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astolfo
Appennini – Nome di
origine incerta, come si sa, ma più probabilmente celta, ritrovandosi anche
nella non montuosa Inghilterra, i Pennini. In celtico, come in ligure, pen o ben è montagna, cima. Nome quindi rimasto nel Nord Italia
dall’epoca dei Celti. Non registrato nella geografia antica, di Strabone et al., riemerso in epoca tardo-moderna,
tra Sei e Settecento.
Lo
scrittore Graham Greene, nell’autobiografia “Una specie di vita”, i Pennini
vede “grigi, con un po’ di pecore vaganti su colline desolate deserte. abbozzi
di mura di pietra e sparse capanne con un’aria irlandese di fatiscenza”.
Awoke-woke – Risveglio,
nella pronuncia afroamericana del corretto “awake”. Detto dei movimenti periodici
di rivendicazione delle minoranze “rivoluzionarie”, che si ritengono per
qualche motivo danneggiate o coartate. Con significato ora, però, curiosamente
sia elogiativo che spregiativo. Apprezzativo da parte dei movimenti di
rivendicazione, radicali (liberal),
nel senso di “svegliati!”. Spregiativo
da parte di chi contesta la contestazione, anche solo per il suo radicalismo –
che politicamente si direbbe di destra, ma è ora anche di centro. Possono così
essere woke sia i movimenti Black Lives Matter e #metoo, che i critici degli stessi – sia
gli oppositori frontali che i critici degli eccessi rivendicativi. Come già per
le contestazioni precedenti del politicamente
corretto e della cancel culture.
L’ambivalenza
in particolare si produce per i prodotti culturali di massa, film, fumetti,
serie tv, videogiochi, che abbiano tentato di cavalcare l’onda dei movimenti di
rivendicazione, ma, prodotti di massa, inevitabilmente risultano indigesti al
pubblico generalista – da qui il detto ora popolare, “get woke, go broke”, risvegliati e fallisci.
Discussa
è l’origine del termine, se non che proviene dalla parlata afroamericana. I
vocabolari la fanno risalire alla
canzone Master Teacher”, di Erykah Badu, una cantautrice, che reca
l’espressione rimata “I stay woke’e”, sto in guardia. La canzone è del 2008. Ma
era woke già il movimento dei diritti
civili degli anni 1960, inizialmente nero poi misto.
Von Bernstorff – Un “conte von Bernstorff,
primo segretario all’ambasciata tedesca a Londra”, arruola Graham Greene
ventenne, nel 1924, come spia. Il futuro scrittore se lo trova seduto sulla sua
poltrona nella sua stanza al college Balliol, “la mia sola bottiglia di brandy
quasi finita”. Era successo che Greene, indignato dalla lettura di un libro di
racconti, “Defeat”, di Geoffrey Moss, sui tentativi di creare un Palatinato
indipendente, dentro o fuori della Germania, e forse dentro la Francia, subito
dopo la guerra, aveva scritto all’ambasciata tedesca a Londra per offrire i
suoi servizi come propagandista, accampando entrature in numerosi giornali.
Pronta era arrivata la risposta, portata dal conte. Seguito da altri importanti
e strani personaggi: una bellissima contessa von Bernstorff, cugina del conte.
Un giovanotto dal lungo complicato tiolo, che vantava una più nobile e lunga
discendenza dagli Hohenzollern, e uno strano Capitano P. Fino al giorno in cui,
convocato all’ambasciata, il futuro scrittore ebbe dal conte un pacchetto, con
l’istruzione di bruciare la busta – “che naturalmente ho conservato come
ricordo”, scrive Greene. Dentro c’erano 25 sterline, “più che sufficienti in
quegli anni per un lungo viaggio tra Reno e Mosella”, dove la repubblica del
Palatinato doveva sorgere.
Col
viaggio pagato dall’ambasciata tedesca, finì la collaborazione di Greene. Che
però ricorda del conte: “Un uomo che amava il lusso e i ragazzi, e frequentava
uno club equivoco chiamato L’Abissino a
Soho, Archer Street. Nessuno avrebbe previsto che, dentro quelle pieghe di
carne si nascondeva un eroe che avrebbe gestito una via di fuga per gli ebrei
dalla Germania alla Svizzera nell’ultima guerra, per poi essere giustiziato nella
prigione di Moabit”.
Il
Benrstorff di Graham Greenme, di una famiglia che contava molti diplomatici e
anche un ministrod egli Esteri della Prussia, era Albrecht. Che era familiare di Oxford preché ci aveva
studiato, e prima di tornare a Londra all’ambasciata,
era sto all’Alta Commissione Interalleata per la Renania. Dopo Londra, nel
1933 fu espulso dal servizio diplomatico per non aver prestato giuramento a
Hitlwer. Con la banca Wassermann, lavorò
a trasferire capitali ebrei all’estero. Fino al 1940, quando fu per questo imprigionato
a Dachau. Presto liberato, entrò in contatto con alcuni circolik di opposizione,
il circolo Solf e il circolo Kreisau. Con i quali collaborò al tentativo di
colpo di Stato del 20 luglio 1944. Arrestato, fu destinato in un primo momento
a una pena leggera, la detenzione nel lager di Ravensbrück. Ma a fine 1944 fu
trasferito alla prigione berlinese di Lehrter Strasse, nel distretto di Moabit,
sotto il controllo delle SS, che lo torturarono. Fu una delle ultime vittime di
Hitler rinchiuso nel bunker, giustiziato il 24 aprile 1945 - otto giorni prima
della capitolazione della capitale in mano ai russi.
Poor Laws – Il reddito di
cittadinanza ha avuto illustri secolari antenati nelle Poor Laws inglesi –
applicate anche al Galles, meno all’Irlanda e alla Scozia. Varie norme per il
sostegno dei poveri risalgono all’epoca Tudor. Ma la prima Poor Law si fa
risaalire al 1572, durante il regno di Elisabetta. Con riferimento soprattutto
ai mendicanti e ai vagabondi. Nel 1834 una nuova Poor Law tentò una soluzione
radicale del problema povertà. Oggetto presto però di ripulsa radicale.
La
legge, promossa dal Parlamento, aveva il triplice obiettivo di ridurre i costi
dell’assistenza ai poveri, i costi locali, di parrocchie e comuni, di eliminare
dalle strade i mendicanti, e di spingere reg i poveri a lavorare in qualche
modo per mantenersi. Sottraeva l’assistenza alle parrocchie, e creava della workhouses , case lavoro, una sorta di
carcerazione benevola, senza sbarre, dove i poveri e le loro famiglie dovevano
essere rivestisti, sfamati, e avviati al lavoro, anche se poco retribuito. Ai
bambini veniva assicurata una formazione scolastica di base. Ma la legge durò
poco, contestata da destra e da sinistra. La “workhouse” fu criticata come una
“prigione dei poveri”. Ci furono anche rivolte degli assistiti –non a Londra ma
nelle città del Nord dell’Inghilterra sì. I precetti della Poor Law 1834 non
furono aboliti (si procederà all’abolizione solo nel1948, sostituendole con una
legge di assistenza (sociale) nazionale, National Assistance Act. Ma le workhouses restarono sulla carta. Mentre
si formavano nuove forme di assistenza, mutualistica fra lavoratori, e di
volontariato, privato, delle parrocchie e laico.
Repubblica Palatina – O del
Palatinato. È un progetto della Francia, tra il 1919 e il 1923, da potenza
vincitrice, di creare uno Stato indipendente dalla Baviera, cioè dalla Germania,
tra la Mosella e il Reno. Ne parla lo scrittore inglese Geoffrey Moss nel
volume di racconti “Defeat”, 1924. Criminali ted schi detenuti in prigioni francesi,
ladri, violenti, magnaccia furono liberati e deportati nel Palatinato per
aizzar e alla collaborazione. La polizia tedesca comandata di intervenire dal
Land di Monaco era stata brutalizzata. Il progetto non andò in porto per l’opposizione
della Gran Bretagna e degli Stati Uniti – dove il progetto francese veniva labellato
“Revolver Republic”. Ma in Germania gli elementi nazionalisti restarono a lungo
allarmati dal progetto. L’occupazione militare francese del’area, e nel 1923
anche del bacino della Ruhr a Nord, confortava questi timori.
Nei
fatti,. un primo tentativo separatista avvenne subito con l’occupazione
francese a fine 1918: d’accordo col generale francese Gérard, un Eberhard Haas,
di professione chimico, creò una Lega (Bund) del Libero Palatinato. A maggio
del 1919 Haas intimò al presidente del Palatinato, Theodor von Winterstein, di
pendere la guida del movimento separatista. Al rifiuto di Winterstein proclamò
l’1 giugno la “Repubblica del Palatinato”, con capitale Spira. Proprio la città
dove erano all’erta e protestavano gli unionisti, per il mantenimento dell’unione
con la Baviera. Subito dopo Haas perdeva pure l’appoggio del generale Gérard, e
il suo Bund finì nel nulla.
La
Baviera corse ai ripari contro il separatismo del Palatinato creando degli
uffici decentrati, a Mannheim e Heidelberg. E un apposito Commissariato per il
Palatinato, di cui fu a capo per periodo
Winterstein.
Nel
1923, in connessione con l’occupazione franco-belga in primavera della Ruhr,
con i conseguenti problemi d’inflazione e disoccupazione, la questione
Palatinato ebbe una nuova insorgenza. A opera di alcuni socialdemocratici, che
facevano capo a Johannes Hoffman, ex ministro del governo della Baviera, in rotta
col partito su posizioni paracomuniste, ma d’intesa col comandante francese de
Metz. Questa volta per un Palatinato indipendente confederato col Reich tedesco.
Il tentativo socialista finì nel nulla. Mentre prendeva piede, in parallelo con
l’iniziativa autonomista di Hoffman, un progetto di separazione totale del Palatinato
dalla Germania, e per l’adesione alla Francia, promosso da un Josef Heinz,
detto anche Heinz-Orbis dal suo luogo d’origine, che aveva formato in Corpo
paramilitare del Palatinato. Heinz prese per cinque giorni, tra il 6 e il 10
ottobre del 1923, il controllo delle città palatine Kaiserslautern, Landau e
Neustadt an der Haardt. Il governo legittimo
si arrese e il 12 novembre, a Spira, Heinz proclamò il Palatinato autonomo, in
unione con una Repubblica renana, filofrancese, a occidente del Reno. Mentre
Heins continuava a occupare nuovi territori nel Palatinato. Finché, con l’approvazione
del governo bavarese, Heinz e i suoi prossimi collaboratori il 9 gennaio 1924,
non furono trucidati, nel ristorante dell’albergo di Spira Wittelsbacher Hof,
da un kommando di una ventina di uomini della lega Bundes Wiking, al comando di
Edgar Julius Jung – “Tyll”, un pubblicista nazista antemarcia, che sarà
liquidato nel 1934 con le Sa. La repubblica del
Palatinato sopravvisse ancora alcuni giorni, ma non era più nell’interesse
francese – opponendosi Gran Bretagna e Stati Uniti.
astolfo@antiit.eu
Che succede se la guerriglia – c’era la guerriglia in Occidente cinquant’anni fa - prende l’ostaggio sbagliato? Graham Greene cava il bello dal brutto, come diceva Soldati. Non dal “buono, il brutto e il cattivo” di Sergio Leone, con il terrorismo non si poteva, negli anni 1970 l’Europa ambiva a farsi America Latina. Ma dall’insignificanza, in un’area periferica, il Chaco, l’Argentina al confine col Paraguay, dove solo tre inglesi insabbiati esistono: il console onorario rapito per sbaglio dai terroristi, invece dell’ambasciatore americano, è uno dei tre, il più insignificante. Sua moglie, che ha preso al bordello, è l’amante di uno degli altri due, il protagonista della storia, un medico figlio di un inglese esule politico in Paraguay. Il quale è a sua volta legato al capo dei terroristi, suo compagno d’infanzia. Il terzo è un inglese magro, presunto dottore in Lettere, che insolentisce gli altri due.
Un atto di coraggio: il romanzo esce nel 1973, su una cosa che pochi o nessun altro ha romanzato, il terrorismo si prendeva terribilmente sul serio, era il politicamente corretto dell’epoca, la rivoluzione. Oggi è quello che era al fondo, nell’intenzione di Greene: un vaudeville, una storia da ridere, di minuti equivoci. Anche se molto realistico, in quegli anni – si pensa sempre, da contemporanei, di vivere la storia peggiore, ma ce n’è sicuramente stata una peggio, almeno una. Questo nelle intenzioni, se c’erano – la storia sembra andare avanti senzo senso.
Un pasticcio, alla fine, un guazzabuglio. Che sembra a metà percorso - dopo molto dialogare, tanto richiesto dal genere giallo quanto più spesso superfluo - animarsi. I terroristi sono paraguayani, il presidente Stroessner è peggio di Andreotti con Moro, di un console onorario, inglese per giunta, e ubriacone, non gliene può frega’ de meno. E non solo l’amico d’infanzia pesa, che si era fatto prete, prima di farsi terrorista, ma anche il fantasma del padre emerge, che il protagonista non ricorda, essendosene separato con la madre da piccolo, per una vita comoda a Buenos Aires: è in carcere, torturato, morto, di malattia, sparato, deflagrato? E chi era, che voleva?
Ma è un falso scopo, non si viene a capo di nulla. Restano tre figure di inglesi insabbiati. Un ubriacone, il sedicente console, che si cerca la moglie al bordello. Il suo commensale al Circolo Italia, dove il cuoco ungherese propone ogni giorno il gulasch: un cosiddetto dottore in lettere, che lo disprezza. E un dottore in medicina che si fa tutte le donne, compresa la moglie del console. Tra gli entertainment, i divertimenti, di Graham Greene.
Ma non tirato via, non del tutto. Oltre che il terrorismo, racconta l’etilismo, che pochi o nessuno aveva ancora romanzato – l’etilismo diventerà “materia americana” ma qualche anno dopo, neanche di Hemingway, che pure in larga misura ne era morto, si diceva. Greene è persona colta e viaggiata, e in America Latina si trovava bene - meglio che in Africa, a giudicare dagli scritti che ne ha derivato. Per questo, in particolare, si dice grato a Victoria Ocampo, cui il libro è dedicato: “Con affetto, e in ricordo delle molte felici settimane che ho passato a San Isidro e Mar del Plata”. Una lumga vacanza, insomma.
Con una robusta presentazione di Domenico Scarpa.
Graham Greene, Il console onorario, Sellerio, pp. 440 € 15
spock
Russia vs.
Occidente: prima l’uovo o la gallina?
Viene prima Timoshenko, una ladra vestita
d’arancione, oppure Lukashenko?
Di un ladro si può dire che è rumeno, se è
rom, ma non che è rom?
Anche se ruba milioni, all’Inps, grazie al
patronato rom, sul reddito di cittadinanza?
Si può dire di un africano che è nero ma
non negro, e meglio colorato che nero – fa differenza?
Per salvare i giornali, ripristinarne la
lettura in ufficio che Mussolini ha proibito?
Si
pensa sempre, da contemporanei (vivendo l’oggi), di essere nella storia
peggiore, ma ce n’è sicuramente stata una peggio, almeno una?
spock@antiit.eu
La
solita tresca, questa volta telecomandata, doppiamente, in videochiamata, dall’università
della Calabria, Arcavata di Rende, dei quattro vecchietti del BarLume, più
Massimo, con mamma, Alice e Tiziana. Come di un Malvaldi lui stesso stanco dei
suoi, anche se non gli fa perdere una battuta. Si salva da chimico ricercatore,
semplice allora, e breve. L’esponenzialità - nella pandemia. La ferrovia Paola-Cosenza,
a cremagliera, la vecchia, un’ora e mezza per trenta km. E, magistrale, la
lavanderia del denaro sporco.
La
cosa funziona così. I miliardi incassati con i traffici non si possono spendere
in contanti. “La cosa migliore è comprare un locale dove di solito si paga in
contanti. Un bar, una discoteca, una pizzeria, un cinema”. Il cinema è meglio –
ma ce ne sono ancora?: “In un cinema puoi tenere lontane le persone proiettando
film muti di avanguardia svedese, e far finta di avere avuto la sala piena”.
Marco
Malvaldi, Bolle di sapone, Sellerio,
pp. 265 € 15
Passa il carovita negli Stati Uniti da zero al 6 per cento in un anno, meno di un anno, e i prezzi continuano a correre. Come non detto, nei giornali hanno posto solo gli immunologi - ma quanti sono, migliaia.
“I
magistrati rispettino le regole”, ha detto il giudice Greco dopo di “Mani
Pilite” in pensione dopo 43 anni di attività. Come sarebbe a dire, a questo
siamo ridotti?
Lo
stesso giorno il Csm decide infine, dopo aver ponzato per tutti i suoi 62 anni
di vita, di mettere fine ai “giudici lumaca”, che depositano le sentenze quando
gli fa comodo. Agli incarichi extragiudiziari, molto appetitosi e molto appetiti.
E anche alle toghe in cattedra e nei “comitati di sorveglianza”. Altro incarico
appetitoso, questo, le amministrazioni straordinarie dei grandi gruppi in stato
d’insolvenza, e dove non c’è nulla da
fare, giusto incassare le remunerazioni.
L’Italia,
come si sa, è all’ultimo posto in Europa per la durata dei processi. Non per i
troppi gradi di giudizio, come dicono i cronisti giudiziari, che sono boia
mancati, o boia all’epoca della non-pena di morte. No, proprio per la durata
dei singoli giudizi: il giudice in tribunale ci va nel tempo libero.
“Quattromila,
esuberi possibili” nel nuovo piano di Mps per salvarsi, secondo il suo stesso
management, impegnato a “salvare” l’indipendenza della banca – e il proprio
posto, da qui il fallimento della trattativa con Unicredit. Al costo di un miliardo, per lo
“scivolo” dei dipendenti che si presteranno. Con almeno due anni di “sofferenza”,
e un aumento di capitale subito, “nell’attorno dei 3 miliardi”. Niente,
bruscolini.
Il
tutto, dice Bastianini, che di Mps è l’amministratore delegato, per un
auspicio: “Se si otterrà un tempo abbastanza lungo”, per la riformina, “penso
ad almeno due ani, le condizioni di cedibilità di Mps potranno migliorare”. Un
buco enorme, e senza fine. Ma non è uno scandalo – scandalo bancario in Italia
è solo la Banca Romana, 1892, tra poco 130 anni.
“Ricordo
l’esperienza nelle istituzioni comunitarie negli anni ’80 e ’90 con nostalgia e
elicità”, dice Silvia Calamandrei a Benedetta Tobagi su “la Repubblica”: “Nell’epoca
di Delors, dopo la creazione del mercato unico, si aveva l’impressione di
essere pionieri che stavano armonizzando la legislazione d’Europa su valori
avanzati, innovativi, sul fronte ambientale, della protezione dei consumatori e
della salute. Cera una carica positiva . Il punto di crisi è arrivato quando,
invece di approfondire, si è allargata l’Unione”.
Romano
Prodi, che venne dopo Delors (dopo la corsa Santer-Marin per essere precisi,
che però non avevano modificato l’impostazione del socialista Delors), volle
l’allargamento della Ue prima del consolidamento, come “un atto dovuto” diceva,
ai Paesi che si erano “liberati” dal sovietismo. E come volevano gli Stati
Uniti, che contemporaneamente allungavano la Nato. Chissà oggi se la penserebbe
alla stessa maniera.
“Negli
ultimi 23 anni, dalla privatizzazione del 1998 in poi”, fa il conto Pons su “Affari&Finanza”,
Telecom è diventata una nana –“solo il debito cresce” – “per valore di Borsa,
perimetro di attività e redditività”. Era un gruppo leader in Europa. Stava
perfino introducendo la rete in fibra, con 23 anni di anticipo, col progetto Socrate,
Sviluppo Ottico Coassiale Rete Accesso Telecom, il cablaggio dell’intera
penisola a fibra ottica, quello che poco e male si va facendo oggi. Un gruppo
sacrificato all’ideologia della privatizzazione. In mani che si sono
soprattutto impegnati a spolparlo, dagli Agnelli a Colaninno, Tronchetti
Provera – il meglio della Nazione: niente investimenti, riduzione del
personale, la solita ricetta.
Picasso
non è mai riuscito a ottenere la cittadinanza francese? Sembra impossibile, ma
è il tema di una mostra a Parigi. Che senso hanno le pratiche di cittadinanza,
che senso ha la burocrazia?
E
come faceva Picasso, viaggiava con passaporto spagnolo, franchista?
Ben
più “ricca” del reddito di cittadinanza, la truffa su eco bonus e sismabonus al
110 per cento. Di cessione di crediti verso lo Stato per lavori inesistenti,
anche su richiesta di persone ignare. Su iniziativa di imprenditori edili, veri
e fasulli. Con complicità in banca. L’Agenzia delle Entrate ne ha scovate, “sicure truffe”, per
800 milioni. E non c’entra la mafia.
A
proposito del reddito di cittadinanza a ricchi e mafiosi, Antonio Mastrapasqua
ricorda che durante la sua presidenza, dieci anni fa, l’Inps eseguì poco meno
di un milione di verifiche sulle pensioni di invalidità civile, trovando che
“più o meno una su quattro era stata erogata senza che vi fosse titolo”. È una pratica
ricorrente fin da metà Ottocento, dalle politiche inglesi contro la povertà.
“Ginia
attraversa la sua prima estate di ragazza nel piacere e i guai senza misurare
la portata dei suoi desideri, delle sue frequentazioni”. “L’ammirabile di Pavese
è in questa sospensione del senso e
in questa reclusione in un presente senza scampo”. Pavese è scrittore tragico,
di scrittura essenziale.
In
“Se perdre”, il racconto di un amore folle per uno sconosciuto russo, la
narratrice s’immagina “quella festa in cui io non ci sarò. O Pavese…”. Pavese
ritorna spesso in Annie Ernaux, pur non avendo un posto speciale oltralpe. Per
la sua scrittura di “assoluta necessità”. Partendo dall’incipit famoso della
“Bella estate”: “A quei tempi era sempre festa”. Che Ernaux vuole antifrastico:
la festa non ha luogo, oppure finisce male. Come del resto nel racconto di
Pavese. Il saggio inizia annotando, dopo apposita ricerca, che il 27 agosto
1950, quando Pavese decide di morire, è “giorno di festa”, una domenica.
Due
i nodi pavesiani che Ernaux enuclea. “La festa è la forma del tragico di
Pavese, forma dichiarata d’anticipo”. Un tragico che “sembra nascere dal
funzionamento naturale della vita”. E la “scrittura trasparente, intesa, come
Pavese dice, a «presentare senza descrivere»”, una scrittura che “mostra senza
analizzare né giudicare”. Sospensione del senso e presente-prigione sono forse
artifici tecnici, “ma si può bene impiegare questo termine, che è una impossibilità
di raggiungere mai l’Altro (vedi il Diario:
«La donna è un popolo nemico come il popolo tedesco»)”.
Questo
è un breve saggio che la scrittrice ha ripreso, unico o quasi fra i tanti suoi
scritti d’occasione, in “Écrire la vie” nella collezione Quarto Gallimard – le
opere scelte di un autore. Ernaux apprezza Pavese - al contrario di Asor Rosa, che vuole Pavese scrittore manierista e datato.
Annie
Ernaux, Cesare Pavese, “Roman”, IV
trim. 1986
letterautore
Anglo-fiorentini
–
Si dice – si diceva tra fine Ottocento e il primo Novecento, ancora negli anni
1930, degli scrittori e artisti anglofoni che avevano scelto Firenze come residenza.
Ma era una moda ricercata, con code inaspettate ancora nei primi anni 1970,
quando Graham Greene scrive “Il console onorario”, sul terrorismo tra
Argentina, Paraguay, Uruguay: il dottor Humphries, uno dei tre inglesi del Chaco,
il vasto territorio poco popolato al Nord dell’Argentina, al confine con
Paraguay e Bolivia, “autopromosso dottore in lettere”, vive nel deserto come se
fosse a Firenze: “Per quanto la giornata fosse calda vestiva sempre in giacca e
cravatta, con gilet, come un uomo di lettere vittoriano che vive a Firenze”.
Bilinguismo
–
Comporta (consente, può essere una dote) una doppia personalità. Silvia
Calamandrei, nata in Italia ma cresciuta in Cina, Jia YiHiua (cioè Jia
Italia-Cina), lo spiega a Benedetta Tobagi su “la Repubblica”: “È un malessere
e un vantaggio: osservi dall’esterno diverse
identità possibili, di volta in volta scegli, ma ne sei anche critica”.
Lo stesso, in senso inverso, nato in Cina e cresciuto in Italia, per Shi
Yangshi, attore, che Tobagi cita: “l’“Arle-chino traduttore\ traditore di due
padroni”.
Bloomsbury – “La piazza di
Bloomsbuty con il suo vizio a buon mercato, i suoi indiani e la sua atmosfera
di piovosa nostalgia” rimemora Graham Greene nel 1938 in viaggio per il Messico
(“Le vie senza legge”). Rovesciando, senza volerlo, il mito che ancora si
vagheggia della Bloomsbury universitaria, intellettuale, artistica.
Cancel culture – È
una forma letteraria? Gli storici di Cambridge Robert Tombs e David Abulafia, a
colloquio con Ippolito su “La Lettura”, la spiegano così: “Gli studiosi di
letteratura direbbero che la Tempesta di Shakespeare è un testo
colonialista perché è ciò che ci vediamo
adesso, mentre gli storici direbbero: «C’è
qualche prova che a quel tempo la considerassero a quel modo?» - Tombs. “Non ha senso applicare (al passato) gli standard politici
e morali del XXI secolo. Un grande esempio è Edward Said, che era solo un ciarlatano:
le sue vedute su come l’Occidente aveva interpretato l’Oriente non erano basate
su nessuna prova storica”, Abulafia.
Conrad – A un certo
punto divenne jamesiano? Nella prima parte delle sue memorie, “Una specie di vita”.
Graham Greene si dice sotto l’influsso, dopo Swinburne, di Conrad. Ma in un momento
e per un libro “pericolosi”: “Conrad era il nume ora, e in particolare per il più pericoloso
di tutti i suoi libri, La freccia d’oro, scritto quando era caduto lui
stesso sotto la tutela di Henry James”. Un romanzo disimpegnato dopo la guerra,
pubblicato come feuilleton, sulla
lotta dei “carlisti” nel 1870, i sostenitori del pretendente al trono spagnolo
Carlo Maria di Borbone-Spagna. Anche Greene provava a scrivere un romanzo sui carlisti a Londra,
il suo primo romanzo – anche se non ne aveva mai incontrato uno, e poco o
nulla sapeva del carlismo.
Di Conrad sotto l’influenza tardiva di
Henry James ha scritto Pietro Citati sul “Corriere della sera” il 13 giugno
2013, recensendone “Il caso”. Rilevando dentro la “voce” del narratore
conradiano, John Marlow, “la voce di altri due narratori minori”, e che “tutte
queste voci formano una specie di brusio che non possiamo tradurre in
affermazioni con un senso solo”, Citati conclude: “Questo falsetto può
ricordare, alle volte, il falsetto di Henry James, il quale dedicò a «Il casoâ una recensione entusiastica, elogiando «l’arte di
moltiplicare i narratori»”.
Gassman –Vittorio si
tolse una “n” dalla grafia anagrafica
per “tedeschizzare” il nome. Dei figli, due ripetono la sua scelta, le femmine,
Paola e Vittoria, mentre i maschi, Alessandro e Jacopo, si attengono al nome
anagrafico. Per “sgassmanizzarsi”?
Lettura - “La lettura può avere un’influenza ben più durevole
dell’insegnamento religioso”: Graham Greene lo nota (“Una specie di vita”) a
proposito della lettura giovanile di Swinburne, di cui era avido, e dell’idea
di Dio che Swinburne agitava.
Machismo – È l’equivalente
della virtus latina? È l’azzardo di
Graham Greene, all’avvio del “Console onorario”: “Machismo - il senso di orgoglio maschile – era l’equivalente
spagnolo di virtus” – “la lingua
spagnola è romana di origine, e i romani erano gente semplice”. Ma lo stesso
Greene nei capitoli successivi lo riduce al maschilismo latinoamericano –
accompagnatore di baffi, basettoni e capelli solitamente neri crespi.
Rimozione – La “manomorta
del passato” è la fulminante definizione che Graham Greene ne dà in “Una specie
di vita”, l’autobiografia del primo suo quarto di vita. In cura a vent’anni da
un analista scelto dal padre, Kenneth Richmond, lo scrittore ricorda la terapia come “forse i sei mesi più felici della mia vita”.
Amante dei libri, di gusti anche lui letterari, Richmond, che non era medico, solitamente
“si faceva raccontare i sogni, e controllava le mie associazioni con l’orologio.
Dopodiché parlava in termini generali della teoria dell’analisi, della
manomorta del passato che ci tiene in schiavitù”.
Rivoluzione – È il motore del
capitale? “Io credo nella rivoluzione”, dice a Graham Greene (“Le vie della
legge”) un dentista svanito, tedesco-americano insabbiato da sempre nel
Messico: “Dà ambizione alla gente. Mette in circolazione denari”.
Viaggio – Libera la
confidenza? È il suo unico vantaggio secondo Graham Greene, viaggiatore
peraltro compulsivo (“Le vie della legge”): “Questa è veramente l’unica cosa
che un viaggio vi dia: la conversazione. Vi è tanta stanchezza e tanta
delusione nel viaggiare che la gente ha bisogno di sfogarsi; nei treni delle
ferrovie, nel cantuccio di un focolare, sui ponti dei piroscafi, o nei cortili
adorni di palmizi di una giornata piovosa”.
letture@antiit.eu
Una
vita periferica, “alla periferia di tutto”, in un paese straniero, in una
lingua acquisita? Niente di tutto questo – e poi, straniero a che cosa, a chi?
La narratrice del suo vissuto quotidiano, trama e tema del racconto, è una scrittrice
e una insegnante come l’autrice, gode a Trastevere, beata lei, della vecchia
romanità, sorniona e lieta, amichevole, e può vivere il quartiere come un’avventura,
piazza san Cosimato, il viale, il barista, l’oste, su su fino a villa Sciarra,
con l’uccelliera, le grottesche, gli alberi specialissimi. Fa incontri graditi
mentre passeggia. Di qualcuno anche si innamora, per un tempo. Quindi,
periferica a quale centro?
Vive
sola, è vero, degli amichi e le amiche, che pure ha, come tutti, anche
socievoli e servizievoli, racconta con distacco. La sua è una solitudine di
scelta, “stare all’ombra” piace alla narratrice, per ascoltarsi, vedersi, rivedersi.
Soprattutto negli anni della crescita: non nella situazione attuale, ma nel rapporto
con il padre e con la madre, e con se stesa adolescente. Con un senso però generale di liberazione, anche se molti ricordi sono
costrittivi. Da qui anche la scelta dell’italiano, un’altra lingua da quella anagrafica
o di cittadinanza, come veicolo “liberatorio”, una lingua propria solo a se
stessa.
Dopo gli scritti d’occasione, pubblicati per lo
più su “L’Internazionale”, Jhumpa Lahiri, la scrittrice americana di successo
che ha scelto l’Italia e l’italiano per
una “rigenerazione”, debutta in italiano col romanzo (siamo nel 2017).
Con un personaggio “alla finestra”, si potrebbe dire con un autore che Lahiri
ama, Corrado Alvaro. Con un che di personale – i luoghi, le ore, gli interlocutori
occasionali che fanno la giornata della protagonista-narratrice. Ma sempre
laterale, anche con gli uomini con cui ha avuto una storia. Del potere
liberatorio dell’isolamento? Anche di essere stranieri in patria – questo si
nota di più nella traduzione dall’italiano in inglese, che la scrittrice vorrà
professionale, non fatta da sé: c’è una
libertà nell’emigrazione.
Si
procede per lampi, schizzi, abbozzi, disegni, anche sovraccaricati ma brevi,
che alla fine compongono un tela di solitudine, di estraneità. Di una presenza
che è anche assenza. Dell’incertezza – nel rapporto ingombrante con la madre
come con gli amici e gli amanti, nessuno dei quali lascia traccia. Di
estraneità non al mondo quotidiano, nel quale appunto la narratrice è integrata
con sua felicità, ma a quello che si è, che si sarebbe voluto essere e non si è,
al cosa fare (futuro) – domanda che però non si pone.
“Da
nessuna parte” sarà la riposta. Alla domanda: “Esiste un posto dove non siamo
di passaggio?”. Non infrequente probabilmente in America, un continente più che un paese - Lucia Berlin, una scrittrice
anni 1960 che ora si ripubblica, ha una situazione analoga in più racconti, e
in uno, “So Long”, fa così parlare una americana che ha messo su famiglia a Città del Messico: “Naturalmente
ho una me qui, e una nuova famiglia, nuovi gatti, nuovi scherzi. Ma provo sempre
a ricordare chi ero in inglese”. Che può essere una scelta, un programma di vita, per una scrittrice nata in
India, educata in Inghilterra, autrice in America, che infine ha scelto
l’italiano. Ma il cui girovagare non è disadattamento ma dominio, di forme varie
di vita: una vita che non si vuole uniforme, questo il segreto – non un
messaggio, la narrazione è lieve, volante (episodica), svagata: “Sono io e non
lo sono, vado via e resto sempre qui. Questa frase scompiglia brevemente la mia
malinconia come un sussulto che fa oscillare i rami, che fa tremare le foglie
di un albero”.
Il
bilinguismo, che Jhumpa Lahiri ha cercato e costruito, per scelta quindi, è una
sorta di creazione di una diversa identità, italiana, romana, trasteverina.
Un’esplorazione, che premia la curiosità, l’innovazione, ma vuole coraggio, e
pazienza. Notevole, in filigrana, il gusto di scrivere l’italiano, lingua
acquisita per programma. Si assaporano le parole - “portagioie, se ci penso la
parola più bella che ci sia”. Le pratiche vanno col linguaggio: il tu
confidenziale degli sconosciuti di pratica quotidiana: il fruttivendolo, il
droghiere, il barista; il tepore del
quartiere (non ci fa freddo, e nemmeno caldo), come una casa, un rifugio. Notevole, in questa lingua
“imparata”, il non detto, implicito, alluso, che di una lingua si direbbero il
segreto.
Il nodo “classico” che emerge è della madre, lontana,
ostile, rivista da un paese a lei estraneo, in una lingua non compartecipata.
L’inevitabile (?) rapporto ostile della figlia con la madre, anche in età matura: una insofferente
alla solitudine, una (anche per questo?) che si vuole sola e solitaria. Alla
psicoanalista che per un breve periodo ha frequentato raccontava di lei, della
madre, “come e quanto mi sciabolava” - “la madre ingombrante che oggi non pesa
quasi nulla, la madre invadente”.
Jhumpa
Lahiri, Dove mi trovo, Guanda, pp.
163 € 15
Il plenum del Comitato Centrale del partito
Comunista Cinese, la riunione annuale, si tiene a porte chiuse.
Il plenum è chiamato il conclave del Pcc,
di 376 membri. Eletti, ma di fatto cooptati dal presidente in carica, Xi
Jinping.
Il “pensiero del presidente Xi” è, come
già quello di Mao, nei libri di testo a scuola, e anche nella Costituzione.
Il linguaggio veicolato dal presidente
Xi nella presentazione del plenum fa dire di stesso: “Il plenum che porterà il
Partito verso un nuovo viaggio, determinato e d’azione, dai sentimenti e dai
pensieri profondi, che lavora senza mai fermarsi”. Il culto della personalità, nel 2021.
Zero covid è la politica della Cina.
Come anche dell’Australia, la Nuova Zelanda e Singapore, ma inflessibile. I
viaggiatori in entrata vengono anche fotografati.
Il primo ministro Li Keqiang ha
ordinato alle due regioni produttrici di carbone, Shanxi e Mongolia Interna, di
“fronteggiare la crisi di approvvigionamento energetico del paese”. Cioè di incrementare la produzione. Ufficialmente la Cina è impegnata
negli accordi internazionali alla “neutralità carbonica” entro il 2060,
progressivamente a partire dal picco di emissioni previsto nel 2030. Ciò
comporterebbe la chiusura di 600 centrali elettriche a carbone. Ma il programma
di decarbonizzazione non è una priorità del governo.
Una
primizia, poi restata solitaria, della voga di scrittori americani neri a metà
Novecento, tradotta nel 1962, cioè 125 anni dopo la sua pubblicazione, dal
Saggiatore - una delle vecchie considerate Silerchie, presto nuovamente
dimenticata. La “Narrativa” è stata materia, cento anni dopo, di Toni Morrison,
“Beloved”, sulla vita impossibile degli schiavi fuggiaschi, “cacciati” come
delinquenti - tanto che gli stessi non rifuggivano dalla peggiore violenza. Ma neanche
il successo della Nobel le ha giovato. Ritorna con la polemica aperta negli
Stati Uniti contro la Critical Race Theory, la revisione della storia americana
come una storia di oppressione, e il movimento woke, o wokeness, le
periodiche insorgenze delle minoranze, ora attorno alla questione nera e a quella
femminista, dei movimenti black lives matter
e #metoo.
Douglass
è personaggio polytropos direbbe Omero, multiforme: scrittore, editore,
riformatore, abolizionista naturalmente, femminista (per il diritto di voto
alle donne), candidato nel 1872 alla vice-presidenza degli Stati Uniti,
candidata alla presidenza Victoria Woodhull, la prima e per un secolo e mezzo
la sola candidata donna, di 34 anni, più giovane di una generazione del suo
vice, per un Partito dell’Uguaglianza dei Diritti. Schiavo, in condizioni di
durezza, fino ai vent’anni, che finirà colto educatore, ammiratore della Costituzione,
“glorioso documento di libertà” – una difesa dei marginali, neri, schiavi.
Ma
l’abolizionismo era ancora un movimento
“bianco”, spiegava Bruno Maffi alla prima edizione: Douglass “apre il moto di
riscatto delle popolazioni di colore”, in America e altrove. La New England
Anti-Slavery Society di Boston (1832) e un anno dopo l’American National
Anti-Slavery Society raccoglieva un gruppo di politici di base, non in
carriera, beneducati che si ponevano il problema di cosa farsene dei neri
schiavi. Un passo precedente, che le due nuove leghe sostituivano, era stato
nel 1816 l’American Colonization Society, che aveva come obiettivo di favorire
il rimpatrio dei neri in Africa, il progetto che nel 1847 porterà alla creazione
della Liberia, un colonialismo di ritorno non fortunato. Douglass avvia un
movimento afroamericano di resistenza – che arriverà fino a John Brown, alla
resistenza armata. o, uno stato di tensione perenne. Tale che i fuggiaschi non
rifuggivano dalla peggiore violenza, la violeza della disperazione.
La
memoria si apre col ricordo di un padrone sadico, “un uomo crudele inasprito da
una lunga esistenza di negriero”, alla cui frusta Douglass bambino si svegliava
– “ero apena un bimbo, me lo ricordo bene”: “Mi è spesso accaduto di essete
svegliato, all’alba, dalle urla strazianti di una mia zia ch’egli soleva legare
a un palo, e menare con lo staffile sulla schiena nuda finché non era
letteralmente coperta di sangue… Più lei gridava, più lui menava la frusta”,
finiva solo quando era stanco. Dal padrone dipendeva la razione giornaliera di
cibo. Si mangiava per terra. Non c’era diritto a un letto. Nell’ignoranza: la
colpa peggiore era imparare a leggere.
Si
formerà politicamente leggendo testi a favore dell’emancipazione, di cattolici
irlandesi e dei cattolici irlandesi. I metodisti, invece, pastori e fedeli,
erano i più feroci. Lo stesso gli operai
bianchi, fra i più duri. Nei tanti cambi di padrone – gli schiavi erano
comprati e venduti, l’esperienza più dura fu con un Mr.Covey, che era povero, cui
Douglass era stato affittato: “Un povero diavolo di affittuario, che noleggiava
sia la terra sulla quale viveva sia le braccia con le quali la coltivava, ma si
era fatto una grande nomea come «raddrizzatore» di schiavi”. Un sola schiava
Mr. Covey si era potuto comprare, “perché figliasse”,
e a questo fine la faceva accoppiare ogni sera a un altro schiavo noleggiato,
sposato con figli” – dopodiché, dopo il parto, “nulla di quanto lui e sua
moglie poterono fare per Caroline (la schiava, n.d.r.) risultava troppo buono o
troppo costoso”. Mr. Covey sfruttò Douglass fino a tramutarlo, in sei mesi di
affitto, in un bruto, una piccola macchina.
Nato
schiavo, figlio forse del padrone della madre, e passato da vari padroni, a
dodici anni Douglass imparò a leggere e scrivere grazie alla moglie dell’ultimo
padrone, e forse di più, racconta, guardando e imparando come i ragazzi
bianchi imparavano. Sull’istruzione si giocava lo statuto della schiavitù: i padroni perseguivano con la maggiore
violenza ogni tentativo, personale, familiare, parrocchiale, di imparare a
leggere, sia pure soltanto la Bibbia. La sola via d’uscita era la fuga, per
quanto pericolosa, verso gli Stati dove la schiavitù non era la regola, e a
Douglass questo riuscì al terzo tentativo, nel 1838, quando aveva vant’anni:
riuscì a sbarcare a Filadelfia, e da qui a recarsi a New York e poi nel
Massachusetts. Dove riuscì a integrarsi nel movimento abolizionista, della
American Anti-Slavery Society.
La
pubblicazione della “Narrativa” nel 1845 fece scandalo, non si pensava che uno
schiavo fosse capace di scrivere. Fu anche un successo di vendite, con
traduzioni in francese e olandese. Se non che il successo lo mise a rischio di
tornare schiavo, se il suo ultimo padrone avesse chiesto in giudizio di riprendersi
“la sua proprietà”. Si mise in salvo in Irlanda per un periodo, grazie ai
contatti con gli ambienti irlandesi americani che lo avevano fromato
culturalmente: era il Ferragosto del 1845, l’inizio della Grande Carestia. Ma
in Irlanda e in Inghilterra ebbe occasione di scrivere e parlare, anche in
conferenze, diventando un personaggio pubblico. Riprenderà un paio di volte la
“Narrativa”, ampliandola. Ma soprattutto farà della sua condizione di ex
schiavo un laboratorio politico.
Col
testo originale a fronte.
Frederick
Douglass, Narrazione della vita di
Frederick Douglass, Marsilio, pp. 313 € 18
Fallito
un processo sbagliato, il giudice di Milano De Pasquale, totem cittadino perché
dovrebbe occuparsi della corruzione in affari, mobilita quindici colleghi
europei che chiedono all’Ocse “regole più dure”. Contro la corruzione? Ma la
corruzione è d’obbligo fuori dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi industriali
– in Africa, in America Latina, in Asia. De Pasquale è debole in geografia? Dentro è diffusa, ma non è obbligata.
De
Pasquale, giudice anticorruzione, resterà negli annali per essersi fatto
abbindolare da un avvocato Amara, notorio mediatore di affari - dopo avere
inguaiato l’Eni ci ha provato con l’Ilva. Ci sono i pentiti anche in affari? Ma
non è da escludere che, essendo De Pasquale e Amara entrambi siciliani, non
facciano i “tragediaturi” del Camillerindex, gli attori in commedia –la loggia
segreta “Ungheria” è un discreto colpo di teatro dei due (certo, non sono Proietti
o Gassman).
De
Pasquale era diventato famoso trent’anni
fa per non aver voluto firmare la promessa di arresti domiciliari all’allora
presidente dell’Eni Cagliari, rinchiuso da quattro mesi e mezzo a San Vittore.
Preferendo andarsene in vacanza – era suo diritto, certo. Per una lunga estate
nella quale Cagliari trovò il tempo e il modo di suicidarsi, benché ben
guardato nel “canile di san Vittore”.
Non
è mai venuto a De Pasquale il dubbio che gli si faccia trovare davanti il
gruppo energetico pubblico – dove si maneggiano miliardi senza tracce di
corruzione, non personale (la “mediazione d’affari” è taglia inevitabile
nell’ex Terzo mondo) - per assorbirne le energie mentre la corruzione dei
“privati” impazza? Non c’è altra corruzione a Milano se non c’è di mezzo l’Eni?
A Milano? Il giudice non si fa mai una passeggiata?
Una
scrittura barocca dapprima, poi rabdomantica. Con molta chiesa e profumo d’incenso,
le stagioni e le cose da fare scandite col calendario liturgico. Le storie del
signor Nailles dapprima, considerato e uomo di fede, e poi del cattivissimo Hammer
- chiodo e martello. Insomma, storie disinvolte. Nate e nutrite. E dalla condizione borghese,
alienante, come usava dire. Uno di quegli esercizi in media borghesia
suburbana, che lega questo Cheever al filone allora dominante, anni 1960-970, Richard
Yates, con code nei 1980: il primo Styron, Richard Yates, anche Philip Roth, Ellroy,
lo stesso Bukowski, perfino Dick, e poi Franzen.
Una
storia disinvolta, attorno al nucleo critico, sociologico. Con molta Italia.
Roma, dove il fglio del signor Nailles nasce, senza ragione specifica,
all’American Hospital, e Orvieto, dove il giovane ricco Hammer ha infine trovato
il nido, le due stanze dipinte di giallo che ha cercato in mezzo mondo, se non
che il padrone non gliele cede, si sposa e vuole abitarci. Nailles è buon
marito e buon padre, amoroso e sollecito, sensibile - “riconosce i rumori che
fanno i vari alberi scossi dal vento: un acero, una betulla, una tulipifera,
una quercia”. Hammer si porta dietro Montale, che intende tradurre, e quando infine
l’ha tradotto, scopre che qualcuno lo ha già fatto, senza dolersene, prende e
lascia le donne, è qui e là e in ogni dove – è insensibile. Entrambi sono figli
di madri stravaganti, e di padri assenti.
Tutti
sono ubriachi, sempre, molto, a tutte le età, mentre i più giovani si fanno le
canne. E riflettono: “Mai, dico mai”, riflette una delle due mamme alcolizzate,
“nella storia di una civiltà si è visto una grande nazione così pervicacemente
votata a drogarsi” - o anche un “esempio di incuria suicida, corruzione amministrativa
e pervertimento delle risorse naturali”. Non sono personaggi, per quanto
strani, sono prototipi, dell’America urbanizzata, in condizione suburbana: “Bullet
Park” non è un luogo specifico, è il quartiere suburbano prototipo, ora fuori Chicago
ora fuori New York, dove si gioca a bridge, ci si dedica alle opere pie, si va
a messa la domenica, si danno feste per i vicini, le donne non sanno che fare,
e si beve – a ripensarci, l’alcol è la spina dorsale del Sogno Americano nel
Novecento. Dove tutte le derive della narrazione si possono raggrumare, anche il
delitto inconsulto, le armi non difettano.
John
Cheever, Bullet Park, Feltrinelli,
pp. 232 € 8,50
spock
“L’infelicità è una pratica giornaliera”,
G. Greene?
“Ascoltare è quasi rispondere”, Marivaux?
“Lo scherzo non conosce altro tempo che il
suo proprio esistere”, Jean Paul?
“La
vera vita è altrove”, Rimbaud?
“Eros
non è affatto bello”, R.M.Rilke?
“I ricordi, a partire da una certa
profondità, sono sogni”, Rilke?
“Sono
i dilettanti a fare i sognatori”, Gottfried Benn?
spock@antiit.eu
Si moltiplicano gli
allarmi, con congressi, conferenze e impegni mondiali, e si moltiplicano i consumi di carbone, il
primo ammorbatore dell’universo, in India e Cina, le “fabbriche del mondo”. Di
cui si vorrebbe anzi aumentare produzione e produttività, tanto consentono
guadagni lauti ai facili importatori. Mai il mondo fu più unito di ora, dal
profitto.
Le passeggiate
spaziali ai Elon Musk o di Bezos, anticipazioni del glorioso futuro intergalattico,
con un po’ di intelligenza artificiale, hanno prodotto più inquinamento di
quanto ne possono produrre un miliardo di poveri in tutta la loro vita? E
allora?
Quanta CO2 si
produce nelle manifestazioni di Greta, specie le adunate oceaniche, i centomila
di Glasgow?
Se l’inquinamento è
all’80 per cento il prodotto dell’eccessiva mobilità (mobilità vissuta come
libertà?), il metaverso della realtà virtuale ci terrà finalmente a casa,
comnque stabili se non immobili, come gà un poco Facebook, a fantasticare su se
stessi?
La realtà virtuale nasce come
nuovo spazio di vendita della pubblicità. Senza concorrenti, in una prima, lunga
fase. Ma a che prezzo per il mondo, per gli addict? Nasce
una nuova umanità, carbon free, human
free?
Un
estratto della nota al testo che Jhumpa Lahiri pospone alla sua traduzione di “Confidenza”,
l’ultimo (ora penultimo, prima di “Vita mortale e immortale della bambina di Milano”)
romanzo di Starnone – il terzo Starnone che la scrittrice
indo-americana-italiana traduce. Una spassosa, ma molto interessante, divagazione
su “invece”, “anzi”, “amare” e “voler bene”. Con i riferimenti classici,
soprattutto al latino, per “invece”, a Ovidio e Catullo, e a Shakespeare, con i latini, per
amare - ma anche a Omero per la multiformità d’ingegno, che Odisseso presenta
come “polytropos”, di ingegno versatile, o meglio di molte pieghe e
trasformazioni.
Divagazioni
d’autore sulla traduzione. Che, poi, di fatto è un mestiere, ma può prestarsi a
utili viaggi. Questo è molto immaginativo, e insieme dotto, considerato. Con questa
perla, a proposito del non dire tutto, lasciare intendere, che sarebbe al
centro del romanzo di Starnone – arrischiata, Lahiri, che insegna a Princeton
oltre che scrivere, è diretta nelle sue “scoperte”, ma tutto sommato vera: “Possiamo
tracciare una costellazione da Dante a Manzoni a Hemingway a Starnone che fa
luce su come gli scrittori usano il linguaggio per parlare del silenzio e
l’importanza del discorso ritentivo”, del detto non detto.
Ma,
a proposito: “Il libro che mi ha insegnato che cosa era la traduzione” o non
“che cosa è la traduzione”?
Jhumpa
Lahiri, The book that taught me what
translation was, “The New Yorker”, free online