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zeulig
Amore -Si moltiplicano, e non si
spiegano, gli uxoricidi (ora femminicidi) per amore, nella forma della gelosia,
del possesso, della vendetta. Non si spiegano perché s’intende amore quello
delle corrispondenze private di scrittori e artisti, che lo prospettano come un
eccitante, anche a rischio addiction. Di donne – questo non si dice, ma
così è – e uomini senza differenza, gli artisti sono volubili, è nell’imprinting,
è il loro cachet, non si può fargliene colpa, si prendono e si lasciano senza traccia, se non di un verso o una pennellata,
i partner, se non sono artisti anche loro, sono pazienti. Per il comune degli uomini
- delle persone, come dice l’americano – l’amore va nel senso dell’impegno, se
non dell’impulso, costante. Monogamo e non poligamo. Anche perché il più delle
volte è l’avventura di una vita, con tutte le incertezze e gli impegni, i più
gravosi. E rispettoso più che licenzioso, anche se l’opinione pretende il
contrario.
Un sentimento pratico, più che teoretico.
Sicuramente non da guerra di liberazione.
Complotto - Costruzione e decostruzione,
struttura e sovrastruttura negano il reale e la storia - Deleuze e Derrida ci
resteranno male quando scopriranno che non hanno decostruito nulla, solo
scemenze. Mentre la proprietà pedagogica del meccano è nota, era nota a tutti i
bambini, da tempo. La scienza non ha il senso del ridicolo, con tutte le sue
scoperte, le profondità della psicologia, per esempio, o della biologia, così
piatte. Potrebbe essere una buona tecnica, la scienza, e per tale va presa. Per
esempio nella alchimia del potere, che si vuole arcano tanto è miserevole, si
autodistrugge forse più di quanto distrugge. Rovesciare la realtà è prova
d’ingegno, ma la prima diavoleria fu, nel paradiso terrestre, dire bene il male
e male il bene. La logica, anche del giallo, è semplice. Sherlock Holmes sa la
verità, non la deve dedurre, cioè dimostrare – se non per fare rigaggio. Non ci
vuole molto per capire. Il complotto è la politica, organizzata nei dettagli,
governata, con tiranti, redini, frusta, annunciata, spiegata perfino. Il
totalitarismo è furbizia prima che forza, e disegno divino. La bugia è
inafferrabile se il suo autore ne è pure regista: Epimenide cretese, Amleto -
non nel caso del bugiardo semplice attore: Pinocchio. Per questo sono
inestricabili gli intrighi degli sbirri. Però sono manifesti.
L’idea del complotto prospera quando non c’è
vera paura. Quando negli Usa si scoprì che Oswald era stato a Mosca, ed era
degli Amici di Cuba e in odore di mafia, il presidente Johnson ordinò a Earl
Warren di smontare il complotto. La mafia avrebbe scardinato l’assetto
politico. Mentre il complotto sovietico avrebbe reso la guerra necessaria, e al
primo colpo mezza America sarebbe morta, Johnson si fece un rapido calcolo. Si
dice complotto per dire.
Dei misteri non c’è un repertorio esaustivo,
non può esserci. La scienza è alle elementari: dell’acqua solo sa che è
idrogeno e ossigeno. O dell’amore che è una reazione chimica, direbbe
Ninotchka. Si insiste a dire che il sole sorge e tramonta alcuni secoli dopo
Copernico, il quale spiegò che a girare è la terra. L’uomo è inconciliabile con
la realtà, la natura? In parte sì, per la percezione anteriore. Sarebbe diverso
se potesse sapere tutto ciò che si dice a parte o si pensa, o vedere a 360
gradi, in orizzontale e verticale: sparirebbero forse allora alcuni tormenti
non intelligibili, destra-sinistra, amico-nemico, elevato-basso. Non resta che
Heidegger: “La curiosità per cui nulla è segreto, la chiacchiera per cui nulla
è incompreso, danno a se stesse, cioè all’Esserci che le fa proprie, sicura
malleveria d’una vita veramente «vissuta»”.
La Congiura ha radici nobili: prima di Guénon e
l’avversa secolarizzazione c’è Héraut de Séchelles con le quattro innovazioni:
la patria in pericolo, la legge dei sospetti, il piede nei due blocchi,
l’ateismo religioso – centauro oggi socialfascista, fasciocomunista,
cattocomunista, repubblicocomunista. Un secolo di filosofia contro la tecnica e
la democrazia livellatrici, a scapito dell’individuo e la sapienza, manovrate
dal Maligno. Non grande filosofia, inclusi i nichilissimi, Heidegger, Jünger,
Nietzsche stesso, benché calligrafi – ma l’anarchia finisce in reazione? In alternativa al tomismo s’è trovato il niente, o l’ateismo di
Sartre e Malraux, che solo si vogliono falsari e ladri, specialmente di fighe,
quelle che aprono la bocca allo stupore. Questa in sintesi la Storia: il rifiuto della
tecnica, cioè del mondo, cioè di sé e dell’essere. Meglio ridetto: il rifiuto
di sé, che si camuffa da rifiuto del mondo, cioè dell’incolpevole tecnica, e
s’adagia nel complotto. E la vita intristisce. Con l’intellettuale ridotto a
mosca indiscreta che pensa d’avere in mano il fulmine e scaglia punture.
Agevolando il progresso, se promuove l’Autan.
Secolo – Si entra nel secolo, nel millennio, con
distacco, argomenta Annie Ernaux, “De l’autre coté du siècle”: come persone di
“un altro secolo”. Contro ogni nozione del tempo, evidentemente, che non ha
stacchi netti, ma per il concetto stesso di epoca, come facenti parte di un
mondo, ancorché non nostro (rifiutato, contestato). Nel 1997, al limite cioè
del nuovo secolo\millennio, la scrittrice de “Gli anni” si scopre incapsulata
nel Novecento alla notizia della morte della donna più longeva del mondo,
Jeanne Calment, ad agosto del 1997, di 122 anni: “Guerre mondiali, coloniali,
ideologie, dovutamente repertoriate, da Proust a Nathalie Sarraute, da Gide a
Modiano, ci hanno visto diventare, in qualche anno, storici, datati, dell’altro
secolo”. Sensazione, aggiunge, che “la prossima sparizione dei franchi”
accentua, il passaggio all’euro. Un po’ come l’Ottocento è stato distinto dal
Novecento, nei libri di storia, nei manuali di letteratura (delle storie della
letteratura). Come per l’Ottocento, “è successo, d’un colpo, ciò che l’Ottocento
è nei libri di storia e nei manuali di letteratura, una durata compressa in cui
il Secondo Impero sembra toccare il Primo, Chateaubriand essere il
contemporaneo di Zola e Madame de Staël l’amica di George Sand”. D’improvviso,
Ernaux si sente parte di un’epoca passata: “Tutti i nati prima del 1970 circa,
insieme facciamo secolo” - “Ho sentito compiersi qualcosa che ci univa tutti,
che fa di noi gente di questo secolo (la riflessione è pubblicata nella
“Nouvelle Revue Française” del giugno 1999, n.d.r.) e non sarà trasmissibile al
seguente, né con le parole né con le immagini”.
La cesura è evidente con i Millennial –
un altro mondo.
Storia – “La storia, senza la quale il potere
non è in ultima analisi pensabile, è strettamente solidale con la guerra,
mentre la vita nella pace è per definizione senza storia”, G. Agamben, “A che
punto siamo?”, 105-106). Per definizione, di che?
Il dominio si esercita con la convinzione. Quello americano per esempio,
la parte più solida e duratura dell’imperialismo americano, senza vittime e
senza costi, e anzi con guadagno di cassa -mentre è stato quasi ovunque
fallimentare con i marines e le bombe. E col commercio, alla Constant - la
parte più solida dell’imperialismo nascente cinese. La guerra fredda è stata vinta
col commercio (“i consumi”) e con i principi - di libertà, e di voto se non di
democrazia.
Il potere assoluto sarebbe senza storia. Fa storia, ne è materia, il
potere contestato, o costituzionalizzato (restrained).
Stupidità - Non è tema di riflessione – se non di letterati.
Di Pope in versi, di Jean Paul in prosa.
Flaubert ne era ossessionato, che tanto ne scrisse, Musil algido
vivisettore. Jean Paul sotto la vena satirica, puntava alto: “Il vento teologico
significa guerra e sangue, soleva polvere, e porta nuvole sinistre e terribili
temporali. Quello giuridico, come un tornado, spazza via tutto al suo
passaggio, scoperchia i tetti, strappa i vestiti dal corpo, e porta via tutti
gli arredi, fino ai letti delle case distrutte”.
zeulig@antiit.eu
Si celebra in morte
una scrittrice che non aveva bisogno di fasciarsi di femminismo. Di capacità di
analisi e chiarezza di esposizione talmente semplici e perspicaci da sembrare
ovvie. Se ne ricordando anche l’ascendenza cattolica e irlandese, forse per
essere presidente un cattolico irlandese, ma una cultura non è un’altra – non lo
era in America finché non è precipitata nell’indistinto dei “diritti”, del
rivendicazionismo, della guerra civile normale.
Fra i tanti contributi
che la rivista rispolvera, questo su Woody Allen può essere esemplare. Didion
analizza, all’uscita di “Manhattan”, la fase – l’avvio della fase – “self-absorption”
del fin’allora comico riconosciuto dei tic di New York, la fase autocentrata,
pensosa. “Manhattan” viene dopo “Interiors” e “Annie Hall”. Poteva essere diversamente?
“La self-absorption è generale”, nota Didion in avvio”, “come il self-doubt.
Questa estate nelle grandi città costiere degli Stati Uniti molte persone
volevano vestirsi in «puro lino», tagliato da Calvin Klein per gualcirsi, che
implica vera ricchezza”. E così via: “Nelle grandi città costiere degli Stati
Uniti questa estate molte persone volevano essere servite la perfetta terrina vegetale…”.
E molti hanno fatto la fila per vedere «Manhattan», “un film dove, verso la
fine, il personaggio Woody Allen fa una lista dei motivi di vivere la vita. «Groucho
Marx» è un motivo, e «Willie Mays» un altro”, e così via, Armstrong, il
trombettista, Flaubert, Mozart – ma il Flaubert della “Educazione sentimentale”,
non quello di “Madame Bovary”. È una stroncatura? È una messa in quadro,
perspicace. “Quello che colpisce nei recenti film «seri» di Woody Allen, di Annie
Hall e Interiors come di Manhattan, non è il modo in cui si
svolgono come film ma come operano sugli spettatori”. È il fatto che gli
spettatori non si distanziano ma si identificano.
Spettatori adulti,
in carriera, consci dei loro titoli, ma di fatto adolescenti. “I personaggi di Manhattan
e Annie Hall e Interios sono, con un’eccezione, presentati come
adulti, come uomini e donne negli anni più produttivi delle loro vite, ma le
loro azioni e conversazioni sono di ragazzi intelligenti”. E siamo solo all’inizio.
“L’eccezione è il personaggio
Tracy, Mariel Hemingway, di Manhattan, un altro tipo di fantasia
adolescente”. Ottima scuola, “pelle perfetta, perfetta saggezza, sesso perfetto,
e niente famiglia visibile”, anche se danarosa. E “Tracy mi richiama un
dirigente del cinema che una volta mi spiegò, a proposito dell’assenza di personaggi
adulti nei film da spiaggia, che nessuno ha mai pagato 3 dollari per vedere un
genitore”. Clever, il comico.
Joan Didion, Letter
from “Manhattan”, “The New York Review of Books”, 16 agosto 1979, free
online
Due banchieri assurti al vertice
politico, Macron in Francia e Draghi in Italia, scrivono che “le regole del patto
europeo di stabilità sono troppo opache ed eccessivamente complesse”. Queste
regole “hanno limitato il campo d’azione dei governi durante le crisi e
sovraccaricato di responsabilità la politica monetaria”. Della Banca centrale
europea, presieduta in quegli anni da Draghi. Lo scrivono sul “Financial Times”,
il giornale dei banchieri.
Sono accuse terrificanti. Tanto più
perché arrivano in ritardo: si sapeva già nel 2009-2010 che non erano regole
giuste. Ma nessuno lo ha detto. L’Europa è stata governata con queste regole,
ed è stata fino al 2019, fino al pre-covid, l’unica delle tre grandi aree macroeconomiche
mondiali a non essersi ancora ripresa dallo shock bancario del 2007-2008 – con l’eccezione
della Germania, il paese europeo che aveva il sistema bancario più infetto, ma
questo è un altro discorso. Dieci anni fa Bruxelles con il Patto di stabilità e
la Bce con una lettera semisegreta, cofirmatario il presidente entrante Mario
Draghi, imponevano all’Italia il rientro ogni anno in bilancio pubblico di 50 miliardi del debito in essere. Una cura del salasso, un po’ troglodita, ma da balanzoni
avvertiti. Che ha scatenato la speculazione contro il debito italiano.
Un gioco facile che gonfiò le fortune
dei banchieri in quel 2011. Lo spread, il differenziale tra il Btp e il
Bund tedesco, arrivò a 574 punti. Un abisso. Una follia anche, ma pagata dall’Italia:
il Btp si collocava al 7,4 per cento. Fino a che il governo eletto, Berlusconi,
non lasciò il campo, il giorno dei 574 punti base, al banchiere Monti. Che
raddoppiò le tasse alla piccola e media borghesia, tra i bolli, le bollette, e le
seconde case, quelle dei tanti meridionali emigrati. Finché Draghi, dopo aver
salvato le banche germanocentriche, dovette infine fare muro, quando la
speculazione puntò contro l’euro, al coperto dell’offensiva con l’Italia e i
latino-mediterranei, i Pigs, “porci”, Portogallo, Italia, Grecia e Spagna.
Ora, cioè dieci anni dopo, quelle “regole”
si dicono infette. C’è da avere fiducia o da avere paura? L’Italia ha rischiato
il fallimento, con la letterina di Trichet e Draghi, patrocinati dai Grandi Architetti
Europei Sarkozy e Merkel. Verrebbe da dire che è meglio l’Europa che si preannuncia
dei banchieri, dando per scontato che Draghi andrà al Quirinale e Macron sarà
riconfermato presidente, migliore dell’Europa merkeliana, del troppo poco
troppo tardi. È possibile, è probabile – peggio è impensabile, l’Europa si è
già troppo ristretta. Ma bisogna sapere con chi abbiamo a che fare. I
socialisti Sanchez e Scholz non hanno firmato.
Un trattato sul comico.
Non quello che manca alla “Poetica” di Aristotele, che si fermò alla tragedia e
all’epica - o, se trattò la commedia, questa parte è andata persa. Non un trattato
filosofico, ma le tante forme che il comico prende. E però una commedia-sul-comico
ben più solida e vivace delle tante trattazioni che sul comico si sono
susseguite tra Otto e Novecento, da Baudelaire a Bergson, Pirandello e tanti
altri. Una commedia (molto) colta di Trevor Griffiths (molto scorretta per il canone oggi, radicalmente mutato, invertito, in pochi anni), che Salvatores ha portato
in teatro e, per la seconda volta, prova al cinema – la prima fu, nel 1998,
agli inizi del Salvatores regista di cinema, sotto il titolo “Kamikazen. Ultima
notte a Milano”.
Non è un ascolto
facile, né lieve. Si tratta il comico, con battute a raffica e situazioni
paradossali, strambe, rovesciabili, clownesche, drammatiche, in una scuola
serale per comici. Mentre si preparano all’esibizione-esame di fine corso,
giudice il Grande Agente, un Christian De Sica insolitamente sobrio, che ha in
mano la tv, agognata meta. Le gag e le battute si consumano a programma, nei
tempi contati per ogni genere nell’ora di lezione, a raffica, quasi con rabbia,
come a dire: che miseria! Un dessous del comico, più che uno spettacolo
da ridere. Malinconico più che buffo, recitato da tutti con maestria – una galleria
di comici patentati.
Gabriele
Salvatores, Comedians, Sky Cinema
spock
Biden a Kiev come Krusciov a Cuba - con le bombe, a salve?
I russi sono tanto buoni che ce li
mangiamo?
Conviene
sfidare sempre i russi e i serbi?
Troppo
ortodossi?
Gasarsi contro la Russia ci allevia la bolletta?
L’Ucraina come la Bosnia-Erzegovina ?
Con Putin invece dell’arciduca?
Morire per Putin?
spock@antiit.eu
Il primo caso di nobildonna che si mette col guardacaccia - qui è stalliere. A una certa
età, sopra i quaranta, ma poi per sempre, venticinque anni di felicità con un
uomo abbrutito, ubriacone e manesco, dapprima da girovaghi, poi gestori della
locanda e del traghetto per l’isola di Møn nel Sud-Est della Danimarca.
Una storia realista ma non un caso esemplare: un caso storico. Soggetto
di molte scritture in Danimarca, prima (Andersen compreso) e dopo Jacobsen. Marie
Grubbe è esistita, si chiamava così, e ha fatto tutto quello che viene
raccontato, nel secondo Seicento-primo Settecento, in Danimarca, con lunghi
soggiorni in Norvegia, col primo marito, e a Parigi e Norimberga col cognato
amante. Vera la prima infatuazione da adolescente, per il principe Ulrik
Christian, figlio bastardo e amato del re di Danimarca Cristiano IV. Vero il matrimonio
con Ulrik Frederik, altro bastardo, favorito del re Federico III. Vero anche il
cognato, uno dei due cognati, di una lunga relazione da divorziata. Vero il secondo
matrimonio, nella residenza paterna, in campagna lontano dalla corte, con un
borghese di piccola nobiltà del luogo. Vero anche il secondo divorzio, benché il marito non obiettasse,
vicino ai cinquant’anni, per la vita insieme col giovane stalliere.
L’opera famosa di uno scrittore
che si voleva poeta: “Se potessi trasportare nel mondo della poesia le leggi
eterne, gli enigmi e i prodigi della natura, allora sento che la mia opera diventerebbe
qualcosa di più del normale”. Jacobsen ha scritto poco in prosa. Un altro
romanzo, “Niels Lyhne” (1880, quattro anni dopo “Marie Grubbe”), su un personaggio
maschile non più dal vero ma inventato, un esteta che fantastica una vita che
non vive – anticipatore del Des Esseintes di Huysmans e del Dorian Gray di Oscar
Wilde. E alcuni racconti (“La peste a Bergamo” e altri). Ma senza entrare nel cerchio
chiuso del decadentismo.
“Marie Grubbe” ha un andamento variato, prolisso e rapido, diffuso e tagliente,
romantico e brutale. Il racconto, benché improbabile, o probabile solo nel Seicento, tempo barocco anche nella vita, in certi ambienti, è favolistico ma convincente. Marie
non è pazza né stupida, vive l’amore in una sua visione, in tante sue visioni. Non
convincente del tutto, ma poiché la storia è vera, il lettore ne trae il miglior
partito. Di una cocciutaggine spinta all’autolesionismo. Imprevedibile, ma indipendente:
Marie Grubbe è una donna indipendente nel Seicento, contro la corte, quando è
necessario, contro i sovrani paterni, contro il genitore, contro il principe
suo marito.
Essendo Jacobsen già noto come traduttore di Darwin, il romanzo fu
classificato come verista. La morale della storia, tratteggia da Marie nelle sue ultime parole con un giovane dottorando rifugiato nella locanda per fuggire la peste, né è un piccolo manifesto: niente resurrezione (in quale veste?), niente giudizio-giustizia, siamo quello che siamo. Ma il racconto non ha nulla della ricetta verista: niente questione sociale,
sfruttamento, miseria, eccetera, niente destino avverso, non c’è cattiveria
(gli uomini si ubriacano e sono maneschi, ma non fanno scandalo), Marie è donna
libera che vive da donna libera, imprevedibile cioè. Anche a costo di perdere ripetutamente
il tanto che ha – in dote, o come appannaggio, e in eredità. Jacobsen influenzerà
Strindberg, e sarà recepito con entusiasmo in Germania, dove si ebbe una Jacobsen Mode, tra i poeti,
George, Gottfried Benn, Rilke, e tra i narratori, Zweig e lo stesso Thomas Mann
– una delle residenze di Marie Grubbe è a Lubecca, e qui abbiamo la la casa “modello
Lubecca”, una geometria semplice, che non c’è nei “Buddenbrook”. Di scrittura variabile,
in più punti asintattica – almeno in quesdta traduzione - che oggi si direbbe
cinematografica.
Un’edizione un po’ affrettata. Una nuova traduzione dello specialista Dario
Berni, già traduttore di Andersen, ma senza le necessarie note di riferimento. Con
le citazioni di testi tedeschi e francesi non tradotti – una è anche italiana,
del Guarini.I
Jens Peter
Jacobsen, Marie Grubbe, Carbonio, pp. 229 € 16
Le
“classifiche del Pianeta”, il supplemento del “Corriere della sera”, danno la
Svezia al terzo posto per furti d’auto. Prima la Grecia, 246 furti per 100 mila
abitanti, poi l’Italia, 231, terza la Svezia, 217. Saranno gli immigrati? Che
poi le vendono agli immigrati? O il mondo è diverso da come ce lo dicono.
La
Asl di Salerno esime la Salernitana di calcio dalla disputa del match a Udine
con l’Udinese. Lampi e tuoni della Federazione del Calcio, che sconfigge la Salernitana
a tavolino 0-3. Tanto poi ci penserà la giustizia sportiva, di giurisperiti
campani, a ridare l’onore e i punti alla Salernitana? Nel caso analogo di un anno
fa, sempre di una squadra a strisce bianche e nere, la Juventus, con una squadra
campana, dichiarata perdente a tavolino per il solito inghippo con la Asl, il
giudice sportivo d’appello Sandulli sbagliò la motivazione della condanna per farsela bocciare dalla corte di Garanzia del Coni?
In fondo,
il calcio è un divertimento, perché prenderlo sul serio?
Si fa un’intervista allo
scrittore Murakami – in attesa del nuovo titolo? – di tre pagine sulle
tee-shirt che non butta mai. Sì, il nuovo libro è sulle sudate magliette.
“Quelle veramente lacere”, confida, “le uso quando devo lucidare la macchina”.
Beh, lo scrittore non solo lava la macchina, la lucida anche.
Un’app contro il consumismo, buy nothing, è stata creata da due miliardarie americane, Rebecca Rockefeller
e Liesl Clark. Non è di scambio o di beneficenza, è un mercatino online. “A New
York c’è chi ha postato un’offerta di «acqua sporca dell’acquario», che è
andata inaspettatamente a ruba perché utile come fertilizzante”. Poi dice che
la Cina è vicina.
Poche righe dell’“Economist”,
una dozzina, che salottiere tributano gli onori dell’anno all’Italia - dopo Samoa, Moldova, Zambia e Lituania -
sono erette dai media a monumento aere perennius. La Grande Italia è così
provinciale?
Lo stesso settimanale,
analizzando la campagna elettorale di Macron in Francia, centrata sui suoi successi
in Europa, trova la cintura industriale di Parigi perplessa. Anche se Macron vi
ha fatto installare molte attività, con i fondi europei, da ultimo la megafabbrica
nippo-cinese di microchip: per i lavoratori della grande area l’’Europa è solo “un
male necessario”.
In due mesi non ha fatto
nulla di quanto promesso, le emergenze sono le stesse. Spazzatura, trasporto
pubblico, scuolabus. Però ha aumentato gli stipendi ai dirigenti, ha bandito
concorsi per assumerne un centinaio, paga un premio ai netturbini che non si
danno malati… È il professor Gualtieri,
neo sindaco di Roma. Forse è per questo che le persone non vanno più a votare. Specialmente odiose le immondizie che si accumulano per strada: è come se i netturbini avessero anticipato a prima di Natale il riposo in conto malattia, dovendo dopo concorrere al premio.
La gestazione della
giunta Gualtieri è stata laboriosa, perché il suo partito, il Pd romano, ha
molte correnti, e molte donne da accontentare per la parità di genere. Le quali
subito, appena nominate, si sono distinte per progettare o proporre aumenti, di
tasse e tariffe. L’economia domestica è ora maschile?
Al rientro dalla
Finlandia, una giovane coppia che vi era andata in viaggio di nozze, con Finn
Air, ha pagato il tampone “99 euro a testa”, racconta la sposina, “di cui 79
per il test e 20 per la ricevuta”. Mentre una studentessa di Medicina in volo
dalla Romania ha pagato 12 euro. Non per nulla la Finlandia si classifica Paese
più felice al mondo.
La Danimarca, il secondo Paese
più felice al mondo (dopo la Finlandia…), non sa più cosa fare per bloccare gli
immigrati. Ammazzarli non si può, ma per il resto è molto impegnata a “convincere”
chi è riuscito a entrare ad andarsene. La felicità genera grattacapi.
“Repubblica” fa
raccontare la vaccinazione dei bambini come una favola, a una bambina di dieci
anni, Carlotta. Che scrive(rebbe): “Ho vinto la paura e come premio la visita ai
nonni”. Una favola doppia.
Tutto perfetto: autore
di nome, titolo famoso, cast affollato, sigla di Jovanotti, molta cucina come si
vuole ora in tv, e la famosa famiglia allargata a cui non riusciamo ad
abituarci – ai rapporti non rapporti, specie con i figli, che di nulla hanno
colpa. Ma un po’ troppo affollata nei primi due episodi della serie. Adesso qualcuno
è morto, il padre, con colpo di scena che ribalta tutte le precedenze, e
forse, precisandosi il plot, nelle prossime puntate la storia si farà
seguire.
Succede con i
registi di nome prestati alle serie tv? Con Muccino come già con Guadagnino sulla
stessa Sky (“We are Who We are”), che l’ideatore-produttore-regista si perde, o
non sa prendere il ritmo dell’“episodio”, 45 minuti sul pioccolo schermo? Di
queste serie italiane solo Sorrentino, con i due “Pope”, si è salvato, e si
capisce come, la chiave è chiara: giocando sui personaggi, tre-quattro per serie,
le vicende contano poco, il tempo è ridotto e lo schermo comunque piccolo. come
ora con Muccino.
Gabriele Muccino, A
casa tutti bene, Sky Cinema
Con la
crescita annunciata dei tassi d’interesse, come argine all’inflazione
incombente, si pone nuovamente il problema dell’eccessivo indebitamento, pubblico
e privato.
Il “debito
globale”, pubblico e privato, in tutti i paesi del mondo, è arrivato a 226 trilioni
di dollari – trilione da intendersi come in uso negli Usa, come mille miliardi.
È il calco lo che il Fondo Monetario Internazionale pubblica, a firma Vitor Gaspar,
Paulo Medas e Roberto Perrella. Il 2020 ha registrato il più grande aumento annuale
del debito dalla fine della guerra. Con un balzo di 26 punti in rapporto al pil
mondiale, al 256 per cento.
“Più
della metà” dell’aumento è dovuto al debito pubblico. Che è ora al 99 per cento
del pil mondiale. Di poco inferiore, il 98 per cento, è il debito privato societario.
Quello familiare è il 58 per cento.
Più in particolare, l’aumento del debito pubblico è quasi tutto delle
economie avanzate. Il rapporto del debito pubblico di queste economie (le
economie Ocse) col pil è passato dal 70 per cento del 2007 al 124 per cento nel
2020. Quello privato invece è rimasto sostanzialmente stabile, passando nello stesso
arco di tempo dal 164 al 178 per cento del pil.
Il debito pubblico ammonta
ora a quasi il 40 per cento del debito globale totale.
La dinamica è
profondamente diversa tra paesi ricchi e paesi “meno avanzati”. Le economie
Ocse e la Cina contano per più del 90 per cento dell’aumento totale del debito nel
2020, 28 trilioni di dollari.
Nei paesi avanzati il debito pubblico è aumentato di 19 punti del
pil nel 2002 – un aumento in linea con quello degli anni della crisi globale finanziaria,
2008-2009. Il debito privato, aumentato nel 2020 di 14 punti del pil, è invece
il doppio di quello registrato nel 2008-2009.
Il debito pubblico americano è passato al 135 per cento del pil
nel 2020 - era di 10 trilioni nel 2008, è salito a 28 trilioni nel 2020. Quello cinese al 70 per cento.
Le fonti di energia fossili rappresentano
ancora l’85 per cento dei consumi mondiali, e la quasi totalità nei trasporti.
Solo l’Unione Europea è al di sotto
di questa quota, grazie soprattutto al nucleare: utilizza i combustibili fossili
per il 71 per cento dei suoi consumi totali – contro l’82 per cento degli Stati
Uniti e l’87 per cento del Giappone (gli altri grandi paesi asiatici, Cina,
India, Indonesia, Malesia etc., sono quasi completamente dipendenti dal carbone
e dagli idrocarburi).
Per arrivare all’emissione zero di
CO2 nel 2050, come sarebbe negli accordi internazionali, la Bank of America
calcola che bisognerà investire 5 mila miliardi di dollari l’anno, in
progressione crescente. Da qui al 2030, secondo l’“Economist”, serviranno 4
mila miliardi di investimenti ogni anno, il triplo degli investimenti attuali in
fonti alternative.
Nell’ottica del passaggio alle fonti
rinnovabili non si fanno più da anni investimenti nelle fonti di energia fossili,
carbone e idrocarburi. L’effetto è già visibile nelle quotazioni iperboliche del petrolio e
del gas. Con danno per i consumatori e per la produzione, in termini di costo e
di difficoltà di approvvigionamento.
Tre milioni di spettatori,
con il 12,6 di share, per il Tg 5 che s’intrattiene per un’oretta col
papa. Tra le nove e le dieci di sera, che è prime time tutti gli effetti, anche se auditel non lo
considera tale (l’evento è stato abbondantemente venduto). Non male, per un’oretta,
malgrado tutto, edificante, senza sorprese: un successone.
Un’idea semplice e
geniale, un’ora col papa – e sarebbe anche andata meglio con interlocutori meno
modesti.
Clemente J. Mimun,
Francesco e gli Invisibili: il Papa incontra gli Ultimi, Tg 5
spock
Si comincia a credere al paradiso perché
c’è l’inferno?
Credere è paradiso, o inferno?
E non credere?
Perché si crede in qualcosa che non c’è,
che verbo è?
Non sarà riflessivo, una forma
dell’essere?
Chi non crede non è – non sa, non vuole?
Credere è allora appendersi a un gancio,
al sé-del sé?
spock@antiit.eu
Il
tema è il sottotitolo: “L’epidemia come politica”. Già prima delle chiusure, e
molto prima dei vaccini anti-covid. Il filosofo raccoglie qui le riflessioni
che è venuto via via pubblicando sui giornali e sul sito dell’editrice
Quodlibet. Il primo, sul “Manifesto” del 26 febbraio 2020, è intitolato “L’invenzione
di un’epidemia”. Il post “Chiarimenti”,
venti giorni dopo, ne fa un punto di svolta: “Ci sono state in passato epidemie
più gravi, ma nessuno aveva mai pensato a dichiarare per questo uno stato
d’emergenza come quello attuale”. Peggio, avrebbe potuto aggiungere: e in
passato non c’erano i vaccini. O forse no: non c’era nemmeno la prevenzione, l’idea
di organizzare la società contro un evento.
È
la prevenzione un’arma: la biopolitica? Se così è, però, non si tratta di un
braccio di ferro coi poteri politici, della piazza contro il guicciardiniano
Palazzo, da destra o da sinistra, si tratta d’individuare come si arriva a uno
stato d’emergenza universale su una falsa notizia. E a questo Agamben,
bizzarramente, non è interessato – al contrario di Foucault, che cita per la
biopolitica, il quale molto lavorava su come l’opinione si costruisce. Su “Le
Monde”, agli inizi della sua contestazione, è stato preciso, sulla “falsa
logica” già imposta col terrorismo: “La falsa logica è sempre la stessa: come
di fronte al terrorismo si affermava che bisogna sopprimere la libertà per
difenderla, così ora si dice che bisogna sospendere la vita per proteggerla”.
Biopolitica
Foucault
è riferimento necessario, che ha individuato negli apparati terapeutici forme
di potere incontestabile, se non assoluto. La biopolitica di Foucault è una
scoperta radicale. Che nell’analisi a lungo in corso nel Novecento sulla natura
del potere introdusse, in chiave contestativa (poi “Sessantotto”), un approccio
originale, da lui stesso in più campi approfondito, del “discorso” su e
attorno al potere come suo atto fondativo e rigenerativo: il potenziale comunicativo
– un approccio orwelliano più che hobbesiano (certamente non heideggeriano, come
invece è di Agamben). Nell’epidemia di Aids di cui Foucault è rimasto vittima
non ci sono state misure restrittive (chiusure, proibizioni, isolamento), non
trattandosi di malattia infettiva e anzi da contatto intimo, per atto
volontario e non subìto. Ma qualora ci fosse stato un vaccino anti-Aids, come per
una qualsiasi pandemia, e uno Stato lo avesse adottato o in qualche misura
imposto, è dubbio che Foucault non avrebbe accettato di avvantaggiarsene, anche
soltanto per evitare di farsi veicolo di diffusione dell’infezione letale.
E
perché difendersi sarebbe una colpa? Un soldato in guerra evita con cura di esporsi
al fuoco nemico. È un suo diritto, e un dovere – verso la “patria”, verso il
comando militare di cui è parte, verso i commilitoni. Agamben non nega il virus
e il contagio – anche se ne avrebbe tutti i motivi: la sua riflessione parte da
uno studio del Cnr che il virus dice di tipo influenzale, non più pericoloso di
un’influenza, a fine febbraio del 2020 – povero Cnr, e povera Italia che
finanzia il Cnr. Agamben critica la difesa. Come un immondo (immorale?) relegamento
dell’umanità alla “nuda vita”, alla sopravvivenza – che, come si sa, è quella
che fa l’hobbesiano “homo homini lupus” (allo stato animale, si sarebbe detto una volta, ma gli animali hanno istinti, abitudini, e sentimenti).
La
cosa è contestabile. C’è più partecipazione, empatia come usa dire, sociale,
familiare, personale, e perfino universale, quindi più vita di relazione
sociopolitica, sia pure a distanza, in questi due anni di quanta ce ne fosse prima,
tra un fine Duemila e un primo Millennio desertificanti. Ma perché l’attaccamento
alla vita sarebbe una rinunzia, e una colpa – un’autocensura, una castrazione?
Poi
Agamben è andato più in là. Ad agosto di quest’anno, presentando la raccolta, scrive:
la “Grande Trasformazione” in atto ricalca “quanto avvenne in Germania nel
1933, quando il neo cancelliere Adolf Hitler, senza abolire formalmente la
costituzione di Weimar, dichiarò uno stato d’eccezione che durò per dodici
anni”. Allo stato d’eccezione, l’aristotelica “stasis”, Agamben dedica
da tempo buona parte della sua riflessione. Da ultimo individuandolo nello scontro
di tutti contro tutti che – all’apparenza – è la vita politica nelle democrazie,
una sorta di guerra civile come unico paradigma politico. In due seminari di
dieci anni fa, poi riuniti sotto il titolo “Stasis. La guerra civile come
paradigma politico. Homo sacer, II, 2”, concludeva: “Non è un caso se il
«terrore» ha coinciso col momento in cui la vita come tale – la nazione, cioè
la nascita – diveniva il principio della sovranità”. Aggiungendo, con
anticipazione quasi profetica: “La sola forma in cui la vita come tale può
essere politicizzata è l’esposizione incondizionale alla morte, cioè la vita
nuda”. Ma Hitler? Hitler è un’eccezione, non uno stato d’eccezione.
Polemista
Il
lockdown è una novità, criticabile, fermare tutto: stare chiusi in casa, non
lavorare, non camminare, non parlare con nessuno, se non al telefono, non andare
al mercato, che peraltro è chiuso, né al supermercato, se non con lunga e lunghissima fila, e nemmeno
in chiesa, anche se non è chiusa, non vedere i familiari, se non conviventi,
“vedere il medico” solo al telefono, non seguire i congiunti, anche
strettissimi, in ospedale, se non da lontano, nemmeno se morti, e morire senza
un funerale, una sepoltura.
Il
filosofo tourné polemista scrive piano, chiaro, elegante. Di lettura
agevole. Mai banale, certo. Il “capitalismo comunista” è per esempio una pagina
pregna – mezza pagina basta. O la terra Ctonia e la terra Gaia . Ma
apocalittico. Ci sono epoche nella storia, del mondo e dell’uomo.
L’idea
dell’apocalissi è ben storica – più forse che biblica e religiosa. Anche nella
forma guénoniana del complotto universale, la desacralizzazione della storia. La
laicizzazione ci ha lasciati un po’ più nudi, la crisi continua o emergenza ci
costringe alla “nuda vita”? Senza sentimenti, tradizioni, abitudini, politica, arti,
pensiero?
Ma
la “tecnologia digitale che, com’è ormai evidente, fa sistema con il
«distanziamento sociale» che definisce la nuova struttura delle relazioni fra
gli uomini” era in atto prima, e lo sarà purtroppo anche dopo,
indipendentemente dal virus. È la comunicazione di massa, inevitabile, vecchio
problema che deve ancora trovare un suo punto di equilibrio prospettivo – e deve
trovarlo, pena la sua dissoluzione, ben prima dell’“effetto serra”. È anche una
forma di dissoluzione di cui gli Stati, semmai, sono vittime, conglomerati ingovernabili
(incontrollabili) nel mondo comunicante o globale – altro che svolta autoritaria,
all’insegna della governabilità.
L'eccezione
La
conclusione, nell’avvertenza premessa alla ripubblicazione degli interventi in
volume ad agosto, fa sorridere: “Lo stato d’eccezione, che è stato prolungato
fino al 31 dicembre 2021, sarà ricordato come la più lunga sospensione della
legalità nella storia del Paese”. E: “Dopo l’esempio cinese”, del comunismo
onnipotente, “proprio l’Italia è stata per l’Occidente il laboratorio in cui la
nuova tecnica di governo è stata sperimentata nella sua forma più estrema”. Non
è da tutti (“naturale”) fare il polemista: è un genere letterario, da Malaparte
a Montanelli, e richiede mestiere.
Un
sermone, purtroppo, da vecchio familiare. “Il progetto planetario che i governi
cercano di imporre è, dunque, radicalmente impolitico. Esso si propone anzi di
eliminare dall’esistenza umana ogni elemento genuinamente politico, per
sostituirlo con una governamentalità fondata soltanto su un controllo
algoritmico”: un progetto fantasmatico. Non sembra irragionevole, Agamben si
difende, ma è una sciocchezza. Succede – Platone vecchio non andò a fare la
repubblica con un tiranno?
C’è
qualcosa di sbagliato nella reazione al virus cinese. Effetto della paura? Di
disorganizzazione? Di un complotto politico? Questo sicuramente no, impossibile
- Agamben si affretta a disimpegnarsi dalla teoria del complotto. È la politica
della crisi, perpetua – ora dell’epidemia. È in effetti una forma di governo,
di basso profilo, governare attraverso la crisi. “Andreottiana” si direbbe in
Italia, ma diffusa. Attuale, nell’epoca in cui gli uomini never had it so
good – come il premier MacMillan disse della Gran Bretagna irriconoscente,
che lo castigò al voto.
Foucault
si sarebbe disinteressato della comunicazione dell’evento? Sicuramente no. Ma
essa non è tra gli interessi di Agamben. E questo purtroppo è un male. Non è
nell’interesse di nessuno, l’opinione pubblica, la comunicazione. Come si
formano – si impongono – le idee, e i loro succedanei, la paura inclusa. Il filosofo
ne ha avuto l’opportunità in più occasioni - lui stesso stesso vi accenna nella
considerazione centrale, della “Medicina come religione” - ma non l’afferra. “A
che punto siamo?”, un testo del 20 marzo 2020, è stato richiesto e poi
rifiutato dal “Corriere della sera”. Perché? Gli interventi più distesi Agamben
può farli solo con i media stranieri: subito “Le Monde”, poi la radio pubblica
svedese, la “Neue Zürcher Zeitung” un paio di volte, la rivista greca
“Babylonia”. Ma, poi, è censurato dallo “Spiegel”, che lo aveva intervistato –
si chiede un’intervista proprio per avere un altro parere. È il filo rosso di
questa pandemia, la povertà dell’opinione pubblica.
Per
irridere alla vaccinazione di massa, Agamben così conclude: “È perfettamente
possibile - anche se non è in alcun modo certo - che fra qualche anno il
comportamento degli uomini risulterà simile a quello dei lemmings”, i roditori
della tundra che usano suicidarsi in massa a periodi buttandosi nel mare, “e
che la specie umana si stia in questo modo avviando alla sua estinzione”. Con i
vaccini – “il terrore sanitario”? O non finisce prima, con l’apocalisse della Commissione
DuPre (Dubbio e Prevenzione), che già si conta come un partitino del 5 per
cento, senza ridere. Nella stessa impolitica, o politica del Celoduro e del
Vaffa, che attanaglia l’Italia da quarant’anni. A opera dei corrotti
spazzacorruzione, da Bossi a Di Pietro. E dei comici, Moretti prima di Grillo con
i “Girotondi” – anche lui con una triade, Occhetto-Di Pietro-Moretti.
Giorgio Agamben, A che punto siamo?, Quodlibet, 120 € 12
L’“Economist” esce normalmente con una copertina doppia: una per Europa
e Stati Uniti e una per l’Asia. Per il numero doppio di fine anno (come tutti i
settimanali l’“Economist” esce in 51 numeri annuali) quest’anno fa tre copertine:
una, “Christmas Double Issue”, per l’Europa, una con lo stesso titolo,
“Christmas Double Issue”, per la distribuzione in Asia e una, “Holiday Double Issue”, per gli Stati
Uniti. Che la direttrice Zanny Minton Beddoes così spiega: “In Europa abbiamo
sempre pubblicato una “Christmas Issue”. Analogamente in Asia, “dove per molti
Natale è ovviamente un’importazione, come il Black Friday, che è giusto un buon
divertimento. Ma l’America”, continua Minton Beddoes, “purtroppo, è in guerra
contro il Natale, e per la scorsa decade più o meno non abbiamo voluto prendere
parte agli scontri. La nostra edizione là s’intitola «Holiday Double Issue». Continuare
o cambiare? Continuiamo. Lo spiritello natalizio non richiede coerenza”.
Il modem Wind fibra, 260 euro, di
fabbricazione cinese, lavora sei giorni sì e uno no – in genere sabato. Il telefono
da tavolo Brondi, 60 euro, made in China, il quarto o quinto sostituito in due
anni di garanzia, alcune volte legge le chiamate, altre no, e alcune chiamate
non le registra. Il nuovissimo decoder Sky, anch’esso made in China, solo 29
euro, ha quattro o cinque modalità di apertura – basta memorizzare, e poi con
pazienza, senza fretta, passare dall’una all’altra. Le cuffie senza fili made
in China, regalo questo di Prink, si rompono appena si aprono, la plastica è
debole. L’Inter della famiglia Zhang invece funziona – ma non sarà merito di
Marotta?
Il console cinese a Milano, Kun
Liu, ha pagato una pubblicità sul “Corriere della sera” per spiegare “che tipo
di democrazia è quella che è stata definita democrazia popolare durante il recente
sesto Plenum del partito Comunista Cinese”. Che ha deciso che il presidente Xi
ha sempre ragione. Dopo che ha messo la museruola ai gruppi social, la forma
più diffusa dell’informazione, Alibaba, Tencent, TikTok – Google e Facebook si
sono da tempo censurate da sé.
Il politicamente
corretto come un attacco al dissenso, il “cuore della democrazia”. Una forma di
censura.
C’è una svolta
autoritaria in America, e chi la provoca? I media dicono Trump. Shapiro
argomenta che è l’elitismo Democratico. Della sinistra liberal: “How the Left weaponized american institutions
against dissent” è il sottotitolo, come la sinistra ha armato le istituzioni
contro il dissenso.
Di un columnist e broadcaster del sito repubblicano pro-trumpiano “The
Daily Wire”. Che analizza precetti e leggi soprattutto attraverso i media, come
i media li recepiscono. In fondo, suo malgrado, una delle poche, residue,
analisi dell’opinione pubblica.
Ben Shapiro, The Authoritarian Moment,
Broadside Books, pp. 272 € 28,99