sabato 18 dicembre 2021
Appalti, fisco, abusi (212)
La Rca aumenta sempre, anche in questi anni di pandemia. Aumenta a
caso. Senza controlli, da parte di un’Autorità che ha mille intrecci – di carriera
e perfino societari - col comparto che controlla. E senza indici di riferimento
- inflazione, costo del denaro. Veniamo da un ventennio di inflazione zero e
costo del denaro prossimo allo zero, e la Rca è raddoppiata. Sono aumentati i
sinistri? Anche in anni di pandemia, a circolazione forzosamente ridotta? E chi
controlla l’incidentalità?
Ecobusiness
L’abbigliamento usa non caro ma non durevole, si cambia a ogni
stagione. L’industria dell’abbigliamento produce più anidride carbonica che la navigazione
aerea o marittima: fra il 2 e l’8 per cento delle emissioni totali di CO2, a seconda
dei calcoli, contro il 2 e il 3 per cento rispettivamente per la navigazione.
La navigazione online consuma il 10 per cento dell’elettricità
mondiale, ed è responsabile per il 4 per cento dell’effetto serra – il doppio
dunque degli aerei, e un quarto più delle navi. Un’attività, la navigazione
internet, che per gran parte si propone per la raccolta dati, da usare a fini
commerciali.
Gli Stati Uniti, col 4 per cento della popolazione mondiale,
contro il 6 per cento della Unione Europea, e il 18 per cento della Cina, consumano
il 16 per cento del totale delle fonti di energia, contro il 10 per cento della
Ue e il 26 per cento della Cina. Pro capite, i consumi americani ammontano a 285
gigajoules, contro i 125 della Ue e i 101 della Cina.
Un Marchionne piccolo piccolo
Una iniezione di
voglia di vivere. Da un uomo venuto dal nulla e creatore di un gruppo competitivo
in un settore intasatissimo, ribaltando la vecchia Fiat e la fallita Chrysler in
aziende di successo, immediato. Come per tocco magico.
Ma un film
curioso. Dà risalto alla capacità di Marchionne di risuscitare cadaveri industriali.
E con rapidità, e con semplicità: parlando con le persone, analizzando i
problemi, trovando le soluzioni – le più semplici le più efficaci. Specie negli
incisi in inglese, lingua che evidentemente ne favoriva la sintesi: dice sempre
molto, in poche parole, nessuna sbagliata. Ma le testimonianze sono limitate.
E concentrate su uno o due leitmotiv. Mentre il personaggio è di molti aspetti.
Nulla sui genitori, specie la madre istriana. Sui loro molteplici trasferimenti.
Sulla sorella maggiore, specialista di italianistica, morta a trent’anni o poco
più. Sullo sradicamento, improvviso, violento, a quattordici anni, da Chieti al
Canada.
Poco anche, di fatto,
sulla sua esperienza di manager. Specie al confronto, che sarebbe risultato
molto lusinghiero, con la Mercedes. Chrysler, che Marchionne ha riportato sul
mercato in pochi mesi, era stata gestita per dieci anni dalla Mercedes - prima
di Fca, Fiat Chrysler Automobiles, c’era il gruppo Daimler-Chrysler. Di cui
aveva minacciato l’integrità finanziaria, tanto i manager Mercedes non erano riusciti
a farla lavorare – da qui l’abbandono. Ed erano manager di gran conto: Jürgen
Schrempp, artefice della fusione, in quegli anni, tra Novecento e Duemila, era “l’onore
della nazione”, il manager più miracoloso di tutti i tempi della storia
tedesca. E Dieter Zetsche, che gli succederà a capo della Daimler dopo il
disastro Chrysler.
Francesco
Micciché, Sergio Marchionne. Il coraggio di contare, Rai 3
venerdì 17 dicembre 2021
A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (477)
Giuseppe Leuzzi
“La quasi totalità
dei corsi di genere si concentra nel Nord Italia (il 74 per cento del totale), mentre
solo sporadicamente essi sono attivati nelle università del Centro (10 per cento)
e del Sud Italia (14 per cento)”, Andrea Martini, “Femministe e non soltanto studentesse”
(in “L’università delle donne”).
“Lo scontro con
la realtà avvenne a Milano”, spiega a Candida Morvillo sul “Corriere della sera”
Beatrice Venezi, la giovane (31 anni) e già affermata direttore d’orchestra, a
proposito dei suoi studi, provenendo da Lucca dov’è nata. “Ho tentato due volte
l’esame di ammissione per il corso di direzione d’orchestra. La prima volta al
mio posto venne preso un collega che era allievo di un allievo di un docente
del Conservatorio”. Sarà stato un docente meridionale?
“Ma non solo”,
continua Venezi: “La possibilità che una donna salisse sul podio era vista come
bizzarra”. A Milano. A Napoli Venezi sarebbe stata ammessa con giubilo - anche a
Palermo.
“Il Nord tra 50 anni si spopola, ma il Sud
di più: si desertifica”: è la previsione dell’Istat in base ai flussi
demografici e immigratori al 2070, che “La Lettura” propone domenica. La popolazione
diminuisce al Nord dell’11,9 per cento, al Centro del 20,2, al Sud di ben il 32,8
per cento, un terzo. Si risolve così, per svuotamento, la questione
meridionale?
La
scoperta del caporalato - al Nord
“Ora il caporalato
dilaga anche al Nord”. Non ora, c’è sempre stato, ad Arzignano, a Pescantina,
anche in Val di Non, ma poi ovunque in agricoltura e nelle lavorazioni
velenose, e nell’edilizia economica, dovunque c’è bisogno di molta manodopera,
a pochi euro.
“Ora”, dice “la
Repubblica” ci sono i controlli - disposti probabilmente per una faida
politica, tra la ministra dell’Interno Lamorgese e il suo predecessore Salvini,
dato che l’esito dei controlli viene ridotto ai presunti abusi della moglie di
un prefetto nominato da quest’ultimo al dipartimento per l’Immigrazione.
Al netto delle
perfidie ministeriali, il fatto è questo, ora e anche prima: le 2.139 ispezioni
del biennio 2020-2021, poche, pochssime, hanno rilevato irregolarità nel 68 per
cento dei casi al Sud, Sicilia, Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, e del
78 per cento al Centro-Nord, Abruzzo, Lazio, Umbria, Toscana, Marche, Emilia-Romagna,
Veneto, Lombardia, Piemonte. Non è questa la sola differenza: la differenza maggiore
è che le ispezioni, secondo gli stessi conti di Marco Patucchi, che per il
quotidiano ha fatto l’inchiesta, sono state 1.512 al Sud, un terzo della popolazione,
e solo 986 al Centro-Nord, negli altri due terzi.
Ed ecco la turista, trentasei anni per
femore
In vacanza a Diamante nel luglio del 1971,
Giani Rodari così ne scriveva a Daniele Ponchiroli, suo amico e referente alla casa
editrice Einaudi: “Mi trovo, come tu sai, nelle Calabria, in incognito. Uso qui
il mio nome di riserva, quello di Conte di Santu Lussurgiu. Ti risparmio le
deformazioni tirrenico-cosentine di questo illustre casato. In paese sono chiamato
U Santu, O’ surdo, O’ Surcio, O’ Connell – chi sa per quale miracolo metafonetico
– Beniamino”, recependo gli slittamenti tra i suoni chiusi del dialetto
cosentino. “Il brigadiere dei carabinieri”, continua Rodari, “quando allude a
me (con la nota discrezione della Benemerita), si serve dell’epiteto: O’ Dottore
L’Ussurioso (sic! Compreso l’apostrofo, che nella sua pronuncia di Calascibetta
è calariconoscibilissimo)”. L’inventore di tante filastrocche e storie buffe per
bambini ha mediato subito l’obbligo locale, sociale, dello scherzo bonario, la
“zannella”.
“Ti lascio immaginare quanto ciò sia per
giovare al turismo”, continua Rodari nella lettera a Ponchiroli, dopo essersi
descritto come la rara avis turistica: “Tedeschi in vista nessuno.
Tedesche, una sola. Trentasei anni per femore. Per giunta, degustatrice di tramonti”.
Lo scrittore le recita due quartine alla Heine, sui tramonti, la turista cade
stecchita, la Guardia di Finanza per evitare lo scandalo “la fa passare per una
stecca di sigarette di contrabbando dimenticata dai pescatori di Belvedere
Marittimo. È stata rivenduta con discreto utile per l’erario”. Il miraggio del
turista era anche un altro topos molto calabrese, la Regione avendo investito
a vuoto in tre quattro grandi campagne per la promozione dei suoi tesori
naturali - i pochi che non ha deturpato con l’abusivismo di necessità.
Rodari è contento della vacanza: “Qui sono
buoni i gelati, i gamberi, i calamari, i cedri, i fusilli, le ricotte”. Ma “i
materassi no: usano certi materassi a molle che ti svegliano ogni quarto d’ora
con colpi al bersaglio grosso, è come dormire sui fichidindia”. E “alle 23 il
Comune toglie l’acqua. La ridà alle 4 del mattino: allora essa si precipita
nella cassetta del water con dieci o dodici atmosfere di troppo. In un attimo
siamo tutti in aperta campagna, avviluppati in coperte di pura lana vergine:
l’imitazione del terremoto è spaventosamente perfetta”. Tutto vero, sembra una
cronaca di oggi. Eccetto che l’acqua non viene tolta alle 23 ma alle 19, anche alle 18.
Calabria
Scrivendo a Giulio Bollati il 22 novembre 1962, allora direttore di Einaudi, Gianni Rodari menziona “una bella cosa che mi sta
tanto a cuore. Si tratta, no so se ti ricordi, dei giochi di due bambini in
Sila; intorno a quei giochi si stanno agitando tanti fantasmi emozionanti, e
c’è perfino un titolo, «Il cane di Magonza» (che è figliolo illegittimo e per
errore di Gano di Maganza)”. Il libro nascerà postumo, e non non sarà una
narrazione specifica, ma una raccolta, sotto questo titolo, di prose di varia natura,
racconti, favole, saggi, brevi, dispersi tra varie fonti. La Calabria non c’entra,
ma ha dato al piemontesissimo Rodari un’ispirazione, pur in un soggiorno breve
e occasionale.
A metà di un
sentiero Ionio-Tirreno tra il Golfo di Squillace e quello di Lamezia, un
cammino di 55 km., “Kalabria Coast to Coast” (??), il secondo giorno, alla
seconda tappa, Antonio Polito attraversa col suo gruppo una dozzina di
chilometri della faggeta di Monte Coppari, “un’esperienza unica, che consiglio a
chi volesse immergersi in un’atmosfera magica da Excalibur”. Se non che
“sul tronco di moltidi questi meravigliosi faggi” trova impresso “un marchio
con un numero”: è un progressivo, fino a 250, dei faggi che saranno abbattuti per
fare posto a un “parco eolico”. Cioè a pale giganti, che fanno molto rumore e
poca elettricità – una rendita per avventurati investitori che paghiamo in bolletta
come “oneri di sistema”. Una distruzione doppia.
Usava la
ferrovia Paola-Cosenza (quando per Cosenza non era stata disposta la più grande
diversione autostradale, sulla Salerno-Reggio Calabria, l’unica autostrada non
rettilinea), di cui Malvaldi, “Bolle di sapone”, fa un piccolo capolavoro: “Era
a cremagliera. Come quella di Saline di Volterra. Ma una delle linee più torte
del creato. La fecero prima della Grande Guerra. Era una ferrovia complementare,
cioè la fecero coll’avanzi, e in più i terreni erano tutti franosi. Ci voleva un’ora
e mezza per fa’ trenta chilometri scarsi”. Poi si dice la questione
meridionale.
A Sinopoli si è presentata per il Comune, dopo l’ennesimo scioglimento del consiglio
per mafia, una sola lista. Con un solo motivo di campagna elettorale: che non andasse
a votare il 40 per cento prescritto in questi casi degli iscritti alle liste
elettorali, pena la cassazione del voto. Rischio non connesso all’unica candidata,
l’avvocato Francesca Sergi, ma al fatto che degli iscritti il quaranta per cento
sono residenti all’estero – quelli iscritti all’Aire (Anagrafe Italiana
Residenti all’Estero), con chissà quanti non iscritti.
Di fatto, nella
Sinopoli di oggi si parla di non molti aventi diritto al voto, 1.468 residenti,
con un quorum dunque a 588 votanti. Che la candidata unica ha superato, ma non
abbondantemente. Sinopoli, già sede di Pretura, con avvocati e villette di avvocati, con la palma, ora borgo degradato, è da oltre mezzo secolo dominata dal clan degli Alvaro. Che governano,
con la violenza e con la furbizia, su mezzo versante tirrenico dell’Aspromonte,
fino a lambire i territori limitrofi di Seminara, Cosoleto, Delianuova, Santa
Cristina, Oppido Mamertina. Indisturbati evidentemente.
Francesco
Misiano, di Ardore, vulcanico socialista rivoluzionario di tutte le battaglie
nel primo Novecento, rifugiato infine in
Unione Sovietica, è celebrato dal paese di origine con un premio alla carriera
cinematografica, per l’attività di produttore e distributore cinematografico
(160 lungometraggi e 240 documentari prodotti, istitutore in Germania di
Eijzenštein) che svolse a Mosca - dove peraltro “cadde in disgrazia” nelle
“purghe” del 1936, anche se morì prima
del processo, di malattia. Il cinema unisce, la politica è un passato
che non passa?
La “figura del calabrese”
è tracagnotto, riccioluto, robusti, mentre la regione ha molte squadre nei campionati
di basket nazionali, di seria A e B, e di pallavolo, maschili e femminili.
L’attuale provincia
di Reggio, più o meno, con appendici tra Vibo e Catanzaro, la vecchia Calabria
Ulteriore, sotto l’istmo Lamezia-Catanzaro, è stata di rito e lingua greci fino
al Cinquecento. I riti erano già latini per lo più, dal tempo dei Normanni,
XIImo secolo, ma recitati in greco, che era la lingua popolare. Questa parte
della Calabria pullula di nomi legati al pope - “papa”: Papaleo, Papalia, Papasergio,
Papasidero, Papafava…
Molte parole di uso comune lo ricordano, e
soprattutto certe terminazioni, che però ora si rifiutano. Si diceva Africoti
per gli abitanti di Africo, che ora invece si chiamano africhesi, con un
dubbio, e insignificante, francesismo. Lo stesso per i Santolucoti, che ora si
fanno chiamare sanluchesi. Per i Natiloti etc.
Perfino le “bagnarote”
ora si leggono più spesso bagnaresi. Anche se la parola denominava un mestiere
(la commerciante ambulante, col cesto – la mercanzia – in testa) piuttosto che
la provenienza. Che era peraltro più spesso Solano o Pellegrina, più che
Bagnara.
C’è una grande
differenza tra le province, quanto a reddito, iniziativa, operosità
(applicazione), e gestione della cosa pubblica. Reggio Calabria è rimasta
indietro sotto tutti i profili rispetto a Cosenza, Catanzaro, le stesse Vibo e
Crotone, le nuove province. Nell’edizione 2020 di Eduscopio, il rapporto annuale
della Fondazione Agnelli sulla qualità delle scuole superiori (una ricerca
basata sull’indice Fga, che misura il rendimento dei licenziati negli studi
universitari o nel lavoro), dei quindici istituti superiori censiti in Calabria, per cinque
categorie (Classico, Scientifico, Linguistico, Tecnico-Economico e Tecnico-Tecnologico),
solo uno è di Reggio, il classico Campanella, terzo nella sua categoria.
leuzzi@antiit.eu
Quanto Dante si divertiva, con le parole
Una
compilazione spassosa ma anche sapiente. Lotti, lessicologo per diletto, sa creare
collegamenti, individuare richiami, riprese, prestiti e quant’altro, per una
lettura godibile.
Dante
è l’inventore dell’italiano anche nei suoi termini, a detta dello stesso poeta,
“puerili”, “silvestri”, “lubrichi”, “aspri”. Il poema chiamava del resto Comoedia,
con rimando alla radice di comico, per dire di un poema “volgare”, cioè
semplice. Comprensibile ai più. A mo’ di introduzione, Lotti può elencare un
centinaio di espressioni non tanto ovvie che però sono parte integrante, usata
correntemente, dell’italiano. Inventivo molto: il “fantino”, da “fante”,
bambino, ragazzo, e il “fantolino”. Il conio. La cloaca. La chiappa. Il cesso. L’epa.
I dindi. Fesso. Gabbo. Ghiottone. Gozzo. Grattare. Groppone. Ingozzare.
Ingrassare. Intronare. Ladro, ladrone e ladroneccio. Lercio, lordo, lordura.
Merda (giù usato da Iacopone da Todi), merdoso. Muso. Natiche, nervo, pancia,
poppe. Porco e porcile…
Molte
invenzioni di Dante non sono entrate nell’uso. “Accaffare”. “Acceffare”,
“Accoccare”. “Mazzerare”, dall’arabo. Specie le derivate dal provenzale:
“Acismare”, dal provenzale “acesmar”…. – ma “bordello, da bordel,
“sozzo” da sotz.
Un
prontuario divertente, anche per chi di Dante non ne può più: ne viene fuori un
poeta lieve, che si diverte con le parole.
Gianfranco
Lotti, Come insultava Dante, il melangolo, pp. 217 € 12
giovedì 16 dicembre 2021
Secondi pensieri - 466
zeulig
Complotto - Il complotto è oggi realtà per apporti plurimi.
Per essere il ricamo della storia, la traccia dell’antichista e del filosofo,
la partita a scacchi che ricostruisce e disegna la trama. L’ipotesi è la cosa
più sicura, tutto il resto è cao-s-uale. È la causa di Heisenberg - o ne è
l’effetto. Il principio d’indeterminazione, Wittgenstein
vi s’imbatté senza riconoscerlo: criticare è perturbare, analizzare è
trasformare, riflettere trasforma il problema. È come in artiglieria, molto
influisce l’osservatore. E il percorso: i venti, le ondulazioni del terreno,
gli effetti ottici. Per l’impossibilità accertata di subordinare la verità di
un enunciato al suo assetto formale. Ci sono tante verità quanti sono i
percorsi per arrivarci. Lo sa per primo lo scrittore, la cui opera varia per le
stesse condizioni materiali dello scrivere, oltre che per lo stato di salute e
l’umore. Freud, dice Auden, “in nome suo viviamo ormai
vite diverse” – anche se, Woody Allen l’ha scoperto, a tenerlo su è l’industria
dei divani. Un percorso
è l’irriducibilità del caso o del disordine. E poi? Niente, non si esce dall‘unitas
multiplex, il complotto eccolo qua. E si creano martiri, non per la
causa, per il nemico. È straordinario.
Il
complotto è francese, e senza radici. Affiora nel Duecento per “assembramento”. Entra nel
vocabolario politico, e nell’italiano, nell’Ottocento: “La voce s’è diffusa
durante la Rivoluzione”, dice il Battaglia. Anche prima veramente, con
Rousseau. Ma da destra, l’Enciclopedia Sovietica non ne parla. E di una certa
destra: non c’è nella Treccani di Gentile, che salta dalla Compiuta Donzella
dei Siciliani a Compluvio. È invece l’idea del mussulmano Guénon, secondo il
quale l’irruzione della modernità nel Cinquecento, con la scoperta dell’America
o con la Riforma, in aspetto di razionalità, è dovuta a un colpo di mano
architettato in segreto. Non dice da chi. Ma pochi mezzani restano. Se Dio s’è
ritirato dal mondo (Hegel), con la Tradizione (Evola) e la Filosofia
(Heidegger), non si capi-sce cos’è avvenuto in questi due secoli, né dove la
Storia si nasconda.
Ma in ogni
complotto c’è un che d’infantile. È stato detto e sarà vero: il complotto
piace. Per la sua natura di giallo, che spiega ogni cosa senza dover essere
vero. Una scuola vuole del resto il giallo, e dunque il complotto, in ogni
forma logica, per il vincolo di causa ed effetto. La colpa di Heisenberg
sarebbe di volercene privare, così presto - è appena un secolo, uno e mezzo con
Poe, che l’umanità si gode il giallo e la logica. Ma questo è il limite
dell’epagoge, inductio, che necessita di una quantità di cose per porre il principio
logico, universale. Quante devono essere le cose – quando il granello si fa
sorite? Per un esito che si può sempre rovesciare. Si può pensare un giallo
fatto di deduzioni e controdeduzioni, che si alternano per duecento pagine,
quanto il romanzo si vuole lungo. O di un monte di fatti cui un altro monte di
fatti si contrappone. Ma questo è altro genere letterario, il volgare “visto
dall’uno visto dall’altro”. Né vale l‘inverso, l’apagoge, che non è, pur
forbita, onesta ed è molesta. Ne è maestro Socrate, di cui Atene si liberò con
sollievo. L’apagoge è l’abduzione, tecnica avvocatesca: si assume la tesi
dell’interlocutore per vera, per poi, unendola ad altre proposizioni note per
vere, dimostrarla palesemente falsa, in contrasto con la natura delle cose
(argomento ad rem) o con altre affermazioni dell’interlocutore
(argomento ad hominem). Si dice che Sherlock Holmes ne è maestro, e
invece evidentemente la evita.
Grecia – Una
civiltà di pontieri, per Simone Weil in guerra, nel 1942, nutrita dall’utopia
occitana (“L’ispirazione occitana”), tra il “messaggio dell’Egitto” e “la sua rivelazione propria: la rivelazione
della miseria umana, della trascendenza
di Dio, della distanza infinita tra Dio e l’uomo. Ossessionata da questa
distanza, la Grecia non ha lavorato che a costruire dei ponti. Tutta la sua
civiltà ne è composta. La sua religione dei Misteri, la sua filosofia, la sua
arte meravigliosa, la scienza che è la sua invenzione propria e tutte le
branche della scienza, tutto queste cose furono dei ponti tra Dio e l’uomo”.
“Per
l’Egitto” il percorso a Dio “fu la carità del prossimo, espressa con una
purezza che non è mai stata sorpassata: fu soprattutto la felicità immortale
delle anime salvate dopo una vita giusta, e la salvezza per l’assimilazione a
un Dio che aveva vissuto, aveva sofferto, era morto di morte violenta, era
divenuto nell’altro mondo il giudice e il salvatore delle anime”.
Sogno – Una ruminzione di immagini. L’unico connettore delle immagini oniriche è di un’attività cerebrale
automatica alla rinfusa, non governata dalla ragione allo stato cosciente, del
complesso degli stimoli cerebrali creati dall’istruzione, dall’imprinting, dai
meme, dall’esperienza (dal vissuto).
Connessioni casuali, disordinate, intermittenti (incompiute, non
significanti, non concettualmente, lacerti di “discorso”, con le collegate
sensazioni di piacere, fastidio, ansia, paura. Collegate non a un disegno\discorso
compiuto ma a frammenti, disomogenei. E solo quando i frammenti convergono verso
una sensazione unica, di sorpresa, piacere, sofferenza, paura possono avere (si
può loro dare) un senso nella veglia.
Lo stato di veglia può influire sul sogno se gli stimoli cerebrali
convergono, in misura e per tempo prolungati, su un oggetto-tema-sensazione.
Sia il sogno di stamani, piccolo incubo, breve e acuto, dell’automobile che non
ritrovo dove l’ho parcheggiata, della ricerca affannosa, in un ambiente urbano
notturno, illuminato fiocamente, dove la gente affluisce per divertirsi, finché
non la trovo, con le ganasce, messa di traverso sopra un marciapiedi, di un
viale solitario e buio. Si può dare al sogno valore-i simbolico-i, ma il breve
incubo viene dopo giorni di astio contro i vigili urbani, per una multa
sbagliata e comunque eccessiva, di soldi e punti, per un’interpretazione
volutamente (tra ghigni e lazzi, di vigili donne peraltro) sbirresca del codice
che alimenta indignazione e rabbia, e voglia di rivalsa, che però si sa
impossibile perché “il Prefetto dà ragione ai vigili” (avvocato). Per che altro
si sognerebbe, di primo mattino, prima del risveglio, la macchiana bloccata
dalle ganasce, di notte, in sosta in un viale deserto?
Sublime – La nozione di un errore. Non falsa, non necessariamente, ma curiosa. Un errore di attribuzione fertile, a Cassio Longino, il retore del III secolo d.C., consigliere e insegnante di greco della regina Zenobia di Palmira, maestro di Porfirio e interlocutore di Plotino (ma non convertito al platonismo), condanno in fin di vita dall’imperatore Aureliano, quello che introdusse a Roma il culto del Sol invictus, cioè di Mitra, per suggerimenti d’indipendenza da lui avanzati alla regina Zenobia. Diventato famoso per l’attribuzione del trattato “Del sublime”, presto però riconosciuto non suo. e tuttora di anonimo. Che peraltro non era il sublime in arte, ma di qualcosa – hypsos è vetta, cima - che sfidasse il cielo. La versione secentesca di Nicolas Boileau lo renderà tema obbligato dei Lumi. e di Burke, Kant, Hegel, e una pletora successiva - fino a Lyotard: “rappresentare l’irrappresentabile”.
zeulig@antiit.eu
Cronache dell’altro mondo – carcerarie (159)
Non si fa il processo agli attentatori dell’11 settembre. Cioè si
fa, ma con estrema lentezza, una o due sedute per anno.
Gli accusati, detenuti nel carcere militare di Guantànamo, nela
base della Marina Usa a Cuba, sono cinque: Khaled Sheikh Mohamed, Ammar el
Beluchi, Waalikd bin Attash, Ramzi bin Al-Shibh, Mustafà El Hawsawi.
I cinque sono in carcere dal 2002. Tutti si sono formati negli
Stati UJniti, alcuni anche alla simulazione del volo.
L’accusato più importante, il primo, detto KSM, un saudita di buona famiglia,
come il. Capo di Al Qaeda, Bin Laden, catturato nel 2002 in Pakistan, era sotto
osservazione da tempo, e secondo fonti interne all’Fbi avrebbe potuto e dovuto essere
arrestato molti ani prima. Era indagato per le bombe al World Trade Center nel
1993, e per un primo piano di attacco ad aerei civili americani in volo nel
Pacifico, nel 1995. Nello stesso anno poteva essere arrestato in Qatar, ma
l’Fbi fu dissuaso dalla diplomazia americana, per non creare problemi con
l’emirato.
Conduce il processo in questa fase un magistrato militare, il colonnello
Matthew McCall, l’ottavo impegnato a istruirlo. A settembre si è tenuta
un’udienza, durata due giorni. Dopo due anni di pausa, per causa del covid.
C’è opposizione negli Stati Uniti a questo processo. Studi legali
legati all’esercito contestano la giurisdizione speciale creata per il caso –
col pretesto della extraterritorialità della base di Guantànamo. Il processo
dovrebbe essere tenuto davanti a un tribunale Federale. Oppure sulla base della
convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, che consente una corte
marziale - ma vieta processi di diritto penale nazionale.
Gli avvocati della difesa puntano a invalidare il processo a
causa delle torture subite dagli accusati nei primi anni della
carcerazione.
Eduardo tascabile
Carlo
Cecchi, che molto ha lavorato con Eduardo, ci riprova, a sdoganare l’opera
dall’autore-attore. Le pause, i silenzi, gli sguardi dell’attore Eduardo sono
inimitabili, ma i suoi testi mantengono una loro pregnanza.
La
farsa del mago illusionista Zik Zik, un pasticcione. Cecchi l’ha già
sperimentata, e la ripropone all’Argentina nella forma ormai sua classica, dal
2007, con Angelica Ippolito, con le scene e i costumi di Titina Maselli. Un
testo giocato sulla parlata, napoletana, più che sullo svolgimento, che è un
pretesto.
“Dolore
sotto chiave” è uno scherzo macabro, in due tempi. In scena la scoperta
casuale, progressiva, della morte della moglie da parte del marito, al quale la
sorella impietosita l’ha tenuta nascosta. Seguita dalle condoglianze di vicini
e conoscenti, ognuno con una sua rivalsa. La morte è scomoda.
La
farsa, come la comica grottesca sulla morte, Cecchi propone minimal,
nella gestualità, la dizione, l’ambientazione. Di “dolore sotto chiave” ha
anche ridotto il testo. Entro scene minuscole. Che nell’arena del Grande
Teatro, palcoscenico e platea, però si minimizza, e quasi si cancella.
Eduardo De Filippo,
Dolore sotto chiave – Sik-Sik l’artefice magico, Teatro Argentina
mercoledì 15 dicembre 2021
Cronache dell’altro mondo – impero delle conoscenze (158)
L’America si qualifica capitale delle conoscenze. Per numero di
premi Nobel. Per numero di studenti stranieri. Per investimenti nella ricerca,
in assoluto e in proporzione al pil, al prodotto interno lordo.
I premi Nobel americani sono 400. Al secondo posto a lunga
distanza la Gran Bretagna, che ne annovera 138 – seguono la Germania, con 111,
e la Francia con 71.
In contrazione in questi ultimi due anni, ma gli studenti
stranieri in America, tra licei, università, master e dottorati, è di un
milione abbondante. Con un apporto finanziario stimato annualmente sui trenta
miliardi di dollari.
Diecimila studenti provengono dall’Iran, paese che fa
dell’antiamericanismo la sua politica.
Il maggior numero di studenti stranieri in America è cinese, 320
mila – 350 mila con Taiwan. Seguono gli indiani, 170 mila. Dal mondo arabo,
Medio Oriente e Nord Africa, provengono 100 mila studenti - malgrado il blocco
dei visti introdotto da Trump contro sette paesi islamici abbia colpito Libia e
Siria, che mandavano in America molte migliaia di studenti.
Alcuni dei terroristi del’11 Settembre erano stati formati in
America. Anche all’addestramento al volo.
Gli Stati Uniti investono in Ricerca e Sviluppo poco meno di 1.900
dollari pro capite – seguono la Germania, con1.600, e il Giappone con 1.400.
La Cina spende 350 dollari. Una cifra pro capite bassa, che
moltiplicata per la popolazione fa un grande totale, ma sempre inferiore a
quello americano. Su un ammontare mondiale di investimenti in ricerca che l’Unesco
calcola in 1,7 trilioni di dollari, poco meno di un quarto è americano, 476 miliardi,
con 4.200 ricercatori per milione di abitanti – la Cina viene seconda con una
spesa totale di 346 miliardi, con 1.100 ricercatori per milione di abitanti.
Da sermpre capitale dell’0intrattenimento, gli Stati Uniti modellano
la fantasia mondiale, attraverso il cinema, la musica pop, e ora i
serial-pay-tv. Creatori delle credenze mondiali, del modo di essere.
Ombre - 592
Il pil in Germania si riprende di poco più dell’1 per cento nell’anno, e si contrae nel quarto trimestre. Mentre in Italia marcia a un più 6 per cento. Com’è possibile – la produzione italiana è sincrona con quella tedesca? Il pil aumenta in Italia grazia alla domanda interna, ai sussidi pubblici anti-Covid.
La quota dei
risparmiatori, sui correntisti bancari, è scesa di un dieci per cento
abbondante nel 2021, dal 55,1 al 48, 8 per cento. Mentre è cresciuto il
risparmio “involontario”, cioè la liquidità in conto corrente non utilizzata, e
in parte non utilizzabile (beni durevoli, viaggi, vacanze), stanti le tante
restrizioni: nei ventidue mesi fino a ottobre 2021 la liquidità sui conti
correnti è aumentata di 256 miliardi, di cui 130, 5 delle famiglie, e 126 delle
imprese. I trasferimenti pubblici anti-covid hanno favorito alcuni e non altri.
Perché lo spread Btp-Bund
tedesco a dieci anni era a 98 punti il 5 febbraio e a 129 ieri? Non si sa. Cioè
si sa, ma non si dice.
Bruxelles,
cioè l’Europa centrale, Francia compresa, critica i muri alle frontiere per
farsi democratica e bella, ma vuole gli immigrati rispediti ai paesi d’entrata.
Cioè ai paesi dei muri, Ungheria e Polonia, oltre che in n Grecia. Spagna e
Italia. Mah!
E
magari riusciranno a imporre questa sconcezza.
Da ultimo Gianluca
Vacchi, perseguitato dalla Procura e dal Tribunale di Parma per diciotto anni
per bancarotta fraudolenta, con una provvisionale di 120 milioni, contro una
“presunta distrazione” di 29 milioni, ma in realtà senza aver mai sottratto un
centesimo ai creditori di Parmalat, nel cui fallimento i giudici di Parma l’hanno
coinvolto, infine assolto con formula piena. Si susseguono i delitti di Procure
e Tribunali, non per errore, ma per incuria e strafottenza. Alcuni anche
mortali, ma senza nessun esito. I responsabili nelle more hanno fatto carriera,
come volevano con le false accuse, e la cosa finisce lì.
Curioso,
ma non sbagliato, il no dei romani a intitolare l’Olimpico a Paolo Rossi, romanisti
e laziali per una volta uniti nel coro: “Paolo non ha mai giocato a Roma, e
semmai è simbolo della Juventus”. Che però, pur essendo quotata in Borsa, non
ci pensa a capitalizzare sul nome, un asset pesante a nessun costo.
Nessuno
è profeta in casa Juventus: Del Piero? Boniperti? John Charles? Sarà la “vecchia” Torino? Si spiega l’unità
d’Italia? Senza cuore.
Conchita De Gregorio incontra
la fotografa romana di famiglia tunisina Takoua Ben Mohammed, che si fa
fotografare a trent’anni col velo, e dice ridendo di averlo voluto contro la
sua famiglia: “A dodici anni. Tutti mi dicevano di no, ma io volevo provare”. I
genitori erano anzi contrari, ma lei non li ha ascoltati – “vengo da una famiglia
libera, da una cultura libera. Mia nonna ha divorziato negli anni Quaranta…”.
La libertà? Bisogna imparare a conoscere le donne arabe, ancorché non musulmane.
L’ad
Orcel promette mari e monti, e Unicredit in Borsa vola del’11 per cento. In
pochi minuti. Basta la parola.
È così
che Unicredit oscilla tra 6 e 14 euro. Poco serio. Per una banca poi.
In attesa della fantasmagoria
promessa di Orcel, intanto, agli investitori in Unicredit non un centesimo di
ringraziamento. Le altre banche sì – non è vero che la Bce blocca i dividendi -
Unicredit no.
Al Campidoglio non piace il
maxigruppo dei bus di trasporto urbano, tra le aziende municipali di Roma,
Milano e Napoli: “Non svendiamo i gioielli di famiglia”. Che a Roma sono
l’Atac, un’azienda fallita (salvata dal Comune con giganteschi esborsi), e con
un parco mezzi vetusto, “rinnovato” con acquisti di seconda e terza mano, che
ogni giorno prendono fuoco. Destra o sinistra al Campidoglio, è sempre
(piccolo) potere.
Allegro e disinvolto, il
professore Ugo Mattei, professore di diritto, Presidente dell’Associazione
Stefano Rodotà, del quale è stato collaboratore, animatore di una Commissione
Dubbio e Precauzione (DuPre), e che si illustra “capo” dei No vax, dice su “la
Repubblica” il governo illegale perché “noi Draghi non lo abbiamo votato”.
“Neanche Conte”, ribatte Concetto Vecchio, l’intervistatore. Ma, il governo non
lo vota il Parlamento? A volte i giornali, e i giuristi, sembrano assurdi.
Dunque, c’è un indice
lgbtq dei nomi proibiti, l’app Shinigami Eyes.
Aprendo il quale, l’algoritmo che la anima mette in lista, colorandoli
di rosso, i nomi delle persone che individua come omofobe. Tra esse per esempio
l’illustre femminista Marina Terragni. Alla pari con Salvini. Bisogna sapere
che Torquemada non era un perverso o un malvagio, era uno puro.
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Ombre
È domenica per Eduardo in tv
Un
cast d’eccezione per Eduardo (De Filippo) in tv, Fabrizia Sacchi sopra a tutti,
con Sergio Castellitto, ma tutti nel ruolo, Tony Laudadio, Margherita Laterza e
i tanti altri comprimari. Scene e costumi sui toni lievi, ridenti, a fondo
giallo e azzurro – ottima idea del regista De Angelis – a far risaltare meglio l’assurda
cupezza, perfino violenta, della domenica del Signore, della festa in famiglia.
Sullo sfondo di una Napoli chiara, cristallina, vista da Posillipo – da cartolina,
questa, ma non guasta. Rai 1 continua a vincere la doppia scommessa, del teatro
in prima serata, e di un Eduardo liberato da Eduardo.
Il
gradimento del pubblico si conferma. Tre milioni di spettatori per la rete
ammiraglia della Rai, e la prima di tutta l’emittenza nazionale, non sembrano
molti. E anzi, sono la metà del primo esperimento di teatro in prima serata,
sempre con Eduardo, “Natale in casa Cupiello”. Ma quel “Natale” veniva alla
vigilia della festa, e il titolo faceva aggio sulla commedia. E i tre milioni
di martedì sera il il 16 per cento della audience, la quota più elevata
fra tutte le emittenti tv generaliste.
Un’altra
delle commedie drammatiche di Eduardo sulle banalità, gli eventi di tutti i giorni,
le abitudini di tutti noi, i nostri riflessi condizionati, dove gli eventi e le
emozioni si accumulano per distrazione, per vezzo confuso, irriflesso. La domenica,
il giorno della festa e del riposo, è il giorno dei malcontenti in famiglia. È che,
abituati al lavoro, non sappiamo fare festa, riposarci, spiega Eduardo alla
fine.
Eduardo
De Filippo, Sabato, domenica e lunedì, Rai 1
martedì 14 dicembre 2021
L’età dei giovani
Flaubert si considerava vecchio a trent’anni: “Invecchiando, il
cuore perde le foglie come un albero”. Anzi, già a ventotto: “Mi sembra di essere
un monumento”, lamentava con gli amici - è vero che aveva già scritto
“L’Educazione sentimentale” (una prima “Educazione”) e “La tentazione di
sant’Antonio” – e “Memorie di un pazzo” e “Novembre”. E, come dice il
biografo, “morì di vecchiaia a 58 anni”.
Nietzsche afferma che ognuno fa la filosofia caratteristica della
sua età, l’età anagrafica. Una filosofia, quindi, della maturità e una di
gioventù – e dell’infanzia? Ma l’età può non essere quella anagrafica, del
numero degli anni. Il prezioso Cerruti-Rostagno, il vocabolario di scuola, calcolava
sei età: infanzia fino ai sette anni, fanciullezza fino ai do-dici, adolescenza
fino ai diciotto, giovinezza fino ai trenta, virilità fino ai cinquanta, e
oltre, improvvisamente, vecchiaia. La tendenza va a semplificare, con un’età di
mezzo e una terza età, il resto come se fosse fuori del tempo.
Una volta si era tassonomici: i
venticinque anni erano richiesti per la maggiore età in Italia fino alla prima
guerra, eccetto che per fare la guerra: chi si sposava di ventiquattro doveva
esibire un paio di tutori. I turkmeni tuttora prolungherebbero
l’adolescenza ai venticinque, dopo una infanzia stiracchiata fino ai dodici, e
la gioventù ai trentasette. Possono così oziare la metà della vita, e l’altra
metà godersela: la maturità è breve, dodici anni, fino ai quarantanove.
Dopodiché diventano profetici per dodici anni, fino ai 61, ispirati fino ai 73
e saggi fino agli 85. Passati gli 85 possono morire. Anche i romani antichi
avevano sette età, e se la prendevano comoda come i turkmeni, spostando l’età
attiva verso i quaranta. È solo logico ribaltare il principio dell’eredità in
morte o vecchiaia: dovrebbero essere i giovani a costruire il futuro, hanno il
dovere d’imporsi.
Ma c’è tutto nei riti classici, la coprolalia delle ragazze inclusa
e lo streaking, nei riti tribali che manifestano i significati nel
corpo, in linguaggi epilettici, e li secretano nell’iniziazione: la gioventù è
argine alla mediocrità. Napoleone fu generale a venticinque anni, Alessandro
morì a trentatré, Robespierre a trentacinque, tardi. E chi non è generale a
quell’età non merita di diventarlo, si diceva a Parigi fino al Settecento.
Céline concorda: “La civiltà occidentale è anale, la qualità si associa al
botto di un peto venuto bene, e chi non rinnega il culo e se ne assume la
responsabilità è l’Uomo, l’Eroe, Giulio, Orlando: i nostri Eroi non escono
dalla infanzia”. I rivoluzionari del Novecento, secolo sciocco ma ricco,
ricchissimo come non mai, e democratico benché deragliato, Mussolini, Stalin,
Hitler, hanno confidato nei giovani – Hitler
stesso, cancelliere a 44 anni, è un giovane. E Heidegger, che studenti e professori voleva
senza gerarchia e lo studente disse motore della rivoluzione, lo studente
lavoratore. O il Presidente Mao: “I giovani sono la forza attiva e vitale della
società. I giovani imparano meglio e sono meno conservatori”. Il segreto è che
i giovani non lavorano. Non sanno che fare, ma il lavoro stanca.
Per questo
è fallito il ‘48, la rivoluzione che proclamò il diritto al lavoro.
Letture - 475
letterautore
Andersen
–
“Ambiva alla «fiaba contemporanea»”, spiega Rodari a Giulio Bollati quando
Einaudi gli chiede di presentare la nuova traduzione dello scrittore danese.
Proponendosi di “de-deamicisizzarlo”, dal buonismo che lo avvolge. Anzi, di
“mettere in luce le sue non poche code di
paglia: l’eccesso di cadaveri veri (quelli della fiaba popolare sono
cadaveri per ridere, non puzzano); la sua ricerca di compensazioni (molte sue
novelle sono vere e proprie vendette con la vita); il suo cristianesimo in carrozza
reale”. E poi: “Andersen è un caso unico, non fa parte di nessuna famiglia”.
Selfie
– È come se niente esistesse al di fuori di noi. O per dare consistenza a
noi, che altrimenti non siamo. Ma è anche genere coltivato da spiriti forti,
sant’Agostino per primo, Rousseau.
“Sarebbe molto
piacevole per me dire quello che penso, e dare sollievo al signor Gustave
Flaubert con delle frasi. Ma che importanza ha il suddetto signore?”, si
chiedeva Flaubert – “L’uomo non è niente, l’opera d’arte è tutto”. Però, anche
qui: senza l’artista?
Esprit
de l’escalier –
Montefiori gli trova questa definizione sul “Corriere della sera”, riferendo di
Houellebecq alla Sorbona: “Felice espressione francese che evoca quella
tendenza a farsi venire in mente le rispose a tono quando si è sulle scale,
usciti di casa, e ormai è troppo tardi”. In un certo senso sì: è la battuta di
spirito in ritardo.
Impegno
– L’engagement francese (su cui Moravia
litigò con Sartre a Roma) “era tutto, ma solo se era la corrente giusta del
partito giusto” - ricorda Julian Barnes nel memoir “Gustave, l’educatore
sentimentale”, pubblicato sul “Robinson”. Lo ricorda a proposito di Mauriac, da
lui amato come scrittore che però per i suoi amici francesi “era un gollista”,
e quindi niente.
Italia – Shakespeare
italiano – la metà o poco meno dell’opera - è tutto spirito lieve, comunque
amabile, comunque spiegabile, per esempio l’“Otello”. Mentre i soggetti isolani
fa “elisabettiani”, tutti fuoco e fiamme, e assassinii. Anche nei drammi
storici, il “Giulio Cesare” è un dramma politico, i corrispondenti inglesi sono
di turpitudini.
Snoop Dogg, che
non è un personaggio, “il cane di Snoopy”, ma un nome, di un rsper e attore
americano che s’illustra collezionando monete virtuali e NFT, ha adottato per questa
sua attività lo pseudonimo, per dire che si sta arricchendo molto, di Cozomo Medici”,
con lo -zo.
L’italiano è un
suono più che una lingua – vedi io tanti nomi di automobili storpiature di
parole italiane. Ma allora anche il cinese.
Novecento – Flaubert lo profetizzava “utilitaristico, militaristico, americano e
cattolico, molto cattolico”.
Pasolini
– Claudio Magris lo mette con D’Annunzio. Senza più.
Lo ricorda nel 16 giugno del 1968, per l’ode “Il PCI ai giovani!”, contro gli
studenti a Valle Giulia a Roma, che marciano in “abito all’inglese e battuta
francese” e fanno a botte con i poliziotti, “figli di poveri”, proponendone la
celebrazione in quella data, per i cento anni della nascita nel 2022, il 16
giugno: “In anni e forme diverse Pasolini e D’Annunzio hanno vissuto,
denunciato e fatto propria – nel corpo, nel loro sudore, nelle loro pulsioni,
spesso narcisiste e degradate - la radicale trasformazione dell’uomo avvenuta
nella loro epoca e che sta avvenendo e avverrà con sempre maggiore violenza”.
In peggio naturalmente? Da D’Annunzio a Pasolini, una deriva di un secolo (e
oggi, direbbe Agamben, non è finita….).
Pasolini e D’Annunzio,
“in forme diverse”, lo stesso impeto, anche se non lo stesso destino? Ma Pasolini
come D’Annunzio catastrofista? D’Annunzio obietterebbe – ma anche Pasolini,
solido infaticabile Prometeo, costruttore, creatore, lavoratore. Anche di
notte, quando scendeva all’inferno.
Scrivere
– È come scopare, Flaubert si diceva col suo amico poeta
Louis Bouilhet, suo principale consigliere letterario - “il mio testicolo sinistro”.
Bouilhet si complimentava così per la stesura dell’“Educazione sentimentale”:
“Sono felice di vedere che stai facendo progressi con il libro, soprattutto che
stai scopando come un gendarme”. Qualche anno prima Flaubert scriveva della
“Bovary”, che procedeva lentamente: “Le erezioni della mente sono come quelle
del corpo: non vengono quando tu vuoi”.
“La prosa è come
i capelli, diventa lucente quando la pettini”, ha lasciato scritto famosamente Flaubert.
Julian Barnes, flaubertiano come non altri, racconta che ha usato a lungo negli
incontri con i suoi lettori citare questa frase. Finché “una donna nel pubblico”
non gli fece notare che “quello che fa diventare lucenti i capelli non è
pettinarli ma spazzolarli”.
Stupidità
– Ma è il tema di Flaubert, della sua narrativa – e un
po’ l’ossessione della sua vita. Non solo di “Bouvard e Pécuchet” ma già
dell’“Educazione sentimentale”, in termini già grossolani, sprezzanti, E anche
in “Bovary”: non solo in Homais, anche in Emma - Emma Bovary è meno stupida di Monsieur
Homais, lui della scienza positivista, lei dell’amore?
Flaubert si abbandonava solo all’esotismo. Al viaggio in Oriente - in scritti e nelle lettere. In “Salammbô”, nella “Tentazione di sant’Antonio”. Ma anche in questo “Oriente” molto è in forma sardonica.
Progettò per trent’anni
il sottisier “Bouvard e Pécuchet”. Quello che, postumo, si è intitolato
“Dizionario dei luoghi comuni” avrebbe dovuto completare l’opera del duo, con
le “Copie”, articolate in un “Dizionario delle idee correnti” e un “Catalogo
delle idee chic”.
Si capisce così perché
Sartre, dopo tremila e più pagine, non sia venuto a capo di Flaubert: ha fatto
un’esposizione “stupida” sula stupidità – senza cioè saperlo, malgrado il
titolo, “L’Idiota della famiglia”. Sartre
che era (si ritrovava) solo intelligente, e per d arsi spessore si ubriacava, praticava
la poligamia, si contraddiceva – e si esibiva al caffè.
letterautore@antiit.eu
Cronache dell’altro mondo – automobilistiche (157)
Si vendono più Suv e Pick-up negli Stati Uniti quest’anno che
auto berline da passeggeri.
Malgrado i lockdown e le altre misure restrittive della circolazione,
gli incidenti d’auto sono amentati nel primo semestre del 2021 del 18 per cento
sull’analogo periodo del 2020. Nel 2020 gli incidenti erano già aumentati, del 7
per cento, malgrado il semi-blocco della circolazione per buona parte dell’anno
- con 38.360 morti. Nel primo semestre 2021 i morti sono stati per incidenti d’auto
sono stati 20.160, in aumento del 18,4 per cento sul primo semestre 2020.
La rete di trasporti pubblici interstatale è in crisi per difetto
di passeggeri. La più vecchia di esse, la gloriosa Greyhound è finita
recentemente nelle mani, per evitare il fallimento, di Flixbus, la low cost tedesca
del trasporto su strada, per una cifra irrisoria, 172 milioni di dollari.
La rete ferroviaria americana è di prima della guerra, compreso il
materiale rotabile, non è stata più rimodernata.
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Affari,
Il mondo com'è,
Informazione
Il miglior privato è il pubblico
Bernabè,
che ha presieduto a due delle maggiori privatizzazioni, Eni e Stet Telecom, è
più di ogni altro un protagonista in proprio e testimone da vicino, dall’interno,
dei “quarant’anni di capitalismo italiano”, come recita il sottotitolo, gli
ultimi quarant’anni, quelli delle privatizzazioni. A beneficio del “capitalismo
senza capitali” come già l’aveva scoperto Napoleone Colajanni. Ma il post-Thatcher
e Ronald Reagan incalzavano, e l’avvento, auspici Mario Draghi al Tesoro e il
suo mentore Ciampi in Banca d’Italia e al governo, si materializzò.
I
capitali privati sono mancati, non hanno praticamente fatto investimenti, in
Telecom come in Autostrade, ora da rinazionalizzare, e nel vastissimo settore
agroalimentare della finanziaria Iri-Sme, disperso e perduto. Mentre i gruppi ancora
a forte presenza pubblica, col diritto per lo Stato di nomina del management, Eni,
Enel, Finmeccanica-Leonardo, perfino Fincantieri, nel settore proibitivo della
cantieristica, si sono messi a correre, investendo, innovando, cioè stando sul
mercato, in settori ipercompetitivi, in posizioni sempre di avanguardia, contemporaneamente
arricchendo lo Stato ogni anno di una decina di miliardi in dividendi. E questa
è tutta la storia, il miglior privato è il pubblico.
Bernabè non fa la storia e non ne estrae morali, racconta. Da uomo Fiat prima che Eni, collaboratore
dell’Avvocato Agnelli. A Roma all’Eni pupillo di Reviglio, altro piemontese. Poi
da ad dello stesso Eni, incaricato della privatizzazione. Difensore del gruppo pubblico
contro le non tanto celate incursioni degli avvoltoi, che il gruppo volevano
in pezzi. Racconta dell’operazione analoga da lui tentata in Telecom Italia, ma
interrotta dal raid di Colaninno, sostenuto dal governo D’Alema. Di Necci che
prova a salvare Enimont con Cuccia. Del suo ruolo di consulente per il riassetto
degli apparati di sicurezza. Insomma di una vita, nel mezzo del potere.
Sfogliando
il lungo memoir, riscritto da Guido Oddo, si ricava netta l’impressione
che la storia del capitale italiano è da rifare. Non è una storia di capitani,
corsari o utopisti, ma di piccoli e tortuosi armeggi, attorno al bene
pubblico da spolpare: di una borghesia nata e alimentata dalla manomorta,
dall’appropriazione del bene pubblico – privative, contributi, leggi speciali,
concessioni, dazi, esenzioni. Nell’ombra, ma solo perché non si dice - per convenzione?
Franco
Bernabè, A conti fatti, Feltrinelli, pp. 368 € 20
lunedì 13 dicembre 2021
La buona morte
Le strade si
aprono dunque alla buona morte, come voleva l’eugenetica, degli inutili e incompetenti,
ora anche degli svogliati, e Abbie Hoffman e Jerry Rubin proponevano, di
uccidere i padri e cancellare all’anagrafe chi compie trent’anni. Un governo
volevano, nel paradiso di Lucy in
the Sky, di Roboam, dove, dice la Bibbia, i giovani comandano sui vecchi. Un limbus
patrum. La vecchia pratica degli svedesi trogloditi, i nomadi
dell’antico Egitto, i sardi, di uccidere gli anziani a colpi di clava o pietra.
Gli indiani del Brasile uccidevano
così gli infermi. I massageti e i derbicciani uccidevano gli ultrasettantenni.
E i càtari pii di Monforte d’Alba o Asti, che le endura abbreviavano alla fine, i suicidi dei saggi anziani per digiuno,
per evitare loro i patimenti dell’agonia. Gli abitanti dell’isola di Choa, dove
l’aria pura dà lunga vita, ci pensavano invece da soli: prima dell’ebetudine o la
malattia i vecchi prendevano la papaverina o la cicuta. Analogamente
l’eschimese che, prossimo alla fine, inutile alla famiglia, esce dall’iglù e si
perde nel pack. Fra i batak di Raffles,
esploratore fede-degno, che sarebbero i dagroian di Marco Polo, i vecchi erano mangiati:
“Un uomo che sia stanco di vivere invita i figli a divorarlo nel momento in cui
il sale e i limoni sono a buon mercato”.
Una ragione per eliminare i vecchi
c’è, spiega Propp, l’analista delle fiabe: “Tra l’antichissima popolazione di
Sardegna, i sardi o sardoni, vigeva l’uso di uccidere i vecchi. E mentre
uccidevano i vecchi, ridevano sonori”. Serviva per ridere.
Cronache dell’altro mondo - nazionalizzatrici (156)
Saule Omarova,
la giurista nominata da Biden Comptroller of the Currency (l’autorità di
controllo della politica monetaria attraverso il credito, di fatto di controllo
delle banche), che la settimana scorsa ha rinunciato alla nomina per le contestazioni
subite nell’audizione di conferma al Senato,
proponeva un intervento diretto della banca centrale (il sistema della Federal
Reserve) sui conti bancari: “In un quadro inflazionario, quando ha bisogno di
contrarre l’offerta di moneta, la banca centrale potrebbe ridurre la liquidità
dai conti privati”.
Omarova, già
consulente del primo governo Bush jr., e con Obama del Tesoro, teorica e proponente
di una National Investment Authority, Nia, una sorta di autorità della
programmazione economica, è nota per le vedute anti-sistema. Ha partecipato l’anno
scorso al docu-film di John Walker “Assholes. A Theory” - “Stronzi” (ma il film
non è stato distribuito in Italia) - con Vladimir Luxuria che irrideva a Berlusconi.
Omarova vi definisce l’attività finanziaria “un’industria tipicamente di stronzi”.
Giovane
attivista comunista nel Kazakistan, il paese d’origine, Omarova è emigrata
negli Stati Uniti dopo la caduta dell’Urss, nel 1991. E lentamente, attraverso
la pratica legale, è tornata all’insegnamento del diritto, che esercitava in
Kazakistan, in varie università, ora alla Cornell.
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Affari,
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Come (non) essere Flaubert
Il
racconto, distrattamente repertoriato sul sito come “Mr Flaubert, c’est moi”, è
invece al contrario. Barnes, sempre riconoscente a Flaubert per essere arrivato
al mainstream con lui, col romanzo “Il pappagallo di Flaubert”, fa il
giro attorno al monumento, come un bambino sempre curioso, ma anche mordace. Sorride
dell’idolo, e anche degli idolatri, come lui stesso.
Sorride
dell’assoluta mancanza di erotismo, di uno che scrisse anche una “Educazione
sentimentale”, oltre che di Adulteri, e “scopava (nei bordelli) come un
gendarme”, a detta del suo intimo amico Louis Bouilhet, il poeta. Della scarsa
memoria, malgrado la puntigliosa accuratezza verbale. Perfino di cosa aveva
scritto in “Madame Bovry”, che lo aveva trascinato in tribunale. A Hyppolite
Taine, che glia chiedeva un contributo per il suo studio “De l’Intelligence”,
spiegò che le immagini e i personaggi erano veri per lui come delle realtà
oggettive, a volte più complesse di quella che scriveva: “Ci sono molti particolari
che non trascrivo”, spiega a Taine: “Il signor Homais, come lo vedo io, è leggermente
butterato dal vaiolo”. Ma questo è quello che ha scritto in “Madame Bovary”,
Homais è proprio “leggermente butterato”. Anche se è vero che a volte ometteva
dei particolari. Barnes fa il caso del rapporto di Emma con Rodolphe: “Negli appunti
di Flaubert per il romanzo in un’occasione la fa tornare a casa passando dai
campi, «le foutre dans les cheveux», lo sperma nei capelli. È un dettaglio che
ai lettori del libro viene risparmiato”. Ma non cambia la figura di Emma?
“Una
singola parola cambia tutto”, Barnes d’altronde concorda con Flaubert. Il
processo per “Bovary” gli fu fatto nel 1857 per una parola, “le piattezze del
matrimonio”, come contrapposte, argomentava il pubblico ministero, alle gioie
dell’adulterio. Flaubert rimediò suo a del, in “le piattezze del suo
matrimonio” – per una quindicina d’anni, nel 1873 ripristinò il generico del.
Un’altra
parola decisiva. Flaubert è famoso tra i letterati anche per una massima o
consiglio di scrittura – Styron e poi Philip Roth se l’appesero sopra la
scrivania: “Sii ordinato e regolare nella tua vita, come un borghese, così
potrai essere sfrenato e originale nel tuo lavoro”. Ma Flauber lo scrittore
voleva “ordinaire”, ordinario e non ordinato. Un piccolo borghese, imperspicuo.
Fra
gli idolatri ce n’è per tutti. “Sartre, quando scrisse ‘L’idiota della
famiglia’”, la sua trilogia su Flaubert, “la sua analisi-più
-tentato-omicidio
teoretico-psicoanalitico-politica”, tremila e più pagine, “non citò quasi mai
direttamente da Flaubert”. Per evitare di “scrivere bene”. Ce n’è naturalmente
per lo stesso devotissimo Barnes. E per le “mamme degli scrittori (scrittori
maschi, beninteso)”. La sua e quella di Simenon – anche se purtroppo il salto
di una parola, o di una riga, non consente di apprezzare per intero
l’aneddotica.
C’è
l’amicizia con Turgenev, “La sua anima gemella letteraria”. C’è il mancato,
dopo ponderazione sempre attenta e partecipata, engagement politico, da “arrabbiato”
ma “liberale”. “Ritengo Flaubert e Goncourt responsabili della repressione seguita
alla Comune, perché non scrissero neppure una riga per impedirla”, Barnes dice “una
delle affermazioni più monumentalmente fatue di Sartre”, nel 1948, prima dell’“Idiota”.
C’è
la vecchiaia incombente, già in gioventù. Al banchetto che gli amici gli
organizzarono nel 1850, già autore di grande successo, nel giorno del suo
prediletto san Policarpo “(un vescovo di Smirne del II s ecolo famnoso per il
suo lamentoso motto: «Oh Signore, in che mondo mi hai fatto nascere»)”, si
scopre “un monumento”, anzi “in via di liquefazione come un vecchio Camembert”. “Morì di vecchiaia ad appena cinquantotto anni”, può concludere Barnes.
Prima
della fine c’è la questione della stupidità. Col progetto trentennale di
“Bouvard e Pécuchet”. Ma questo è un capitolo ancora da scrivere.
Julian
Barnes, Gustave, l’educatore sentimentale, “Robinson” € 0,50
domenica 12 dicembre 2021
Cronache dell’altro mondo - bancarottiere (155)
Un’azione
Amazon “vale” al Nasdaq di New York 3.444 euro – valeva venerdì sera, domani è
atteso un altro record. Google, oggi Alphabet, ne vale 2.960. Facebook, oggi Meta,
è più modesta, ma vale 329,75 dollari. Tesla, che naviga in perdita e non dà
dividendi, vale 1.017 dollari, il doppio di un anno fa. Apple vale a Wall Street
tre bilioni di dollari – ossia, nella terminologia americana, un milione di
milioni: ne valeva 1 nel 2018, e 2 nel 2020.
Nei due
anni, ormai, della pandemia, dei lockdown e dell’attività economica ridotta,
gli indici di Borsa a Wall Street hanno raddoppiato le quotazioni, registrando
ogni giorno nuovi record storici.
La pax
americana si è fondata nel Novecento sulla straordinaria potenza industriale. Benché
contrappuntata – magnificata? – da periodici crac finanziari, rovinosi per i
più. Da subito dopo l’indipendenza, dal 1837, l’anno della prima bolla
speculativa, scoppiata il 10 maggio, col blocco di tutti i pagamenti, cui
seguirono cinque anni di depressione economica profonda. Nel 1873 altri anni di
depressione, soprattutto nel settore agricolo, allora preponderante, seguirono
alla demonetizzazione dell’argento (una crisi a lungo labellata “il crimine del
1873”). Altre crisi di breve momento culminarono in quella più nota, il crac
del 1929. Seguiranno la svalutazione tempestosa del dollaro del 1971, e poi le
recenti “bolle” a ripetizione. Le dot.com nel 1999, le start-up della telefonia cellulare e dell’informatica
portate senza ragione a quotazioni vertiginose, indifferenti al valore reale,
il patrimonio, o l’avviamento, o l’innovazione reale, di mercato. E quella
rovinosissima, soprattuto per l’Europa, dei mutui sub-prime, dei mutui bancari
senza garanzie reali, e quindi del sistema bancario, del 2007-2008.
Si
possono pensare i crac ricorrenti come i salassi della vecchia medicina:
spurghi periodici per purificare il corpo. Ma si sa che i salassi non
funzionavano. Più perspicuamente, le crisi monetarie e bancarie ricorrenti funzionano
come le insolvenze fraudolente per truffare i creditori. Il resto del mondo, ma
anche gli americani, le masse inette: una forma di trasmissione forzosa del
reddito, in un quadro complessivo di accumulazione. Nessuno studio conforta
questa ipotesi, ma è quello che è avvenuto.
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Gli africani sono troppo buoni per non essere mangiati
“Nero\Bianco”, n. 0.
Condorcet, il rivoluzionario, sostenne che, se gli africani sono
cattivi, la colpa è degli europei, che hanno insegnato loro a bere l’alcol. Ma
non c’era il buon selvaggio, e non c’è il povero buono. La decolonizzazione è
l’ultimo regalo avvelenato dell’imperialismo, nelle forme della solidarietà. I
popoli al Sud potranno a lungo nascondersi sotto le colpe dell’Europa.
Uccidersi, distruggersi senza rimorsi. Fino ad aver consumato i doni che
l’Europa ha lasciato,
le scale connesse, gli intonaci, l’acqua potabile.
Non discendiamo dalla scimmia, dice Gobineau, ma lo vorremmo. L’Egitto
andrà pure consegnato agli africani, ma quando? I tempi sono importanti. Se
l’Africa disponesse oggi dell’antica civiltà egizia non ne sapremmo nulla.
Soprattutto infatti scompaiono i bambini, anche se le statistiche non ne rilevano un
numero sufficiente a far decrescere la popolazione, non mancando in Africa
chi ne fa. E un progetto, benché perverso, d’igiene mentale emerge,
risuscitando l’antica questione discussa a Valladolid se i neri hanno l’anima.
Ora che i bianchi, s’intende, non ce l’hanno più.
Il povero Dio, se c’è, arranca, per Auschwitz e la stupidità: non
si sa più chi combattere. L’imperialismo è ora di massa. È la nazionale di
calcio, un collante sociale, per un volgare “mettiamoglielo in quel posto” con
la sua supposta negazione, l’antimperialismo. La decolonizzazione è la
continuazione dell’imperialismo con altri mezzi, i furbi, i lenoni, i ladri con
socio locale, il Potere Elusivo, inclusa la bontà. Mentre le vie della rivoluzione
restano impervie. Solo la rivoluzione culturale che la Cina ha ripudiato si fa
strada in Africa, col machete: gli
africani fanno pulizia di se stessi. Al suo ritmo presto si parlerà dei neri in
Africa come di razza favolosa.
Negli anni Cinquanta Albert Bruce Sabin e Hilary Koprowski ricercavano
insieme un vaccino antipolio. Poi litigarono. Sabin, immigrato povero dalla
Bielorussia, provincia dell’impero sovietico, si rifiutò per ragioni morali di
brevettare l’antidoto. Si trattava di soppiantare il vaccino Salk, brevettato
dall’industria farmaceutica, dagli effetti limitati. Sabin ci mise alcuni anni
a sperimentare il suo vaccino con le autorizzazioni dei governi del Messico e
dell’Urss. Koprowski ne poté invece fare sperimentazione estensiva tra le
popolazioni del Congo Belga nel 1957, senza il permesso e il controllo di
nessuno, col sostegno del governo americano. Non avendo cavie a sufficienza,
Koprowski contaminò il suo vaccino con ceppi sanguigni di scimmie locali, con
grave rischio d’infezione. Sabin denunciò questa pratica inutilmente, finché,
nel 1960, il suo vaccino di libera produzione non sconfisse la polio. C’è
spazio per la libertà. Ma c’è di peggio che assumersi il fardello dell’uomo bianco:
c’è il vezzo dei nuovi ricchi di buttare i rifiuti sui poveri. È qui il senso
della loro fuga, e la sostanza dell’imperialismo, che oggi si camuffa con l’aiuto
allo sviluppo.
Il vezzo è dei germanici, gli scandinavi
in particolare e gli americani, cioè i più ricchi di tutti. Che terrorizzano il
mondo con le loro crisi periodiche, la droga, l’alcol, l’obesità, l’economia.
Si salvano la coscienza con problemi che loro stessi creano, le mine antiuomo,
il colesterolo, l’eugenetica, l’effetto serra, e anche questi ributtano sul
resto del mondo. Sempre i ricchi si sono lamentati, ma ora esagerano. È ruttare
sul mondo la sazietà, non c’è povertà nichilista. L’imperialismo vero resta
dell’Occidente sull’Occidente, una guerricciola endemica interna, magari per
scongiuri. Gli altri non sono abbastanza ricchi da stimolare l’avidità. Ecco
perché l’antimperialismo è brutto. Se è qualcosa, dovrebbe essere la libertà.
Non può dare più case, più strade, più ospedali, più scuole, perché è meno
ricco dell’imperialismo. Può e dovrebbe dare onestà e rispetto degli altri,
della legge.
Ci sono dei criteri: non ci può essere
antimperialismo contro antimperialismo. Né socialismo contro socialismo: hanno
ragione quelli che, scampati alla forca del comunismo, sono restati comunisti,
c’è un solo comunismo. È diverso per le vie nazionali, eurocomunista, latina,
lusitana, africana, afroshirazi, animista, panaraba, confuciana - e scintoista
no, anche buddista, e yoga? Basta la parola, direbbe la pubblicità, socialismo è un abito, un profumo. Il senso del Terzo mondo è - era
quando c’era un Terzo mondo, ma vale anche per gli epigoni sparsi - un
platonico terzo regno di Frege: un mondo di petizioni di principio, per salvare
l’anima nostra, non gli africani (Frege, barba bianca, modi semplici, non era
preso sul serio a Iena nel 1917 all’università). L’Occidente, volendogli dare
una colpa, ha prevenuto la decolonizzazione catturando gli animi: li ha
sintonizzati sul possesso, furberia, sopruso, avidità, prima che sull’alcol e
li gestisce con la crisi. L’Occidente è furbo, per questo Ulisse vi è popolare.
Ma nessun indio, nessun africano, nessun arabo, nessun asiatico ha bisogno di
lezioni in questo campo.
E c’è chi dice l’Africa priva di storia. Mentre non è piena che di
rovine. L’Angola, il paese più ricco al mondo, è il più povero. E il Gabon, grande
quanto l’Italia per un milione di abitanti, coi tanti minerali e l’okumé, con
cui si fa il compensato? Il compagno Nkrumah, l’Osagyefo, redentore, è morto
nella vergogna, aveva trecento statue. Il maestro Nyerere applicava l’Ujamaa,
la fratellanza del socialismo di villaggio, per ridare un ruolo ai capi, il legittimismo
è l’ideologia africana. Obote invece è svanito con tutto il socialismo, e
l’ottima università di Makerere, per lasciare l’eterna primavera a un caporale,
Amin. Il problema vero è che gli africani sono troppo buoni per non essere
mangiati.
La studentessa all'università era votata al suicidio
Nel
1964, sulla “Stampa”, ricorda Alessandra Gissi nel saggio che apre la parte
seconda della raccolta, un’inchiesta di Francesco Rosso, inviato di punta del
quotidiano, sulla presenza femminile all’università di Milano, nelle due
università private, quindi a pagamento, Bocconi e Cattolica, la trovava a
sorpresa poco apprezzata: “Non hanno interesse allo studio; civettano, e
intessono idilli coi loro compagni”, era il commento, professorale, più spesso raccolto.
A Milano, nel 1964 - è un peccato che la scuola abbia abbandonato la storia,
c’era molto da imparare (della storia politica e militare, anche, perché no, e
geografica – delle migrazioni per esempio, anche recenti, del V-VI secolo, del
XIImo, del XIX-XXmo, appena ieri, e dei popoli, delle religioni, delle culture,
di genere, non c’è futuro senza passato.
Il volume, arricchito da una folta e preziosa documentazione iconografica,
documenta
la storia spesso triste e solitaria, ma final, della parificazione del
genere femminile negli studi universitari. A Padova, come vogliono i titoli,
“L’università delle donne” e “Accademiche e studentesse dal Seicento a oggi”,
da quando le prime donne furono ammesse agli studi fuori casa, e in Italia. Con
una raccolta di saggi di
specialisti di varie discipline.
L’università di
Padova celebra i suoi otto secoli di vita nel 2022 col progetto, “Patavina
Libertas”, di “Una storia europea dell’università di Padova (1222-2022)”, e
questa raccolta, organizzata da Carlotta Sorba, storica contemporaneista a
Padova, col ricercatore Andrea Martini, ne è il primo tassello. La ricorrenza è
l’occasione per un re-appraisal della presenza femminile negli studi
universitari, nell’ottica dell’ateneo patavino, e con numerosi riferimenti
nazionali. Dalle pallide aperture post-unitarie, lente, contate, ai primi
passaggi verso la cultura di massa sotto il fascismo, e alla sua ritardata
esplosione negli anni della Repubblica, a partire dalla decade1960 - che sono
gli anni post boom, andrebbe ricordato, della scoperta dell’affluenza
nell’Italia delle povertà, da Agrigento alla stessa Padova, con record prima di
allora di emigranti, di italiani poveri in cerca di fortuna.
Martini fa parlare
alcune delle protagoniste della contestazione femminile, all’interno del
movimento studentesco post-68 – di cui l’ateneo di Padova, città timorata e
democristiana, era diventata un epicentro - per il divorzio, per l’aborto,
quasi tutte dall’interno di Potere Operaio, in guerra con il partito Comunista
e le sue organizzazioni femminili. Giulia Albanese rintraccia e epitomizza
numerosi diari o memorie. Elena Canadelli riscopre “La realtà delle
scienziate”: le scienze sono state il primo approdo professionale per le donne
all’università, in qualità di tecniche di laboratorio dapprima, ma presto di
ricercatrici e insegnanti. La zoologa Rina Monti viene nominata professore
ordinario, la prima in Italia, a Cagliari nel 1910. Ma già Maria Montessori era
un’autorità. E molte altre saranno ricercatrici riconosciute, di nome, dopo la
guerra – tra esse, misconosciuta invece pure nelle biografie dello scrittore, la
madre di Italo Calvino, Eva Mameli, che ha lavorato per un lungo periodo anche
all’Avana, madre di due figli. Nel primo Novecento era in genere l’istituzione,
la burocrazia, che non dava spazio alle donne nell’ambiente accademico, i
“colleghi”, per quanto maschi, erano invece aperti, anche solidali.
Lorenza Perini e
Naila Pratelli analizzano la progressione numerica della presenza femminile
nelle università, con un interessante quadro sinottico delle quote per genere
nelle varie specialità aggiornato al 2019. Altri studi analizzano situazioni
particolari. Eleonora Carinci, proponendo il ritratto di Elena Lucrezia Cornaro
Piscopia, la prima donna – della grande famiglia veneziana dei Cornaro – ad
ottenere una laurea all’università di Padova, nel 1678, abbozza una lista delle
scrittrici e pubbliciste di cui le storie della letteratura si ricordano - ma
la lista sarebbe lunga, con Tullia d’Aragona, che molto influì sul secolo, et
al.
Gissi, specialista
degli studi di genere, apre la questione al contesto sociologico, la lenta
entrata delle donne agli studi universitari e alle professioni liberali
correlando alle leggi, specie quelle del primo centro-sinistra, 1961 e 1963, e
con l’opinione pubblica, come riflessa dalla stampa. Con curiose peculiarità.
Il primo caso è delle levatrici, una professione a lungo di praticone, le
“mammane”, cui nel tardo Ottocento la legge impone un’istruzione medica, in
appositi corsi parauniversitari – con i curiosi casi delle vecchie praticanti
in aula insieme con le aspiranti giovani. Il fascismo viene come irruzione
delle masse, anche femminili. E nel dopoguerra, con la liberalizzazione, a
tappe, degli studi universitari, per un aspetto perfino bizzarro, in ottica odierna,
della studentessa comunemente vista, nella pubblicistica di gossip e nei
grandi giornali, come una ricercatrice di uomini, svagata, inetta, e per lo più
destinata al suicidio, una displaced person – allora la socio-psicologia
si focalizzava sui ruoli. Si registravano i casi di suicidio con clamore, con
dovizia di foto, di testimonianze, di dolorismo.
Immaginando
l’università come una partoriente, la “studentessa” ebbe gestazione e nascita
travagliate. Non nell’anno Mille, avant’ieri, spiega Gissi. Anzi, fino a Simone
Cristicchi, grande promessa allora della canzone italiana, che la “Studentessa
universitaria” canta nel 2004 “triste e solitaria”, proprio così, alla Soriano,
in “una stanzetta umida”, incinta da non sa chi. La Lenù di “Elena Ferrante”,
della tetralogia “L’amica geniale”, al secondo volume (2012) soffre alla Normale
di Pisa di solitudine, e si prepara al Natale in “desolate giornate di febbre
molto alta e tosse”, sola nel collegio.
Andrea Martini-Carlotta
Sorba (a cura di), L’università delle donne, Donzelli, pp. 261, ill. €
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Nel
1964, sulla “Stampa”, ricorda Alessandra Gissi nel saggio che apre la parte
seconda della raccolta, un’inchiesta di Francesco Rosso, inviato di punta del
quotidiano, sulla presenza femminile all’università di Milano, nelle due
università private, quindi a pagamento, Bocconi e Cattolica, la trovava a
sorpresa poco apprezzata: “Non hanno interesse allo studio; civettano, e
intessono idilli coi loro compagni”, era il commento, professorale, più spesso raccolto.
A Milano, nel 1964 - è un peccato che la scuola abbia abbandonato la storia,
c’era molto da imparare (della storia politica e militare, anche, perché no, e
geografica – delle migrazioni per esempio, anche recenti, del V-VI secolo, del
XIImo, del XIX-XXmo, appena ieri, e dei popoli, delle religioni, delle culture,
di genere, non c’è futuro senza passato.
Il volume, arricchito da una folta e preziosa documentazione iconografica,
documenta
la storia spesso triste e solitaria, ma final, della parificazione del
genere femminile negli studi universitari. A Padova, come vogliono i titoli,
“L’università delle donne” e “Accademiche e studentesse dal Seicento a oggi”,
da quando le prime donne furono ammesse agli studi fuori casa, e in Italia. Con
una raccolta di saggi di
specialisti di varie discipline.
L’università di
Padova celebra i suoi otto secoli di vita nel 2022 col progetto, “Patavina
Libertas”, di “Una storia europea dell’università di Padova (1222-2022)”, e
questa raccolta, organizzata da Carlotta Sorba, storica contemporaneista a
Padova, col ricercatore Andrea Martini, ne è il primo tassello. La ricorrenza è
l’occasione per un re-appraisal della presenza femminile negli studi
universitari, nell’ottica dell’ateneo patavino, e con numerosi riferimenti
nazionali. Dalle pallide aperture post-unitarie, lente, contate, ai primi
passaggi verso la cultura di massa sotto il fascismo, e alla sua ritardata
esplosione negli anni della Repubblica, a partire dalla decade1960 - che sono
gli anni post boom, andrebbe ricordato, della scoperta dell’affluenza
nell’Italia delle povertà, da Agrigento alla stessa Padova, con record prima di
allora di emigranti, di italiani poveri in cerca di fortuna.
Martini fa parlare
alcune delle protagoniste della contestazione femminile, all’interno del
movimento studentesco post-68 – di cui l’ateneo di Padova, città timorata e
democristiana, era diventata un epicentro - per il divorzio, per l’aborto,
quasi tutte dall’interno di Potere Operaio, in guerra con il partito Comunista
e le sue organizzazioni femminili. Giulia Albanese rintraccia e epitomizza
numerosi diari o memorie. Elena Canadelli riscopre “La realtà delle
scienziate”: le scienze sono state il primo approdo professionale per le donne
all’università, in qualità di tecniche di laboratorio dapprima, ma presto di
ricercatrici e insegnanti. La zoologa Rina Monti viene nominata professore
ordinario, la prima in Italia, a Cagliari nel 1910. Ma già Maria Montessori era
un’autorità. E molte altre saranno ricercatrici riconosciute, di nome, dopo la
guerra – tra esse, misconosciuta invece pure nelle biografie dello scrittore, la
madre di Italo Calvino, Eva Mameli, che ha lavorato per un lungo periodo anche
all’Avana, madre di due figli. Nel primo Novecento era in genere l’istituzione,
la burocrazia, che non dava spazio alle donne nell’ambiente accademico, i
“colleghi”, per quanto maschi, erano invece aperti, anche solidali.
Lorenza Perini e
Naila Pratelli analizzano la progressione numerica della presenza femminile
nelle università, con un interessante quadro sinottico delle quote per genere
nelle varie specialità aggiornato al 2019. Altri studi analizzano situazioni
particolari. Eleonora Carinci, proponendo il ritratto di Elena Lucrezia Cornaro
Piscopia, la prima donna – della grande famiglia veneziana dei Cornaro – ad
ottenere una laurea all’università di Padova, nel 1678, abbozza una lista delle
scrittrici e pubbliciste di cui le storie della letteratura si ricordano - ma
la lista sarebbe lunga, con Tullia d’Aragona, che molto influì sul secolo, et
al.
Gissi, specialista
degli studi di genere, apre la questione al contesto sociologico, la lenta
entrata delle donne agli studi universitari e alle professioni liberali
correlando alle leggi, specie quelle del primo centro-sinistra, 1961 e 1963, e
con l’opinione pubblica, come riflessa dalla stampa. Con curiose peculiarità.
Il primo caso è delle levatrici, una professione a lungo di praticone, le
“mammane”, cui nel tardo Ottocento la legge impone un’istruzione medica, in
appositi corsi parauniversitari – con i curiosi casi delle vecchie praticanti
in aula insieme con le aspiranti giovani. Il fascismo viene come irruzione
delle masse, anche femminili. E nel dopoguerra, con la liberalizzazione, a
tappe, degli studi universitari, per un aspetto perfino bizzarro, in ottica odierna,
della studentessa comunemente vista, nella pubblicistica di gossip e nei
grandi giornali, come una ricercatrice di uomini, svagata, inetta, e per lo più
destinata al suicidio, una displaced person – allora la socio-psicologia
si focalizzava sui ruoli. Si registravano i casi di suicidio con clamore, con
dovizia di foto, di testimonianze, di dolorismo.
Immaginando
l’università come una partoriente, la “studentessa” ebbe gestazione e nascita
travagliate. Non nell’anno Mille, avant’ieri, spiega Gissi. Anzi, fino a Simone
Cristicchi, grande promessa allora della canzone italiana, che la “Studentessa
universitaria” canta nel 2004 “triste e solitaria”, proprio così, alla Soriano,
in “una stanzetta umida”, incinta da non sa chi. La Lenù di “Elena Ferrante”,
della tetralogia “L’amica geniale”, al secondo volume (2012) soffre alla Normale
di Pisa di solitudine, e si prepara al Natale in “desolate giornate di febbre
molto alta e tosse”, sola nel collegio.
Andrea Martini-Carlotta
Sorba (a cura di), L’università delle donne, Donzelli, pp. 261, ill. €
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