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sabato 13 novembre 2021

Il mondo com'è (435)

astolfo

Appennini – Nome di origine incerta, come si sa, ma più probabilmente celta, ritrovandosi anche nella non montuosa Inghilterra, i Pennini. In celtico, come in ligure, pen o ben è montagna, cima. Nome quindi rimasto nel Nord Italia dall’epoca dei Celti. Non registrato nella geografia antica, di Strabone et al., riemerso in epoca tardo-moderna, tra Sei e Settecento.
Lo scrittore Graham Greene, nell’autobiografia “Una specie di vita”, i Pennini vede “grigi, con un po’ di pecore vaganti su colline desolate deserte. abbozzi di mura di pietra e sparse capanne con un’aria irlandese di fatiscenza”.
 
Awoke-woke – Risveglio, nella pronuncia afroamericana del corretto “awake”. Detto dei movimenti periodici di rivendicazione delle minoranze “rivoluzionarie”, che si ritengono per qualche motivo danneggiate o coartate. Con significato ora, però, curiosamente sia elogiativo che spregiativo. Apprezzativo da parte dei movimenti di rivendicazione, radicali (liberal), nel senso di “svegliati!”. Spregiativo da parte di chi contesta la contestazione, anche solo per il suo radicalismo – che politicamente si direbbe di destra, ma è ora anche di centro. Possono così essere woke sia i movimenti Black Lives Matter e #metoo, che i critici degli stessi – sia gli oppositori frontali che i critici degli eccessi rivendicativi. Come già per le contestazioni precedenti del politicamente corretto e della cancel culture.
L’ambivalenza in particolare si produce per i prodotti culturali di massa, film, fumetti, serie tv, videogiochi, che abbiano tentato di cavalcare l’onda dei movimenti di rivendicazione, ma, prodotti di massa, inevitabilmente risultano indigesti al pubblico generalista – da qui il detto ora popolare, “get woke, go broke”, risvegliati e fallisci.
Discussa è l’origine del termine, se non che proviene dalla parlata afroamericana. I vocabolari la fanno  risalire alla canzone Master Teacher”, di Erykah Badu, una cantautrice, che reca l’espressione rimata “I stay woke’e”, sto in guardia. La canzone è del 2008. Ma era woke già il movimento dei diritti civili degli anni 1960, inizialmente nero poi misto.
 
Von Bernstorff – Un “conte von Bernstorff, primo segretario all’ambasciata tedesca a Londra”, arruola Graham Greene ventenne, nel 1924, come spia. Il futuro scrittore se lo trova seduto sulla sua poltrona nella sua stanza al college Balliol, “la mia sola bottiglia di brandy quasi finita”. Era successo che Greene, indignato dalla lettura di un libro di racconti, “Defeat”, di Geoffrey Moss, sui tentativi di creare un Palatinato indipendente, dentro o fuori della Germania, e forse dentro la Francia, subito dopo la guerra, aveva scritto all’ambasciata tedesca a Londra per offrire i suoi servizi come propagandista, accampando entrature in numerosi giornali. Pronta era arrivata la risposta, portata dal conte. Seguito da altri importanti e strani personaggi: una bellissima contessa von Bernstorff, cugina del conte. Un giovanotto dal lungo complicato tiolo, che vantava una più nobile e lunga discendenza dagli Hohenzollern, e uno strano Capitano P. Fino al giorno in cui, convocato all’ambasciata, il futuro scrittore ebbe dal conte un pacchetto, con l’istruzione di bruciare la busta – “che naturalmente ho conservato come ricordo”, scrive Greene. Dentro c’erano 25 sterline, “più che sufficienti in quegli anni per un lungo viaggio tra Reno e Mosella”, dove la repubblica del Palatinato doveva sorgere.
Col viaggio pagato dall’ambasciata tedesca, finì la collaborazione di Greene. Che però ricorda del conte: “Un uomo che amava il lusso e i ragazzi, e frequentava uno club equivoco chiamato L’Abissino  a Soho, Archer Street. Nessuno avrebbe previsto che, dentro quelle pieghe di carne si nascondeva un eroe che avrebbe gestito una via di fuga per gli ebrei dalla Germania alla Svizzera nell’ultima guerra, per poi essere giustiziato nella prigione di Moabit”.
Il Benrstorff di Graham Greenme, di una famiglia che contava molti diplomatici e anche un ministrod egli Esteri della Prussia, era Albrecht.  Che era familiare di Oxford preché ci aveva studiato, e prima di tornare  a Londra all’ambasciata, era sto all’Alta Commissione Interalleata per la Renania. Dopo Londra, nel 1933 fu espulso dal servizio diplomatico per non aver prestato giuramento a Hitlwer. Con la banca Wassermann,  lavorò a trasferire capitali ebrei all’estero. Fino al 1940, quando fu per questo imprigionato a Dachau. Presto liberato, entrò in contatto con alcuni circolik di opposizione, il circolo Solf e il circolo Kreisau. Con i quali collaborò al tentativo di colpo di Stato del 20 luglio 1944. Arrestato, fu destinato in un primo momento a una pena leggera, la detenzione nel lager di Ravensbrück. Ma a fine 1944 fu trasferito alla prigione berlinese di Lehrter Strasse, nel distretto di Moabit, sotto il controllo delle SS, che lo torturarono. Fu una delle ultime vittime di Hitler rinchiuso nel bunker, giustiziato il 24 aprile 1945 - otto giorni prima della capitolazione della capitale in mano ai russi.
 
Poor Laws – Il reddito di cittadinanza ha avuto illustri secolari antenati nelle Poor Laws inglesi – applicate anche al Galles, meno all’Irlanda e alla Scozia. Varie norme  per  il sostegno dei poveri risalgono all’epoca Tudor. Ma la prima Poor Law si fa risaalire al 1572, durante il regno di Elisabetta. Con riferimento soprattutto ai mendicanti e ai vagabondi. Nel 1834 una nuova Poor Law tentò una soluzione radicale del problema povertà. Oggetto presto però di ripulsa radicale.
La legge, promossa dal Parlamento, aveva il triplice obiettivo di ridurre i costi dell’assistenza ai poveri, i costi locali, di parrocchie e comuni, di eliminare dalle strade i mendicanti, e di spingere reg i poveri a lavorare in qualche modo per mantenersi. Sottraeva l’assistenza alle parrocchie, e creava della workhouses , case lavoro, una sorta di carcerazione benevola, senza sbarre, dove i poveri e le loro famiglie dovevano essere rivestisti, sfamati, e avviati al lavoro, anche se poco retribuito. Ai bambini veniva assicurata una formazione scolastica di base. Ma la legge durò poco, contestata da destra e da sinistra. La “workhouse” fu criticata come una “prigione dei poveri”. Ci furono anche rivolte degli assistiti –non a Londra ma nelle città del Nord dell’Inghilterra sì. I precetti della Poor Law 1834 non furono aboliti (si procederà all’abolizione solo nel1948, sostituendole con una legge di assistenza (sociale) nazionale, National Assistance Act. Ma le workhouses restarono sulla carta. Mentre si formavano nuove forme di assistenza, mutualistica fra lavoratori, e di volontariato, privato, delle parrocchie e laico.
 
Repubblica Palatina – O del Palatinato. È un progetto della Francia, tra il 1919 e il 1923, da potenza vincitrice, di creare uno Stato indipendente dalla Baviera, cioè dalla Germania, tra la Mosella e il Reno. Ne parla lo scrittore inglese Geoffrey Moss nel volume di racconti “Defeat”, 1924. Criminali ted schi detenuti in prigioni francesi, ladri, violenti, magnaccia furono liberati e deportati nel Palatinato per aizzar e alla collaborazione. La polizia tedesca comandata di intervenire dal Land di Monaco era stata brutalizzata. Il progetto non andò in porto per l’opposizione della Gran Bretagna e degli Stati Uniti – dove il progetto francese veniva labellato “Revolver Republic”. Ma in Germania gli elementi nazionalisti restarono a lungo allarmati dal progetto. L’occupazione militare francese del’area, e nel 1923 anche del bacino della Ruhr a Nord, confortava questi timori.
Nei fatti,. un primo tentativo separatista avvenne subito con l’occupazione francese a fine 1918: d’accordo col generale francese Gérard, un Eberhard Haas, di professione chimico, creò una Lega (Bund) del Libero Palatinato. A maggio del 1919 Haas intimò al presidente del Palatinato, Theodor von Winterstein, di pendere la guida del movimento separatista. Al rifiuto di Winterstein proclamò l’1 giugno la “Repubblica del Palatinato”, con capitale Spira. Proprio la città dove erano all’erta e protestavano gli unionisti, per il mantenimento dell’unione con la Baviera. Subito dopo Haas perdeva pure l’appoggio del generale Gérard, e il suo Bund finì nel nulla.
La Baviera corse ai ripari contro il separatismo del Palatinato creando degli uffici decentrati, a Mannheim e Heidelberg. E un apposito Commissariato per il Palatinato, di cui fu  a capo per periodo Winterstein.
Nel 1923, in connessione con l’occupazione franco-belga in primavera della Ruhr, con i conseguenti problemi d’inflazione e disoccupazione, la questione Palatinato ebbe una nuova insorgenza. A opera di alcuni socialdemocratici, che facevano capo a Johannes Hoffman, ex ministro del governo della Baviera, in rotta col partito su posizioni paracomuniste, ma d’intesa col comandante francese de Metz. Questa volta per un Palatinato indipendente confederato col Reich tedesco. Il tentativo socialista finì nel nulla. Mentre prendeva piede, in parallelo con l’iniziativa autonomista di Hoffman, un progetto di separazione totale del Palatinato dalla Germania, e per l’adesione alla Francia, promosso da un Josef Heinz, detto anche Heinz-Orbis dal suo luogo d’origine, che aveva formato in Corpo paramilitare del Palatinato. Heinz prese per cinque giorni, tra il 6 e il 10 ottobre del 1923, il controllo delle città palatine Kaiserslautern, Landau e Neustadt  an der Haardt. Il governo legittimo si arrese e il 12 novembre, a Spira, Heinz proclamò il Palatinato autonomo, in unione con una Repubblica renana, filofrancese, a occidente del Reno. Mentre Heins continuava a occupare nuovi territori nel Palatinato. Finché, con l’approvazione del governo bavarese, Heinz e i suoi prossimi collaboratori il 9 gennaio 1924, non furono trucidati, nel ristorante dell’albergo di Spira Wittelsbacher Hof, da un kommando di una ventina di uomini della lega Bundes Wiking, al comando di Edgar Julius Jung – “Tyll”, un pubblicista nazista antemarcia, che sarà liquidato nel 1934 con le Sa. La repubblica del  Palatinato sopravvisse ancora alcuni giorni, ma non era più nell’interesse francese – opponendosi Gran Bretagna e Stati Uniti.

astolfo@antiit.eu

Se la guerriglia sbaglia (ostaggio)

Che succede se la guerriglia – c’era la guerriglia in Occidente cinquant’anni fa - prende l’ostaggio sbagliato? Graham Greene cava il bello dal brutto, come diceva Soldati. Non dal “buono, il brutto e il cattivo” di Sergio Leone, con il terrorismo non si poteva, negli anni 1970 l’Europa ambiva a farsi America Latina. Ma dall’insignificanza, in un’area periferica, il Chaco, l’Argentina al confine col Paraguay, dove solo tre inglesi insabbiati esistono: il console onorario rapito per sbaglio dai terroristi, invece dell’ambasciatore americano, è uno dei tre, il più insignificante. Sua moglie, che ha preso al bordello, è l’amante di uno degli altri due, il protagonista della storia, un medico figlio di un inglese esule politico in Paraguay. Il quale è a sua volta legato al capo dei terroristi, suo compagno d’infanzia. Il terzo è un inglese magro, presunto dottore in Lettere, che insolentisce gli altri due. 
Un atto di coraggio: il romanzo esce nel 1973, su una cosa che pochi o nessun altro ha romanzato, il terrorismo si prendeva terribilmente sul serio, era il politicamente corretto dell’epoca, la rivoluzione. Oggi è quello che era al fondo, nell’intenzione di Greene: un vaudeville, una storia da ridere, di minuti equivoci. Anche se molto realistico, in quegli anni – si pensa sempre, da contemporanei, di vivere la storia peggiore, ma ce n’è sicuramente stata una peggio, almeno una. Questo nelle intenzioni, se c’erano – la storia sembra andare avanti senzo senso.
Un pasticcio, alla fine, un guazzabuglio. Che sembra a metà percorso - dopo molto dialogare, tanto richiesto dal genere giallo quanto più spesso superfluo - animarsi. I terroristi sono paraguayani, il presidente Stroessner è peggio di Andreotti con Moro, di un console onorario, inglese per giunta, e ubriacone, non gliene può frega’ de meno. E non solo l’amico d’infanzia pesa, che si era fatto prete, prima di farsi terrorista, ma anche il fantasma del padre emerge, che il protagonista non ricorda, essendosene separato con la madre da piccolo, per una vita comoda a Buenos Aires: è in carcere, torturato, morto, di malattia, sparato, deflagrato? E chi era, che voleva?
Ma è un falso scopo, non si viene a capo di nulla. Restano tre figure di inglesi insabbiati. Un ubriacone, il sedicente console, che si cerca la moglie al bordello. Il suo commensale al Circolo Italia, dove il cuoco ungherese propone ogni giorno il gulasch: un cosiddetto dottore in lettere, che lo disprezza. E un dottore in medicina che si fa tutte le donne, compresa la moglie del console. Tra gli entertainment, i divertimenti, di Graham Greene.
Ma non tirato via, non del tutto. Oltre che il terrorismo, racconta l’etilismo, che pochi o nessuno aveva ancora romanzato – l’etilismo diventerà “materia americana” ma qualche anno dopo, neanche di Hemingway, che pure in larga misura ne era morto, si diceva. Greene è persona colta e viaggiata, e in America Latina si trovava bene - meglio che in Africa, a giudicare dagli scritti che ne ha derivato. Per questo, in particolare, si dice grato a Victoria Ocampo, cui il libro è dedicato: “Con affetto, e in ricordo delle molte felici settimane che ho passato a San Isidro e Mar del Plata”. Una lumga vacanza, insomma. 
Con una robusta presentazione di Domenico Scarpa.
Graham Greene,
Il console onorario, Sellerio, pp. 440 € 15


venerdì 12 novembre 2021

Problemi di base (s)corretti - 670

spock


Russia vs. Occidente: prima l’uovo o la gallina?
 
Viene prima Timoshenko, una ladra vestita d’arancione, oppure Lukashenko?
 
Di un ladro si può dire che è rumeno, se è rom, ma non che è rom?
 
Anche se ruba milioni, all’Inps, grazie al patronato rom, sul reddito di cittadinanza?
 
Si può dire di un africano che è nero ma non negro, e meglio colorato che nero – fa differenza?
 
Per salvare i giornali, ripristinarne la lettura in ufficio che Mussolini ha proibito?
 
Si pensa sempre, da contemporanei (vivendo l’oggi), di essere nella storia peggiore, ma ce n’è sicuramente stata una peggio, almeno una?

spock@antiit.eu

Il giallo viene bene nei dettagli

La solita tresca, questa volta telecomandata, doppiamente, in videochiamata, dall’università della Calabria, Arcavata di Rende, dei quattro vecchietti del BarLume, più Massimo, con mamma, Alice e Tiziana. Come di un Malvaldi lui stesso stanco dei suoi, anche se non gli fa perdere una battuta. Si salva da chimico ricercatore, semplice allora, e breve. L’esponenzialità - nella pandemia. La ferrovia Paola-Cosenza, a cremagliera, la vecchia, un’ora e mezza per trenta km. E, magistrale, la lavanderia del denaro sporco.
La cosa funziona così. I miliardi incassati con i traffici non si possono spendere in contanti. “La cosa migliore è comprare un locale dove di solito si paga in contanti. Un bar, una discoteca, una pizzeria, un cinema”. Il cinema è meglio – ma ce ne sono ancora?: “In un cinema puoi tenere lontane le persone proiettando film muti di avanguardia svedese, e far finta di avere avuto la sala piena”.
Marco Malvaldi, Bolle di sapone, Sellerio, pp. 265 € 15

giovedì 11 novembre 2021

Ombre - 587

Passa il carovita negli Stati Uniti da zero al 6 per cento in un anno, meno di un anno, e i prezzi continuano a correre. Come non detto, nei giornali hanno posto solo gli immunologi - ma quanti sono, migliaia.  

“I magistrati rispettino le regole”, ha detto il giudice Greco dopo di “Mani Pilite” in pensione dopo 43 anni di attività. Come sarebbe a dire, a questo siamo ridotti?
 
Lo stesso giorno il Csm decide infine, dopo aver ponzato per tutti i suoi 62 anni di vita, di mettere fine ai “giudici lumaca”, che depositano le sentenze quando gli fa comodo. Agli incarichi extragiudiziari, molto appetitosi e molto appetiti. E anche alle toghe in cattedra e nei “comitati di sorveglianza”. Altro incarico appetitoso, questo, le amministrazioni straordinarie dei grandi gruppi in stato d’insolvenza, e dove non c’è nulla  da fare, giusto incassare le remunerazioni.
 
L’Italia, come si sa, è all’ultimo posto in Europa per la durata dei processi. Non per i troppi gradi di giudizio, come dicono i cronisti giudiziari, che sono boia mancati, o boia all’epoca della non-pena di morte. No, proprio per la durata dei singoli giudizi: il giudice in tribunale ci va nel tempo libero.
 
“Quattromila, esuberi possibili” nel nuovo piano di Mps per salvarsi, secondo il suo stesso management, impegnato a “salvare” l’indipendenza della banca – e il proprio posto, da qui il fallimento della trattativa con  Unicredit. Al costo di un miliardo, per lo “scivolo” dei dipendenti che si presteranno. Con almeno due anni di “sofferenza”, e un aumento di capitale subito, “nell’attorno dei 3 miliardi”. Niente, bruscolini.
 
Il tutto, dice Bastianini, che di Mps è l’amministratore delegato, per un auspicio: “Se si otterrà un tempo abbastanza lungo”, per la riformina, “penso ad almeno due ani, le condizioni di cedibilità di Mps potranno migliorare”. Un buco enorme, e senza fine. Ma non è uno scandalo – scandalo bancario in Italia è solo la Banca Romana, 1892, tra poco 130 anni.
 
“Ricordo l’esperienza nelle istituzioni comunitarie negli anni ’80 e ’90 con nostalgia e elicità”, dice Silvia Calamandrei a Benedetta Tobagi su “la Repubblica”: “Nell’epoca di Delors, dopo la creazione del mercato unico, si aveva l’impressione di essere pionieri che stavano armonizzando la legislazione d’Europa su valori avanzati, innovativi, sul fronte ambientale, della protezione dei consumatori e della salute. Cera una carica positiva . Il punto di crisi è arrivato quando, invece di approfondire, si è allargata l’Unione”.
 
Romano Prodi, che venne dopo Delors (dopo la corsa Santer-Marin per essere precisi, che però non avevano modificato l’impostazione del socialista Delors), volle l’allargamento della Ue prima del consolidamento, come “un atto dovuto” diceva, ai Paesi che si erano “liberati” dal sovietismo. E come volevano gli Stati Uniti, che contemporaneamente allungavano la Nato. Chissà oggi se la penserebbe alla stessa maniera.  
 
“Negli ultimi 23 anni, dalla privatizzazione del 1998 in poi”, fa il conto Pons su “Affari&Finanza”, Telecom è diventata una nana –“solo il debito cresce” – “per valore di Borsa, perimetro di attività e redditività”. Era un gruppo leader in Europa. Stava perfino introducendo la rete in fibra, con 23 anni di anticipo, col progetto Socrate, Sviluppo Ottico Coassiale Rete Accesso Telecom, il cablaggio dell’intera penisola a fibra ottica, quello che poco e male si va facendo oggi. Un gruppo sacrificato all’ideologia della privatizzazione. In mani che si sono soprattutto impegnati a spolparlo, dagli Agnelli a Colaninno, Tronchetti Provera – il meglio della Nazione: niente investimenti, riduzione del personale, la solita ricetta.
 
Picasso non è mai riuscito a ottenere la cittadinanza francese? Sembra impossibile, ma è il tema di una mostra a Parigi. Che senso hanno le pratiche di cittadinanza, che senso ha la burocrazia?
E come faceva Picasso, viaggiava con passaporto spagnolo, franchista?
 
Ben più “ricca” del reddito di cittadinanza, la truffa su eco bonus e sismabonus al 110 per cento. Di cessione di crediti verso lo Stato per lavori inesistenti, anche su richiesta di persone ignare. Su iniziativa di imprenditori edili, veri e fasulli. Con complicità in banca. L’Agenzia delle  Entrate ne ha scovate, “sicure truffe”, per 800 milioni. E non c’entra la mafia.
 
A proposito del reddito di cittadinanza a ricchi e mafiosi, Antonio Mastrapasqua ricorda che durante la sua presidenza, dieci anni fa, l’Inps eseguì poco meno di un milione di verifiche sulle pensioni di invalidità civile, trovando che “più o meno una su quattro era stata erogata senza che vi fosse titolo”. È una pratica ricorrente fin da metà Ottocento, dalle politiche inglesi contro la povertà.

Pavese tragico e trasparente

“Ginia attraversa la sua prima estate di ragazza nel piacere e i guai senza misurare la portata dei suoi desideri, delle sue frequentazioni”. “L’ammirabile di Pavese è in questa sospensione del senso e in questa reclusione in un presente senza scampo”. Pavese è scrittore tragico, di scrittura essenziale.
In “Se perdre”, il racconto di un amore folle per uno sconosciuto russo, la narratrice s’immagina “quella festa in cui io non ci sarò. O Pavese…”. Pavese ritorna spesso in Annie Ernaux, pur non avendo un posto speciale oltralpe. Per la sua scrittura di “assoluta necessità”. Partendo dall’incipit famoso della “Bella estate”: “A quei tempi era sempre festa”. Che Ernaux vuole antifrastico: la festa non ha luogo, oppure finisce male. Come del resto nel racconto di Pavese. Il saggio inizia annotando, dopo apposita ricerca, che il 27 agosto 1950, quando Pavese decide di morire, è “giorno di festa”, una domenica.
Due i nodi pavesiani che Ernaux enuclea. “La festa è la forma del tragico di Pavese, forma dichiarata d’anticipo”. Un tragico che “sembra nascere dal funzionamento naturale della vita”. E la “scrittura trasparente, intesa, come Pavese dice, a «presentare senza descrivere»”, una scrittura che “mostra senza analizzare né giudicare”. Sospensione del senso e presente-prigione sono forse artifici tecnici, “ma si può bene impiegare questo termine, che è una impossibilità di raggiungere mai l’Altro (vedi il Diario: «La donna è un popolo nemico come il popolo tedesco»)”.
Questo è un breve saggio che la scrittrice ha ripreso, unico o quasi fra i tanti suoi scritti d’occasione, in “Écrire la vie” nella collezione Quarto Gallimard – le opere scelte di un autore. Ernaux apprezza Pavese - al contrario di Asor Rosa, che vuole Pavese scrittore manierista e datato.
Annie Ernaux, Cesare Pavese, “Roman”, IV trim. 1986

mercoledì 10 novembre 2021

Letture - 472

letterautore


Anglo-fiorentini
– Si dice – si diceva tra fine Ottocento e il primo Novecento, ancora negli anni 1930, degli scrittori e artisti anglofoni che avevano scelto Firenze come residenza. Ma era una moda ricercata, con code inaspettate ancora nei primi anni 1970, quando Graham Greene scrive “Il console onorario”, sul terrorismo tra Argentina, Paraguay, Uruguay: il dottor Humphries, uno dei tre inglesi del Chaco, il vasto territorio poco popolato al Nord dell’Argentina, al confine con Paraguay e Bolivia, “autopromosso dottore in lettere”, vive nel deserto come se fosse a Firenze: “Per quanto la giornata fosse calda vestiva sempre in giacca e cravatta, con gilet, come un uomo di lettere vittoriano che vive a Firenze”.


Bilinguismo
– Comporta (consente, può essere una dote) una doppia personalità. Silvia Calamandrei, nata in Italia ma cresciuta in Cina, Jia YiHiua (cioè Jia Italia-Cina), lo spiega a Benedetta Tobagi su “la Repubblica”: “È un malessere e un vantaggio: osservi dall’esterno diverse  identità possibili, di volta in volta scegli, ma ne sei anche critica”. Lo stesso, in senso inverso, nato in Cina e cresciuto in Italia, per Shi Yangshi, attore, che Tobagi cita: “l’“Arle-chino traduttore\ traditore di due padroni”.


Bloomsbury – “La piazza di Bloomsbuty con il suo vizio a buon mercato, i suoi indiani e la sua atmosfera di piovosa nostalgia” rimemora Graham Greene nel 1938 in viaggio per il Messico (“Le vie senza legge”). Rovesciando, senza volerlo, il mito che ancora si vagheggia della Bloomsbury universitaria, intellettuale, artistica.  

Cancel culture – È una forma letteraria? Gli storici di Cambridge Robert Tombs e David Abulafia, a colloquio con Ippolito su “La Lettura”, la spiegano così: “Gli studiosi di letteratura direbbero che la Tempesta di Shakespeare è un testo colonialista  perché è ciò che ci vediamo adesso, mentre gli storici direbbero: «C’è qualche prova che a quel tempo la considerassero a quel modo?» - Tombs. “Non ha senso applicare (al passato) gli standard politici e morali del XXI secolo. Un grande esempio è Edward Said, che era solo un ciarlatano: le sue vedute su come l’Occidente aveva interpretato l’Oriente non erano basate su nessuna prova storica”, Abulafia.
 
Conrad – A un certo punto divenne jamesiano? Nella prima parte delle sue memorie, “Una specie di vita”. Graham Greene si dice sotto l’influsso, dopo Swinburne, di Conrad. Ma in un momento e per un libro “pericolosi”: “Conrad era il nume ora, e in particolare per il più pericoloso di tutti i suoi libri, La freccia d’oro, scritto quando era caduto lui stesso sotto la tutela di Henry James”. Un romanzo disimpegnato dopo la guerra, pubblicato come feuilleton, sulla lotta dei “carlisti” nel 1870, i sostenitori del pretendente al trono spagnolo Carlo Maria di Borbone-Spagna. Anche Greene provava  a scrivere un romanzo sui carlisti a Londra, il suo primo romanzo – anche se non ne aveva mai incontrato uno, e poco o nulla sapeva del carlismo.
 
Di Conrad sotto l’influenza tardiva di Henry James ha scritto Pietro Citati sul “Corriere della sera” il 13 giugno 2013, recensendone “Il caso”. Rilevando dentro la “voce” del narratore conradiano, John Marlow, “la voce di altri due narratori minori”, e che “tutte queste voci formano una specie di brusio che non possiamo tradurre in affermazioni con un senso solo”, Citati conclude: “Questo falsetto può ricordare, alle volte, il falsetto di Henry James, il quale dedicò a «Il casoâ una recensione entusiastica, elogiando «l’arte di moltiplicare i narratori»”.
 
Gassman –Vittorio si tolse una “n” dalla grafia  anagrafica per “tedeschizzare” il nome. Dei figli, due ripetono la sua scelta, le femmine, Paola e Vittoria, mentre i maschi, Alessandro e Jacopo, si attengono al nome anagrafico. Per “sgassmanizzarsi”?
 
Lettura - “La lettura può avere un’influenza ben più durevole dell’insegnamento religioso”: Graham Greene lo nota (“Una specie di vita”) a proposito della lettura giovanile di Swinburne, di cui era avido, e dell’idea di Dio che Swinburne agitava.
 
Machismo – È l’equivalente della virtus latina? È l’azzardo di Graham Greene, all’avvio del “Console onorario”: “Machismo - il senso di orgoglio maschile – era l’equivalente spagnolo di virtus” – “la lingua spagnola è romana di origine, e i romani erano gente semplice”. Ma lo stesso Greene nei capitoli successivi lo riduce al maschilismo latinoamericano – accompagnatore di baffi, basettoni e capelli solitamente neri crespi.
 
Rimozione – La “manomorta del passato” è la fulminante definizione che Graham Greene ne dà in “Una specie di vita”, l’autobiografia del primo suo quarto di vita. In cura a vent’anni da un analista scelto dal padre, Kenneth Richmond, lo scrittore ricorda la terapia come  “forse i sei mesi più felici della mia vita”. Amante dei libri, di gusti anche lui letterari, Richmond, che non era medico, solitamente “si faceva raccontare i sogni, e controllava le mie associazioni con l’orologio. Dopodiché parlava in termini generali della teoria dell’analisi, della manomorta del passato che ci tiene in schiavitù”.
 
Rivoluzione – È il motore del capitale? “Io credo nella rivoluzione”, dice a Graham Greene (“Le vie della legge”) un dentista svanito, tedesco-americano insabbiato da sempre nel Messico: “Dà ambizione alla gente. Mette in circolazione denari”.
 
Viaggio – Libera la confidenza? È il suo unico vantaggio secondo Graham Greene, viaggiatore peraltro compulsivo (“Le vie della legge”): “Questa è veramente l’unica cosa che un viaggio vi dia: la conversazione. Vi è tanta stanchezza e tanta delusione nel viaggiare che la gente ha bisogno di sfogarsi; nei treni delle ferrovie, nel cantuccio di un focolare, sui ponti dei piroscafi, o nei cortili adorni di palmizi di una giornata piovosa”.

letture@antiit.eu

Al centro, in periferia

Una vita periferica, “alla periferia di tutto”, in un paese straniero, in una lingua acquisita? Niente di tutto questo – e poi, straniero a che cosa, a chi? La narratrice del suo vissuto quotidiano, trama e tema del racconto, è una scrittrice e una insegnante come l’autrice, gode a Trastevere, beata lei, della vecchia romanità, sorniona e lieta, amichevole, e può vivere il quartiere come un’avventura, piazza san Cosimato, il viale, il barista, l’oste, su su fino a villa Sciarra, con l’uccelliera, le grottesche, gli alberi specialissimi. Fa incontri graditi mentre passeggia. Di qualcuno anche si innamora, per un tempo. Quindi, periferica a quale centro?
Vive sola, è vero, degli amichi e le amiche, che pure ha, come tutti, anche socievoli e servizievoli, racconta con distacco. La sua è una solitudine di scelta, “stare all’ombra” piace alla narratrice, per ascoltarsi, vedersi, rivedersi. Soprattutto negli anni della crescita: non nella situazione attuale, ma nel rapporto con il padre e con la madre, e con se stesa adolescente. Con un senso però generale di liberazione, anche se molti ricordi sono costrittivi. Da qui anche la scelta dell’italiano, un’altra lingua da quella anagrafica o di cittadinanza, come veicolo “liberatorio”, una lingua propria solo a se stessa.
Dopo gli scritti d’occasione, pubblicati per lo più su “L’Internazionale”, Jhumpa Lahiri, la scrittrice americana di successo che ha scelto l’Italia e l’italiano per  una “rigenerazione”, debutta in italiano col romanzo (siamo nel 2017). Con un personaggio “alla finestra”, si potrebbe dire con un autore che Lahiri ama, Corrado Alvaro. Con un che di personale – i luoghi, le ore, gli interlocutori occasionali che fanno la giornata della protagonista-narratrice. Ma sempre laterale, anche con gli uomini con cui ha avuto una storia. Del potere liberatorio dell’isolamento? Anche di essere stranieri in patria – questo si nota di più nella traduzione dall’italiano in inglese, che la scrittrice vorrà professionale,  non fatta da sé: c’è una libertà nell’emigrazione.
Si procede per lampi, schizzi, abbozzi, disegni, anche sovraccaricati ma brevi, che alla fine compongono un tela di solitudine, di estraneità. Di una presenza che è anche assenza. Dell’incertezza – nel rapporto ingombrante con la madre come con gli amici e gli amanti, nessuno dei quali lascia traccia. Di estraneità non al mondo quotidiano, nel quale appunto la narratrice è integrata con sua felicità, ma a quello che si è, che si sarebbe voluto essere e non si è, al cosa fare (futuro) – domanda che però non si pone.
“Da nessuna parte” sarà la riposta. Alla domanda: “Esiste un posto dove non siamo di passaggio?”. Non infrequente probabilmente in America, un continente più che un paese - Lucia Berlin, una scrittrice anni 1960 che ora si ripubblica, ha una situazione analoga in più racconti, e in uno, “So Long”, fa così parlare una americana che ha messo su famiglia a Città del Messico: “Naturalmente ho una me qui, e una nuova famiglia, nuovi gatti, nuovi scherzi. Ma provo sempre a ricordare chi ero in inglese”. Che può essere una scelta, un programma di vita, per una scrittrice nata in India, educata in Inghilterra, autrice in America, che infine ha scelto l’italiano. Ma il cui girovagare non è disadattamento ma dominio, di forme varie di vita: una vita che non si vuole uniforme, questo il segreto – non un messaggio, la narrazione è lieve, volante (episodica), svagata: “Sono io e non lo sono, vado via e resto sempre qui. Questa frase scompiglia brevemente la mia malinconia come un sussulto che fa oscillare i rami, che fa tremare le foglie di un albero”.
Il bilinguismo, che Jhumpa Lahiri ha cercato e costruito, per scelta quindi, è una sorta di creazione di una diversa identità, italiana, romana, trasteverina. Un’esplorazione, che premia la curiosità, l’innovazione, ma vuole coraggio, e pazienza. Notevole, in filigrana, il gusto di scrivere l’italiano, lingua acquisita per programma. Si assaporano le parole - “portagioie, se ci penso la parola più bella che ci sia”. Le pratiche vanno col linguaggio: il tu confidenziale degli sconosciuti di pratica quotidiana: il fruttivendolo, il droghiere, il barista; il  tepore del quartiere (non ci fa freddo, e nemmeno caldo), come una  casa, un rifugio. Notevole, in questa lingua “imparata”, il non detto, implicito, alluso, che di una lingua si direbbero il segreto.
Il nodo “classico” che emerge è della madre, lontana, ostile, rivista da un paese a lei estraneo, in una lingua non compartecipata. L’inevitabile (?) rapporto ostile della figlia con  la madre, anche in età matura: una insofferente alla solitudine, una (anche per questo?) che si vuole sola e solitaria. Alla psicoanalista che per un breve periodo ha frequentato raccontava di lei, della madre, “come e quanto mi sciabolava” - “la madre ingombrante che oggi non pesa quasi nulla, la madre invadente”.
Jhumpa Lahiri, Dove mi trovo, Guanda, pp. 163 € 15

martedì 9 novembre 2021

Ombre cinesi – 2

Il plenum del Comitato Centrale del partito Comunista Cinese, la riunione annuale, si tiene a porte chiuse.
Il plenum è chiamato il conclave del Pcc, di 376 membri. Eletti, ma di fatto cooptati dal presidente in carica, Xi Jinping.
Il “pensiero del presidente Xi” è, come già quello di Mao, nei libri di testo a scuola, e anche nella Costituzione.
Il linguaggio veicolato dal presidente Xi nella presentazione del plenum fa dire di stesso: “Il plenum che porterà il Partito verso un nuovo viaggio, determinato e d’azione, dai sentimenti e dai pensieri profondi, che lavora senza mai fermarsi”. Il culto della personalità, nel 2021.
Zero covid è la politica della Cina. Come anche dell’Australia, la Nuova Zelanda e Singapore, ma inflessibile. I viaggiatori in entrata  vengono anche fotografati.
Il primo ministro Li Keqiang ha ordinato alle due regioni produttrici di carbone, Shanxi e Mongolia Interna, di “fronteggiare la crisi di approvvigionamento energetico del paese”. Cioè di incrementare la produzione. Ufficialmente la Cina è impegnata negli accordi internazionali alla “neutralità carbonica” entro il 2060, progressivamente a partire dal picco di emissioni previsto nel 2030. Ciò comporterebbe la chiusura di 600 centrali elettriche a carbone. Ma il programma di decarbonizzazione non è una priorità del governo.

La prima memoria di uno schiavo americano

Una primizia, poi restata solitaria, della voga di scrittori americani neri a metà Novecento, tradotta nel 1962, cioè 125 anni dopo la sua pubblicazione, dal Saggiatore - una delle vecchie considerate Silerchie, presto nuovamente dimenticata. La “Narrativa” è stata materia, cento anni dopo, di Toni Morrison, “Beloved”, sulla vita impossibile degli schiavi fuggiaschi, “cacciati” come delinquenti - tanto che gli stessi non rifuggivano dalla peggiore violenza. Ma neanche il successo della Nobel le ha giovato. Ritorna con la polemica aperta negli Stati Uniti contro la Critical Race Theory, la revisione della storia americana come una storia di oppressione, e il movimento woke, o wokeness, le periodiche insorgenze delle minoranze, ora attorno alla questione nera e a quella femminista, dei movimenti black lives matter e #metoo.
Douglass è personaggio polytropos  direbbe Omero, multiforme: scrittore, editore, riformatore, abolizionista naturalmente, femminista (per il diritto di voto alle donne), candidato nel 1872 alla vice-presidenza degli Stati Uniti, candidata alla presidenza Victoria Woodhull, la prima e per un secolo e mezzo la sola candidata donna, di 34 anni, più giovane di una generazione del suo vice, per un Partito dell’Uguaglianza dei Diritti. Schiavo, in condizioni di durezza, fino ai vent’anni, che finirà colto educatore, ammiratore della Costituzione, “glorioso documento di libertà” – una difesa dei marginali, neri, schiavi.  
Ma l’abolizionismo era ancora  un movimento “bianco”, spiegava Bruno Maffi alla prima edizione: Douglass “apre il moto di riscatto delle popolazioni di colore”, in America e altrove. La New England Anti-Slavery Society di Boston (1832) e un anno dopo l’American National Anti-Slavery Society raccoglieva un gruppo di politici di base, non in carriera, beneducati che si ponevano il problema di cosa farsene dei neri schiavi. Un passo precedente, che le due nuove leghe sostituivano, era stato nel 1816 l’American Colonization Society, che aveva come obiettivo di favorire il rimpatrio dei neri in Africa, il progetto che nel 1847 porterà alla creazione della Liberia, un colonialismo di ritorno non fortunato. Douglass avvia un movimento afroamericano di resistenza – che arriverà fino a John Brown, alla resistenza armata. o, uno stato di tensione perenne. Tale che i fuggiaschi non rifuggivano dalla peggiore violenza, la violeza della disperazione.
La memoria si apre col ricordo di un padrone sadico, “un uomo crudele inasprito da una lunga esistenza di negriero”, alla cui frusta Douglass bambino si svegliava – “ero apena un bimbo, me lo ricordo bene”: “Mi è spesso accaduto di essete svegliato, all’alba, dalle urla strazianti di una mia zia ch’egli soleva legare a un palo, e menare con lo staffile sulla schiena nuda finché non era letteralmente coperta di sangue… Più lei gridava, più lui menava la frusta”, finiva solo quando era stanco. Dal padrone dipendeva la razione giornaliera di cibo. Si mangiava per terra. Non c’era diritto a un letto. Nell’ignoranza: la colpa peggiore era imparare a leggere.
Si formerà politicamente leggendo testi a favore dell’emancipazione, di cattolici irlandesi e dei cattolici irlandesi. I metodisti, invece, pastori e fedeli, erano i più feroci.  Lo stesso gli operai bianchi, fra i più duri. Nei tanti cambi di padrone – gli schiavi erano comprati e venduti, l’esperienza più dura fu con un Mr.Covey, che era povero, cui Douglass era stato affittato: “Un povero diavolo di affittuario, che noleggiava sia la terra sulla quale viveva sia le braccia con le quali la coltivava, ma si era fatto una grande nomea come «raddrizzatore» di schiavi”. Un sola schiava Mr. Covey si era potuto comprare, “perché figliasse”, e a questo fine la faceva accoppiare ogni sera a un altro schiavo noleggiato, sposato con figli” – dopodiché, dopo il parto, “nulla di quanto lui e sua moglie poterono fare per Caroline (la schiava, n.d.r.) risultava troppo buono o troppo costoso”. Mr. Covey sfruttò Douglass fino a tramutarlo, in sei mesi di affitto, in un bruto, una piccola macchina. 
Nato schiavo, figlio forse del padrone della madre, e passato da vari padroni, a dodici anni Douglass imparò a leggere e scrivere grazie alla moglie dell’ultimo padrone, e forse di più, racconta, guardando e imparando come i ragazzi bianchi imparavano. Sull’istruzione si giocava lo statuto della schiavitù:  i padroni perseguivano con la maggiore violenza ogni tentativo, personale, familiare, parrocchiale, di imparare a leggere, sia pure soltanto la Bibbia. La sola via d’uscita era la fuga, per quanto pericolosa, verso gli Stati dove la schiavitù non era la regola, e a Douglass questo riuscì al terzo tentativo, nel 1838, quando aveva vant’anni: riuscì a sbarcare a Filadelfia, e da qui a recarsi a New York e poi nel Massachusetts. Dove riuscì a integrarsi nel movimento abolizionista, della American Anti-Slavery Society.
La pubblicazione della “Narrativa” nel 1845 fece scandalo, non si pensava che uno schiavo fosse capace di scrivere. Fu anche un successo di vendite, con traduzioni in francese e olandese. Se non che il successo lo mise a rischio di tornare schiavo, se il suo ultimo padrone avesse chiesto in giudizio di riprendersi “la sua proprietà”. Si mise in salvo in Irlanda per un periodo, grazie ai contatti con gli ambienti irlandesi americani che lo avevano fromato culturalmente: era il Ferragosto del 1845, l’inizio della Grande Carestia. Ma in Irlanda e in Inghilterra ebbe occasione di scrivere e parlare, anche in conferenze, diventando un personaggio pubblico. Riprenderà un paio di volte la “Narrativa”, ampliandola. Ma soprattutto farà della sua condizione di ex schiavo un laboratorio politico.
Col testo originale a fronte.
Frederick Douglass, Narrazione della vita di Frederick Douglass, Marsilio, pp. 313 € 18




lunedì 8 novembre 2021

Milano si appella all'Ocse, contro la corruzione

Fallito un processo sbagliato, il giudice di Milano De Pasquale, totem cittadino perché dovrebbe occuparsi della corruzione in affari, mobilita quindici colleghi europei che chiedono all’Ocse “regole più dure”. Contro la corruzione? Ma la corruzione è d’obbligo fuori dell’Ocse, l’organizzazione dei paesi industriali – in Africa, in America Latina, in Asia. De Pasquale è debole in geografia? Dentro è diffusa, ma non è obbligata.
De Pasquale, giudice anticorruzione, resterà negli annali per essersi fatto abbindolare da un avvocato Amara, notorio mediatore di affari - dopo avere inguaiato l’Eni ci ha provato con l’Ilva. Ci sono i pentiti anche in affari? Ma non è da escludere che, essendo De Pasquale e Amara entrambi siciliani, non facciano i “tragediaturi” del Camillerindex, gli attori in commedia –la loggia segreta “Ungheria” è un discreto colpo di teatro dei due (certo, non sono Proietti o Gassman).
De Pasquale era diventato famoso trent’anni fa per non aver voluto firmare la promessa di arresti domiciliari all’allora presidente dell’Eni Cagliari, rinchiuso da quattro mesi e mezzo a San Vittore. Preferendo andarsene in vacanza – era suo diritto, certo. Per una lunga estate nella quale Cagliari trovò il tempo e il modo di suicidarsi, benché ben guardato nel “canile di san Vittore”.
Non è mai venuto a De Pasquale il dubbio che gli si faccia trovare davanti il gruppo energetico pubblico – dove si maneggiano miliardi senza tracce di corruzione, non personale (la “mediazione d’affari” è taglia inevitabile nell’ex Terzo mondo) - per assorbirne le energie mentre la corruzione dei “privati” impazza? Non c’è altra corruzione a Milano se non c’è di mezzo l’Eni? A Milano? Il giudice non si fa mai una passeggiata?

Il sogno americano annegato nell’alcol

Una scrittura barocca dapprima, poi rabdomantica. Con molta chiesa e profumo d’incenso, le stagioni e le cose da fare scandite col calendario liturgico. Le storie del signor Nailles dapprima, considerato e uomo di fede, e poi del cattivissimo Hammer - chiodo e martello. Insomma, storie disinvolte. Nate  e nutrite. E dalla condizione borghese, alienante, come usava dire. Uno di quegli esercizi in media borghesia suburbana, che lega questo Cheever al filone allora dominante, anni 1960-970, Richard Yates, con code nei 1980: il primo Styron, Richard Yates, anche Philip Roth, Ellroy, lo stesso Bukowski, perfino Dick, e poi Franzen.  
Una storia disinvolta, attorno al nucleo critico, sociologico. Con molta Italia. Roma, dove il fglio del signor Nailles nasce, senza ragione specifica, all’American Hospital, e Orvieto, dove il giovane ricco Hammer ha infine trovato il nido, le due stanze dipinte di giallo che ha cercato in mezzo mondo, se non che il padrone non gliele cede, si sposa e vuole abitarci. Nailles è buon marito e buon padre, amoroso e sollecito, sensibile - “riconosce i rumori che fanno i vari alberi scossi dal vento: un acero, una betulla, una tulipifera, una quercia”. Hammer si porta dietro Montale, che intende tradurre, e quando infine l’ha tradotto, scopre che qualcuno lo ha già fatto, senza dolersene, prende e lascia le donne, è qui e là e in ogni dove – è insensibile. Entrambi sono figli di madri stravaganti, e di padri assenti.
Tutti sono ubriachi, sempre, molto, a tutte le età, mentre i più giovani si fanno le canne. E riflettono: “Mai, dico mai”, riflette una delle due mamme alcolizzate, “nella storia di una civiltà si è visto una grande nazione così pervicacemente votata a drogarsi” - o anche un “esempio di incuria suicida, corruzione amministrativa e pervertimento delle risorse naturali”. Non sono personaggi, per quanto strani, sono prototipi, dell’America urbanizzata, in condizione suburbana: “Bullet Park” non è un luogo specifico, è il quartiere suburbano prototipo, ora fuori Chicago ora fuori New York, dove si gioca a bridge, ci si dedica alle opere pie, si va a messa la domenica, si danno feste per i vicini, le donne non sanno che fare, e si beve – a ripensarci, l’alcol è la spina dorsale del Sogno Americano nel Novecento. Dove tutte le derive della narrazione si possono raggrumare, anche il delitto inconsulto, le armi non difettano.   
John Cheever,
Bullet Park, Feltrinelli, pp. 232 € 8,50

domenica 7 novembre 2021

Problemi di base d'autore - 669

spock

“L’infelicità è una pratica giornaliera”, G. Greene?
 
“Ascoltare è quasi rispondere”, Marivaux?
 
“Lo scherzo non conosce altro tempo che il suo proprio esistere”, Jean Paul?
 
“La vera vita è altrove”, Rimbaud?
 
“Eros non è affatto bello”, R.M.Rilke?
 
“I ricordi, a partire da una certa profondità, sono sogni”, Rilke?
 
 “Sono i dilettanti a fare i sognatori”, Gottfried Benn?

spock@antiit.eu

Ecobusiness

Si moltiplicano gli allarmi, con congressi, conferenze e impegni mondiali,  e si moltiplicano i consumi di carbone, il primo ammorbatore dell’universo, in India e Cina, le “fabbriche del mondo”. Di cui si vorrebbe anzi aumentare produzione e produttività, tanto consentono guadagni lauti ai facili importatori. Mai il mondo fu più unito di ora, dal profitto.
Le passeggiate spaziali ai Elon Musk o di Bezos, anticipazioni del glorioso futuro intergalattico, con un po’ di intelligenza artificiale, hanno prodotto più inquinamento di quanto ne possono produrre un miliardo di poveri in tutta la loro vita? E allora?
Quanta CO2 si produce nelle manifestazioni di Greta, specie le adunate oceaniche, i centomila di Glasgow?
Se l’inquinamento è all’80 per cento il prodotto dell’eccessiva mobilità (mobilità vissuta come libertà?), il metaverso della realtà virtuale ci terrà finalmente a casa, comnque stabili se non immobili, come gà un poco Facebook, a fantasticare su se stessi?
La realtà virtuale nasce come nuovo spazio di vendita della pubblicità. Senza concorrenti, in una prima, lunga fase. Ma a che prezzo per il mondo, per gli addict? Nasce una nuova umanità, carbon free, human free?

La traduzione è un’avventura, linguistica

Un estratto della nota al testo che Jhumpa Lahiri pospone alla sua traduzione di “Confidenza”, l’ultimo (ora penultimo, prima di “Vita mortale e immortale della bambina di Milano”) romanzo di Starnone – il terzo Starnone che la scrittrice indo-americana-italiana traduce. Una spassosa, ma molto interessante, divagazione su “invece”, “anzi”, “amare” e “voler bene”. Con i riferimenti classici, soprattutto al latino, per “invece”, a Ovidio e Catullo, e a Shakespeare, con i latini, per amare - ma anche a Omero per la multiformità d’ingegno, che Odisseso presenta come “polytropos”, di ingegno versatile, o meglio di molte pieghe e trasformazioni.
Divagazioni d’autore sulla traduzione. Che, poi, di fatto è un mestiere, ma può prestarsi a utili viaggi. Questo è molto immaginativo, e insieme dotto, considerato. Con questa perla, a proposito del non dire tutto, lasciare intendere, che sarebbe al centro del romanzo di Starnone – arrischiata, Lahiri, che insegna a Princeton oltre che scrivere, è diretta nelle sue “scoperte”, ma tutto sommato vera: “Possiamo tracciare una costellazione da Dante a Manzoni a Hemingway a Starnone che fa luce su come gli scrittori usano il linguaggio per parlare del silenzio e l’importanza del discorso ritentivo”, del detto non detto.
Ma, a proposito: “Il libro che mi ha insegnato che cosa era la traduzione” o n
on “che cosa è la traduzione”?
Jhumpa Lahiri, The book that taught me what translation was, “The New Yorker”, free online