poveri brutti, sporchi e cattivi sono, si penserebbe, quanto di più scorretto
politicamente si può pensare e dire. Invece no: il politicamente corretto solo
protegge-impone le minoranze intellettuali, concettuali – essere nero,
essere donna, essere gay, non essere. I poveri invece sono e basta.
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I danni del populismo scolastico
Chi
parte avvantaggiato se la cava, gli altri annaspano, per lo più perdono
l’occasione della scuola pubblica gratuita in ogni ordine e grado. Per troppa
bontà, il marchio della sinistra post sovietica, senza più altra causa. La
pedagogia di don Milani prima, la riforma Berlinguer a fine Novecento, hanno
distrutto la scuola. Hanno condannato i meno abbienti all’analfabetismo di
ritorno, che oggi è una barriera a ogni ingresso – eccetto i lavori meniali: in
ogni occupazione oggi bisogna saper compitare, e capire, e anche, un minimo,
anche a fare solo il salumaio, a scrivere.
Non
è la prima volta che don Milani viene sotto accusa, l’annullamento della
funzione pedagogica. Anche da sinistra, dalla sinistra politica che si è
adagiata nella riforma Berlinguer del 1999-2000. È una falsa utopia, si sapeva
e ora si vede, in abbondanza, che i
saperi si hanno e non si conquistano, che all’educazione basta la disponibilità
(empatia) dell’insegnante.
La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, dichiara la copertina. I
coniugi Ricolfi-Mastrocola non sono trinariciuti. Ricolfi, allievo di Claudio
Napoleoni, laureato a addottorato su Marx, è evoluto in senso liberale ma non
di destra. Mastrocola, un passato giovanile da insegnante di liceo, da sempre
scrive contro, in saggi, racconti e poesie, pubblicata più spesso da Laterza,
pilastro del Pd, e Einaudi: contro la scuola insensata che punta verso il basso,
facendosi un dovere di ignorare il meglio. Con l’esito peraltro, malgrado il pauperismo
di programma, o a causa di esso, di lasciare un allievo su due, il più sprovveduto,
inerme e senza difese. Del resto, la scuola che descrivono è quella che tutti vediamo
- la loro è una critica al populismo di sinistra.
Paola
Mastrocola-Luca Ricolfi, Il danno
scolastico, La nave di Teseo, p. 272 € 19
giovedì 28 ottobre 2021
Su Mps una battaglia con due perdenti
È
vera guerra tra Unicredit e Tesoro sul Monte dei Paschi? Sì, è dichiarata - il
negoziato per la fusione è interrotto ufficialmente. Ma è una battaglia, se si
conclude qui, con due perdenti. Ha perso il Tesoro, che si tiene sul gobbo una
banca che gli (ci) è costata già 5.4
miliardi, altri 2,5-4 ne vorrà l’anno prossimo, e non ha più acquirenti in
vista. Ma ha perso Unicredit, che rimane una banca grande, ma non abbastanza.
Si
attribuisce a Orcel, neo ad di Unicredit, l’acquisto alternativo di Bpm. Come
se Bpm fosse una preda. Possibile se non addirittura facile. Mentre non lo è, e
anzi ha intenzioni e piani di espansione suoi propri. Del resto, anche se si
arrivasse a una fusione concordata invece che a un’acquisizione, tra Unicredit
e Bpm le convenienze sono ridotte, a fronte degli handicap – la sovrapposizione
delle aree di mercato ben fuori dei limiti antimonopolio. E poi Draghi, che il mondo bancario conosce come pochi, ha deciso di rendere il gioco delle fusione meno vantaggioso fiscalmente.
Siena non si tocca, anche se costa
Si
è arrivati alla rottura, improvvisa, tra Uncredit e Tesoro su Mps all’indomani
del voto a Siena per una ragione precisa: gli accordi già conclusi prevedevano
la chiusura del centro direzionale del Monte, cioè della “senesità” del Monte.
E questo non si concilia con la rappresentanza politica che della città ha
assunto Letta, il segretario del Pd.
La
rottura non è tecnica, ma politica: il Tesoro ha agito su impulso e d’accordo
con palazzo Chigi. Sulla ricapitalizzazione di Mps, sotto forma di beneficio
fiscale, l’accordo era già delineato, ma così pure il piano industriale, con la
riduzione di sportelli e personale. A partire appunto dalle strutture centrali.
Punto, questo, irrinunciabile per Unicredit. Ma, dopo il voto, anche per il governo,
in senso contrario: Mps deve avere testa a Siena.
Il
presidente del consiglio Draghi ha di fatto più esperienza di tutti in fatto di
“privatizzazioni mitigate”, maturata da direttore generale del Tesoro nel
decennio 1991-2001, quando furono vendute le banche pubbliche.
Mps costa 10 miliardi, e non bastano
La
decisione governativa di interrompere la cessione di Mps a Unicredit è stata
presa a freddo, è cioè determinata, anche se si prospetta molto cara. Il Tesoro
si addosserà, Bruxelles permettendolo (ma il presidente del consiglio Draghi vi
ha impegnato tutto il capitale di fiducia di cui gode), un aumento di capitale
da 4 miliardi. Più dei 2,5 prospettati un anno fa da Siena. In aggiunta ai 5,4
miliardi iniettati nel capitale Mps nel 2017.
Il
Tesoro inoltre caricherà di pesanti oneri tre sue aziende fiduciarie: gli
sportelli da cedere invece che da chiudere a Mcc, l’ex Mediocredito Centrale; le
garanzie sull’esposizione legale di Mps (processi in corso, per un costo
eventuale stimato in 6 miliardi) a Fintecna; subito 4 miliardi di crediti
deteriorati in capo a Amco.
Un
colpo di coda moto statalista, in perdita prevedibilmente per un’altra decina
di miliardi, in omaggio alla politica.
Foucault affascinato dal potere religioso
Foucault
reporter per il “Corriere della sera”, negli eventi tra fine 1978 e primi 1979
che portarono l’Iran dallo scià a Khomeiny, da baluardo americano e occidentale
a nemico acerrimo dell’America e dell’Occidente, bacino di coltura del
radicalismo o fondamentalismo religioso che infetterà presto l’Algeria e poi tutto
il mondo islamico, e colpirà col terrorismo gli Stati Uniti e l’Europa tutta,
Russia compresa. Un osservatore d’eccezione. Che prova, da teorico del potere,
un’analisi sul campo, a Teheran, seguendo e commentando gli eventi. Un lavoro
da cronista e insieme da analista. Entusiasta come tutti dapprima, poi
perplesso, ma su qualcosa che non afferra.
Una
lezione indiretta, a rileggerlo a distanza, sull’autonomia del politico. In
questo caso sulla prevalenza netta dell’agente, Khomeiny, persona di limiti
culturali dichiarati, voluti, sul filosofo – una riedizione in piccolo della
disavventura di Platone, il teorico della Repubblica intelligente che finisce
preda del dittatore, l’uomo d’azione.
Renzo Guolo e Pierluigi Panza,
che hanno qui raccolto, vent’anni dopo la pubblicazione, le corrispondenze dell’inviato
specialissimo del “Corriere della sera”, sono critici fin dalla breve introduzione.
In due saggi in appendice, ne analizzano poi in dettaglio le deficienze, di
acume critico e anche di impianto di pensiero. Partendo dalla proposizione
errata dello sciismo come movimento degli esclusi che mettono a nudo le deficienze
del potere. Quando si sapeva bene, qui in Italia dall’iranologo e islamologo Bausani
per esempio, che il vittimismo sciita non è affatto sorgente di un potere
democratico.
Foucault per la verità non
seguì gli eventi da vicino. Fu in Iran nel settembre e nel novembre del 1978,
poi continuò a occuparsene da Parigi. A fine ottobre, di ritorno da Teheran e
Qom, la capitale religiosa, ha già chiaro di che si tratta. “Che cosa volete?”,
ha chiesto ai suoi intgerlocutori, per lo più ayatollah. “Per tutto il tempo
del mio soggiorno a Teheran non ho sentito pronunciare una sola volta la parola
«rivoluzione»”, si risponde: “Ma, quattro volte su cinque, mi è stato risposto:
«Il governo islamico»”. Foucault sa anche di che si tratta: “Provo imbarazzo a
parlare di governo islamico come idea o anche come ideale”. Prima, altrove,
“Poteri e strategie”, 1977, si era e aveva spiegato: “Significativo è il modo
in cui la rivoluzione fa spettacolo, il modo in cui viene accolta da chi le sta
intorno da spettatore, da chi non vi partecipa ma la osserva, da chi assiste e
che, bene o male, da essa si lascia trascinare. Non è il sovvertimento rivoluzionario
a costituire la prova del progresso”. Ma qui fa finta di
nulla: “Un fatto dev’essere chiarito. Per «governo islamico» nessuno in Iran intende
un regime politico nel quale il clero svolga un ruolo di guida o di
inquadramento”. Ciò che contrasta con tutto quello che si vedeva, si ascoltava,
si sapeva a Teheran.
Nello stesso articolo
Foucault fa gran conto di Ali Shariati, il sociologo iraniano di formazione religiosa,
che a Parigi aveva seguito i corsi di Gurvitch (socialismo non marxista), letto
Fanon e Massignon, allacciato rapporti con i rivoluzionari algerini (ma negli
anni 1970 ce n’erano ancora?) e i movimenti cristiani di sinistra, e a Mashad
aveva poi insegnato uno sciismo socialista, il cui nome circolava come
“ideologo della rivoluzione iraniana”. L’influsso se ne vede nel prosieguo del
suo “imbarazzo a parlare di governo islamico”: “Ma come ‘volontà politica’ mi
ha impressionato. Mi ha impressionato per il suo sforzo di politicizzare, in
risposta ai problemi attuali, strutture indissolubilmente sociali e religiose;
mi ha impressionato per il suo tentativo di aprire nella politica anche una
dimensione spirituale”. Solo che Shariati era morto da due anni, non aveva
seguito, il suo nome era tabù nelle moschee. E la “volontà politica” si articolava
unicamente nel fanatismo, già visibile, per esempio nelle donne in piazza il
venerdì, nei giovani barbuti, i pasdaran,
nei mullah meno accomodanti dei cardinalizi ayatollah.
I curatori concludono che
Foucault aveva la pretesa di sperimentare la sua metodologia unificatoria della storia sugli avvenimenti
dal vivo, e ha fallito - in realtà finisce per assoggettarla agli eventi, per organizarla.
Ma forse si è solo lasciato prendere dai “fiori nel cannone”. La metodologia dello
studioso assoggetta alle emozioni, in ambiente a lui esotico, e alla
complessità di un mondo che vede ma non conosce, denso, stratificato, nella
lingua, la storia, le forme religiose, e anche nell’organizzazione politica, al
coperto dell’impero, del partito che non c’è, della vita minuta, quotidiana,
attorno alla moschea e ai mollah.
Più da vicino Foucault
riflette, benché teorico esperto del potere, l’infatuazione khomeinista nel
senso rivoluzionario che si era prodotta in Francia. Dove Khomeiny era emerso, ospite
inatteso e sconosciuto, dopo l’esilio anonimo di molti anni a Kerbala n Iraq,
da un anno a Neauphle-le-Château, abbastanza vicino a Parigi per farne un
altoparlante sul mondo. Da cui gradualmente emerse, ayatollah non di prestigio
in patria, come il Grande Oppositore. Grazie a una diffusione artigianale ma
amplissima del suo proprio messaggio: invettive giornaliere pronunciate dal
balcone della villetta di campagna dove era ospite, riprodotte in milioni di
audiocassette, subito disponibili in Iran.
Khomeiny è stato esumato in
Francia da Giscard d’Estaing, presidente conservatore. Per motivi non noti: si
disse per interessi petroliferi, che però poi non si sono manifestati, oppure
per imponderabili orientamenti del cosiddetto Rito Francese, la centrale
massonica a indirizzo socio-politico. I fatti sono che Khomeiny era uno
sconosciuto. È stato introdotto in Francia dai servizi segreti francesi su
indirizzo della presidenza. Ai servizi segreti
quali si deve anche la scelta dell’immobile rustico sulla collinetta di
Neauphle-le-Château quale residenza di Khomeiny (“una residenza a malapena
clandestina alla periferia di Parigi”, nota forse perplesso lo stesso Foucault)
, il controllo dei visitatori, che sempre più numerosi affluivano, specie
giornalisti, e la diffusione immediata degli audiomessaggi. Ma fu recepito in
Francia come un Liberatore. Veniva anche a conclusione di un decennio in Europa
in cui la libertà si pensava si affermasse con le armi, col terrorismo in
Italia, Germania e Francia, ma anche, in Portogallo, con un intervento armato
pacificatore.
I fatti testimonieranno
presto in Iran in senso contrario alle attese. Il 16 gennaio lo scià si era
esiliato in Marocco. Il 31 gennaio Khomeiny ritornò, trionfalmente, dalla Francia.
L’1 febbraio prese il potere, forte di un partito della Repubblica Islamica, il partito
degli ayatollah. Che lo sanzionò Guida Suprema l’11 febbraio. Due giorni dopo
l’ayatollah Behesti, ministro della Giustizia in petto, avviava l’esecuzione sommaria dei prigionieri politici.
Qualche giorno dopo, il 26 febbraio, riprendendo le corrispondenze dopo tre
mesi, Foucault si limita a prospettare, senza impegno, “una polveriera chiamata
islam”. Anche se non è stupido: “11 febbraio 1979, rivoluzione in Iran”,
comincia col dire. Per poi chiedersi: “Siamo sicuri che sia così?”.
Foucault sa di che si tratta:
“Fino all’attuale dinastia”, ha scritto l’8 ottobre 1978, nella prima corrispondenza,
“i mollah nelle moschee predicavano col fucile al fianco”. Ma non se ne preoccupa,
si inebria. Ottima anche l’immagine plastica del santo in armi, “il re e il santo”,
il despota in armi e l’esule inerme, che lo sopraffà. Solo che Khomeiny non era
Francesco, e non è un santo – o
allora santi non sono inermi. Ma vede
poco, e male.
Molto peraltro Foucault non
vede. Non solo i barbuti col mitra. Ancora due mesi dopo si indirizza a
Bazargan, l’economista fatto presidente cache-sex,
sempre a nome del “Corriere della sera”, per spiegargli come fare la buona
rivoluzione. Del tutto ignora le donne, che pure, coperte di nero, donne
impavide che a viso aperto invece affrontano il matrimonio a tempo, affollano
le manifestazioni, fanno massa – le ignorano un po’ tutti, però, dopo Foucault,
che pure sono il tema sociologico di maggiore interesse, la donna nell’islam,
nello sciismo, in Iran.
Michel Foucault, Taccuino persiano, Guerini e
Asssociati, p. 128, ill. € 12
mercoledì 27 ottobre 2021
Problemi di base filosofici - 667
spock
Si può filosofare solo in greco e in
tedesco - Heidegger?
“Non c’è niente come l’insensato per
produrre ermeneutica” - U.Eco?
“Per passare alla storia, per durare,
bisogna essere oscuri, Eraclito già lo sapeva” - Id.?
“I grandi doni dell’inconscio si
riconoscono dallo spavento in cui ci lasciano” – Bachelard?
“Si sa cosa si pensa,\ quando si pensa” -
Goethe?
“Ciò che fa un uomo è come se lo facessero tutti gli uomini”,
Borges?
spock@antiit.eu
Fantasie erotiche a ottant'anni
Titolo
incongruo per un “romanzo” incongruo: un’infatuazione senile tutta sesso,
rimpolpata di un’avventura abortita con una “Trasteverina”, e del progetto
lungimirante di una serie tv sui personaggi del Giudizio Universale di
Michelangelo per un anno giubilare. Un assemblaggio, di tre racconti, sotto un
titolo anonimo, tutt’e tre non conclusi, che però fila via con lo stesso ritmo
di sempre del Graham Greene italiano, si leggono d’un fiato.
Paseo
de Gracia è titolo rimediato: la strada dello struscio a Barcellona c’entra nel
racconto per una passeggiata, mezza pagina. Entra nel titolo perché un anonimo
ha detto celebremente che tutti vi s’incontrano come al giudizio universale – ma allora tutti i romanzi, tutti i titoli di romanzo dovrebbero essere Paseo de Gracia?
Il
racconto centrale, lasciato a mezzo, è di un amore tutto sesso. Con un’amica di
gioventù della moglie del protagonista. Donna insipida e sottomessa, che si presta muta a ogni
fantasia, anche feticistica. Una trasgressione: “Una spedizione nuova,
speleoerotica, in buie, profonde spelonche voluttuose e caverne inesplorate”.
Anche – ancora gesuiticamente, Soldati ottantenne ritorna all’imprinting - “un
caso di scelta tra veritiera crudeltà e pietà silenziosa”. Anche Soldati, come già Buzzati, Moravia, lo stesso Pasolini,
soggiace al trend del porno d’autore,
effetto ritardato della “liberazione” anni 1960, della generazione a loro
successiva.
La
Trasteverina, così detta perché “pazzerellona”, è un ragazzo-ragazza milanese,
in realtà donna di trentacinque anni, “dagli occhi di zaffiro”, “bleu savoja”.
Un omaggio dichiarato alla “donna milanese” – per il resto un racconto interrotto.
Il
soggetto e la sceneggiatura del Giudizio Universale hanno l’andamento di una
produzione di grande impegno, che mobilita banche e Vaticano, in un quadro di suspense, da giallo.
Un
divertimento di Soldati agli ottant’anni. Con alcuni cameo. In sintesi, mezza pagina, la storia felice della Repubblica Italiana
prima del diluvio, nel 1987: “Socialista, l’Italia non lo è veramente neanche
oggi, ma moderna sì: ha sindacati, cure mediche, pensioni”. Pensioni? “Fino al
1946 la sola parola ‘pensione’ faceva ridere tutti”, tutti quelli che non erano
impiegati dello stato. Profetico anche, il capitolo pensioni, roba da non
crederci, chiudendo così: “Allo stesso modo, oggi, si schernirebbe come un povero
scemo chi mostrasse di credere in un prossimo avvenire quando le comunicazioni
telefoniche in tutto il mondo non costerebbero più un soldo per nessuno” - nel
1987 il cellulare satellitare si preannunciava, ma carissimo, e internet era
ancora indietro di una dozzina d’anni.
Mario Soldati, El Paseo de Gracia, Oscar, pp. 266 €
9.50
martedì 26 ottobre 2021
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (472)
Giuseppe Leuzzi
Giuseppe Berto,
volontario in camicia nera in Libia nel 1942, nelle settimane di Alamein, trova nel suo battaglione
molti “complementi”, militi cioè arruolati: “Si trovano in Africa da appena un
anno, sono brava gente, tutt’altro che bellicosi, e volontari per modo di dire.
Sono in gran parte braccianti siciliani e calabresi, con moglie e figli a casa,
arruolati con un trucco”: disoccupati, che il federale ha convinto ad arruolarsi
con la promessa di un lavoro – per magnificare la fede fascista nel suo distretto.
Questi “complementi”,
aggiunge Berto, “non è detto che siano dei cattivi soldati”, anzi, sono
migliori degli anziani, “antemarcia” convinti. “Certo, desidererebbero tornarsene
a casa, magari a mangiare pane e peperoni”, ma questo non essendo possibile si
adattano: “Appena ricevuta la paga spediscono il vaglia a casa”. La paga, cioè
il “soldo” militare, pochi centesimi al giorno.
Anche Berto trova in questi
“complementi” siciliani e calabresi al fronte in Africa un’attitudine alla
celia, malgrado il rischio di morte improvvisa, o di sfacelo fisico, tra
granate e schegge, da terra e dall’aria. Allo scherzo, alla divagazione – quello
che in calabrese si dice “zannella”. Ne ricava la lezione, che validerà ancora
vent’anni dopo, autore di successo in tempo di pace, che è “l’unica via per sfuggire alla paralisi
della nevrosi”.
In un’intemerata contro Roma sul “Corriere della sera”, la solita solfa di quant’è bella Milano, il giornalista Segantini può permettersi di dire: “In alcune Regioni del Sud ci sono più discariche che Comuni”. Tutto si può dire?
Si fa il
quadro a fine settimana e si dà l’Italia in ritardo sull’obbiettivo di almeno
una prima vaccinazione al 90 per cento entro novembre – la media è all’86 per
cento. Dando la colpa a tre regioni meridionali, Sicilia, Calabria e Campania,
ferme attorno all’80 per cento. Senza dire che hanno i vaccini contati e in
ritardo.
Più indietro
di tutti sui vaccini sono Trieste e Bolzano. Dove le dosi ce le hanno ma non le
usano. E questa sì che sarebbe una notizia. Ma la Mitteleuropa non “fa notizia”
in negativo, solo il Sud può “farla”. Anche se “basta la parola”, ed è detto
tutto.
Vissi d’aria
Nord e Sud,
la tecnica e la cultura? La ricchezza e la povertà? Nella profusa conversazione
con Umberto Eco in difesa del libro, “Non sperate di sbarazzarvi del libro”, lo
sceneggiatore francese Jean-Claude Carrière, storico della stupidaggine,
arrivati a “Cuneo”, la Cuneo delle vecchie barzellette, osserva: “Cuneo è al
nord dell’Italia. Ho l’impressione che per ogni popolo le persone molto stupide
sono sempre al Nord”. Eco spiega così l’impressione: “Beninteso, perché è al Nord
che si trovano più persone che soffrono di gozzo, è al Nord che ci sono le
montagne che simboleggiano l’isolamento, è ancora dal Nord che si presentavano
i barbari per irrompere sulle nostre città. È la vendetta della gente del Sud
che ha meno denaro, che è tecnicamente meno sviluppata”.
Poi Eco aggiunge:
“La gente del Sud ha sempre rimproverato a quella del Nord di mancare di cultura.
La cutura è talvolta l’ultimo baluardo della frustrazione tecnologica.”.
È sempre Otello
Profazio, “ ‘cca ‘ndavimu l’aria” – sia pure musicale. Cultura è un po’ troppo:
vuole studio, applicazione, e fiducia, o rispetto degli altri. Senza, resta l’aria
– finché sarà respirabile.
Il luogo della creazione
Il Sud come
luogo della creatività prospetta Rilke nella corrispondenza intima con la
pianista Magda von Hattingberg, il Sud Italia e il Sud Europa: la Sicilia,
Genova, Firenze, Verona, Roma, Capri, Duino, le traduzioni da Michelangelo,
l’Andalusia (Ronda, Siviglia, Condoba), Toledo, l’Egitto. La Sfinge al Cairo,
la sera al tramonto e alla luce lunare, in solitudine, astraendo dalla massa turistica,
è esperienza decisiva per sbloccarne la vena inaridita – l’effetto saranno le
“Elegie di Duino”. O: “Quando mi ricordo della violenza immediata scatenata da
qualche frammento di musica antica, come ne ho potuto ascoltare in Italia, in
Spagna, o al Sud della Russia”.
Violenza,
certo, di poeta. Di musiche che ora si rubricano, alle università del Sud
Italia, come ballo dei mafiosi - i mafiosi ballano, come i topi? Come tutto del
resto si rubrica mafioso, il ballo come il cibo, il ghiro dopo la capra, o l’abbacchio,
e l’amore filiale. E se il male del Sud fossero i Carabinieri e i Procuratori
della Repubblica, che invece di arrestare i malviventi indulgono al
sociologismo? La rete sottile, vieta ma salda, di una sorta di “male
istituzionale”?
La primavera
è a Sud: “La primavera che più sento è quella conosciuta nel Sud
dell’Italia, e quella davanti a cui mi sono trovato, giusto un anno fa, nelle
montagne a sud della Spagna, immerso in sensazioni indicibili”. Oppure, in
città, solo a Roma: “La primavera in campagna è leggiadra, ma la primavera in
città!”, come a dire che disgrazia. Eccetto che a Roma: la primavera “Roma se
la serra al petto, Roma è emozionata, Roma ne fa una festa, Roma, quando essa
arriva attraverso la campagna già stanca per il turbinio di sensazioni,
Roma l’accoglie come il padre il figliuol prodigo” – non una grande
similitudine, ma l’intento è esornativo. Ma pure l’inverno è memorabile: a Capri,
dove ha trascorso alcuni mesi tra 1906 e 1907, ha “accumulato immagini” di cui
ha “vissuto per molti anni”.
Il Sud ha
anche un effetto terapeutico sulle nevrosi del poeta: “Negli ultimi difficili
anni sono stato due o tre volte sul punto di sottopormi ad analisi, presso
questo mio amico (Victor Emil von Gelbshattel, n.d.r.), o presso lo stesso
Freud; infine, nell’autunno del 1912, ero di fronte ad un bivio: analisi o
viaggio in Spagna. Sai che ho scelto il viaggio”. Che si è rivelato un paradiso:
a Ronda, “una piccola cittadina spagnola, non lontana da Gibilterra”, che
ricorda “incomparabile, era l’Antico Testamento dipinto con tutta la ricchezza
dell’immaginazione”, ha trascorso “notti d’una intensità inaudita”, sotto un
cielo che di continuo si apre - “il cielo aveva qualcosa di grandioso, e
grandiosa era l’espressione che l’essenza della terra riceveva dalle ombre
delle nuvole…”.
Sud è stato
per molto tempo un riferimento spendibile, e anzi un blasone, quasi snobistico
- la primavera nelle montagne in Spagna Rilke non aveva bisogno di specificare
“a sud della Spagna”. Il Sud è servito a mezza Germania per raffinarsi, in
poesia e in prosa, nel primo Novecento: Rilke, Hofmannstahl, George, Trakl, Benjamin, Jünger, fino a Ingeborg
Bachmann.
Sicilia
Si fa
meraviglie di Manlio Messina, assessore regionale al Turismo, Sport e Spettacoli,
settore clientelare per eccellenza, dove anche si spende molto, che ha
denunciato chi intendeva corromperlo. Come un’eccezione, una rara avis. Mentre
è normale, l’incorruttibilità dell’uomo di diritto, nella pratica isolana. La
mafia non è corruzione, è minaccia.
Raccontando
di Pippinu ‘u Lombarduu, nelle sue cronache di Sicilia, “Le parole sono pietre”,
Carlo Levi dice che il maestro mlanese diventato capo brigante in Sicilia al
processo nel 1860 si vendicò rivelando i suoi contatti con la Polizia e le autorità.
Parlò, dice, perché non essendo isolano non si sentiva obbligato dall’omertà.
Ma non c’è di
più facondi – Sciascia è un’eccezione – dei siciliani. Di cui si vogliono le
labbra murate dall’omertà. Mentre sono chiacchieroni e facili accusatori, non
solo dei potenti, come usa in tutta Italia, anche della povera gente, nonché
dei parenti e degli stessi amici. Per non dire delle lettere anonime – lo stesso
Sciascia non poté non rilevarle.
È bizzarro,
guardando l’isola da remoto, notarne tante caratteristiche contrarie alla fama
corrente. Malgrado il tanto, perfino eccessivo, sicilianismo, parlare di e
sulla Sicilia come di un mondo a parte, e la imperdibile sicilutidine. Che non
scalfiscono gli stereotipi. Sono costruiti anch’essi, sicilianismo e
sicilutidine, sugli stereotipi?
Oscar Farinetti
è entusiasta, imprenditore del cibo, del Sud – “vendendo la polenta non si va
da nessuna parte”. Ma non sopporto più, dice, “di sentirmi dire che la colpa
dei loro guai è dei piemontesi”. E mette a segno due ganci. “Con le colpe degli
altri non si va da nessuna parte” è uno. L’altro: “In Sicilia ci sono più di
1.500 chilometri di costa, tra le più belle del mondo. Quella, Garibaldi non l’ha
portata via. In Romagna la costa non è lunga più di cento chilometri e non è la
più bella del mondo”.
Calabro
Cheese, la recente acquisizione americana di Granarolo, ha dietro la vicenda di
una diversa emigrazione. Come Commisso, il patron
della Fiorentina (dopo averci provato con il Milan), emigrato dalla Calabria
per creare Mediacom, quinto operatore tv via cavo negli Usa, Giuseppe Calabrò,
americanizzato Joseph Calabro, è partito da Graniti, sopra Taormina, nel 1948,
laureato in Matematica e Fisica, dopo aver fatto la guerra come sottotenente, e
ha creato un piccolo impero con la semplice idea di importare formaggi
italiani. L’emigrazione come ricerca di spazi, di mercati.
leuzzi@antiit.eu
Del Novecento, del disagio
Una
raccolta cui Tabucchi lavorò a lungo nei suoi ultimi anni (l’ultimo di una serie
di volumi-spazzini, sistematori: “Racconti con figure”, “Viaggi e altri viaggi”),
poi completata dalla sua studiosa Anna Dolfi, che la correda di una nota sui
criteri della compilazione e i riferimenti bibliografici dei testi. Articoli e
qualche saggio o conferenza che Tabucchi non aveva incluso in precedenti raccolte,
di letteratura, di cinema, e di amicizia, apparsi per lo più su “la Repubblica”
e il “Corriere della sera”. La vis
polemica quale ancora usava ai suoi tempi (ma Tabucchi è morto nove anni fa,
il tempo ha accelerato?): “Anni fa”, è l’avvio, “mi capitò di avere una
polemica con un semiologo italiano che scrive anche romanzi”, che sarebbe
Umberto Eco. Ma senza l’acredine politica che lo ha afflitto negli ultimi
“interventi” – fece “fascista” pure il presidente Ciampi.
Più
a suo agio, disteso, in materia di lettere e arti. Con “un poco” di molti, il
suo Pessoa, ma anche Kipling, e perfino Céline, Borges e Cortázar e Guimarães
Rosa ma anche Petroni (il dimenticato “Il mondo è una prigione” - con i
“livellatori degli ideali”) e Primo Levi, Drummond de Andrade naturalmente,
Mercé Rogoreda, Manuel Puig, e “gli amici”Vargas Llosa, Vila-Matas, Del Giudice,
Norman Manea, Montalbàn. C on un ricordo lirico di Marylin Monroe, e una sorprendente
analisi, vent’anni fa, di Pedro Almodovar. Con quattro necrologi, genere poco
praticato che gli riesce, di Elvira Sellerio, Luciana Stegagno Picchio,
Zanzotto e Antonio Cassese, con cui condivise le battaglie giuridiche,
pacifiste. Con un gusto forse meno esercitato sui più giovani: di una mezza
dozzina si leggono recensioni e prefazioni non più affidabili.
I
quattro saggi iniziali, qua e là utilizzati in articoli di giornale e
interventi vari, in continuazione rimpolpati e riscritti. sono di grande lettura.
Nell’“Elogio della letteratura”, quello che comincia con la polemica contro Eco
“maestro di scuola”, e nei due saggi che fanno un bilancio del Novecento,
“Controtempo” e “L’araba fenice”, fa del Novecento il secolo del disagio.
Dell’autore, dell’autore nel secolo. E dell’inevitabile deriva,
nell’inquietudine di Pessoa, il “rimorso” di Gadda, la “rabbia” di Pasolini –
il Novecento è molto altro, ma Tabucchi è persuasivo: la malinconia,
l’incertezza - anche nella forma attenuata dela mancanza, della saudade , del desìo, dello spleen,
dell’ansia di Auden (“The Age of Anxiety”) – domina il secolo.
Di
Gadda e Pasolini in “Controsenso” delinea perspicui riferimenti alla classicità
greca: “Pasolini e Gadda sono Prometeo ed Epimeteo, i gemeli con la faccia
rivolta verso la comprensione del futuro e la comprensione del passato. Ma in
realtà sono un’unica medaglia le cui facce sono indistinguibili”. Difficile
coniugare insieme Pasolini e Gadda ma Tabucchi ci riesce.
“Chiardiluna”
è un itinerario impertinente sulle tracce in letteratura del sole e della luna.
A partire da Leopardi, “colui che con la luna ha dialogato (direi addirittura
che con lei ha intrattenuto una corrispondenza postale) eleggendola al contempo
a innamorata, confidente, sorella, madre putativa e a testimone impassibile
della propria malinconia e delle disgrazie degli uomini”.
L’elogio
di De André è da iperuranio. Il cantautore è il primo aedo. La poesia nasce e
rinasce, in ogni epoca e luogo, con la musica.
Antonio
Tabucchi, Di tutto resta un poco,
Feltrinelli, pp. 303 € 12
lunedì 25 ottobre 2021
La scoperta dell’Asia
All’inchiesta
del’ “Economist” sul potere americano nel mondo oggi, dopo il ritiro
dall’Afghanistan, una delle personalità intervistate, Maleeha Lodhi, “stratega
e diplomatica pachistana”, dice: “L’America deve imparare dai suoi passi falsi
in Asia”.
A
ripensarci, l’America in Asia ha sempre compiuto passi falsi. Dalla pace dura
imposta al Giappone all’irrisolto conflitto israelo-palestinese, alla Corea, alle
ostilità indo-pakistane al tempo di Nehru, e di Indira Gandhi, al Vietnam, con
Laos e Cambogia, alla guerra commerciale col Giappone, alla “perdita” dell’Iran,
alla guerra del Golfo, al terrorismo islamico fino all’11 Settembre e oltre,
alle guerre in Afghanistan, Iraq e Siria.
L’egemonia
americana, forse distratta nel lungo dopoguerra da un inizio sotto il fungo
nucleare, dalla guerra fredda con l’Urss, si
è concentrata (limitata) sull’Europa. Con esiti anche ottimi sull’europeismo
nei paesi ex satelliti dell’Urss – l’effetto si rileva ora che gli Stati Uniti
non si occupano più della Polonia, l’Ungheria.
L’egemonia
americana è coerente con l’Europa per una affinità storica e culturale, che le
consente sia il dialogo sia la difesa appropriata? In Asia si deve allora
configurare come un disegno diplomatico – alla Kissinger, che però è europeo di
formazione.
Cronache dell’altro mondo globali (146)
“Preoccuparsi del declino americano è la
cometa di Halley della riflessione politica, sempre in orbita e ritornante” –
così l’“Economist”, presentando l’edizione speciale in edicola sul futuro della
pax americana, del potere americano.
Oggi è diverso? “Le domande sul potere americano nei confronti dell’Unione Sovietica o dell’economia giapponese sono evolute a sfide più amorfe: la Cina, il
cambiamento climatico, il sovradimensionamento imperiale, e la polarizzazione
interna”.
A ridosso del ritiro dall’Afghanistan il
settimanale ha sentito alcuni commentatori variamente illustri. Anche avversi.
La risposta è che l’America è sempre “forte abbastanza per progettare il potere
globalmente”. Ma deve superare le divisioni interne. Questa è precisamente la
risposta di Francis Fukuyama. E più o meno degli antipatizzanti Arundhati Roy,
la scrittrice anglo-indiana, e Noam Chomsky.
Il linguista emerito Chomsky, da sempre
ostile alla politica imperiale americana, dice gli Stati Uniti senza rivali per
forza economica e politica, “con conseguenze terribili per il mondo”.
John Bolton, l’ex consulente della
National Security Agency, spiega che nuove alleanze sono in corso per contrastare
la minaccia cinese.
Il cino-americano Minxin Pei, scienziato
politico di Shangai, ora allo Hudson Institute, spiega che la Cina continuerà a
crescere per qualche tempo, ma affronta ostacoli indilazionabili: l’invecchiamento
della popolazione e l’assetto politico, che non potrà essere il duro regime attuale.
La guerra perduta di chi ci credeva
27
dicembre 1942, “oggi compio 28 anni, e questo è il settimo compleanno che passo
sotto le armi: gioventù mussoliniana”. E non è finita, lo scrittore ne passerà un’altra
mezza dozzina, tra guerra e prigionia.
Giovane fascista e volontario di guerra,
Berto racconta nel 1954, ancora fresco del successo del debutto, “Il cielo è
rosso”, 1947, la guerra dal vivo, nel “ripiegamento” continuo, tra Libia e
Tunisia, che segnò l’inizio della fine della guerra, della sconfitta. Da
volontario in un battaglione di camicie nere, una ferita di guerra in Africa
Orientale (“un piede che funziona male per causa di guerra, ed è soggetto a
gonfiori e congelamenti”) e l’ulcera ostacolandogli il richiamo nell’esercito.
Domenico
Scarpa, che ha curato la riedizione, la correda in introduzione di un assestamento
dell’opera di Berto, della sua difficile collocazione dopo il successo dell’opera
prima, “Il cielo è rosso”, e del suo a-fascismo, a fronte di un antifascismo altrettanto
invadente. Con una lunga nota editoriale in postfazione, gran lavoro filologico
nell’officina della scrittura e poi della pubblicazione. Questa è curiosa: Einaudi, subentrato a
Longanesi, primo editore di Berto, col non felice “Il Brigante”, accetta subito
la “Guerra”, convinto anche dai pareri entusiasti di Natalia Ginzburg e Italo
Calvino, ma i tre se la lasciano sfuggire mandando le lettere d’impegno
all’indirizzo sbagliato – tre mesi dopo, quando lo rintracciano, Berto è passato a Garzanti (a Attilio
Bertolucci per conto di Garzanti? Scarpa non esamina questo probabile iter: la
“Guerra” esce da Garzanti nel 1955 insieme col Pasolini di “Ragazzi di vita”,
che a Garzanti è sicuramente stato consigliato, se non imposto, da
Bertolucci).
Questa
“Guerra” è un “diario”, dice Scarpa, riflessione insieme col racconto, in preparazione
dell’“esaurimento nervoso” e de “Il male oscuro”: un laboratorio della Grande
Opera. Un esperimento in “orale illustre”, dice ancora Scarpa - cosa che non è, per la verità, dettaglista, scritta, costruita. Nelle parole di
Trevi, prefatore di una precedente riedizione: “Uno slittamento dal racconto
(che è poi il modo tradizionale di affrontare il groviglio della nevrosi) a una
forma di recitazione”.
Purtroppo,
dopo l’avvio, con l’eroicomica dell’arruolamento volontario contro ogni
disposizione di legge, sanitaria, regolamentare, è il racconto della guerra
come si vuole che gli italiani la facciano, alla Monicelli-Sordi: improvvisata,
disorganizzata, incapace. Berto ci ha ripensato una dozzina d’anni dopo averla
fatta nel 1942-43, con un occhio all’“aria che tira” nel dopoguerra, della
giustificazione anche se non richiesta. E scrive sotto la forma del diario, di
uno come i tanti che “servirono il fascismo con la convinzione di servire la
patria”. Un diario recuperato a distanza, anche se alla fine spiega che all’ultimo
“ripiegamento” gli hanno perso la cassetta personale, con i libri “mai sfogliati”,
e i tanti “fogli pieni di appunti e riflessioni, sui quali sognavo di costruire
un giorno la mia personale fama di scrittore combattente, campione dell’epoca
mussoliniana”.
È un
racconto di testa. Non per opportunismo, forse, ma
in chiave disimpegnata, perfino ilare. Il tema politico – perché la guerra,
perché contro gli Alleati, per quale fascismo – liquidando in mezza pagina, una
conversazione con un capomanipolo romano, del gruppo fascista universitario,
con “idee molto più chiare”: la Germania è da temere, ma gli Alleati ci costringono a farla con la
Germania, dopo bisognerà comunque riprendere la rivoluzione fascista, anche
senza o contro Mussolini, “andare verso il popolo”. Il “diario”, lo stesso Berto
confessa all’inizio, di uno che, “benché ostinato volontario”, prova “una profonda
avversione per le divise” – che però ha vestito per due anni a Vicenza, quattro
in Africa Orientale e ora veste in Nord Africa. Tutto un po’ confuso. Compreso il suo
ruolo in Nord Africa: lui, una sorta di “antemarcia”, volontario a ogni costo,
è addetto alla sussistenza, come a dire un capo magazziniere e un capo cuoco. .
All’arrivo
a Tripoli gli ufficiali dell’esercito sono sfuggenti col tenente Berto,
considerando i miliziani irregolari e fanatici. Sempre a Tripoli, al comando
tappa, “non sanno dove si trovi il 6° battaglione camicie nere”, quello di
Berto, “anzi, mettono addirittura in dubbio che in Africa settentrionale esista
un battaglione di camicie nere”. È la vena ironica con cui il Berto volontario
contro venti e maree segnerà tutto il “diario”. “Vedo troppi antifascisti che
si tirano dietro i difetti del fascismo”: Berto lo dirà dieci anni più tardi
della redazione di questa “Guerra”, in un’intervista con Giancarlo Vigorelli,
ma è lo spirito con cui l’ha scritta.
Berto
debutta con la guerra, nei suoi primi quattro romanzi, “Il cielo è rosso”, “Le
opere di Dio”, “Il brigante” e questo “Guerra in camicia nera”. Qui si riscatta
dalla sindrome pacifista antifascista, con l’intermezzo di un romance a Tunisi, nell’ultima battaglia a El Hamma in Tunisia, dove il battaglione perde un centinaio di uomini, compresi
il Comandante e il comandante del primo plotone. Berto e il suo plotone, quel
poco che ne resta, sono fatti prigionieri dai “negri”. Da soldati senegalesi
a cui i francesi hanno insegnato che gli italiani sono meno cattivi dei tedeschi,
e quindi non li hanno passati subito per le armi.
Noioso,
un po’, però onesto. Scarpa accosta Berto a Nievo. Che lo stesso Berto richiama
in esergo. Per la scrittura agile. E più per quel misto di infatuazione e
distacco, di entusiasmo e di reticenza, non volendosi confondere e dissolvere
nell’ordinario, la trascuratezza, la superficialità, la gloriola sciocca. In postfazione,
ricostituendo l’iter dell’opera, il curatore recupera un intervento di Berto sul
settimanale romano “Giovedì”, fondato da Giancarlo Vigorelli, a un “dibattito
sulle nuove generazioni”, il 13 febbraio 1953, in cui lo scrittore delinea le
sue “ragioni del fascismo”: “Per la prima volta nella nostra storia avevamo
assunto un ruolo da protagonisti, e siamo clamorosamente falliti”. Ingannati? Sì
e no. Troppo facile dire “ci hanno ingannati”, oppure “ci hanno costretti”. Ed è
vero anche oggi che “ci ostiniamo a incolpare pochi, come se noi in quel tempo
non avessimo partecipato alle vicende di cui eravamo bene o male attori”.
Giuseppe
Berto, Guerra in camicia nera, Neri
Pozza, pp. 283 € 17
domenica 24 ottobre 2021
Problemi di base diabolici - 666
spock
Ch e fare?
Se il vinaio è astemio
Il tabaccaio salutista
il macellaio vegano
il violino mancino
la seduttrice algida
il medico no vax
e il tassista con la destra
si consulta al telefonino,
anche con la sinistra.
spock@antiit.eu
L’orgasmo a distanza
Rilke,
che aveva impedito ai suoi vicini a Parigi di fare musica, così confessa, a
scoppi di collera (e di carta bollata?), finisce per teorizzarne il linguaggio
(suono) come l’anima del mondo, e della poesia – della ritrovata vena poetica. Il tutto
avviene qui, in una corrispondenza fitta che è una amitié amoureuse, un mese di scambio epistolare con un’ammiratrice sconosciuta, una pianista,
tra fine gennaio e fine febbraio 1914.
Un
rapporto intenso. Concettoso, ma anche di confidenze e ardori. Lei diventa “Benvenuta”,
rimettendo in moto, pensa il poeta, la vena inaridita. Un rapporto per lunghi
tratti insostenibile, orgasmico - le lettere di Rilke. Una sorta di
masturbazione mentale. Un Rilke, pure corrispondente facondo di signore e
signorine, qui come fulminato: esuma per Magda e le confida ogni sorta di
sogni, desideri, e problemi, familiari, infantili, creativi, glieli spiega e se
li spiega.
Uno
scambio di lettere lunghe e lunghissime, quelle di Rilke, importanti per precisare
tematiche e problematiche, spirituali e tecniche, di ispirazione e scrittura.
Che le curatrici del volume, Pina De Luca e Enrica Lisciani Petrini, analizzano
e commentano per esteso in introduzione, rispettivamente, e postfazione. Rilke scopre
il Tonkunst e trova nella musica la ragione
e il mezzo della poesia. Della musica non più “Crocefissione”, come lui la
sentiva, ma come “Resurrezione”, quale Magda gliela prospetta.
La
relazione scema e si chiude, con scarse appendici, dopo l’incontro personale,
fisico, lui quasi quarantenne lei trentenne. Rilke va da Parigi a trovare Magda
a Berlino, e poi l’accompagna in una serie di concerti, Jena, Monaco di
Baviera, Parigi e altre città. Dedicandole dei versi. La invita anche a Duino, dal
26 aprile al 5 maggio. “A Duino”, scrivono le curatrici in nota, “Rilke si era
a tal punto allontanato da Magda che la loro relazione si era sciolta. Nel
desiderio di reimmergersi nella solitudine, Rilke lasciò Venezia e andò da solo
ad Assisi. Magda rimase ancora per un po’ lì”.
Rilke
amava “l’amore a distanza”, spiega alla fine Lisciani Petrini - le basta il semplice,
inequivocabile, riferimento a “Il Testamento”, uno dei testi più noti del poeta.
“Certi
scrittori sono meglio nelle lettere che nei romanzi. Come Rilke, per dire”, è
il parere di Rosellina Archinto, editrice degli epistolari.
Rainer
Maria Rilke, Lettere a Magda, Mimesis,
remainders, pp. 155 € 7,50
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