skip to main |
skip to sidebar
Bernini capobastone
“Gli artisti che
lavoravano a Roma dovevano subire la sua «dittatura». Per oltre cinquant’anni
dovettero accettare, volenti o nolenti, la supremazia del Bernini…. E furono
proprio i suoi più stretti collaboratori a subire talvolta le conseguenze più
pesanti”. Primo fra tutti Francesco Borromini. Bernini si fece pagare il
Baldacchino di san Pietro e palazzo Barberini senza nulla dare a Borromini –
“il Borromini deluso e deriso”, dice il biografo Baldinucci, “lasciò e
abbandonò il Bernino, con questo detto: non mi dispiace che abbia avuto li
denarii, ma mi dispiace che gode l’onor delle mie fatiche”.
Un capomafia, pure
violento. Quando subodorò che la sua amante se la faceva col suo proprio
fratello, si appostò per ucciderlo, e mandò a sfregiare l’amante. Sopravvissuto
il fratello all’agguato, con sole due costole rotte, cercò di farlo fuori anche
in casa della madre, che lo denunciò, spiegando che, non trovando il fratello
Luigi in casa, lo aveva cercato “in S. Maria Maggiore”, la basilica lì vicino,
“con la spada in mano, e cercò per tutta la canonica con disprezzo di Dio” – ma
a nessun effetto, Bernini rispondeva al papa. Non si ritrovò per questo alla
corte di Francia, dove pure Luigi XIV dispose per lui accoglienze regali. Non
riuscendo a spadroneggiare, controllato
in ogni minima spesa o progetto di spesa dal ministro Colbert, e contestato dagli
architetti locali - il suo progetto per il Louvre fu accantonato – se ne tornò
a Roma.
In un mondo da
fine del mondo: “Molteplici «segni» apparivano in cielo su Roma e si abbattevano qua e
là paurose tempeste”. Le locuste sul Tevere. La grandine a pallettoni. Nel
febbraio del 1622 tre soli in cielo. A marzo “una preoccupante moria”. In piazza
Giudea una donna partorisce una “creatura con quattro braccia e quattro piedi”.
Un’altra, ai Pantani, “partorisce un demonio, o almeno una creatura che del
maligno aveva le sembianze”, che il parroco si rifiuta di battezzare. Al tramonto
il 12 agosto del 1629 “il cielo fu improvvisamente solcato da frecce, saette, spade
lucenti e scintille di fuoco”. Si tornava all’astrologia. Lo stesso papa Urbano
VIII Barberini, “che pure varerà nel 1631 a bolla Contra Astrologos, non
ne era immune” – ne era attivo praticante: “Nel mese di giugno del 1640una gallina
aveva fatto un uovo sul quale era disegnato, sia pure confusamente, lo stemma
dei Barberini. La vecchia (e scaltra?) proprietaria della gallina si ebbe un
premio di dieci scudi d’oro”,
Era anche la Roma
dei processi. “Il Seicento si era aperto con i sinistri bagliori del rogo di
Giordano Bruno”, spogliato nudo, legato a un palo. Campanella sopravvisse alla
lunga prigionia per saper ragionare di astrologia? Nel 1625 si condannava per
eresia Marcantonio De Dominicis, morto l’anno prima – era relapso, si
era riconciliato con la Chiesa in punto di morte, ma la sua confessione non fu
ritenuta sincera: il cadavere fu esumato, e arso, anch’esso in Campo dei Fiori.
Si faceva spettacolo di processi, e abiure o condanne, in piazza della Minerva,
al ponte dell’Angelo e altrove: erano gli “spettacoli” più seguiti, si concludessero
o no con roghi o squartamenti.
Ma fu un secolo pieno
anche di grande pittura e architettura. Non tutti subirono il capestro di
Bernini. Qualcuno operò a Roma prima del suo dominio: Caravaggio, Annibale
Carracci. Altri vi prosperarono chiamati e protetti da grandi famiglie e
cardinali: Velázquez, Rubens, Lorrain, Poussin. Pietro da Cortona pure, “morì
ricchissimo”. Ben remunerati, e garantiti in ogni capriccio, dalla divisa di
Paolo V Borghese e poi di Urbano VIII Barberini : “Pictoribus atque poetis
omnia licent”, agli artisti tutto è permesso. E poi di Clemente IX, “la breve,
felice stagione” del papa Rospigliosi, “definita da un anonimo francese «l’età
dell’oro del nostro secolo»”.
La città di uomini
si illustrò anche per storie e gesta di donne. Madame Mancini, Maria Mancini
Colonna, la “connestabilessa” nipote del cardinale Mazzarino, sposata
prudentemente a Lorenzo Onofrio Colonna, lontano dagli appetiti del Re Sole, a
Roma. Dove, scriverà”, “le persone più eminenti vivevano in un continuo
bordello”. Lei vi aprì un salotto più a modo. In concorrenza con la regina di Svezia,
neo convertita e romana per scelta. Accolta dalla città con onori anche più
trionfali di quelli riservati a Bernini in Francia – Bernini restaurò per lei
come arco di trionfo la porta d’ingresso di piazza del Popolo. Della regina Paita
dà un ritratto fuori quadro: “Una donna piccola di statura, un po’ gobba, il
naso aquilino, occhi grandi e vivaci sotto una fronte piuttosto ampia”. Con “gesti
e movenze più da uomo che da donna”. Un secolo come un’avventura.
Almo Paita, La
vita quotidiana a Roma ai tempi di Gian Lorenzo Bernini, “Corriere della
sera”, pp. 325, gratuito col quotidiano
Nessun commento:
Posta un commento